Riconoscimento dell’assegno divorzile: serve una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti

Cass. Civ., Sez. I, Ord. 23 novembre 2023, n. 32610; Pres. Genovese, Rel. Tricomi
Svolgimento del processo
1.- G.C. ha presentato ricorso per cassazione con tre mezzi avverso la sentenza della Corte di appello
di Firenze pubblicata il 21 luglio 2022 resa in giudizio divorzile che, in parziale riforma della
decisione di primo grado, ha aumentato l’assegno divorzile previsto a favore della G., posto a carico
di F.L. da Euro 500,00= ad Euro 700,00= mensili, oltre ISTAT, mentre ha confermato la misura
dell’assegno di mantenimento per il figlio A. (nato nel […]) in Euro 1.000,00=, come già prevista in
primo grado.
F. ha replicato con controricorso.
Hanno depositato entrambi memorie.
Motivi della decisione
2.- Il ricorso è articolato in tre motivi:
I) Primo Motivo: art. 360 c.p.c., n. 3 per falsa applicazione dei criteri previsti dalla L. n. 898 del 1970,
art. 5 in quanto la Corte di appello non solo non ha applicato tutti i criteri idonei a giungere ad una
corretta liquidazione dell’assegno c.d. divorzile, ma in ogni caso ha liquidato successivamente un
assegno che ne svuota gli effetti ivi compresi quelli esattamente individuati dalla medesima Corte.
Lamenta che non siano stati considerati i criteri di legge, in quanto non sarebbero state considerate le
emergenze istruttorie a ciò rilevanti e deduce che: il marito guadagno 8.000,00/10.000,00= Euro al
mese e deduce di avere diritto al 40% al netto delle imposte; l’importo riconosciutole non soddisfa la
funzione assistenziale e non svolge alcuna funzione compensativa e perequativa, nonostante ella si
sia dedicata alla cura esclusiva della famiglia e del figlio e sia ora invalida al 40%; che la
ricostituzione di un nucleo familiare da parte dell’ex coniuge e la sopravvenienza di nuova progenie
non può pregiudicare i suoi diritti.
II) Secondo Motivo: art. 360 c.p.c., n. 3 per falsa applicazione dei criteri previsti dall’art. 337 ter c.c.
nella liquidazione dell’assegno per il figlio per non aver riconosciuto che con la crescita le esigenze
del minore si incrementano e avere confermato l’assegno nella misura che era stata determinata
quando il figlio aveva sette anni.

III) Terzo Motivo: art. 360 c.p.c., n. 3 per falsa ed errata applicazione dell’art. 91 c.p.c. in quanto la
Corte di appello, nonostante la prevalente soccombenza dell’appellato, non ha liquidato spese di lite
a favore della istante.
3.1.- Il primo motivo è fondato e va accolto.
3.2.- Le Sezioni Unite di questa Corte hanno puntualizzato che il riconoscimento dell’assegno di
divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura
compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6 richiede l’accertamento
dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni
oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono
il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione
dell’assegno; ed hanno soggiunto che il giudizio deve essere espresso, in particolare, alla luce di una
valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del
contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del
patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata
del matrimonio ed all’età dell’avente diritto (cfr. Cass. Sez. U. n. 18287/2018; Cass. n. 1882 /2019).
La funzione compensativa e perequativa è stata rimarcata pure recentemente.
Si è ribadito invero che il riconoscimento dell’assegno divorzile richiede una valutazione comparativa
delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, che tenga conto del contributo fornito dal
richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di
quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età
dell’avente diritto (cfr. Cass. n. 1882/2019).
3.3.- Tanto premesso, va osservato che la decisione in esame non risulta avere dato piena e retta
applicazione agli indicati principi.
Invero, la Corte di merito, laddove ha riconosciuto l’assegno in funzione assistenziale, ha illustrato
con dovizia lo stato di disoccupazione della signora, la impossibilità di inserirsi nel mondo del lavoro
per età ed invalidità parziale, le modeste condizioni economiche, la circostanza che abiti in una casa
di famiglia in comproprietà con altri parenti e che non può mettere a redito la parte inutilizzata perché
non è unica proprietaria.
Quindi, ha riconosciuto il diritto all’assegno divorzile anche per la funzione compensativa e
perequativa, in considerazione dell’assunzione in via esclusiva dei compiti di cura familiare e del
figlio presso l’abitazione di […], mentre il marito si spostava presso altre sedi per lavoro progredendo
nella carriera, anche se non per il mancato completamento degli studi universitari.
Tuttavia, non ha illustrato – in alcuna parte della sentenza – l’effettiva situazione patrimoniale e
reddituale del marito in relazione alla quale, una volta accertato l’an, l’assegno andava quantificato,
previo raffrontato con le contrapposte condizioni economiche dell’ex coniuge, e non ha chiarito come
sia pervenuta alla quantificazione complessivamente assunta e in che misura le differenti voci
(assistenziale, compensativa, perequativa) abbiano inciso nella sua determinazione. La sentenza va,
quindi, cassata sul punto.
4.1.- Il secondo motivo è infondato.
4.2.- Non si ravvisa la violazione di legge contestata perché la Corte ha illustrato le ragioni del
mancato incremento dell’assegno in favore del figlio, sulla scorta delle diponibilità economiche del
padre, alla luce del nuovo nucleo familiare, seguito dalla nascita di altri figli, e del rilievo che
l’assunzione da parte del padre delle spese straordinarie al 100% garantisce la copertura di spese per
i prevedibili impegni di studio e formazione professionale.
La Corte ha, quindi, valutato le possibili maggiori esigenze del figlio, motivatamente ritenendole
bilanciate in virtù dell’onere assunto dal padre ad assolvere interamente le spese straordinarie proprie
e conseguenti all’incremento dell’età.

In realtà, con il mezzo in disamina la ricorrente censura il giudizio “di fatto” che la Corte distrettuale
ha svolto, sollecitando questa Corte alla relativa rivisitazione.
In tal guisa, va rammentato che, secondo l’insegnamento di questa Corte, è inammissibile il ricorso
per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge,
di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, miri,
in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr. Cass. Sez. U. n.
34476/2019; Cass. n. 8758/2017; Cass. n. 5987/2021).
5.- Il terzo motivo è assorbito, in ragione dell’accoglimento del ricorso con cassazione, cui consegue
la caducazione della pronuncia sulle spese.
6.- In conclusione, va accolto il primo motivo di ricorso, infondato il secondo, assorbito il terzo; la
sentenza impugnata va dunque cassata nei limiti dell’accoglimento con rinvio della causa, anche per
la statuizione sulle spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Firenze in diversa
composizione.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
P.Q.M.
– Accoglie il primo motivo di ricorso, infondato il secondo, assorbito il terzo; cassa la sentenza
impugnata nei limiti dell’accoglimento e rinvia la causa alla Corte di appello di Firenze, in diversa
composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Scioglimento della comunione tra coniugi in regime di separazione dei beni

Cassazione civile, sez. II, 22 Giugno 2023, n. 17882. Pres. Manna. Est. Amato.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SECONDA SEZIONE CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 433-2023 proposto da:
AURELIANO, elettivamente domiciliato in Roma,
– ricorrente –
contro
LUIGIA;
– intimata –
avverso l’ordinanza del TRIBUNALE di LATINA, depositata il
04/12/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
07/06/2023 dal Consigliere CRISTINA AMATO;
lette le conclusioni del P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale ALBERTO CARDINO.
RILEVATO CHE:
1. Aureliano conveniva Luigia dinanzi al Tribunale
ordinario di Latina per procedere alla divisione del bene immobile in
proprietà con quest’ultima, e sentire dichiarare la divisione giudiziale
del bene stesso, previa determinazione della consistenza attuale
stabilita dal CTU. A sostegno della sua richiesta, l’attore premetteva di
aver contratto matrimonio con la convenuta in data 13.10.2002 in
regime di separazione dei beni; che il 27.07.2007 i coniugi avevano
acquistato in parti uguali e indivise il diritto di piena ed esclusiva
proprietà dei beni immobili siti in Comune di Sabaudia; che era
pendente tra loro il giudizio di separazione giudiziale dinanzi al
Tribunale di Roma; che l’immobile oggetto di divisione non era la casa
familiare.
1.1. Costituitasi, la convenuta Luigia chiedeva la sospensione
del giudizio di divisione ex art. 295 cod. proc. civ. sino al passaggio in
giudicato della sentenza relativa al procedimento di separazione ancora
in corso.
1.2. Il giudice assegnatario del ricorso, con ordinanza del
23.07.2021 rigettava l’istanza di sospensione, e invitava le parti alla
produzione in giudizio della documentazione specificamente indicata
nella motivazione atta a provare la comproprietà o titolarità del diritto
reale sull’immobile in causa.
1.3. La causa veniva nel frattempo assegnata ad altro giudice, il
quale – con il provvedimento del 04.12.2022 qui impugnato, reso a
scioglimento della riserva assunta nell’udienza del 29.11.2022 –
revocando il provvedimento già emesso dal precedente giudice in data
23.07.2021, ritenute applicabili le norme sulla comunione legale dei
beni tra coniugi, disponeva la sospensione necessaria del processo in
attesa di definizione del procedimento di separazione giudiziale
pendente, in quanto quest’ultimo rappresenta un fatto costitutivo del
diritto ad ottenere lo scioglimento della comunione legale ai sensi
dell’art. 295 cod. proc. civ.
2. Aureliano ha proposto ricorso per regolamento di
competenza avverso l’ordinanza del Tribunale di Latina in composizione
monocratica emessa il 04.12.2022, con cui l’adìto giudicante ha
disposto la sospensione del giudizio di divisione pendente innanzi ad
esso, ex art. 295 cod. proc. civ.
3. Il PM chiede disporsi la prosecuzione del giudizio, in quanto non
andava ordinata alcuna sospensione del giudizio divisionale: stante il
regime patrimoniale di separazione dei beni vigente fra le parti
(risultante dallo stesso rogito di acquisto dell’immobile dividendo), il
giudizio di separazione coniugale non è in alcun modo pregiudiziale al
giudizio di scioglimento della comunione ordinaria.
CONSIDERATO CHE:
1. L’unico motivo di ricorso è articolato in due diverse doglianze.
1.1. Con la prima, il ricorrente lamenta che la questione della
sospensione del processo era stata già affrontata, risolta e decisa con
ordinanza del 23.07.2021, mentre l’udienza del 29 novembre 2022 era
stata fissata dal primo giudice per l’ammissione dei mezzi di prova:
pertanto, l’ordinanza del 23.07.2021, a norma dell’art. 177, comma 3,
n. 3) cod. proc. civ., è un’ordinanza per la quale la legge predispone
uno speciale mezzo di reclamo, come tale non modificabile né
revocabile: dunque, il secondo giudice non avrebbe potuto modificare
il provvedimento del collega, impugnabile unicamente mediante
regolamento necessario di competenza.
1.2. Con la seconda doglianza il ricorrente lamenta che il
provvedimento impugnato è, altresì, palesemente illegittimo per
evidente contrasto con le evidenze processuali e le norme di diritto
sostanziale che regolano la comunione dei beni e il regime patrimoniale
della famiglia. Il regime patrimoniale scelto dai coniugi
infatti, era quello della separazione dei beni, come risulta dalla
documentazione in atti: pertanto, la disciplina applicabile all’immobile
oggetto del processo è quella della comunione ordinaria, e non della
comunione legale tra coniugi: di conseguenza, non ricorre alcuna
necessità che giustifichi la sospensione del procedimento pendente
innanzi al Tribunale di Latina, costituendo diritto di Aureliano
chiedere ed ottenere lo scioglimento della comunione con riferimento
ai beni oggetti di oggetto di causa.
2. Il motivo è fondato, per quanto di ragione.
2.1. Quanto alla prima doglianza, essa è inammissibile ex art. 360-
bis, comma 1, n. 1) cod. proc. civ.: come puntualmente rilevato dal
P.M., questa Corte ha ripetutamente affermato che il regolamento
necessario di competenza non è ammesso contro il diniego di
sospensione del processo, poiché la formulazione letterale dell’art. 42
cod. proc. civ., di carattere eccezionale, prevede un controllo
immediato solo sulla legittimità del provvedimento che tale
sospensione concede; questa disciplina non si pone in contrasto con
l’art. 6 CEDU in quanto contempera l’esigenza di effettività della tutela
giurisdizionale con quella di efficienza della giurisdizione, garantendo,
da un lato, il diritto della parte che si vede respingere la richiesta di
sospensione di impugnare, comunque, sul punto, la decisione che ha
definito il giudizio non sospeso e, dall’altro, la durata ragionevole del
processo (Sez. 6 – 3, n. 2984 del 2023; Cass. Sez. 3, n. 20344/2020;
19292/2005; 12749/2005; 1010/1997; 1916/1997; 898/1996. Sez.
VI-1, 5645/2017. Sez. VI-2, 31694/2019. Sez. I, 6174/2005;
13126/2003; 15843/2000; 10736/2000; 3261/1997; 11596/1995.
Sez. L, 14430/2004; 3125/2001; 6637/1992).
Nel caso di specie, il diniego di sospensione reso in data 23.07.2022
ben poteva essere modificato o revocato dal (medesimo come da
diverso) giudice.
Quanto alla seconda doglianza, l’applicabilità della disciplina
della comunione ordinaria presuppone il regime di separazione dei beni
eletto dai coniugi (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3647 del 2004),
come risulta nel caso di specie. Tale regime è estraneo alla logica di
tutela e di pubblicità cui, invece, è improntata la disciplina della
comunione legale tra coniugi, alla quale infatti è espressamente
dedicata la Sez. III del Capo VI, Titolo VI, Libro I del cod. civ., incluso
il suo scioglimento ex art. 191 cod. civ. Dunque, solo in relazione allo
scioglimento della comunione legale si applica il principio di diritto
espresso da questa Corte, e richiamato dall’ordinanza impugnata
(Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4757 del 26/02/2010 – Rv. 611818 – 01, di
recente conf. da: Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1963 del 2016), in virtù
del quale il passaggio in giudicato della sentenza di separazione
giudiziale (o l’omologazione di quella consensuale) rappresenta il fatto
costitutivo del diritto ad ottenere lo scioglimento della comunione
legale dei beni, benché non sia condizione di procedibilità della
domanda giudiziale di scioglimento della comunione legale e di
divisione dei beni, ma condizione dell’azione: conseguentemente, la
domanda è proponibile nelle more del giudizio di separazione
personale, essendo sufficiente che la suddetta condizione sussista al
momento della pronuncia.
Nel caso di specie, risultando dall’atto notarile il regime di
separazione dei beni tra i coniugi e, quindi, essendo
applicabile la disciplina della comunione ordinaria, non vi è ragione di
sospendere il giudizio di divisione nell’attesa del giudicato sulla
separazione giudiziale.
3. Il Collegio, pertanto, rilevata l’insussistenza di cause di
sospensione del processo pendente innanzi al Tribunale di Latina,
dispone la prosecuzione del giudizio.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, in accoglimento del ricorso, cassa
il provvedimento impugnato e ordina la prosecuzione del giudizio
pendente innanzi al tribunale di Latina iscritto a R.G.N. 1861/2021.
Le spese sono regolate nel giudizio definitivo di merito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda
Sezione Civile, il 7 giugno 2023

Revoca del mantenimento al figlio colpevolmente inerte.

massima del Tribunale di Trani 3 ottobre 2023
Con il raggiungimento di un’età nella quale il percorso formativo e di studi,
nella normalità dei casi, è ampiamente concluso e la persona è da tempo
inserita nella società, la condizione di persistente mancanza di autosufficienza
economico reddituale, in mancanza di ragioni individuali specifiche (di salute, o
dovute ad altre peculiari contingenze personali, od oggettive quali le difficoltà
di reperimento o di conservazione di un’occupazione) costituisce un indicatore
forte d’inerzia colpevole. Ne deriva che gli ostacoli personali al raggiungimento
dell’autosufficienza economico reddituale, in una fase di vita da qualificarsi
pienamente adulta sotto il profilo anagrafico, devono venire puntualmente
allegati e provati, se collocati all’interno di un percorso di vita caratterizzato da
mancanza d’iniziativa e d’impegno verso un obiettivo prescelto.
L’assegno divorzile va riconosciuto con funzione compensativa-perequativa
degli apporti forniti dalla richiedente alla formazione del patrimonio comune.
La domanda relativa alla quota parte del TFR può essere formulata nel giudizio
di divorzio, risultando contrario al principio di economia processuale esigere
che, nel caso di liquidazione dell’indennità di fine rapporto durante detto
procedimento, la domanda di attribuzione di una sua quota sia proposta
attraverso l’instaurazione di un giudizio separato tra le medesime parti.
Tuttavia, il diritto sorge e si attualizza solo con la cessazione del rapporto di
lavoro dell’ex coniuge.

Mancato consenso informato: diritto al risarcimento

Sentenza n. 194/2023 pubbl. il 30/05/2023 RG n. 328/2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI
SEZIONE CIVILE
composta dai MAGISTRATI:
Dott. Donatella Aru Presidente relatore
Dott. Emanuela Cugusi Consigliere
Dott. Grazia Maria Bagella Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
OGGETTO: responsabilità professionale
nella causa iscritta al n. 328 del Ruolo Generale degli Affari Civili Contenziosi dell’anno 2020,
promossa da:
Omissis, nato a Collinas il omissis e residente in Omissis – codice fiscale Omissis,
elettivamente domiciliato in Cagliari Via … presso lo studio dell’avv. … che lo rappresenta e
difende unitamente all’avv. Giuseppe Sale in forza di procura speciale a margine dell’atto di
citazione in primo grado e della procura speciale a margine dell’atto di appello;
APPELLANTE
CONTRO
ATS SARDEGNA (ex AZIENDA U.S.L. N. 8 della SARDEGNA), in persona del legale
rappresentante pro tempore, il Commissario Dott. …, nato a Sassari il …, con sede in Sassari
alla Via …, p.iva …, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. … che la rappresenta e
difende in virtù di procura speciale in calce alla comparsa di costituzione nonché in virtù di
Determinazione Dirigenziale n. 6427 dell’11.12.2020;
APPELLATA
All’udienza del 4 novembre 2023 la causa è stata tenuta a decisione sulle seguenti
CONCLUSIONI
Nell’interesse dell’appellante (come da atto di appello):
“in via principale
A) accertare e dichiarare l’inadempimento della convenuta Azienda USL N.8 della Sardegna
alle obbligazioni alla stessa facenti capo in dipendenza della richiesta di assistenza medica
formulata dal Signor Omissis;
B) dichiarare tenuta e condannare la convenuta Azienda USL N.8 della Sardegna – in
dipendenza di tutte le azioni esperibili, contrattuali e/o da contatto sociale ovvero anche di
natura extracontrattuale – al risarcimento di tutti i danni – patrimoniali e non patrimoniali, e, in
particolare, di tutti i danni ai diritti della persona garantiti a livello normativo – costituzionale
e/o legislativo – e, specificamente del danno da invalidità temporanea totale e parziale, da
perdita della capacità lavorativa specifica di casalinga e della capacità lavorativa generica, del
danno non patrimoniale con riferimento alla componente “biologica”, alla vita di relazione, ai
profili esistenziali e morali per le sofferenze patite – derivati all’attore Signor Omissis in
conseguenza dei fatti per cui è causa e specificamente in conseguenza degli interventi allo
stesso praticati e della violazione degli obblighi inerenti al diritto del paziente alla
autodeterminazione, alla corretta informazione ed alla acquisizione del suo consenso ai
trattamenti medico-chirurgici;
C) condannare la Azienda per la Tutela della Salute- ATS Sardegna al risarcimento dei predetti
danni in favore dell’appellante nell’importo di Euro 250.000,00* (duecentocinquantamila),
ovvero in quell’altro importo anche maggiore ritenuto di giustizia, se del caso anche con
valutazione equitativa, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali;
D) con la condanna della appellata al rimborso delle spese processuali, comprese quelle relative
alla procedura di mediazione ex D. Lgs. 28/2010 e di consulenza tecnica di parte;
in via subordinata istruttoria
E) dichiarare la nullità della consulenza tecnica d’ufficio e disporre la rinnovazione delle
indagini con la sostituzione del consulente tecnico d’ufficio, ovvero con la nomina di un
medico legale che affianchi il medico “specialista”.”
Nell’interesse dell’appellata
“Piaccia all’Ill.mo Collegio adito, respinta ogni avversa istanza, deduzione e conclusione,
confermare la sentenza impugnata e, per l’effetto, rigettare l’avverso appello, poiché in fondato
sia in fatto che in diritto, con vittoria di spese, competenze e accessori di giudizio, da distrarsi
in favore del procuratore anticipatario.”
IN FATTO E IN DIRITTO
Con atto di citazione del 19 settembre 2020 Omissis ha proposto appello avverso la sentenza n.
1662/2020 pubblicata il 15 luglio 2020 con la quale il Tribunale di Cagliari ha rigettato la
domanda da lui proposta nei confronti dell’Azienda USL n.1 della Sardegna (da ora ASL) per
essere risarcito dei danni conseguenti alle menomazioni derivate da una grave lesione arteriosa
cagionata durante un intervento chirurgico di “dilatazione di stenosi dell’anasto-mosi uretero
ileale sinistra” cui era stato sottoposto l’8 gennaio 2009 nella Divisione di Urologia
dell’Ospedale SS. Trinità di Cagliari, facente capo all’epoca alla ASL n.8.
La domanda è stata rigettata alla luce delle conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio
disposta nel corso del giudizio che aveva consentito di accertare che la patologia sofferta
dall’attore, definita rene grinzo, non era riconducibile causalmente a condotte attive od
omissive dei sanitari che lo avevano avuto in cura.
Si legge nella sentenza:
a. Il consulente tecnico d’ufficio, con relazione esente da vizi logici e congruamente motivata,
ha chiarito:
i. che il paziente è stato correttamente informato delle possibili complicanze, ivi compresa
l’emorragia, menzionata nel foglio che raccoglie il suo consenso, prodotto in causa.
ii. che l’intervento chirurgico per laparotomia era fortemente controindicato per le ragioni
esposte dalla convenuta perché avrebbe comportato elevato rischio di recidiva della stenosi;
iii. che l’intervento endoscopico è stato eseguito correttamente e che la lesione arteriosa non si
è verificata nel corso di esso (8.1.2009) bensì successivamente (il mese dopo) quale
complicanza tardiva prevedibile (l’emorragia era stata prevista anche nel foglio di consenso
informato) ma non riconducibile a imprudenza o imperizia dei sanitari;
iv. che l’emorragia è stata diagnosticata tempestivamente tra il 23.2.2009 (ematuria) e
confermata dalla consulenza angiografica del 28.2.2009 non appena si è manifestata;
v. che l’emorragia è stata poi trattata – previa raccolta di completo consenso informato – in
modo corretto, prima tentando l’embolizzazione e solo dopo – stante l’insuccesso con questa
metodica meno invasiva – tramite chiusura dell’arteria con spirale di Gianturco, soluzione
corretta in quanto l’unica capace di risolvere l’emorragia che se non trattata avrebbe fatto
correre al paziente il pericolo di vita;
vi. che il rene sinistro ha perso la sua funzionalità a causa della mancanza di irrorazione
sanguigna dovuta alla chiusura dell’arteria e non a causa di ritardi o omissioni da parte dei
sanitari.”
Con il primo motivo l’appellante impugna la sentenza stante il mancato rilievo da parte del
consulente tecnico d’ufficio di elementi di censura nella condotta dei sanitari rispetto alla
gestione della prima complicanza (la stenosi della giunzione ureteroileale sinistra) e al
determinarsi della seconda (l’emorragia del ramo dell’arteria retropielica) ed alla conseguente
gestione clinica.
Per quanto riguarda la stenosi, il Omissis evidenzia che lo stesso ausiliario aveva riportato nella
sua relazione diversi dati probativi di un ritardo nella risoluzione della stessa, ritardo che
evidentemente aveva contribuito all’attuale irreversibile condizione di alterazione della
funzionalità renale da lui presentata, essendo il trattamento della condizione di stenosi stato
effettuato solo l’8 gennaio 2009 quando ormai ci si trovava di fronte all’idronefrosi che avrebbe
dovuto essere diagnosticata tempestivamente a fronte della condizione, nota dal novembre
2007, di iniziale dilatazione dell’uretere.
L’emorragia arteriosa di un ramo dell’arteria retropielica doveva ritenersi una lesione iatrogena
occorsa durante l’intervento dell’8 gennaio 2009, dovendo rilevarsi che nella sua gestione vi
era stato un censurabile ritardo terapeutico di ben cinque giorni che aveva comportato
l’inevitabile peggioramento della funzionalità renale, già compromessa dall’idronefrosi.
Il Omissis censura che il consulente avesse omesso di prendere posizione in ordine alla
tempestività nella diagnosi e nel trattamento da parte dei sanitari della stenosi della giunzione
uretero-ileale e dell’emorragia dell’arteria retropielica e al diverso possibile esito, in termini di
conservazione della funzionalità renale, correlato ad un approccio diagnostico-terapeutico
precoce.
Con il secondo motivo l’appellante impugna la sentenza deducendo che egli non aveva prestato
correttamente alcun valido consenso all’intervento praticatogli, comportando ciò, di per sé il
diritto al risarcimento per l’indubbio peggioramento delle sue condizioni. Al riguardo ha
evidenziato che il 7 gennaio 2009 aveva sottoscritto due consensi informati che prevedevano
due diversi tipi di intervento. Egli, in particolare, ha contestato che l’intervento fosse stato
effettuato con un accesso chirurgico percutaneo della regione lombare che lo stesso CTU aveva
riferito essere la via di accesso praticata in Clinica Urologica Universitaria nel trattamento della
calcolosi renale complessa, censurando l’adozione di tale tecnica considerato che non risultava
che avesse dei calcoli, la cui sussistenza peraltro non era stata accertata con l’esecuzione di una
TAC prima dell’intervento.
Alla luce delle esposte considerazioni si doveva pertanto pervenire all’accoglimento delle
domande attrici anche senza disporre il rinnovo della consulenza tecnica d’ufficio, considerato
che la decisione aveva violato le regole processuali applicabili nel caso di specie ed in
particolare gli oneri probatori gravanti sulle parti in materia di risarcimento dei danni da
responsabilità medica. Infatti la relazione del CTU appariva in contrasto con le evidenze
documentali e pertanto doveva ritenersi che la convenuta non avesse fornito la prova di aver
correttamente adempiuto alle sue obbligazioni di corretta assistenza sanitaria.
Infine l’appellante ha evidenziato che nel corso delle operazioni peritali l’ausiliario era venuto
meno ripetutamente ai suoi doveri con il mancato rispetto dei termini a suo tempo fissati dal
Tribunale, tanto che egli ne aveva più volte chiesto la sostituzione; “ciò può giustificare il
dubbio dell’inquinamento della piena serenità dei rapporti ed integra comunque una ragione
autonomamente valutabile quale ragione di sostituzione dell’ausiliario.”
L’ATS Sardegna (ex Azienda Usl n.8 della Sardegna), costituitasi in giudizio, ha concluso per
il rigetto dell’appello evidenziando che, alla luce delle conclusioni del consulente tecnico
d’ufficio, nessuna responsabilità poteva essere ascritta in capo ai sanitari che avevano avuto in
cura il Omissis. Costui, infatti, non aveva offerto alcuna prova che la patologia da cui era
affetto fosse eziologicamente riconducibile all’azione o all’omissione dei sanitari che lo
avevano seguito in occasione dell’intervento subito nel gennaio 2009, nesso eziologico escluso
dal consulente tecnico d’ufficio.
L’appello è infondato dovendosi condividere la valutazione del giudice di prime cure riguardo
all’insussistenza del nesso causale tra la sindrome lamentata dal Omissis e la condotta dei
sanitari che lo ebbero in cura nei primi mesi del 2009.
Pare in primo luogo opportuno rammentare i principi applicabili in materia di colpa medica con
riguardo all’onere della prova gravante sulle parti, avendo l’appellante affermatone la
violazione. Pare illuminante il seguente passo motivazionale della sentenza della Corte di
Cassazione n. 10050/2022: “Con riguardo alle fattispecie di responsabilità medica non
sottoposte al nuovo regime introdotto dalla legge n. 24 del 2017 (la quale non trova
applicazione in ordine ai fatti verificatisi anteriormente alla sua entrata in vigore: Cass. 8
novembre 2019, n. 28811; Cass. 11 novembre 2019, n. 28994), questa Corte, con orientamento
consolidatosi sin dagli ultimi anni dello scorso millennio, ha chiarito che, nell’ipotesi in cui il
paziente alleghi di aver subìto danni in conseguenza di una attività svolta dal medico
(eventualmente, ma non necessariamente, sulla base di un vincolo di dipendenza con la
struttura sanitaria) in esecuzione della prestazione che forma oggetto del rapporto
obbligatorio tra quest’ultima e il paziente, tanto la responsabilità della struttura quanto quella
del medico vanno qualificate in termini di responsabilità contrattuale: la prima, in quanto
conseguente all’inadempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto atipico di spedalità o
di assistenza sanitaria, che il debitore (la struttura) deve adempiere personalmente
(rispondendone ex art. 1218 c.c.) o mediante il personale sanitario (rispondendone ex art.
1228 c.c.); la seconda, in quanto conseguente alla violazione di un obbligo di comportamento
fondato sulla buona fede e funzionale a tutelare l’affidamento sorto in capo al paziente in
seguito al contatto sociale avuto con il medico, che diviene quindi direttamente responsabile,
ex art. 1218 c.c., della violazione di siffatto obbligo (a partire da Cass. 22 gennaio 1999, n.
589, cfr., tra le tante: Cass. 19 aprile 2006, n. 9085; Cass. 14 giugno 2007, n. 13953; Cass. 31
marzo 2015, n. 6438; Cass. 22 settembre 2015, n. 18610). Ciò premesso, il criterio di riparto
dell’onere della prova in siffatte fattispecie non è pertanto quello che governa la responsabilità
aquiliana (nell’ambito della quale il danneggiato è onerato della dimostrazione di tutti gli
elementi costitutivi dell’illecito ascritto al / danneggiante) ma quello che governa la
responsabilità contrattuale, in base al quale il creditore che abbia provato la fonte del suo
credito ed abbia allegato che esso sia rimasto totalmente o parzialmente insoddisfatto, non è
altresì onerato di dimostrare l’inadempimento o l’inesatto adempimento del debitore, spettando
a quest’ultimo la prova dell’esatto adempimento (Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533;
tra le conformi più recenti, ex multis, Cass. 20 gennaio 2015, n. 826; Cass. 4 gennaio 2019, n.
98; Cass. 11 febbraio 2021, n. 3587). In particolare, con precipuo riferimento alle fattispecie
di inadempimento delle obbligazioni professionali – tra le quali si collocano quelle di
responsabilità medica – questa Corte ha da tempo chiarito che è onere del creditore-attore
dimostrare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), l’esistenza del nesso
causale, provando che la condotta del professionista è stata, secondo il criterio del “più
probabile che non”, la causa del danno lamentato (Cass. 7 dicembre 2017, 29315; Cass. 15
febbraio 2018, n. 3704; Cass. 20 agosto 2018, n. 20812), mentre è onere del debitore
dimostrare, in alternativa all’esatto adempimento, l’impossibilità della prestazione derivante
da causa non imputabile, provando che l’inadempimento (o l’inesatto adempimento) è stato
determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (Cass. 26
luglio 2017, n. 18392; Cass. 23 ottobre 2018, n.26700; Cass. 24 maggio 2019, n. 14335; Cass.
29 ottobre 2019, n. 27606). Il concetto di “imprevedibilità”, pur lessicalmente esplicativo di
una soggettività comportamentale che rientra nell’area della colpa, riferito alla causa
impeditiva dell’esatto adempimento, va inteso, precisamente, nel senso oggettivo della “non
imputabilità” (art.1218 c.c.), atteso che la non prevedibilità dell’evento (che si traduce
nell’assenza di negligenza, imprudenza e imperizia nella condotta dell’agen te) è giudizio che
attiene alla sfera dell’elemento soggettivo dell’illecito, in funzione della sua esclusione, e che
prescinde dalla configurabilità, sul piano oggettivo, di una relazione causale tra condotta ed
evento dannoso. Nelle fattispecie di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni
professionali – si è ulteriormente precisato – è configurabile un evento di danno, consistente
nella lesione dell’interesse finale perseguito dal creditore (la vittoria della causa nel contratto
concluso con l’avvocato; la guarigione dalla malattia nel contratto concluso con il medico),
distinto dalla lesione dell’interesse strumentale di cui all’art.1174 c.c. (interesse all’esecuzione
della prestazione professionale secondo le leges artis) e viene dunque in chiara evidenza il
nesso di causalità materiale che rientra nel tema di prova di spettanza del creditore, mentre il
debitore, ove il primo abbia assolto il proprio onere, resta gravato da quello “di dimostrare la
causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione”
(Cass. 11 novembre 2019, n. 28991; Cass. 31 agosto 2020, n. 18102). Il nesso di causalità
materiale si atteggia invece diversamente nelle altre obbligazioni contrattuali, ove l’evento
lesivo coincide astrattamente con la lesione dell’interesse creditorio. Questa coincidenza non
ne esclude, tuttavia, la rilevanza quale elemento costitutivo proprio di tutte le fattispecie di
responsabilità contrattuale, la quale, al contrario, trova una esplicita conferma positiva nella
portata generale della disposizione (art. 1227, comma primo, c.c.) che stabilisce una riduzione
del risarcimento nell’ipotesi in cui il fatto colposo del creditore abbia concorso a “cagionare”
il danno, ritenendosi tradizionalmente (v. già Cass. 9 gennaio 2001, n. 240) che tale
disposizione, a differenza di quella contenuta nel secondo comma del medesimo articolo, si
riferisca al “danno-evento” e non al “danno conseguenza”. Non sembra esatto, pertanto, al di
fuori delle obbligazioni professionali, parlare di “assorbimento” del danno-evento nella lesione
dell’interesse creditorio, secondo un lessico sovente adottato in dottrina, mentre
concettualmente più corretta appare la diversa ricostruzione, pur suggerita in dottrina, in
termini di prova prima facie. Avuto riguardo agli illustrati principi, nell’ipotesi – come quella
in esame – in cui il paziente faccia valere la responsabilità del medico e della struttura
sanitaria per i danni derivatigli da un intervento che si assume svolto in spregio alle l eges
artis, l’attore è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, il nesso di causalità materiale
intercorrente tra la condotta del medico e l’evento dannoso, consistente nella lesione della
salute e nelle altre lesioni ad essa connesse (nella specie, la perdita del concepito); è, invece,
onere dei convenuti, ove il predetto nesso di causalità materiale sia stato dimostrato, provare o
di avere eseguito la prestazione con la diligenza, la prudenza e la perizia richieste nel caso
concreto, o che l’inadempimento (ovvero l’adempimento inesatto) è dipeso dall’impossibilità di
eseguirla esattamente per causa ad essi non imputabile (Cass. 26 novembre 2020, n. 26907).”
Tanto premesso, la vicenda oggetto del presente giudizio può essere ricostruita nei seguenti
termini.
Omissis, affetto da carcinoma vescicale dal 2004, a seguito dell’evoluzione negativa della
patologia tumorale, è stato sottoposto all’intervento radicale di asportazione dell’organo
(cistectomia radicale) il 12 marzo 2007. Egli in particolare fu sottoposto a un intervento di
cistectomia radicale con derivazione urinaria secondo Briker ovvero “collegando gli ureteri ad
una piccola porzione dell’intestino tenue, detta conduit, a sua volta collegata alla cute”.
Come esposto dal CTU, si tratta di procedure chirurgiche di elevata complessità, gravate da una
non trascurabile mortalità perioperatoria (2-3%) e da una notevole percentuale di complicazioni
possibili immediate, precoci ed a distanza di tempo. Una delle più frequenti complicanze, che
può interessare oltre il 20% dei pazienti operati, è la stenosi dell’anastomosi ureterale, specie a
sinistra. Effettivamente una TAC eseguita nel novembre 2007 mostrava già una lieve
dilatazione della via escretrice di sinistra.
A partire dal mese di luglio 2008 o dall’ottobre 2008 egli cominciò ad avvertire diversi episodi
di colica renoureterale sinistra che divennero sempre più frequenti. Gli esami eseguiti il 19
dicembre 2008 e allegati in cartella evidenziarono un tasso di creatinina sierica che indicava un
certo deterioramento della funzione di filtrazione renale complessiva, “verosimilmente
secondario all’ostruzione della giunzione tra uretere ed ansa ileale sinistra”. All’osservazione
del consulente di parte secondo cui vi era certezza che tale dato fosse secondario a detta
ostruzione, il CTU ha chiarito che, poiché non vi erano agli atti esami di laboratorio
antecedenti, non poteva escludersi “che i valori di creatinina nel sangue fossero già alterati per
il reflusso urinario, documentato nel novembre 2007, o per il danno renale legato alla
comorbilità (diabete, ipertensione) che il paziente, già anziano, presentava.”
Ricoverato il 7 gennaio 2009, gli accertamenti avevano documentato una idronefrosi sinistra
secondaria a stenosi della giunzione uretero-ileale dello stesso lato e posero anche il sospetto di
calcolosi a monte della stenosi. Peraltro il CTU, ha evidenziato che “un certo grado di
idronefrosi si realizza inevitabilmente, specialmente a sinistra, anche in assenza di stenosi. Ciò
per effetto della mancanza del fisiologico meccanismo antireflusso che l’ansa intestinale, a
differenza della vescica, ovviamente non può avere.”
Per la risoluzione della stenosi fu proposta l’ispezione anterograda della via escretrice di
sinistra eseguendo l’accesso per via percutanea con strumentario endoscopico.
Ottenuto il consenso, l’intervento fu eseguito l’8 gennaio 2009. Il periodo post operatorio si
svolse regolarmente, tanto che due giorni dopo, il 10 gennaio, venne rimosso il drenaggio
nefrostomico. Il paziente fu dimesso l’11 gennaio e visitato il 25, avendo lamentato dolore
lombare ed ematuria, e il 28 gennaio.
Dopo la rimozione del catetere ureterale, in data 23 febbraio 2009 egli veniva ricoverato
d’urgenza nello stesso reparto per il sopraggiungere di una ematuria macroscopica improvvisa.
L’ecografia, immediatamente eseguita, evidenziò la presenza di grossolani coaguli nella pelvi
renale sinistra. Inizialmente egli fu posto in vigile osservazione clinica. Il 26 febbraio
l’ematuria si presentò nuovamente in forma più importante tanto che il paziente venne
sottoposto a emotrasfusione. La TAC, eseguita il 27 febbraio, evidenziò un’emorragia
proveniente da un ramo dell’arteria retropielica, emorragia confermata dall’esame angiografico
chiesto presso il Brotzu ed eseguito il 28 febbraio 2009.
I sanitari procedettero quindi ad un tentativo, non riuscito, di embolizzazione dell’arteria e
quindi alla chiusura della stessa con spirale di Gianturco.
Il 6 marzo 2009 il Omissis venne dimesso.
I successivi controlli clinici ed ecografici documentavano una progressiva alterazione
morfologica e funzionale del rene sinistro fino allo stadio finale di cosiddetto “rene grinzo”
ossia di un rene di ridotte dimensioni e con assottigliamento della componente funzionale di
filtrazione corticale talché esso è “sostanzialmente non efficiente per quel che concerne la sua
funzione di filtrazione del sangue.”
L’ausiliario ha quindi esposto che la chiusura meccanica del vaso sanguinante aveva
determinato la necrosi della porzione medio inferiore del rene sinistro che aveva perso la sua
funzione, potendosi definire il conseguente deficit di funzione renale di terzo grado su cinque
della scala di funzionalità più comunemente utilizzata dalla comunità scientifica internazionale
(grado moderato). Ha altresì precisato che da allora la funzione renale è stabile e che, grazie
alla funzione vicariante del rene destro, il paziente non necessita di terapia specifica dialitica né
di farmaci sostitutivi.
Contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, il consulente tecnico d’ufficio ha
esaurientemente risposto alle osservazioni mosse dal suo consulente di parte. Il dott. … ha
infatti precisato che:
– il trattamento chirurgico posto in essere per risolvere la stenosi postoperatoria della giunzione
uretero-ileale sinistra era conforme alle metodiche praticate al momento nei centri di alta
specializzazione, essendo la migliore alternativa rispetto ad un indaginoso e problematico
accesso chirurgico tradizionale a cielo aperto. Egli ha esaurientemente risposto alla p rima delle
censure sollevate relativa alla mancanza di tempestività del trattamento chirurgico della stenosi
dell’anastomosi dal momento che era stata diagnosticata praticamente circa un anno prima. Si
riportano le chiare e convincenti affermazioni di cui all’elaborato peritale: “in realtà pensare
che la ricostruzione dell’anastomosi, eseguibile solo con chirurgia a cielo aperto, avrebbe poi
comportato un perfetto drenaggio del rene è puramente illusorio. Reimpiantare l’uretere in
una sede già operata e soggetta a sclerosi cicatriziale dei tessuti, a parte il grande rischio
chirurgico, avrebbe certamente portato a nuova stenosi. D’altra parte la stessa via percutanea,
come i fatti hanno poi dimostrato, presentava elevato rischio vascolare. A questo proposito va
ricordato che il paziente, nel periodo perioperatorio della cistectomia del 2007, era già stato
sottoposto a posizionamento di drenaggio nefrostomico a destra per trattare lo stravaso di
urina, evento che ha certamente avuto parte nel determinismo della stenosi della giunzione. Si
può quindi affermare che la prudenza nell’eseguire un intervento rischioso e dall’esito incerto
era perfettamente giustificata anche a prezzo di una progressiva riduzione della funzione
escretoria del rene sinistro. A porre la perentoria indicazione temporale all’intervento è stata
invece la comparsa delle dolorose coliche (con sospetto radiologico di calcolosi sulla stenosi)
con le quali il paziente non avrebbe potuto a lungo convivere.”
– non poteva condividersi l’osservazione della sussistenza di un ritardo nella gestione
dell’emorragia con inevitabile peggioramento della funzione renale, testimoniata dal fatto che il
paziente era stato posto in semplice osservazione clinica per ben cinque giorni, in quanto “la
perdita ematica, finché gestibile, va trattata in generale con la vigile attesa e questo, a maggior
ragione, nel caso in esame in considerazione delle condizioni di rischio chirurgico già esposte.
Inoltre l’emorragia dell’arteria retropielica non ha, di per sé, peggiorato la funzione renale
sinistra. La definitiva perdita della funzione escretoria dipende sicuramente dall’ischemia
determinata dalla chiusura dell’arteria con la spirale di Gianturco effettuata, in condizioni di
urgenza, presso la radiologia interventistica del O.P. Brotzu il 28 febbraio 2009.”
– doveva condividersi la scelta del tipo di intervento effettuato: “il trattamento della stenosi
dell’anastomosi presenta sempre profili di notevole difficoltà qualunque sia la tecnica
chirurgica utilizzata. La chirurgia a cielo aperto espone a severo rischio legato
all’esplorazione di un sito anatomico modificato nella sua anatomia. Esiste la possibilità
concreta di determinare lesioni intestinali, del condotto, della parete addominale e di non
potere più disporre di un uretere lungo e vitale per una ulteriore anastomosi. L’età del paziente
e le patologie concomitanti rappresentano inoltre ulteriori fattori di rischio operatorio per la
vita stessa del paziente. La via percutanea ed endoscopica combinate disponendo, come nel
caso in oggetto, di tecniche e strumenti idonei rappresentano la scelta più appropriata pur in
presenza dei potenziali rischi emorragici menzionati.”. Al riguardo si evidenzia che all’epoca
dell’intervento il Omissis aveva 75 anni ed era affetto da diverse patologie sistemiche: diabete
mellito, ipertensione arteriosa, arteriosclerosi con occlusione dei tronchi arteriosi sovraortici.
– “in termini di responsabilità professionale si può certamente affermare che la metodica in sé
è gravata da un elevato rischio di lesione vascolare che, specialmente in riferimento agli eventi
che si verificano tardivamente (in questo caso a distanza di oltre un mese) non è prevedibile né
prevenibile. La lesione verificatasi nel caso specifico pertanto non può essere attribuita a colpa
professionale medica. D’altra parte, come si evince dal modulo del consenso informato, la
difficoltà tecnica a trattare in maniera conservativa tali imprevedibili lesioni è dimostrata dal
fatto che l’emorragia, e l’eventuale perdita del rene sono assolutamente tenute in
considerazione.”
Tali osservazioni del CTU non sono state scalfite dei motivi di appello essendosi il Omissis
limitato a riproporre le criticità rilevate a carico dei sanitari che, in estrema sintesi, possono
essere individuate:
a) nel ritardo nella risoluzione della stenosi;
b) nel ritardo nella gestione della emorragia;
c) nella scelta della tecnica operatoria;
senza in alcun modo confutare e confrontarsi con le esaurienti e convincenti argomentazioni,
sopra sinteticamente riportate, che hanno condotto l’ausiliare a ritenere insussistenti dette
criticità, già prospettate nel corso del percorso peritale dal suo consulente di parte.
Letti gli atti difensivi dell’appellante, si osserva che il mancato rispetto delle tempistiche e delle
prescrizioni procedurali da parte dell’ausiliario del giudice, seppure da lui evidenziate e
stigmatizzate nel corso del procedimento peraltro esclusivamente sotto il profilo della durata
del giudizio, non possono assumere alcun rilievo sulla utilizzabilità dell’elaborato peritale ai
fini della decisione, come inopinatamente egli sembrerebbe adombrare, considerato che è stato
pienamente garantito il contraddittorio tra le parti e che le conclusioni a cui è pervenuto
l’ausiliario sono sorrette da approfondite e condivisibili argomentazioni e hanno consentito di
dare convincente risposta alle osservazioni sollevate dal suo consulente di parte. Non avendo il
Omissis contrapposto precise e specifiche deduzioni volte ad incrinare le risposte elaborate in
sede di percorso peritale a fronte delle deduzioni del suo consulente di parte, risposte poste dal
Tribunale a fondamento della decisione, deve essere rigettata la richiesta di un rinnovo della
consulenza tecnica d’ufficio, apparendo la stessa del tutto immotivata.
Gli esaurienti accertamenti peritali sopra sintetizzati, impongono di ritenere che Omissis non
abbia offerto alcuna prova, della quale era onerato per i principi pacifici della giurisprudenza di
legittimità sopra richiamati, dell’esistenza del nesso causale dovendosi escludere che la
condotta dei sanitari che lo hanno avuto in cura in occasione dell’intervento del gennaio 2009,
sia stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno lamentato.
Rimane assorbito il motivo di appello relativo al profilo del quantum, avendo il Omissis
contestato la quantificazione dei danni operata dal CTU, contestazione peraltro sostanzialmente
abbandonata negli atti difensivi finali.
Con riguardo al motivo di appello relativo al consenso informato, si evidenzia che nell’atto di
citazione in primo grado l’attore si era limitato ad affermare che egli non era stato
effettivamente informato di possibili rischi delle complicanze che poi si sono verificate e che
egli pertanto non aveva potuto prestare un valido consenso all’intervento. Tale assunto è
smentito dal tenore letterale del consenso informato, essendo in esso specificato che tra le
complicanze previste vi era emorragia nonché “nefrectomia in caso di lesioni vascolari o
parenchimali renali non trattabili conservativamente”.
Le ulteriori considerazioni inerenti il contenuto del consenso informato sviluppate nella
comparsa conclusionale, anche in relazione ad una problematica di natura diagnostica relativa
alla presenza di calcoli, sospettata dai sanitari prima dell’intervento, problematica mai
prospettata in primo grado, sono allegazioni nuove e pertanto inammissibili.
In ogni caso si osserva che Omissis non ha puntualmente allegato né nell’atto introduttivo né
nella prima memoria ex art. 183 c.p.c., danni non patrimoniali o patrimoniali, ontologicamente
distinti dalle voci di danno lamentate come conseguenze pregiudizievoli derivate dalla lesione
del diritto alla salute; al riguardo il Collegio ritiene di dare continuità all’orientamento più
recente della Suprema Corte secondo cui “In ogni caso vale osservare che, in materia di
responsabilità sanitaria, l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del
paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto
all’autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute posto che, se nel primo caso l’omessa
o insufficiente informazione preventiva evidenzia “ex se” una relazione causale diretta con la
compromissione dell’interesse all’autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del
trattamento sanitario, nel secondo l’incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato
pregiudizievole dell’atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall’opzione che il
paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto
in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l’allegazione dei fatti dimostrativi di tale
scelta costituisce parte integrante dell’onere della prova – che, in applicazione del criterio
generale di cui all’art. 2697 c.c., grava sul danneggiato – del nesso eziologico tra
inadempimento ed evento dannoso. Ciò non esclude evidentemente che, anche nel caso in cui
venga allegata la violazione del diritto alla autodeterminazione, l’onere allegatorio del
danneggiato non può ritenersi esaurito, in quanto escluso qualsiasi esonero fondato sul danno
“in re ipsa” (non essendo dato confondere la lesione del diritto, con le conseguenze
pregiudizievoli che in concreto da esso derivano), è indispensabile allegare specificamente
quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato
abbia subito. Diversamente, sebbene la condotta violativa dell’obbligo di acquisire il consenso
informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico
(comportando la violazione dei distinti diritti alla libertà di autodeterminazione e alla salute),
in ragione dell’unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente – che si articola in
plurime obbligazioni tra loro connesse e strumentali al perseguimento della cura o del
risanamento del soggetto – non potendo affermarsi una assoluta autonomia dei due illeciti tale
da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno, è bene
possibile che l’inadempimento dell’obbligazione relativa alla corretta informazione sui rischi e
benefici della terapia esaurisca la propria funzione lesiva, inserendosi tra i fattori
“concorrenti” della serie causale determinativa del pregiudizio alla salute.
Può e deve, invece, riconoscersi all’omissione del medico una astratta capacità plurioffensiva,
potenzialmente idonea a ledere due diversi interessi sostanziali, entrambi suscettibili di
risarcimento, qualora sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di essi siano derivate
specifiche e distinte conseguenze dannose (cfr. Corte Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 28985 del
11/11/2019).” (Cass., n. 24471/2020).
Alla luce delle esposte argomentazioni, l’appello deve essere rigettato e deve trovare piena
conferma l’impugnata sentenza.
Le spese di lite seguono la soccombenza.
Esse sono liquidate secondo i valori minimi relativi allo scaglione euro 52.001,00 – euro
260.000,00 per le fasi di studio, introduttiva e decisionale stante l’assenza di profili di
complessità in fatto ed in diritto della controversia e le caratteristiche dell’attività prestata. Non
si riconosce alcun compenso per la fase di trattazione/istruttoria stante l’assenza di attività
difensionale (Cass., n. 10206/2021).
PER QUESTI MOTIVI
La Corte d’Appello definitivamente pronunciando, disattesa ogni altra istanza, eccezione e
deduzione:
1. Rigetta l’appello e per l’effetto conferma l’impugnata sentenza;
2. Condanna Omissis alla rifusione delle spese di lite in favore della parte appellata che liquida
in euro 4997,00 oltre spese generali Iva e cpa, disponendo la distrazione in favore del difensore
dichiaratosi antistatario;
3. Da atto della sussistenza dei presupposti processuali, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater
DPR n.115/2002, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13.

La scelta per la pensione integrativa impedisce al coniuge di rivendicare la quota del TFR.

Tribunale di Paola, 13 febbraio 2023
Sezione civile
Il Tribunale ordinario di Paola, riunito in camera di consiglio, nelle persone dei magistrati
Simona Scovotto Presidente
Federica Laino Giudice
Maurizio Ruggiero Giudice estensore
ha emesso il seguente
DECRETO
nel procedimento per l’attribuzione della quota di indennità di fine rapporto ex art. 12 bis l. 898 del
01.12.1970 promosso da OMISSIS nei confronti di OMISSIS e OMISSIS nonché OMISSIS e OMISSIS, tutti
rappresentati e difesi come in atti, ed iscritto al n. 491/2021 del R.G.V.G.
MOTIVAZIONE IN FATTO E IN DIRITTO
Con ricorso depositato in data 8.6.21, OMISSIS ha dedotto: che in data 07.04.1984, in Paola (CS), contraeva
matrimonio concordatario con il sig. OMISSIS , per come risulta dall’Estratto per Riassunto del Registro degli
Atti di Matrimonio di detto Comune, giusta annotazione al n. OMISSIS, parte OMISSIS, Serie OMISSIS, anno
1984; che con Sentenza n. 65/17 emessa in data 25.01.2017 dal Tribunale di Paola, pubblicata il 27.01.2017,
passata in giudicato in data 28.07.2017, veniva posto a carico del sig. OMISSIS in favore della sig.ra OMISSIS
un assegno divorzile ex art. 5 L. 898/70; che il sig. OMISSIS, durante tutto il periodo matrimoniale, è stato
dipendente dell’Istituto di Credito OMISSIS, così sino al momento della quiescenza dall’attività lavorativa,
verificatasi dopo la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio, in cui oggi versa; che la sig.ra
OMISSIS non ha mai più contratto nuove nozze; che il sig. OMISSIS percepiva l’indennità di fine rapporto,
oppure ad oggi si trova ancora in attesa di liquidazione della stessa; che, ricorrendone i presupposti ai sensi
dell’art. 12 bis della Legge n. 898 del 1.12.1970, è diritto della ricorrente il riconoscimento dell’attribuzione
della quota del 40% della liquidazione dell’indennità di fine rapporto, dovuta al sig. OMISSIS, riferita agli anni
in cui il rapporto di lavoro è coinciso con la durata del matrimonio; che la ricorrente ha fondato timore di
perdere la garanzia del proprio credito per comportamenti negativi addebitabili al sig. OMISSIS; timore
comprovato dal mancato riscontro a formale richiesta di riconoscimento di quanto in oggetto, inoltrata per
il tramite del procuratore costituito a mezzo Racc. A/r, n. 152250967736 del 28-09/10/2020, regolarmente
recapitata in data 07.11.2020 e rimasta del tutto inevasa.
La ricorrente, pertanto, ha domandato: riconoscere e disporre in favore della sig.ra OMISSIS, ai sensi e per gli
effetti dell’art. 12 bis della Legge n. 898 del 1.12.1970, tenuto conto del periodo di coincidenza del
matrimonio con il rapporto di lavoro, l’attribuzione della quota percentuale dell’indennità di fine rapporto
dovuta al sig. OMISSIS. Per l’effetto, ordinare all’Istituto di Credito OMISSIS (quale ex datore di lavoro del
OMISSIS), nella persona dell’amministratore pro tempore, quale ente erogatore della liquidazione, di pagare
direttamente alla ricorrente la percentuale dell’indennità di fine rapporto spettante al sig. OMISSIS così come
attribuita alla sig.ra OMISSIS. In subordine, qualora l’importo relativo al trattamento di fine rapporto sia stato
già erogato in favore del sig. OMISSIS, ordinare a quest’ultimo di pagare in favore della sig.ra OMISSIS la
percentuale dell’indennità di fine rapporto così come alla stessa attribuita.
Ha chiesto, inoltre, il sequestro conservativo dell’indennità di fine rapporto dovuta al sig. OMISSIS – c.f.:
OMISSIS, nato il OMISSIS a OMISSIS, limitatamente alla quota dovuta alla ricorrente ex art. 12 bis della Legge
n. 898 del 1.12.1970; per come ancora dovuta dall’Istituto di Credito OMISSIS (quale ex datore di lavoro),
oppure qualora già erogato in favore del sig. OMISSIS direttamente sulla disponibilità dello stesso.
Con comparsa di risposta depositata il 05/08/2021 si è costituita in giudizio la società OMISSIS la quale, in
riferimento a quanto dedotto e richiesto dalla ricorrente e in esecuzione dell’ordine di esibizione pronunciato
dal Tribunale, ha prodotto il prospetto di liquidazione del TFR maturato dal sig. OMISSIS alla data della
cessazione del rapporto di lavoro, dal quale si evince, tra l’altro: – che il dipendente, durante il rapporto di
lavoro, aveva percepito anticipazioni sul trattamento di fine rapporto per complessivi €.18.446,91 lordi; – che
lo stesso, da una certa data, aveva optato per il versamento delle quote di TFR maturate sul Fondo Pensione
Complementare, per complessivi €. 57.400,43 lordi; – che in conseguenza di tali eventi, residuava presso
OMISSIS un importo di TFR ancora dovuto pari ad €. 12.927,35 lordi. Ha dedotto: – che il suddetto importo di
€. 12.927,35 lordi è stato pagato al sig. OMISSIS nel mese di agosto 2020, mediante accredito sul conto
corrente a lui intestato, come emerge dalla busta paga del mese di agosto 2020; – che il rapporto di lavoro
tra la Banca e il sig. OMISSIS era iniziato in data 8/11/1982 ed è cessato il 31/7/2020, come si evince dal
prospetto di liquidazione del TFR depositato nonché dalla specifica dichiarazione rilasciata dal Responsabile
del Direzione Centrale Affari Sindacali e Politiche del Lavoro – Amministrazione e Operations HR – Servizi
Amministrativi del Personale in data 12/7/2021. Alla luce di quanto esposto, OMISSIS ha dichiarato di non
possedere alcun importo di spettanza del sig. OMISSIS a titolo di TFR, avendo già versato quanto era in suo
possesso al momento della cessazione del rapporto di lavoro ed essendo stata conferita in precedenza la
maggior parte del TFR al Fondo Pensione Complementare.
Con comparsa di risposta depositata il 15.11.21 si è costituito in giudizio OMISSIS, precisando il quantum da
dover corrispondere alla sig.ra OMISSIS per il predetto titolo, offrendo spontaneamente il relativo importo a
mezzo assegno circolare alla stessa intestato e da rilasciare banco iudicis, ovvero con la diversa modalità
ritenuta dovuta nonché chiarendo il motivo del ritardo nell’adempimento.
Ha dedotto che il ritardo della corresponsione della quota del tfr, che la legge riserva al coniuge separato
percettore di assegno divorzile, non è dipeso da mancanza di volontà da parte del sig. OMISSIS, ma dal tempo
trascorso per riuscire ad ottenerne la sua esatta determinazione. Durante tutto il periodo della pandemia
conseguente all’infezione virale SARS-Cov 2, il resistente ha avuto difficoltà a recarsi al patronato, per capire
quanto eventualmente deve corrispondersi all’ex coniuge ed a prendere appuntamenti con lo stesso,
essendo per diversi periodi chiuso al pubblico.
Ha dedotto che in data 30.04.1998, il sig. OMISSIS richiedeva ed otteneva dal OMISSIS, allora datore di lavoro
dello stesso, l’anticipo del 75% del tfr sino ad allora maturato, ex £ 38.718,200 per l’acquisto
dell’appartamento sito in Paola alla via OMISSIS, assegnato e tutt’ora abitato dalla OMISSIS e che la sentenza
con cui veniva dichiarata la cessazione degli effetti civili del matrimonio è la sentenza n. 546/2015 pubblicata
dal Tribunale adito in data 25.05.2015. Pertanto, la sig.ra OMISSIS, ex art. 12-bis c.1 della Legge n. 898
dell’1.12.1970 ha diritto alla quota di indennità del 40 %, del Tfr maturato dal marito rapportata ai 31 anni di
periodo matrimoniale, nel caso di specie, dal 07.04.1984 al 25.05.2015, diversamente da quanto dalla stessa
precisato relativamente al termine finale da prendere in considerazione. All’atto della cessazione del
rapporto di lavoro al OMISSIS veniva corrisposto a titolo di tfr il complessivo importo lordo di € 12.927,35.
Il resistente, pertanto, ha chiesto dichiarare che la quota ex lege spettante alla ricorrente per il titolo azionato
è di € 3.301,12 e, per l’effetto, dando atto dello spontaneo pagamento della suddetta somma da parte del
medesimo, rinviare l’udienza in presenza delle parti così da consentire al sig. OMISSIS di corrispondere banco
iudicis l’importo suddetto mediante la consegna di assegno circolare intestato alla sig.ra OMISSIS, o con quel
diverso mezzo ritenuto dovuto, nonché valutare la ricorrenza di giusti motivi per disporre la compensazione
delle spese di lite.
Il Collegio ha rigettato, con provvedimento del 15.6.21, l’istanza di sequestro conservativo formulata da parte
ricorrente. L’emissione di un provvedimento di sequestro conservativo presuppone l’esistenza sia del fumus
boni iuris – ossia di una situazione che consenta di ritenere probabile l’esistenza della pretesa in contestazione
– sia del periculum in mora, ossia del fondato timore di perdere le garanzie del credito, con la conseguenza
che la carenza anche di uno solo dei suddetti requisiti impedisce la concessione della misura cautelare in
questione (Cass. n.8279/97). Al riguardo, il secondo presupposto testé enunciato non è provato dalla
ricorrente, non potendo desumersi dalla mera deduzione del timore per asseriti “comportamenti negativi
addebitabili al sig. OMISSIS”, né dal mancato riscontro a formale richiesta di riconoscimento di quanto in
oggetto. Non risulta dimostrato, pertanto, il fondato pericolo di dispersione del patrimonio da parte del
debitore.
L’intestato Tribunale, inoltre, rilevato che la OMISSIS ha dedotto che “per quanto è stato possibile accertare,
il sig. OMISSIS solo nel 2007 ha aderito al Fondo di Previdenza di OMISSIS (oggi denominato Fondo Pensione
a prestazione definita del gruppo OMISSIS), che è un soggetto distinto dalla banca resistente, ha esteso il
contraddittorio anche al menzionato Fondo Pensione, invitando quest’ultimo a precisare, anche mediante
allegazione documentale, da quale data il OMISSIS ha esercitato la detta opzione per il versamento delle
quote di TFR maturate sul Fondo Pensione Complementare; nonché a precisare se la somma accantonata sul
fondo pensione dal OMISSIS è stata al medesimo corrisposta al momento della cessazione del rapporto di
lavoro dello stesso.
Il certificato in atti attesta lo stato libero della ricorrente, mentre con sentenza n. 65/17 emessa in data
25.01.2017 dal Tribunale di Paola, pubblicata il 27.01.2017, passata in giudicato in data 28.07.2017, è stato
riconosciuto l’assegno divorzile in favore della OMISSIS.
Il rapporto di lavoro del sig. OMISSIS è iniziato in data 8/11/1982 ed è cessato il 31/7/2020, come si evince
dal prospetto di liquidazione del TFR depositato, dalla busta paga allegata nonché dalla dichiarazione
rilasciata dal Responsabile del Direzione Centrale Affari Sindacali e Politiche del Lavoro – Amministrazione e
Operations HR – Servizi Amministrativi del Personale.
La durata di tale rapporto, indi, è pari a 37 anni ,8 mesi e 23 giorni.
Il matrimonio tra le parti è stato contratto in data 07.04.1984 ed è formalmente cessato in data 28 dicembre
2015, al momento del passaggio in giudicato della sentenza n. 546/2015 del Tribunale di Paola, pubblicata il
25.05.2015, con cui veniva pronunciata la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dalle parti.
La quota del 40% della liquidazione dell’indennità di fine rapporto, dovuta al sig. OMISSIS, è riferita agli anni
in cui il rapporto di lavoro è coinciso con la durata del matrimonio, pari a 31 anni ,8 mesi e 21 giorni, essendo
la durata del matrimonio interamente ricompresa nel predetto rapporto di lavoro.
Tanto precisato, il procedimento de quo sottende la controversa questione della possibilità di riconoscere ex
art. 12 bis l. 898 del 1.12.1970 all’ex coniuge divorziato una quota del TFR che sia stato fatto confluire in un
fondo pensione.
In proposito, si evidenzia l’esistenza, nella giurisprudenza, anche di legittimità, di due opposti approdi
ermeneutici.
In una recente ordinanza (Cass. civ., n. 12882/2017) la Corte di Cassazione, sulla scia di alcuni pregressi arresti
(Cass. civ., sez. V, n. 4425/2010 e Cass. civ., sez. V, n. 8200/2007), ha riconosciuto che il diritto all’attribuzione
di una quota dell’indennità di fine rapporto, percepita dall’altro coniuge, in favore del coniuge divorziato
possa essere esteso anche agli ulteriori emolumenti che siano comunque correlati all’attività lavorativa
dell’ex coniuge, indipendentemente dal fatto che siano stati fatti confluire su un fondo pensione.
A tale conclusione la Corte è giunta rilevando che le somme confluite nel fondo pensionistico, essendo
destinate ad essere corrisposte dopo la cessazione del rapporto di lavoro, troverebbero in quest’ultimo la
loro ragione giustificatrice. Inoltre, in quanto finalizzate a compensare la perdita di redditi futuri,
radicherebbero in tale funzione la loro natura di “retribuzione differita” tale da giustificare l’applicabilità del
regime fiscale previsto per il TFR, nonché della disciplina di cui all’art. 12-bis, l. n. 898/1970.
Secondo l’opposto orientamento giurisprudenziale, “il diritto dell’ex coniuge a una quota del TFR dell’ex
congiunto, ai sensi dell’art. 12-bis l. 898/1970, non compete con riguardo a quelle somme che risultino essere
destinate a un fondo di previdenza complementare. Infatti, premesso che l’art. 12 bis l.898/1970 riconosce
al coniuge divorziato titolare di assegno divorzile la quota del 40% del TFR “percepito” alla cessazione del
rapporto di lavoro, è evidente che quanto accantonato su fondo pensione non viene riscosso alla cessazione
del rapporto di lavoro. Ciò per il fatto che nel caso in cui il Tfr viene conferito ad un fondo di previdenza
complementare, la liquidazione non è riconosciuta alla cessazione del rapporto di lavoro, ma alla
maturazione dei requisiti per la pensione. Inoltre, le somme versate non sono riconosciute come liquidazione,
ma come pensione integrativa, che viene erogata, nella maggior parte dei casi, in forma di rendita ed in alcuni
casi in forma di capitale. In definitiva, tale istituto rientra nella previsione dell’art. 2123 c.c., quale forma di
previdenza integrativa, e non nella previsione dell’art. 2120 c.c., al quale si riferisce l’art. 12 bis della legge
n.898/1970” (Tribunale di Milano sez. IX civ., sentenza del 18 maggio 2017).
A tale conclusione è pervenuta anche una parte della giurisprudenza di legittimità applicando
analogicamente la disciplina prevista per i versamenti effettuati in favore del fondo pensione ai versamenti
di eventuali quote di TFR alla previdenza complementare: avendo i primi natura non retributiva ed essendo
liquidabili solo al momento di maturazione dei requisiti per il pensionamento, anche i secondi, di
conseguenza, non sarebbero più imputabili al TFR (cfr. Cass., n. 8228/2013; Cass. civ., S.U., n. 4949/2015;
Cass. civ., n. 8995/2012).
In particolare, la stessa Suprema Corte ha ritenuto che i versamenti in favore del fondo pensione, avendo
una natura spiccatamente previdenziale, non incrementerebbero il patrimonio del lavoratore (Cass. civ., n.
8995/2012).
“Le somme accantonate dal datore di lavoro per la previdenza complementare – quale che sia il soggetto
tenuto alla erogazione dei trattamenti integrativi e quindi destinatario degli accantonamenti – non si
computano né nella indennità di anzianità né nel trattamento di fine rapporto” (Cass. Sez. 6 – L, Ordinanza n.
8228 del 04/04/2013).
Tali somme, infatti, come osservato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite (Cass. civ. S.U., n. 4949/2015), non
possono rientrare nell’ambito di applicazione degli artt. 2120 e 2121 c.c., in quanto il loro ambito applicativo
dovrebbe circoscriversi alla retribuzione effettivamente corrisposta al lavoratore durante gli anni di
svolgimento del rapporto e non anche a contributi da cui i lavoratori non possono trarre alcun immediato
arricchimento.
Inoltre, la pronuncia testé citata ha evidenziato l’autonomia del rapporto previdenziale rispetto al rapporto
di lavoro: in forza del primo, il datore di lavoro è obbligato a versare dei contributi nel fondo pensione e la
disponibilità di tali somme è correlata alla maturazione del diritto del lavoratore al trattamento pensionistico.
“Per quanto concerne i fondi di previdenza integrativa, i versamenti datoriali non sono preordinati
all’immediato vantaggio del lavoratore, ma, proprio in coerenza con la loro funzione, vengono accantonati (e
quindi mai direttamente corrisposti) per garantire la funzione del trattamento integrativo in caso di
cessazione del rapporto di lavoro, ovvero in caso di sopravvenuta invalidità, secondo le condizioni previste
dal relativo statuto… Se è vero che il rapporto di previdenza integrativa ha come necessario presupposto
l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, è anche vero che l’obbligo del versamento del contributo a
carico del datore di lavoro non si pone nei confronti del lavoratore bensì nei confronti del fondo che è poi
onerato della erogazione della relativa prestazione. Va in proposito osservato che, ove si accedesse alla tesi
secondo cui ogni onere economico posto a carico del datore di lavoro avesse natura retribuiva, si arriverebbe
al risultato che la previdenza complementare sarebbe a carico esclusivo dei lavoratori, risultato non solo
paradossale, ma contra legem, atteso che la natura solidaristica della previdenza complementare è
desumibile non solo da norme primarie (cfr., in particolare, l’art. 2117 c.c.), ma anche dall’art. 38 Cost. La
mancanza di un nesso di corrispettività diretta fra contribuzione e prestazione lavorativa, e quindi, in buona
sostanza, la sostanziale autonomia tra rapporto di lavoro e previdenza complementare, trovano una
conferma decisiva nel rilievo che, in caso di cessazione del rapporto senza diritto alla pensione integrativa –
il che può verificarsi quando non siano integrati tutti i presupposti per la maturazione del diritto – il
dipendente non ha alcun diritto alla percezione dei contributi versati dal datore di lavoro” (Cass. Sez. U,
Sentenza n. 4684 del 2015).
Da ciò scaturisce che la liquidabilità pro quota delle somme destinate ad un fondo pensione dovrebbe
fondamentalmente escludersi per le seguenti ragioni:
-in primo luogo, perché i contributi o gli accantonamenti versati su un fondo pensione assumono
necessariamente funzione e natura previdenziale, non retributiva;
– in secondo luogo, in considerazione del momento di maturazione del diritto alla loro percezione
(raggiungimento dell’età pensionabile e non scioglimento del rapporto di lavoro);
– in terzo luogo, per la modalità di erogazione, che nella maggior parte dei casi avviene sotto forma di rendita
vitalizia e non di capitale. Tale requisito, tuttavia, non si appalesa determinante ai fini della qualificazione de
qua, poiché la pensione integrativa può essere erogata anche in forma di capitale (Tribunale di Milano sez.
IX civ., sentenza del 18 maggio 2017).
Il quesito alla base degli esposti orientamenti è se la natura del TFR permanga o meno in caso di destinazione
dello stesso al fondo previdenziale-complementare. Appare preferibile l’esegesi che ritiene prevalente la
destinazione: la funzione della somma confluita nel fondo previdenziale o complementare è di tipo
pensionistico e non retributivo. Del resto, riprendendo la teoria della “causa in concreto” l’interesse
concretamente perseguito dal lavoratore che decida di far confluire tali somme in un fondo di questo tipo è
proprio quella di costituirsi una pensione integrativa. L’accantonamento del TFR su un fondo complementare
conferisce alle somme versate una destinazione ed una funzione differenti. Tale destinazione fa perdere a
questi versamenti la loro natura retributiva e fa loro acquisire carattere previdenziale, tanto che essi non
saranno più corrisposti al lavoratore alla cessazione del rapporto lavorativo, bensì alla maturazione dei
requisiti pensionistici. La percezione dei medesimi, quindi, viene differita non al momento della cessazione
del rapporto di lavoro ma al tempo del verificarsi dei presupposti previdenziali. Perdono, pertanto, la loro
natura di TFR.
La pensione integrativa è una forma di pensione che “è contraddistinta dalla mancanza di un nesso di
corrispettività diretta tra la contribuzione e la prestazione lavorativa, ciò che riscontra la sostanziale
autonomia tra il rapporto di lavoro e questa tipologia di previdenza complementare (Cass., 9 marzo 2015, n.
4684; Cass., 29 maggio 2013, n. 13399; Cass., Sez. U., 1 febbraio 1997, n. 974)” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n.
15817 del 07/06/2021).
In ragione delle deduzioni compiute dalla Banca OMISSIS, è stato esteso il contraddittorio anche ai
menzionati Fondi Pensione. Il Fondo Pensione a Contribuzione Definita del Gruppo OMISSIS ha rappresentato
che il sig. OMISSIS è stato iscritto al Fondo dalla data del 01/12/1989 sino alla data del 31/07/2020 di
pensionamento e che in favore dello stesso è stata liquidata la posizione maturata presso il Fondo.
Tanto risulta corroborato dall’allegazione compiuta da quest’ultimo, dalla quale emerge la tipologia di
adesione, collettiva e non individuale, nonché il tipo di erogazione (prestazione previdenziale), il motivo
dell’erogazione (pensionamento) e la percentuale di erogazione in capitale (100%), su richiesta avvenuta il
17.10.20, ossia successivamente alla maturazione dei requisiti di pensionamento, necessari per conseguire
l’erogazione complessiva gradualmente accantonata.
Il pensionamento assurge, quindi, a ragione giustificativa dell’erogazione, come significativamente indicato
nella “comunicazione relativa a richiesta di prestazione previdenziale” prodotta in data 30.11.22.
Inoltre, si rileva da tale documento che sia l’adesione alla forma pensionistica sia l’iscrizione alla previdenza
complementare sono avvenute anteriormente alla proposizione della domanda di cessazione degli effetti
civili del matrimonio. Conseguentemente, non appare che la scelta del resistente di aderire al fondo pensione
sia stata finalizzata a perseguire l’intento elusivo e fraudolento di sottrarre quote di T.F.R. all’eventuale
successiva pretesa della ricorrente.
Come puntualizzato dalla Suprema Corte, “la quota del trattamento di fine rapporto dell’altro coniuge,
riconosciuta dall’art. 12 bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898, a quello titolare dell’assegno divorzile che
non sia passato a nuove nozze, deve liquidarsi sulla base di quanto dal primo riscosso, per tale causale, al
netto delle imposte, altrimenti trovandosi lo stesso a doverla corrispondere in relazione ad un importo da lui
non percepito siccome gravato dal carico fiscale. L’art. 12 bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898, laddove
attribuisce al coniuge titolare dell’assegno di cui al precedente art. 5, che non sia passato a nuove nozze, il
diritto ad una quota del trattamento di fine rapporto dell’altro coniuge, va interpretato nel senso che per la
liquidazione di tale quota occorre avere riguardo a quanto percepito da quest’ultimo, per detta causale, dopo
l’instaurazione del giudizio divorzile, escludendosi, quindi, eventuali anticipazioni riscosse durante la
convivenza matrimoniale o la separazione personale, essendo le stesse definitivamente entrate nell’esclusiva
disponibilità dell’avente diritto” (Cassazione civile Sez. VI sentenza n. 24421 del 29 ottobre 2013).
Considerato che il dipendente, durante il rapporto di lavoro aveva percepito anticipazioni sul trattamento di
fine rapporto per complessivi €.18.446,91 lordi, che lo stesso aveva optato per il versamento delle quote di
TFR maturate sul Fondo Pensione Complementare, per complessivi €. 57.400,43 lordi; – che in conseguenza
di tali eventi, residuava presso OMISSIS un importo di TFR ancora dovuto pari ad €. 12.927,35 lordi,
corrisposto al sig. OMISSIS nel mese di agosto 2020, mediante accredito sul conto corrente a lui intestato,
come emerge dalla busta paga del mese di agosto 2020, su tale importo occorre computare il quantum
dovuto alla ricorrente, escluse, per le ragioni esplicitate, le anticipazioni sul trattamento di fine rapporto
percepite da OMISSIS prima dell’instaurazione del giudizio divorzile ed escluso il versamento delle quote di
TFR maturate sul Fondo Pensione Complementare.
Dal TFR lordo di € 12.927,35 liquidato al OMISSIS, decurtata l’aliquota applicata del 23,28% (cfr. prospetto
TFR della banca), si ha un importo netto di € 9.917,86.
“L’indennità dovuta deve computarsi calcolando il 40 per cento dell’indennità totale percepita alla fine del
rapporto di lavoro, con riferimento agli anni in cui il rapporto di lavoro coincise con il rapporto matrimoniale;
risultato che si ottiene dividendo l’indennità percepita per il numero degli anni di durata del rapporto di
lavoro, moltiplicando il risultato per il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro sia coinciso con il rapporto
matrimoniale e calcolando il 40 per cento su tale importo” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15299 del 06/07/2007).
Dunque, dividendo il predetto importo per il numero degli anni di durata del rapporto di lavoro (37),
moltiplicando il risultato (268,05) per il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro sia coinciso con il
rapporto matrimoniale (31) si ottiene l’importo di € 8.309,55, il cui 40% è pari ad € 3.323,82.
Alla luce delle esposte considerazioni, si riconosce e si dispone in favore della sig.ra OMISSIS, ai sensi e per
gli effetti dell’art. 12 bis della Legge n. 898 del 01.12.1970, tenuto conto del periodo di coincidenza del
matrimonio tra la medesima e OMISSIS con il rapporto di lavoro di quest’ultimo, l’attribuzione della quota
percentuale pari al quaranta per cento dell’indennità di fine rapporto erogata al sig. OMISSIS; per l’effetto,
essendo stato l’importo relativo al trattamento di fine rapporto già erogato in favore del sig. OMISSIS, si
ordina a quest’ultimo di pagare in favore della sig.ra OMISSIS l’importo di € 3.323,82.
L’evidenziato contrasto giurisprudenziale induce a disporre la compensazione integrale delle spese di lite tra
le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale di Paola, Sezione Civile, definitivamente pronunziando sulle domande proposte nel giudizio n.
491/2021 del R.G.V.G., ogni contraria e diversa domanda ed eccezione rigettata e/o disattesa, così provvede:
-rigetta la domanda di sequestro conservativo ex art. 671 c.p.c. formulata dalla ricorrente;
-riconosce e dispone in favore della sig.ra OMISSIS, ai sensi e per gli effetti dell’art. 12 bis della Legge n. 898
del 01.12.1970, tenuto conto del periodo di coincidenza del matrimonio tra la medesima e OMISSIS con il
rapporto di lavoro di quest’ultimo, l’attribuzione della quota percentuale pari al quaranta per cento
dell’indennità di fine rapporto erogata al sig. OMISSIS;
-per l’effetto, essendo stato l’importo relativo al trattamento di fine rapporto già erogato in favore del sig.
OMISSIS, ordina a quest’ultimo di pagare in favore della sig.ra OMISSIS l’importo di € 3.323,82.
– compensa integralmente le spese di lite tra le parti

Provata apocrifia del testamento con C.T.U. nel procedimento per A.T.P.

Corte d’Appello Bari, Sez. I, sentenza 17 aprile 2023 n. 591 – Pres. Mitola, Cons. Rel. Caserta
CORTE di APPELLO di BARI
Prima Sezione Civile
Riunita in persona dei signori Magistrati:
1. Dott. Maria Mitola – Presidente
2. Dott. Alessandra Piliego – Consigliere
3. Dott. Maria Grazia Caserta – Consigliere/rel.
ha pronunziato la seguente
SENTENZA
nella causa civile in grado di appello iscritta al n. R.G. …/2020, promossa
da
(…) (C. F. (…) (rappresentata e difesa dall’Avv. (…) e dall’Avv. (…) C.F. (…) ed elettivamente
domiciliata presso il suo studio in Bari, alla via (…) n. (…) (per le comunicazioni e le notificazioni:
fax: (…) pec: (…)
Appellante principale/Appellata incidentale
contro
(…), rappresentato e difeso dall’Avv.to (…) ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in
Conversano, alla Via (…) (per le comunicazioni e le notificazioni: fax: (…) pec: (…)
Appellato/appellante incidentale
nonché contro
(…), rappresentata e difesa dall’avv. (…) (C.F. (…) ed elettivamente domiciliata in Monopoli alla (…)
presso il suo studio (per le comunicazioni e notificazioni: fax: (…) pec: (…) che si difende in proprio
e con l’avv. (…), elettivamente domiciliato come sopra
Appellata
avverso
la sentenza n. …/2020, pronunciata dal Tribunale di Bari in data 03/11/2020, pubblicata il 04/11/2020
e notificata in data 05/11/2020.
All’esito dell’udienza collegiale del 22.11.2022, celebrata in modalità scritta, la causa è stata riservata
per la decisione, con concessione dei termini ai sensi dell’art. 190 c.p.c.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 29.03.2017, (…) conveniva (…) e dinnanzi al Tribunale di Bari per
ivi sentire accogliere le seguenti conclusioni:
“1)- assunte le conclusioni rese nell’ambito dell’ATP, dichiarare nullo il testamento olografo del
27.04.2013 per difetto di forma e, inoltre, ai sensi dell’art.591 co.1 c.c., per incapacità di intendere e
di volere della testatrice; 2)- per l’effetto dichiarare aperta la successione di (…) 3)- accertare e
dichiarare che le spetta 1/3 dell’eredità; 4)- accertare e dichiarare che il valore dell’asse ereditario
della de cuius ammontava ad Euro 1.214.500,00, ovvero di quell’altra somma da determinarsi in
corso di causa; 5)- accertare e dichiarare che il valore della quota ad essa spettante ammontava ad
Euro 404.833,33, o quell’altre somma che risulterà in corso di causa; 6)- in subordine, accertare e
dichiarare che le disposizioni testamentarie ledevano la quota di legittima ad essa spettante; 7)-
accertare e dichiarare che l’ammontare pro quota ad essa spettante è pari ad Euro 303.625,00; 8)-
accertare, per l’effetto, che la lesione della quota di riserva ammontava ad Euro 39.125,00; 9)-
condannare i convenuti alla refusione delle spese di lite.” (cfr. testualmente dalle conclusioni).
Rappresentava:
1) che il suo nucleo familiare era composto dal padre (…) dalla madre (…) e dalla sorella (…)
2) a seguito della grave forma di demenza senile della madre -accertata sin dal 2012- il padre, (…)
otteneva la nomina ad a.d.s. per la moglie, con provvedimento datato 1 giugno 2015;
3) in data 15 gennaio 2016, la sig.ra (…) decedeva;
4) in data 11 marzo 2016, la sig.ra (…) riceveva dal notaio (…) di Conversano una raccomandata a.r.
con la quale le veniva comunicato di avere ricevuto, il precedente 10 febbraio 2016, dai sigg.ri (…) e
(…) verbale di pubblicazione di testamento olografo della defunta (…)
5) con detto testamento, datato 27.04.2013, la sig.ra (…) dichiarava di lasciare “tutto” alla figlia (…) a
titolo di quota di legittima e disponibile, e di lasciare alla figlia (…) a titolo di legittima, la proprietà
della campagna di (…) ed il 50% della proprietà del locale di Via (…) dichiarava di lasciare i suddetti
beni alla figlia (…) “anche se e stata cattiva e non merita niente per quello che mi ha fatto a me e mio
marito” (cfr. testualmente dal testamento olografo in atti);
6) il valore (Euro 1.214.500,00) delle unità immobiliari di proprietà della de cuius risultavano indicate
nella relazione di stima datata 29.03.2016, redatta su incarico della Sig.ra (…) e, in base alle
disposizioni testamentarie, le sarebbero spettati beni per un valore complessivo di Euro 264.500,00
e, quindi, a suo dire, con evidente danno economico nei suoi confronti e corrispondente vantaggio
per la sorella (…)
7) tali danni economici sarebbero stati più evidenti a seguito dell’istanza, depositata in data
13.01.2016 e rigettata dal Tribunale di Bari con Provv. del 19 gennaio 2016, dall’a.d.s. (…) con cui
quest’ultimo chiedeva l’autorizzazione a stipulare un contratto di mantenimento con la figlia (…) che
prevedeva la cessione di una serie di beni immobili a fronte di una non provata prestazione di
mantenimento;
8) con nota del 5 dicembre 2016 la Sig.ra (…) richiedeva a (…) la documentazione e le informazioni
sui titoli e fondi riferiti al conto corrente di cui era intestataria la de cuius unitamente al marito. Detto
conto risultava estinto il 25 agosto 2015 e le residuali somme sarebbero state trasferite su altro conto
acceso presso il (…) a sua volta estinto a seguito del decesso della (…)
9) nutrendo forti dubbi sulla veridicità del testamento olografo e non riconoscendo la scrittura e la
sottoscrizione della madre, la Sig.ra (…) incardinava l’A.T.P. affinché venisse nominato un
consulente che accertasse la effettiva provenienza del testamento recante la data del 27.04.2013;
10) nel procedimento, la C.T.U. nominata stilava relazione peritale del 19.10.2016 nella quale rilevava
che, mentre la compilazione del testamento e la data in verifica erano autografe, la firma apposta in
calce alla scheda non era ascrivibile alla defunta, ma grafologicamente riferibile ad altra mano;
11) a seguito di tanto, la Sig.ra (…) depositava denuncia-querela presso la Procura della Repubblica
di Bari contro il padre e la sorella per i reati di cui agli artt. 491, 476, 482 e 489 c.p.
12) il testamento, ai sensi dell’art. 602, co. 1, c.p.c., secondo la sua prospettazione, doveva ritenersi
nullo anche in ragione dell’incapacità di intendere e di volere della madre al momento della
redazione.
Con comparsa di costituzione e risposta, si costituiva in giudizio, (…) contestando le avverse
prospettazioni e formulando domanda riconvenzionale. Deduceva, in particolare, che l’azione
proposta era inammissibile, in ragione della nullità della C.T.U. espletata nel proc. n. …/2016 R.G.,
dell’insussistenza dei presupposti per la declaratoria di cui all’art. 591 c.c. e dell’inconfigurabilità di
alcuna lesione alla quota di legittima riservata all’attrice.
Aggiungeva, inoltre, che l’attrice occupava in via esclusiva un immobile facente parte dell’asse
materno e, perciò, chiedeva il ristoro per i danni patiti.
Concludeva, infine, chiedendo il rigetto delle domande attoree nonché l’accertamento della
genuinità, validità ed efficacia della scheda testamentaria; in subordine, nell’ipotesi di declaratoria
di sua nullità, l’accoglimento della domanda riconvenzionale formulata, con condanna dell’attrice
alla rifusione dei danni (quantificati in complessivi Euro. 30.000,00 o altra somma ritenuta di
giustizia).
Si costituiva in giudizio (…) anch’essa contestando le avverse prospettazioni e formulando domanda
riconvenzionale. Ribadiva l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza della domanda attorea per
ragioni analoghe a quelle del padre, (…) Aggiungeva che, in ragione dell’assistenza prestata alla
madre negli ultimi anni di vita e del trasferimento nel Comune di … (Ba), al fine di prestare assistenza
ai genitori, nonché per l’occupazione esclusiva di uno degli immobili della massa da parte della
germana, la sorella (…) doveva risarcirle i danni subiti. Concludeva, chiedendo il rigetto delle
domande attoree, nonché l’accertamento della genuinità, validità ed efficacia della scheda
testamentaria in contestazione; in subordine, nell’ipotesi di declaratoria di sua nullità, l’accoglimento
della domanda riconvenzionale formulata, con condanna dell’attrice alla rifusione dei danni
(quantificati in complessivi Euro 100.000,00 o altra somma ritenuta di giustizia), oltre spese.
La causa veniva istruita con le produzioni documentali delle parti e con l’acquisizione del fascicolo
di A.T.P. iscritto al n. …/2016 R.G.
All’udienza di trattazione scritta del 22.06.2020 le parti precisavano le proprie conclusioni.
All’esito, il Giudice istruttore rimetteva la causa al Collegio per la decisione con assegnazione dei
termini ex art. 190 c.p.c.
Con sentenza, pubblicata in data 04.11.2020, il Tribunale di Bari, I Sezione civile, in composizione
collegiale, così statuiva:
“1) ACCOGLIE la domanda principale e, per l’effetto, DICHIARA nullo il testamento olografo del
27.04.2013 di (…) pubblicato in data 10.02.2016, con atto per Notar (…) in C., Rep/Racc: (…);
2) ACCERTA che l’eredità di (…) nata a S.P., B., (…) e deceduta a …, 15.01.2016 si è devoluta per legge
ed è stata acquistata da (…) e (…) nella misura di un terzo ciascuno;
3) DICHIARA assorbite le ulteriori domande attoree;
4) RIGETTA le domande riconvenzionali;
5) CONDANNA (…) in solido tra loro, alla rifusione in favore di (…) di spese e competenze di
giudizio (comprensive di quelle maturate nel proc. n. 8168/16 R.G.) che liquidate in complessivi Euro
14.014,75 (di cui Euro 4.710,75 per esborsi), oltre R.S.F. al 15% nonché C.P.A. e I.V.A. come per legge;
pagamento da eseguirsi, in favore dell’avv. (…) dichiaratosi anticipatario.”(cfr. testualmente il
dispositivo dell’impugnata sentenza).
Preliminarmente, il Tribunale accoglieva la richiesta di rimessione in termini formulata da (…) per
la produzione di alcuni documenti, sul presupposto che si trattasse di “…documenti sopravvenuti
alla scadenza dei termini ex art. 183, VI co., n.2 c.p. …” (cfr. testualmente dalla sentenza) che la parte
non aveva potuto depositare nei termini per causa a sé non imputabile e che essi non implicavano
“…in ogni caso, un ampliamento del thema decidendum e di quello probandum, avendo le parti già
diffusamente dedotto … e documentato…” (cfr. testualmente dall’atto).
Il Giudice di prime cure, applicando l’ormai consolidato principio espresso dalla Suprema Corte di
Cassazione, secondo cui “la contestazione della genuinità del testamento olografo si traduce in una domanda
di accertamento negativo della validità del documento stesso” ( cfr. Cass. civ., sez. unite 15 giugno 2015, n.
12307, accoglieva la domanda di nullità per apocrifa del testamento in quanto: 1) la parte aveva
dapprima agito in sede di A.T.P. per l’accertamento della provenienza del testamento olografo; 2)
aveva attivato il giudizio per la dichiarazione di nullità testamentaria per difetto di forma, mancando
l’autografia della (…) 3) aveva contestato la genuinità dell’olografo, chiedendo, quindi,
l’accertamento negativo della sua validità “…assumendo su di sé anche il relativo onus probandi…” (cfr.
testualmente dalla sentenza).
Secondo il Primo giudice l’onere suddetto risultava assolto, essendovi stata prova sufficiente della
non autenticità del testamento olografo.
Infatti, la C.T.U. in atti, depositata in data 21.11.2016, in sede di A.T.P., accertava che l’olografo “…non
reca alcuna alterazione materiale, bensì solo “cancellature genuine… del tutto giustificate dallo scarso
grado di maturità scrittoria…” (cfr. testualmente dalla sentenza impugnata) e che “…”la filma, rispetto
al testo e alla data … risulta contraddistinta da diversi “connotati grafologici” … ravvisando
l’esistenza di “due differenti strutture psico-neuromuscolari… nella stesura dell’olografo in
questione” … “la compilazione e a data del testamento in verifica sono autografe dalla signora (…)
mentre “la firma apposta in calce non è ascrivibile alla defunta ma è grafologicamente riferibile ad
altra mano”” (cfr. testualmente dalla sentenza impugnata). A fronte di tanto, il Tribunale riteneva di
non discostarsi dalle conclusioni raggiunte dal perito e rigettava le censure mosse alla consulenza
dalle parti in quanto non attinenti all’iter procedurale ma al merito della stessa e considerate
inidonee a sovvertire le risultanze peritali.
Rilevava, in particolare, che le C.T.P. depositate dalle parti avevano “…adoperato per il proprio
scrutinio tecnico delle comparative non conformi al disposto dell’art. 217, co.2 c.p.c.” (cfr.
testualmente dalla sentenza impugnata). Si trattava di scritture che, secondo quanto disposto dal
codice, non avrebbero potuto essere utilizzate per la verifica comparativa. Né, allo stesso modo, le
risultanze peritali acquisite dal P.M. nel proc. …/17 R.G.N.R. e, in particolare, la richiesta di
archiviazione formulata, avevano trovato smentita in quanto, ferma l’autonomia fra i due
procedimenti e la diversità dei presupposti della fattispecie civilistica e dell’illecito penale “…nella
stessa istanza emerge non l’insussistenza della notizia criminis, bensì solo l’insufficienza degli
elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio…” (cfr. testualmente dalla sentenza impugnata).
Alla luce di tanto, il giudice ribadiva la condivisibilità delle risultanze peritali e la conseguente
nullità, ex art. 602 e 606, co. 1, c.c., del testamento olografo datato 27.04.2013 e pubblicato in data
10.02.2016, con atto per Notar (…) in C., Rep/Racc: (…), poi registrato in Bari il 29.02.2016, al n. 6111
Serie 1/T, in quanto non sottoscritto di pugno dalla de cuius.
Il Tribunale accoglieva, poi, la domanda di accertamento dell’apertura della successione legittima di
(…) poiché la declaratoria di nullità della scheda testamentaria comportava la devoluzione per legge
dell’eredità, aperta in data 15.01.2016.
La costituzione delle parti in giudizio determinava accettazione tacita dell’eredità.
In ragione di tanto, il giudice dichiarava le parti coeredi di (…) ciascuno nella misura di 1/3 (secondo
gli artt. 566 e 581 c.c., avendo il coniuge diritto a 1/3 e ognuna delle figlie a 2/3 /2 = 1/3), assorbite le
residue censure, compresa la domanda di accertamento del valore dell’asse ereditario e della quota
spettante all’attrice.
Dichiarava infine infondate e, dunque, rigettava le domande riconvenzionali di risarcimento danni
da occupazione dell’immobile sito in via (…) formulate dai convenuti, in quanto non era sussistente
alcuna prova dell’opposizione degli eredi al godimento dell’immobile. Ciò faceva in applicazione di
un consolidato principio (cfr. ex multis, Cass. Civ. 09.02.2015, n. 2423) secondo cui il godimento di
un immobile da parte del coerede, pieno proprietario del cespite per la quota di un terzo, non
comportava di per sé, in assenza di titolo o di prova dell’opposizione (non sussistente, appunto, nel
caso di specie) degli eredi, alcun obbligo di corrispondere un’indennità per l’occupazione esclusiva.
Liquidava i compensi per la fase di A.T.P., sulla base dello scaglione di riferimento.
Avverso tale sentenza ha proposto appello (…) chiedendo di:
“- in via preliminare:
A) CONCEDERE la sospensione della provvisoria esecutività della sentenza impugnata, per i motivi
esposti in narrativa, ai sensi degli artt. 351, comma 2, e 283 c.p.c.;
– in via principale:
B) in accoglimento dell’appello, RIFORMARE totalmente, per i motivi sopra esposti, la sentenza n.
…/2020 pubblicata il 04/11/2020 emessa dal Tribunale di Bari, in persona del giudice dott. P.,
notificata in data 05/11/2020, e per l’effetto: sempre in via principale e nel merito:
C) ACCERTARE e DICHIARARE la genuinità, efficacia e validità del testamento olografo redatto in
data 27.04.2013 dalla de cuius sig.ra (…) con conferma della qualità di erede della sig.ra (…) per
quanto alla stessa lasciato dalla propria madre;
in via subordinata
D) nella denegata ipotesi di declaratoria di nullità del testamento olografo per cui è causa
ACCOGLIERE per le motivazioni indicate in atti, la dispiegata domanda riconvenzionale e, quindi,
accertare e dichiarare il diritto della sig.ra (…) all’indennizzo pari ad Euro25.000,00 dovutole per
l’assistenza morale e materiale in vita in favore della de cuius; e, per l’effetto CONDANNARE, per
le motivazioni indicate in premessa, gli eredi legittimi alla corresponsione dell’importo pari ad Euro
25.000,00 dovutole per l’assistenza morale e materiale in vita in favore della de cuius o di quelle
somme maggiori o minori a ritenersi di giustizia dall’On.le Tribunale adito: il tutto oltre interessi
maturati e maturandi ex art. 1284 c.c. (nuova formulazione) dovuti come per Legge;
E) sempre in via riconvenzionale ACCERTARE e DICHIARARE , per le causali di cui in atti, il diritto
della sig.ra (…) al risarcimento dei danni pari ad Euro 75.000,00 (sia per l’occupazione dell’immobile
e sia per i danni da trasferimento); e, per l’effetto, CONDANNARE , per le motivazioni indicate in
atti, la sig.ra (…) alla corresponsione dell’importo pari ad Euro 75.000,00 a titolo di risarcimento
danni o di quelle somme maggiori o minori a ritenersi di giustizia dall’On.le Tribunale adito: il tutto
oltre interessi maturati e maturandi ex art. 1284 c.c. (nuova formulazione) dovuti come per Legge;
F) CONDANNARE l’appellata, sig.ra (…) al pagamento di spese (compreso la restituzione del
contributo unificato), diritti e compensi del doppio grado di giudizio da distrarsi a favore dei
sottoscritti procuratori antistatari” (cfr. testualmente dalle conclusioni dell’atto di appello)
Il gravame è stato affidato a tre motivi.
Con il primo motivo (rubricato ‘Erroneità delle valutazioni svolte dal giudice di primo grado per
non aver ritenuto inammissibile la domanda attorea’) l’appellante contesta l’erroneità della decisione
impugnata nella parte in cui il primo Giudice ha ritenuto di non dover accogliere l’eccezione di
inammissibilità della domanda attorea errando nel ritenerla correttamente così come avrebbe errato
nel ritenere assolto l’onere probatorio avendo fondato -a suo dire- la propria decisione
esclusivamente sulla C.T.U. e tanto nonostante le asserite specifiche contestazioni delle parti
convenute. Chiarisce che l’errore del Tribunale deriverebbe dal non aver considerato il cumulo di
azioni proposte da parte attrice nell’introduzione del giudizio di primo grado (di nullità del
testamento ex artt. 606, I comma c.c. e 591, I comma n. 3 c.c., di apertura della successione legittima
e di lesione della quota legittima) che, in realtà -secondo la sua prospettazione- andavano introdotte
in maniera autonoma e solo successivamente, all’esito dell’azione di accertamento negativo della
provenienza del testamento olografo.
Con il secondo motivo (rubricato ‘Erroneità della pronuncia del giudice di primo grado in ordine
alla dichiarata nullità del testamento olografo impugnato’), ha censurato la sentenza impugnata
perché il Tribunale avrebbe errato nel ritenere raggiunta la prova, da parte di (…) della domanda di
accertamento di nullità per difetto di forma della scheda testamentaria impugnata, fondata sulle
conclusioni rassegnate dalla C.T.U. nell’ambito del procedimento per A.T.P. n.8168/2016 R.G. In
particolare, secondo l’appellante, non potrebbe ritenersi assolto l’onere suddetto col richiamo a
conclusioni intervenute all’esito dell’accertamento svolto ai sensi dell’art. 696-bis c.p.c. dal momento
che esso sarebbe finalizzato esclusivamente a far verificare, prima del giudizio, lo stato dei luoghi o
la qualità o, ancora, la condizione delle cose e non alla verifica, come nel caso di specie, della
provenienza del testamento olografo dalla sig.ra (…)
Con il terzo motivo (rubricato ‘Erroneità della pronuncia del giudice di primo grado in ordine al
rigetto delle domande riconvenzionali) ha censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui il
Tribunale ha ritenuto- a suo dire ingiustamente- di rigettare le domande riconvenzionali formulate
dai convenuti in quanto le stesse non risulterebbero provate.
L’appellante, in particolare, lamenta che il Tribunale di Bari avrebbe reputato di non ammettere le
formulate istanze istruttorie basando la propria decisione esclusivamente su una consulenza
grafologica che non costituirebbe mezzo imprescindibile per la verifica dell’autenticità della
sottoscrizione. A dire dell’appellante, le indagini grafiche avrebbero un limitato valore probatorio
perché prive del carattere di compiutezza e di assoluta certezza in quanto fondate su tecniche
interpretative diverse e contrastanti.
Ha concluso come innanzi.
Con comparsa di costituzione e risposta contenente appello incidentale adesivo, si è costituito in
giudizio (…) chiedendo di:
“A) in accoglimento dell’appello principale, RIFORMARE totalmente, per i motivi esposti, la
sentenza n. …/2020 pubblicata il 04/11/2020 emessa dal Tribunale di Bari, in persona del giudice dott.
P., notificata in data 05/11/2020, e per l’effetto:
B) ACCERTARE e DICHIARARE la genuinità, efficacia e validità del testamento olografo redatto in
data 27.04.2013 dalla de cuius sig.ra (…) con conferma delle relative disposizioni; in via subordinata
e nella denegata ipotesi di declaratoria di nullità del testamento olografo per cui è causa e sempre in
riforma della sentenza di primo grado (…)
C)- accogliere, per le motivazioni indicate in atti, la domanda riconvenzionale e, quindi, accertare e
dichiarare il diritto del sig. (…) al risarcimento del danno pari ad Euro 30.000,00 dovuto per
l’occupazione dell’immobile di via (…) da parte della sig.ra (…) e, per l’effetto,
D)- condannare, per le motivazioni indicate in atti, la sig.ra (…) alla corresponsione dell’importo pari
ad Euro 30.000,00, per quanto sopra o per somme maggiori o minori a ritenersi a giustizia: il tutto
oltre interessi maturati e maturandi dovuti come per Legge e rivalutazione monetaria;
E)- CONDANNARE l’appellata, sig.ra (…) al pagamento di spese, diritti e compensi del doppio
grado di giudizio da distrarsi a favore del sottoscritto procuratore antistatario.” (cfr. testualmente
dalle conclusioni della costituzione)
Con distinta comparsa di costituzione e risposta, si è costituita in giudizio (….) chiedendo di:
“1) In via preliminare, si chiede il rigetto della invocata richiesta di sospensiva della provvisoria
esecutività della sentenza impugnata, per mancanza dei presupposti legittimanti l’invocata tutela e
per tutte le ragioni rassegnate nella narrativa del presente atto, che qui si abbiano per integralmente
riportate e trascritte;
2) Nel merito, rigettare l’appello proposto dalla sig.ra (…) per le ragioni indicate nella narrativa del
presente atto, che qui si abbiano per integralmente riportate e trascritte; 4)Per l’effetto, confermare
la sentenza impugnata;
5) In ogni caso, condannare parte appellante, alle spese ed onorari del doppio grado di giudizio in
favore del sottoscritto procuratore anticipatario e dell’avv. (…) per le spese e competenze relative
alla difesa dell’avv.(…)(cfr. dalle conclusioni della costituzione).
L’udienza di precisazione delle conclusioni è stata svolta in modalità cartolare-telematica e sono
state depositate note scritte. All’esito, la causa è stata riservata per la decisione con assegnazione dei
termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle difese finali.
Motivi della decisione
L’appello principale e l’appello incidentale- da trattarsi congiuntamente in quanto vertenti sugli
stessi motivi- sono infondati e vanno respinti.
Per delineare immediatamente il thema decidendum, giova precisare che la sentenza impugnata ha
per oggetto, in via principale, la contestata genuinità di un testamento olografo (e connesse
domande). Le riconvenzionali formulate dai convenuti vertono invece sulla invocata condanna
dell’attrice alla refusione dei danni. In particolare, circa la domanda principale, è stata messa in
discussione l’autenticità del testamento asseritamente redatto da (…) in data 27.04.2013 (deceduta a
… il 15.01.2016) pubblicato in data 10.02.2016, a mezzo notar dott.ssa (…) testamento con cui ella
disponeva dei suoi beni in favore delle figlie e del coniuge “…lasciando a quest’ultimo l’usufrutto
della casa di abitazione, all’attrice la proprietà (integrale o pro quota con il padre) di due beni
immobili e “tutto” il patrimonio residuo alla figlia (…) (cfr. testualmente dalla sentenza impugnata).
L’attrice, odierna appellata, allegava la presunta apocrifia della scheda testamentaria -a sostegno
della quale sono state richiamate le risultanze della C.T.U. espletata nell’ambito del procedimento
di A.T.P. (n.rg. 8168/2016)- per la non riferibilità alla de cuius della firma in calce al testamento,
adduceva quindi la nullità del testamento per incapacità di intendere e di volere di quest’ultima e,
in ogni caso, la lesione della propria quota di legittima.
Ciò chiarito, possono essere scrutinati i motivi di appello.
Con il primo motivo di appello principale e incidentale adesivo, gli appellanti hanno contestato
l’erroneità della decisione impugnata a) nella parte in cui il primo Giudice ha ritenuto di non dover
accogliere l’eccezione di inammissibilità della domanda attorea ritenendola correttamente
introiettata e ritenendo assolto l’onere probatorio; b) nella parte in cui ha fondato la propria decisione
esclusivamente sulla C.T.U. e tanto nonostante le specifiche contestazioni formulate alla stessa.
Hanno precisato che l’errore del Tribunale deriverebbe dal non aver considerato il cumulo di azioni
proposte da parte attrice/appellata con l’introduzione del giudizio di primo grado (di nullità del
testamento ex artt. 606, I comma c.c. e 591, I comma n. 3 c.c., di apertura della successione legittima
e di lesione della quota legittima) che, in realtà, andavano -a loro dire- introdotte in maniera
autonoma, e solo successivamente, all’esito dell’azione di accertamento negativo della provenienza
del testamento olografo dalla de cuius.
La censura non coglie nel segno.
E’ noto che il testamento olografo, così come disciplinato dal codice civile, è un atto di ultima volontà
che richiede, come requisiti essenziali, la redazione, sottoscrizione e datazione di pugno del
testatore.
Ciò in quanto l’autografia delle disposizioni in esso contenute ha la finalità di soddisfare
l’imprescindibile esigenza di avere l’assoluta certezza non solo della loro riferibilità al testatore -già
assicurata dall’autografia- ma anche di assicurare l’inequivocabile paternità e responsabilità del
medesimo che, redigendo il testamento, abbia disposto del suo patrimonio in piena libertà e senza
alcun condizionamento. Di conseguenza, l’accertata apocrifia della sottoscrizione esclude in radice
la riconducibilità dell’atto di ultima volontà al testatore (cfr., ex multis, Cass. Civ. n. 26791/16).
Ciò significa che, in caso di obiezione circa l’autenticità del testamento, colui il quale contesti la verità
e validità dello stesso, necessariamente, e per consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. Cass.
n. 18363/18), deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura e
fornire la relativa prova.
Ricalcando la suddetta disciplina e la giurisprudenza di merito, questa Corte è concorde con il primo
Giudice nel ritenere correttamente espletato l’iter procedurale circa la contestazione della autenticità
del testamento olografo che, lo si ribadisce, deve avvenire per mezzo di una domanda di
accertamento negativo della provenienza della scrittura, con ogni conseguenza di legge anche in
ordine all’onere della prova che grava sulla parte proponente l’impugnazione “…mentre la parte
contro colui l’azione viene esercitata non ha l’onere di dichiarare di volersi avvalere del detto
testamento, non essendo applicabile il procedimento di verificazione delle scritture private di cui
all’art. 216, comma 2, c.p.c.” (cfr. Cass. n. 18363/18).
Nel caso di specie, l’attrice/appellata ha correttamente attivato un procedimento di A.T.P., ai fini
dell’accertamento dell’effettiva provenienza del testamento olografo, per poi espletare il giudizio in
cui veniva richiesta la dichiarazione di nullità del testamento per difetto di forma, mancando
l’autografia della de cuius, (…) Invero, come già ribadito in primo grado e, prima ancora, dalla
Cassazione a Sezioni Unite, l’allegazione della “falsità” del testamento olografo, tenendo conto della
situazione dedotta dall’attrice in primo grado, è prima di tutto qualificabile come domanda di
accertamento negativo della provenienza della scrittura (cfr. Cass. S.U. n. 12307/2015; ribadito da
ultimo da Cass. n. 4538/2021). In tale procedimento, l’onere della prova incombe, secondo i principi
generali dettati in tema di accertamento negativo, sulla parte che ne contesti l’autenticità (Cass. n.
13363/2018).
Dalla documentazione depositata in atti, come anticipato, tale onere può ritenersi assolto, in quanto
è stata data prova sufficiente della non autenticità della firma apposta in calce alla scheda oggetto di
impugnativa mediante la C.T.U. espletata nell’ambito del procedimento di A.T.P., C.T.U. poi
acquisita agli atti del giudizio di merito. Si tratta di un mezzo di prova liberamente utilizzabile dal
giudice che acquisisce lo stesso valore e la stessa efficacia probatoria dei mezzi di prova libera
acquisiti nel corso del giudizio medesimo (“L’acquisizione della relazione di accertamento tecnico
preventivo tra le fonti che il giudice di merito utilizza per l’accertamento dei fatti di causa non deve
necessariamente avvenire a mezzo di un provvedimento formale, bastando anche la sua materiale
acquisizione, ed essendo sufficiente che quel giudice l’abbia poi esaminata traendone elemento per
il proprio convincimento e che la parte che lamenti la irritualità dell’acquisizione e l’impossibilità di
esame delle risultanze dell’indagine sia stata posta in grado di contraddire in merito ad esse.”, cfr.
Cass. civ. n. 6591/2016)
Le controdeduzioni in merito alla C.T.U. di cui si discute, poi, sono state regolarmente effettuate e
depositate e all’esito vi è stata la conferma delle conclusioni a cui è pervenuta la C.T.U. anche dopo
le repliche alle osservazioni tecniche del C.T.P. delle parti già resistenti in A.T.P. (che riferiva di
condividere “l’attribuibilità del testo e della data … alla de cuius”, contestando invece l’accertamento
dell’apocrifia della sottoscrizione, dal C.T.P. ritenuta riferibile alla “medesima mano”, con discrasie
che, pur sussistendo, avrebbero potuto a suo parere essere ricondotte “nell’ambito della variabilità
individuale”, cfr. consulenza di parte in atti).
La Corte ritiene pertanto condivisibile il ragionamento del primo Giudice che ha ritenuto non esservi
“…ragione di discostarsi dalle conclusioni raggiunte dal perito; …” ritenendo inoltre che le
“…osservazioni formulate dalle parti convenute…” non consentivano “…di giungere a esiti
differenti…” (cfr. testualmente dalla sentenza impugnata).
Il primo motivo di appello è pertanto respinto.
Con il secondo motivo di appello principale e incidentale adesivo, l’appellante principale e
l’appellante incidentale hanno censurato la sentenza impugnata perché il primo Giudice avrebbe
errato nel ritenere raggiunta la prova della domanda di accertamento di nullità per difetto di forma
della scheda testamentaria impugnata, mediante l’utilizzo delle conclusioni rassegnate dalla
consulente nell’ambito del procedimento per A.T.P. n. 8168/2016 R.G. In particolare, secondo gli
appellanti, non potrebbe ritenersi assolto l’onere suddetto mediante il richiamo a conclusioni
raggiunte nel procedimento svolto ai sensi dell’art. 696-bis c.p.c. in quanto, tale procedimento
sarebbe finalizzato esclusivamente a far verificare, prima del giudizio, lo stato dei luoghi o la qualità
o, ancora, la condizione delle cose e non sarebbe idoneo alla verifica, come nel caso di specie, della
provenienza del testamento olografo dalla sig.ra (…)
Anche tale censura non coglie nel segno.
È noto, infatti, che, ammessa ed espletata la procedura ex art. 696-bis c.p.c., cui gli odierni appellanti
hanno regolarmente partecipato, la regola sull’utilizzabilità delle risultanze dell’accertamento
coneseguitone è definita dal comma 5 della norma citata che stabilisce che “Se la conciliazione non
riesce, ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti
del successivo giudizio di merito”. Ciò significa che, nel momento in cui viene instaurato il giudizio
di merito e si formulano le richieste di prova, la parte può chiedere l’acquisizione agli atti della
relazione depositata all’esito del giudizio preventivo. Nel caso di specie, ciò è avvenuto con le
memorie ex art. 183, co. 6 c.p.c., nel pieno rispetto della norma ivi citata. Ammessa la produzione
della consulenza tecnica già svolta in sede di A.T.P., essa ha acquisito lo stesso valore e la stessa
efficacia probatoria dei mezzi di prova libera acquisiti nel corso del giudizio di merito.
Si precisa che i risultati delle indagini svolte per mezzo dell’A.T.P. (anche conciliativa), sono soggetti
alla valutazione di ammissibilità e rilevanza e vengono acquisiti e valutati nel giudizio di merito
solo se superano il detto vaglio (art. 698 c.p.c.). Circa, nello specifico, la C.T.U. preventiva, la Corte
rammenta, in termini, che essa può assumere valore di prova (liberamente valutabile) anche nei
confronti di una parte che non abbia partecipato alla fase di istruzione preventiva. Di recente, la S.C.
di Cassazione ha sul punto precisato che “La relazione conclusiva di un accertamento tecnico
preventivo, se ritualmente acquisita al giudizio di cognizione, entra a far parte del materiale
probatorio regolarmente prodotto e sottoposto al contraddittorio anche se una delle parti del
giudizio di merito non ha partecipato al procedimento di istruzione preventiva e, perciò, è
liberamente apprezzabile e utilizzabile, quale elemento di prova idoneo a fondare il convincimento
del giudice nel raffronto con le altre risultanze istruttorie acquisite, nei confronti di tutte le parti del
processo. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza della Corte territoriale che aveva ritenuto
inutilizzabile, nei confronti della compagnia assicuratrice, la consulenza tecnica d’ufficio prodotta
nel giudizio di merito, ma resa nel procedimento di a.t.p. al quale l’assicurazione non era stata
chiamata a partecipare).” (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8496 del 24/03/2023, Rv. 667109 – 01). E che
“…la relazione conclusiva dell’accertamento tecnico preventivo espletato ante causam è un
documento che può essere validamente prodotto nel successivo giudizio di merito ed è liberamente
valutabile dal giudice, che può trame elementi di prova, anche se ad esso partecipino soggetti che
non sono stati presenti nel procedimento di accertamento preventivo. Pur essendo privo di ogni
efficacia di prova privilegiata nel successivo giudizio di merito, esso costituisce comunque un
documento pienamente utilizzabile dal giudice come elemento di prova nei confronti di tutte le parti
del giudizio di merito. Esso entra a far parte del materiale probatorio regolarmente prodotto e
sottoposto al contraddittorio, è quindi liberamente apprezzabile dal giudice ed utilizzabile per
fondarvi il proprio convincimento nei confronti di tutte le parti del giudizio, anche di quelle che non
ebbero a partecipare all’accertamento tecnico (Cass. n. 18567 del 2018). Ciò in quanto nel vigente
ordinamento processuale, improntato al principio del libero convincimento del giudice, la decisione
può fondarsi anche su prove non espressamente previste dal codice di rito, purché idonee a fornire
elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre
risultanze del processo (v. in tal senso Cass. n. 13229 del 2015 ). In particolare, la relazione conclusiva
dell’ATP al quale una delle parti non abbia partecipato, che sia stata ritualmente acquisita al giudizio
di cognizione, può essere valutata dal giudice come prova atipica, e quindi idonea a fondare il
convincimento del giudice nel raffronto con le altre risultanze istruttorie acquisite, adeguatamente
motivato (v. Cass. n. 25162 del 2020, sulla possibilità di valorizzare e porre a base del convincimento
del giudice, come prova atipica, anche la parte della consulenza d’ufficio eccedente i limiti del
mandato, ma non sostanzialmente estranea all’oggetto dell’indagine in funzione della quale è stata
disposta)” (cfr. parte motiva sentenza cit.).
Nel caso di specie, tutte le parti del presente giudizio hanno partecipato all’A.T.P. e la consulenza
tecnica depositata nel procedimento preventivo è stata acquisita al fascicolo processuale del merito,
all’esito di un meditato vaglio di ammissibilità. Il Tribunale ha quindi fondato il proprio
convincimento, fra l’altro, sulle risultanze -scevre da vizi e fondate su premesse metodologiche
ragionevoli- dell’A.T.P. e in base ad esse ha ritenuto assolto l’onere della prova relativo alla domanda
di accertamento di nullità per difetto di forma della scheda testamentaria impugnata, come già
precisato.
Del resto, ogni altra contestazione circa l’attendibilità della consulenza tecnica di ufficio risulta priva
di ragionevole fondamento posto che le firme di comparazione utilizzate nel corso dell’A.T.P. per
l’accertamento della validità della scheda testamentaria impugnata sono state prelevate da
documenti e atti pubblici, mentre la C.T. del P.M., indicata dagli appellanti per confutare le
risultanze dell’A.T.P., risulta avere adoperato per la comparazione documenti non ugualmente
attendibili (semplici fotocopie) e comunque privi di eguale valore probatorio.
A seguito di tanto, dunque, anche questa Corte ritiene condivisibile il ragionamento del Primo
giudice, secondo cui “… è, quindi, possibile ribadire la piena condivisibilità delle risultanze peritali
e pertanto affermare, con idoneo convincimento, il difetto di autografia e la conseguente nullità, ex
art. 602 e 606, co. 1, c.c., del testamento olografo datato 27.04.2013 e pubblicato in data 10.02.2016,
con atto per Notar (…) in C., Rep./Racc: (…), poi registrato in Bari il 29.02.2016, al n. 6111 Serie 1/T …,
poiché non sottoscritto di pugno dalla de cuius (…) (cfr. dalla sentenza impugnata).
Ne consegue il rigetto del secondo motivo di appello.
Con il terzo motivo di appello principale e incidentale gli appellanti hanno censurato la sentenza di
primo grado nella parte in cui il Giudice di prime cure ha rigettato- a loro dire, ingiustamente- le
domande riconvenzionali in quanto le stesse non risulterebbero provate. Essi lamentano che il
Tribunale di Bari, non abbia ammesso le formulate istanze istruttorie (e, fra esse, il giuramento
decisorio) e abbia basato la propria decisione esclusivamente sulla richiamata consulenza
grafologica che non costituisce mezzo imprescindibile per la verifica dell’autenticità della
sottoscrizione dal momento che, secondo gli appellanti, le indagini grafiche con essa svolte
avrebbero un limitato valore probatorio perché prive del carattere di compiutezza e di assoluta
certezza, in quanto fondate su tecniche interpretative diverse e contrastanti.
Anche questa censura non può essere accolta.
Anzitutto la Corte rileva che nel motivo di gravame in scrutinio sono frammiste censure che
investono la omessa istruttoria delle domande riconvenzionali e quelle che riguardano l’eccepita,
incompleta istruttoria della domanda di accertamento della nullità del testamento olografo.
Facendo ordine, si rammenta che la domanda riconvenzionale consente al convenuto di ampliare
l’oggetto originario del giudizio (cd. thema decidendum) mediante l’inserimento di temi ulteriori e
diversi da quelli prospettati dall’attore. Si tratta di uno strumento che gli garantisce non solo la
possibilità di difendersi ma anche di chiedere la condanna dell’attore. La Cassazione, in tema, ha
precisato che “…si ha, invece, domanda riconvenzionale quando il convenuto chieda un
provvedimento positivo, autonomamente attributivo di una determinata utilità, cioè tale che vada
oltre il mero rigetto della domanda avversaria, ampliando, così, la sfera dei poteri decisori come
sopra determinati” (Cass. 21472/2016).
È anche vero, però, che, secondo il consolidato principio espresso dalla Suprema Corte “Ove l’attore
proponga domanda di accertamento negativo del diritto del convenuto e quest’ultimo non si limiti
a chiedere il rigetto dell’avversa pretesa ma formuli, a sua volta, domanda riconvenzionale per
conseguire il riconoscimento del diritto negato da controparte, ambedue le parti hanno l’onere di
provare le rispettive contrapposte pretese e chi non assolve tale onere resta soccombente:” (cfr. fra le
molte Sent. Cass. civile sez. III, 16/06/2005, n. 12963).
A seguito di tanto, non essendo in alcun modo stata fornita prova differente dagli attori in
riconvenzionale ed in applicazione dei principi ivi richiamati (e per quanto si ricava dagli atti di
causa), appare corretto il ragionamento contenuto nell’impugnata sentenza che, ritenendo infondate
le domande riconvenzionali, le ha rigettate.
Quanto alla contestazione sulla autenticità del testamento olografo, la Corte rileva che il giudice di
merito, anche quando abbia disposto una consulenza sull’autografia del testamento, ha la possibilità
di formare il proprio convincimento sulla base di ogni altro elemento di prova obiettivamente
conferente, senza essere vincolato ad alcuna graduatoria (impregiudicati i vincoli derivanti dalle
prove legali) fra le varie fonti utili all’accertamento della verità (cfr. Cass. n. 3009/2002; n. 9631/2004;
n. 9523/2007) e ben potendo egli negare l’ammissione di mezzi di prova ogni qual volta ritenga di
aver raggiunto la certezza sull’esistenza o sull’inesistenza dei fatti posti a fondamento della
domanda e dell’eccezione (cfr. Cass. 154/1973; 2699/1968).
Ed allora, per superare tale conclusione, è necessario che la prova non ammessa ovvero non
esaminata sia funzionale a dimostrare circostanze tali da invalidare, con giudizio di certezza e di
non mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie, quelle che hanno determinato il
convincimento del giudice di merito e che la ratio decidendi sia priva di fondamento (Cass. n.
11457/2007; n. 5377/2011; 5654/2017). Nel caso di specie, il Giudice di prime cure, ha ritenuto
validamente raggiunta la prova a seguito della C.T.U. redatta nell’ambito del procedimento per
A.T.P., rigettando tutte le altre richieste istruttorie perché ritenute irrilevanti e generiche.
Ciò detto e rammentato che “Le istanze istruttorie rigettate dal giudice del merito devono essere
riproposte con la precisazione delle conclusioni in modo specifico e non soltanto con il generico
richiamo agli atti difensivi precedenti, dovendosi, in difetto, ritenere abbandonate e non
riproponibili con l’impugnazione” e che “tale presunzione può, tuttavia, ritenersi superata qualora
emerga una volontà inequivoca di insistere nella richiesta istruttoria in base ad una valutazione
complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione tra la richiesta probatoria
non esplicitamente riproposta con le conclusioni e la linea difensiva adottata nel processo; della
valutazione compiuta il giudice è tenuto a dar conto, sia pure sinteticamente, nella motivazione. (In
applicazione del principio, la S.C. ha cassato la pronuncia della Corte d’appello che si era limitata a
rilevare la mancanza di una specifica riproposizione delle istanze probatorie con le conclusioni,
trascurando di considerare che l’istanza di ammissione delle prove orali era già stata reiterata
dall’istante con la richiesta, successiva al rinvio della causa per la precisazione delle conclusioni, di
revoca o di modifica dei provvedimenti istruttori del giudice di primo grado).” (cfr. Cass. Sez. 6 – 3,
Ordinanza n. 10767 del 04/04/2022, Rv. 664646 – 01), riesaminate le istanze istruttorie contenute nei
gravami, la Corte non può che confermarne l’irrilevanza ai fini della prova dei fatti posti a base gli
appelli. Invero, condivisa l’inammissibilità del giuramento decisorio per le ragioni ampiamente
evidenziate nell’ordinanza reiettiva del primo Giudice, si precisa che le altre istanze istruttorie (le
prove per testi richieste) tendono a provare circostanze inidonee a sovvertire il giudizio fondato
sugli esiti della C.T.U. Con esse, infatti, le parti vogliono dimostrare l’inesistenza di buoni rapporti
tra l’appellata e la de cuius senza introdurre elementi che consentano, ove dimostrati e letti
unitamente agli altri disponibili (elementi di prova), di superare le conclusioni della disposta C.T.U.
e soprattutto senza concentrare il tema di prova sulle domande riconvenzionali. Esse infatti restano
ancorate alla dimostrazione della genuinità del testamento mediante l’articolazione di capitoli di
prova incapaci di superare gli approdi della disposta consulenza tecnica perché vertenti su
circostanze inidonee a sovvertire gli esiti della decisione contestata. In particolare, la Corte, con
specifico riferimento alle prove e ai capitoli articolati con i gravami e fermo quanto detto in punto
di giuramento decisorio, conferma il giudizio di inammissibilità dell’interrogatorio formale deferito
a (…) dal momento che esso tende a provocare la confessione su diritti indisponibili; invero, le
dichiarazioni positive dallo stesso eventualmente rese all’esito della provocazione, sarebbero state
inutilmente date visto che il confitente non può disporre dei diritti sottostanti alla confessione.
Anche l’interrogatorio formale deferito a (…) appare inammissibile per analoghe ragioni. Circa le
altre prove orali articolate dalle parti, i cui capitoli sono stati fondatamente giudicati inammissibili
da parte del Giudice di prime cure, la Corte osserva che nessuno di essi è stata articolato in modo da
dimostrare utilmente la genuinità del testamento, in disparte la già segnalata superfluità per
dimostrare la fondatezza delle proposte riconvenzionali. Anche per tale aspetto, pertanto, il
Giudizio reso in prime cure merita di essere confermato.
Anche questo motivo di appello va quindi respinto.
Sulla base di tali considerazioni, gli appelli, principale e incidentale, sono rigettati e gli appellanti
vanno condannati, in solido, secondo le regole della soccombenza e atteso il comune interesse (arg.
ex art. 97 c.p.c.) al pagamento delle spese del grado in favore del difensore dell’appellata (calcolate
secondo il valore indeterminabile di complessità bassa, nel valore minimo e per le sole fasi, di studio,
introduttiva e decisoria), dichiaratosi antistatario, con applicazione dei parametri di cui al D.M. n.
55 del 2014 e succ. mod.
Circa la posizione del difensore distrattario che, costituitosi per l’appellata (cfr. comparsa del
2.3.2021), si è anche costituito in proprio e con proprio difensore (cfr. note di trattazione del
17.03.2021) chiedendo la condanna degli appellanti al pagamento delle spese del grado in favore del
proprio difensore, oltre che in proprio favore quale difensore dell’appellata, la Corte evidenzia che
per consolidata giurisprudenza di legittimità “il difensore distrattario assume la qualità di parte nel
processo di impugnazione soltanto quando sorga controversia sulla distrazione, e, cioè, quando la
sentenza impugnata non abbia provveduto sulla relativa istanza, o l’abbia respinta, ovvero quando
il gravame investa la pronunzia di distrazione.” (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 615 del 10/03/1970 ed
anche n. (…), massima n (…), massima n. (…) ed altre ivi citate). Nel caso di specie, l’impugnazione
principale e incidentale hanno investito la statuizione sulle spese nella sua globalità, come contenuta
nella sentenza resa in primo grado, e non si sono appuntate solo contro la statuizione distrattiva (sul
punto si rammenta pure che “L’impugnazione contro la pronuncia di distrazione delle spese deve
proporsi nei confronti del difensore e non della parte da lui difesa: ma questo principio non si applica
quando i motivi dell’appello non si appuntano esclusivamente sulla statuizione relativa alla
distrazione, ma si estendono alla condanna alle spese nella sua globalità.”, cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza
n. 89 del 12/01/1972, Rv. 355790 – 01). Di conseguenza, il difensore antistatario, in conformità con
l’orientamento sopra indicato, non poteva assumere, in via autonoma, la qualità di parte del presente
giudizio di impugnazione e la sua distinta domanda di condanna degli appellanti in favore del suo
patrono, a sua volta antistatario, deve essere rigettata. La soccombenza su tale punto di domanda,
implica la condanna del difensore dell’appellata al pagamento delle spese del grado in favore dei
difensori (dichiaratosi antistatari) degli appellanti principale e incidentale. Le spese vengono
liquidate in ragione del titolo che le giustificava e, in particolare, sono parametrate al compenso
statuito in primo grado in favore del difensore soccombente, con applicazione del terzo scaglione,
ai valori minimi e con esclusione della fase istruttoria, come nel dispositivo che segue.
Circa gli esborsi a carico degli appellanti, sussistono i presupposti per il pagamento dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’appello, in osservanza dell’art. 13
co. 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, nel testo inserito dall’art. 1 co. 17, L. n. 228 del 2012.
Del che è dispositivo.
P.Q.M.
la Corte d’Appello di Bari, Prima Sezione Civile, definitivamente pronunciando sull’appello
proposto da (…) e (…) nei confronti di (…) avverso la sentenza del Tribunale di Bari n. …/2020, così
dispone:
– rigetta gli appelli principale e incidentale;
– condanna (…) in solido, al pagamento in favore del difensore di (…) dichiaratosi antistatario, delle
spese del grado che liquida per compensi in complessivi Euro. 3.473,00 oltre rimborso forfettario
nella misura del 15%, I.V.A. e C.A.P. come per legge;
– condanna (…) a rifondere le spese di lite ai difensori antistatari di (…) spese liquidate per compensi
Euro 1.984,00, oltre rimborso forfettario nella misura del 15%, I.V.A. e C.A.P. come per legge;
– dà atto della sussistenza dei presupposti per il pagamento a carico degli appellanti dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pali a quello dovuto per l’appello, in osservanza dell’art. 13
co. 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, nel testo inserito dall’art. 1 co. 17, L. n. 228 del 2012.

Compensi avvocato assistenza stragiudiziale in mediazione, serve specifica richiesta

Corte di Appello di Napoli, sentenza n.2842 del 2023 – Est. Marinaro
Repubblica Italiana
In nome del popolo italiano
La Corte di Appello di Napoli
Sezione Civile Settima
composta dai magistrati: dott. Michele Magliulo – Presidente dott.ssa Lucia Minauro – Consigliere
dott. Marco Marinaro – Giud. aus.rel. ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
nella causa civile n. 57/2014 R.G., di appello contro l’ordinanza del 26 novembre 2013 rep. n.
2514/13 resa all’esito del ricorso ex art. 702-bis c.p.c. depositata dal Tribunale di Santa Maria
Capua Vetere – il 29 novembre 2013, che ha definito il giudizio rubricato al n. 1243/ 2013 R.G. tra
P.F.- [appellante ] e Banca — S.p.A., – [appellata ] Conclusioni All’esito dell’udienza collegiale del
12 gennaio 2023, preso atto che i procuratori della parte appellante avevano precisato le conclusioni
e avevano chiesto di rimettersi la causa in decisione, il Collegio si riservava. Svolgimento del
processo Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. P F esponeva di aver stipulato nel 2000 un contratto,
avente a oggetto un piano finanziario denominato “MY Way” con la Banca—, cui era succeduta la
banca —-, quindi, nel lamentare diversi vizi di legittimità afferenti alla condotta dell’intermediario
finanziario nella fase delle trattative che avevano preceduto il perfezionamento del contratto e vizi
concernenti il regolamento contrattuale, domandava al tribunale la declaratoria di nullità,
annullabilità ovvero di risoluzione del contratto, l’accertamento della responsabilità precontrattuale
della controparte con condanna della banca comparente alla restituzione delle somme versate e al
risarcimento del danno subìto. Con comparsa di difesa depositata il 28 giugno 2013 si costituiva la
banca — la quale, sotto il profilo processuale, eccepiva nullità della domanda e nel merito
domandava il rigetto della pretesa diano perché infondata. Con l’ordinanza impugnata, il Tribunale
dichiarava inammissibile la domanda per nullità della stessa, condannando il ricorrente al
pagamento delle spese processuali. Con il gravame proposto in questa sede notificato a mezzo del
servizio postale il 27 dicembre 2012 (ricevuto il 2 gennaio 2014), P F chiede l’integrare riforma
dell’ordinanza resa in primo grado riproponendo le domande formulate in quella sede. La banca
appellata si costituiva con comparsa depositata il 1° aprile 2014 chiedendo il rigetto dell’appello e la
conseguente conferma del provvedimento impugnato. All’esito dell’udienza collegiale del 12
gennaio 2023 la Corte si riservava la decisione. Motivi della decisione 1.- La parte appellante affida
la sua impugnazione a due motivi di gravame mirando alla riforma integrale della sentenza di primo
grado con l’accoglimento delle domande proposte in prime cure. 2.- Con il primo motivo viene fatta
valere la “insussistenza della nullità del ricorso introduttivo. 2.1.- Nel caso di specie il tribunale ha
motivato la detta nullità sul presupposto che “… il F. … ha omesso di descrivere, sul piano della
causa petendi, il complessivo regolamento contrattuale con il quale era disciplinato il rapporto con
l’ente bancario, con la conseguenza che è impossibile per questo giudice avere cognizione dei fatti
che devono essere accertati ai fini della fondatezza della domanda”. 2.2.- Secondo le deduzioni
dell’appellante, la premessa del ricorso ex art 702-bis c.p.c. era la inesistenza di un contratto scritto
tra P. F. e la banca; in aderenza a ciò, tuttavia, proprio al fine di consentire un controllo
giurisdizionale anche sul merito del regolamento contrattuale era stato allegato al ricorso la copia di
un contratto “My Way” corrispondente al “tipo” dei piani finanziari collocati dai promotori della
banca. Sempre con l’appello si mette in evidenza che il ricorso contiene poi una puntuale
descrizione del regolamento contrattuale: al punto c) del ricorso introduttivo si inizia con una
descrizione “fisica” del contratto che parte dalla descrizione dell’involto fino alla descrizione dei
vari allegati; segue, poi, a pagina cinque dello stesso ricorso introduttivo, una sommaria descrizione
dell’operazione finanziaria effettiva individuandone le componenti essenziali dedicando poi, nei
punti successivi del ricorso, in corrispondenza dell’indicazione delle varie ragioni di impugnazione,
una più specifica descrizione dei vari aspetti dell’operazione contrattuale. Si aggiunga a tutto ciò,
inoltre, l’allegazione anche di un parere pro veritate contenente una specifica descrizione del
regolamento contrattuale. 2.3.- Inoltre, l’appellante deduce come la banca nella comparsa non
contesti sul piano fattuale il contenuto del ricorso introduttivo confermando l’esistenza del rapporto
contrattuale con P F nei termini indicati dallo stesso né contesta il contenuto dello schema
contrattuale allegato al ricorso introduttivo e nello stesso descritto. 2.4.- A tali osservazioni si
aggiunge da parte del F che sulla base dell’eccezione di nullità sollevata per mancanza di
sottoscrizione del contratto il giudice di primo grado non avrebbe dovuto entrare nel merito del
“complessivo regolamento contrattuale con il quale era disciplinato il rapporto con l’ente bancario”
dovendo solo verificare che, di fatto, tale rapporto contrattuale esistesse e se fossero stati rispettati
gli oneri formali richiesti dalla legge. La causa petendi, relativamente a questa prima eccezione di
nullità formale e che assorbe tutte le altre, riguardava il solo vizio di forma del contratto per il cui
accertamento si doveva prescindere dal contenuto complessivo del regolamento contrattuale. E sul
punto, l’esistenza del rapporto contrattuale è confermato dalla stessa banca che non contesta il
contenuto dell’atto introduttivo: anzi nella stessa comparsa si conferma che tra i due soggetti
sarebbe intervenuto un rapporto contrattuale della stessa natura indicata nel ricorso introduttivo. La
banca, tuttavia, non allega copia sottoscritta del detto contratto per cui, pur affermando che esso
sarebbe stato regolarmente sottoscritto, nulla prova sul punto. Il giudice di primo grado, pertanto,
avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto dell’esistenza del rapporto contrattuale (come confermato
dallo stesso conven uto) e dichiararne la nullità per vizio di forma. 2.5.- Secondo le argomentazioni
del gravame, dovendosi l’accertamento fermare a tale vizio di forma, sarebbe rimasta assorbita ogni
altra eccezione in merito al contenuto del detto regolamento contrattuale per cui appare del tutto
erronea la declaratoria di nullità del ricorso per non aver adeguatamente descritto quest’ultimo
(salvo, comunque, quanto detto sopra sulla circostanza che comunque detto regolamento
contrattuale è stato descritto anche allegando uno schema di contratto anche questo non contestato
dalla banca). Del resto a voler ragionare diversamente si cadrebbe in un assurdo logico: ogni
qualvolta si contesta il vizio di un contratto bancario per mancanza di sottoscrizione, per definizione
la parte non è in possesso dello stesso e, quindi, non può allegarlo al giudizio; affermare che l’atto
introduttivo sarebbe nullo per non aver descritto idoneamente il regolarmente contrattuale significa
di fatto annullare il diritto di difesa della parte. Ciò soprattutto perché, si ripete, oggetto di giudizio,
e, quindi della domanda, è il vizio di forma e non il vizio del regolamento contrattuale. 2.6.- Con
l’appello si osserva poi con riguardo alla difesa assunta dalla banca in primo grado che la stessa
avrebbe sollevato per lo più una eccezione più di stile con riguardo alla nullità del ricorso
introduttivo facendo leva su motivi diversi da quelli indicati poi dal giudice, ossia perché non
veniva indicata la data ed il luogo esatta di sottoscrizione del contratto, nonché il nome del
promotore finanziario che aveva presentato il prodotto nonché il numero e l’importo delle rate
pagate e se il piano fosse ancora in corso. Anche rispetto a tali eccezioni, pur a voler prescindere
dalla contraddittorietà tra l’affermata genericità del ricorso e poi la puntuale difesa posta in essere,
l’appellante osserva che non si vede come possa ledere il diritto alla difesa la mancata indicazione
del nome del promotore finanziario ovvero come si possa indicare il luogo e la data di esatta
sottoscrizione laddove vi è l’affermazione del ricorrente di non averlo mai sottoscritto; ad ogni
modo anche tale profilo non sembra incidere sul piano della nullità del ricorso introduttivo visto che
il rapporto contrattuale viene specificamente individuato in un Piano denominato “My Way” e
riconosciuto dalla stessa controparte. 2.7.- Quanto al profilo inerente alle rate pagate con
l’impugnazione si deduce che per orientamento costante della Suprema Corte non sussiste nullità
della citazione per omessa quantificazione della pretesa qualora l’attore abbia indicato i titoli da cui
la stessa trae fondamento consentendo così alla convenuta di formulare le proprie difese (Cass.
7074/2005), nel caso di specie parte ricorrente ha chiesto la condanna alla restituzione di tutto
quanto pagato alla banca in virtù di detto contratto dai singoli pagamenti al saldo in tal modo
individuando precisamente il titolo da cui trae fondamento la richiesta. In subordine, qualora pure si
volesse ritenere fondata tale eccezione, essa riguarderebbe al più solo una parte della domanda ossia
quella relativa al quantum ed in ogni caso non giustifica un provvedimento di nullità dell’intera
domanda. 3.- Con il secondo motivo, l’appellante lamenta la “violazione dell’art. 702-bis in ordine
alla applicabilità del 164 c.p.c.”. Si ribadisce così il vizio della ordinanza di primo grado nella parte
in cui il tribunale sostiene a pagina 3 dell’ordinanza che “Si deve escludere, peraltro, l’applicabilità
dell’art 164 co. 4 c.p.c. in forza del quale, in caso di nullità della domanda, il giudice fissa all’attore
un termine perentorio per rinnovare la citazione o, se il convenuto si è costituito, per integrare la
domanda”. Il mancato espresso richiamo dell’art. 164 c.p.c. da parte dell’art. 702- bis c.p.c. sarebbe
la conseguenza di una svista del legislatore dovendosi ritenere applicabile sulla base una lettura
sistematica delle norme in questione. 4.- Ad avviso del Collegio i primi due motivi sono fondati
rilevato che nel ricorso introduttivo viene precisamente indicato il rapporto contrattuale impugnato,
la banca prende posizione sullo stesso, viene specificamente descritto il relativo regolamento
contrattuale, anche a mezzo allegati, su cui la stessa banca prende posizione. 4.1.- La S.C. ha
chiarito infatti che la declaratoria di nullità della citazione – nullità che si produce, ex art. 164,
comma 4, c.p.c., solo quando il petitum sia stato del tutto omesso o sia assolutamente incerto – posta
una valutazione da compiersi caso per caso, nel rispetto di alcuni criteri di ordine generale,
occorrendo, da un canto, tener conto che l’identificazione dell’oggetto della domanda va operata
avendo riguardo all’insieme delle indicazioni contenute nell’atto di citazione e dei documenti ad
esso allegati, dall’altro, che l’oggetto deve risultare “assolutamente” incerto. In particolare, quest’
ultimo elemento deve essere vagliato in coerenza con la ragione ispiratrice della norma che impone
all’attore di specificare sin dall’atto introduttivo, a pena di nullità, l’oggetto della sua domanda,
ragion che, principalmente, risiede nell’esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle
condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese (prima ancora che di offrire al giudice
l’immediata contezza del thema decidend um), con la conseguenza che non potrà prescindersi, nel
valutare il grado di incertezza della domanda, dalla natura del relativo oggetto e dalla relazione in
cui, con esso, si trovi eventualmente la controparte (se tale, cioè, da consentire, comunq ue,
un’agevole individ uazione di quanto l’attore richiede e delle ragioni per cui lo fa, o se, viceversa,
tale da rendere effettivamente difficile, in difetto di maggiori specificazioni, l’approntamento di una
precisa linea di difesa) (Cass. civ., Sez. I, 12/11/ 2003, n. 17023). 4.2.- D’altro canto, la Cassazione
ha ritenuto applicabile l’art. 164 c.p.c. al procedimento disciplinato dagli artt. 702-bis e ss. c.p.c. (in
caso di inosservanza dei requisiti afferenti tanto all’ editio actionis che alla vacatio in ius, è
applicabile, allorché il convenuto non si costituisca sanando il vizio rilevato, la regola della
rinnovazione dell’atto introduttivo nullo ai sensi dell’art. 164 c.p.c. con l’assegnazione, da parte del
giudice, di un termine perentorio per provvedere ad una nuova notificazione; Cass. civ., Sez. I,
Sentenza, 06/03/2017, n. 5517) 4.3.- Alla ritenuta fondatezza dei primi due motivi di impugnazione,
consegue l’esame delle domande già originariamente formulate dal F e volte a censurare la
stipulazione intercorsa tra le parti. 5.- In primo luogo, con l’appello si ripropone l’impugnazione del
contratto avente ad oggetto un piano finanziario denominato “My Way” con Banca —- nell’anno
2000 (rapporto in cui è succeduta per fusione la Banca —- S.p.A.). 5.1.- Secondo la tesi del F, detto
contratto che gli era stato presentato da un promotore finanziario come un piano pensionistico
integrativo a profilo di rischio molto basso e con possibilità di disinvestire in qualunque momento
senza alcun onere, non gli veniva consegnato in copia considerato che non ricorda di averlo mai
sottoscritto. Quindi in primo luogo viene eccepito il vizio del contratto per difetto di forma ovvero
per violazione delle norme di settore poste dal T.U.F. e dai regolamenti Consob in ordine alle
informative sulla propensione al rischio, sugli obiettivi di investimento ecc. 5.2.- Sul punto la banca
appellata, contesta la ricostruzione della parte quanto alla informativa e alla sottoscrizione del
contratto, precisando altresì che “nel contratto il ricorrente ha dichiarato espressamente di aver
ricevuto copia dello stesso e di tutta la documentazione inerente al prodotto sottoscritto; tale
circostanza di fatto rende palesemente infondata ogni avversa domanda in merito alla nullità del
contratto per vizio di forma”. Nonostante la difesa prodotta nel merito delle impugnazioni proposte,
la banca non ha prodotto alcun documento. Per cui sotto ilprofilo probatorio non vi è agli atti alcun
documento che possa comprovare la sottoscrizione del piano finanziario “My Way” da parte del F
pur risultando pacifica la stipulazione dello stesso nell’anno 2000. 6.- In base all’art. 23, comma, 1,
D.lgs. n. 58/1998 (c.d. TU F) nella versione originaria e vigente ratione temporis (dal 1° luglio 1998
al 24 gennaio 2007) stabilisce espressamente che i contratti relativi alla prestazione dei servizi
d’investimento sono redatti per iscritto e che, nei casi d’inosservanza della forma prescritta,
ilcontratto è nullo. È dunque fuori di dubbio che tali contratti debbano essere conclusi per iscritto e
che la mancanza di forma determini nullità, con i conseguenti obblighi restitutori. La domanda deve
dunque ritenersi fondata restando poi assorbita ogni ulteriore censura volta alla declaratoria di
nullità, annullabilità ovvero di risoluzione del contratto, e all’accertamento della responsabilità
precontrattuale. 7.- Alla dichiarata nullità del contratto consegue l’esame della domanda restitutoria
di quanto versato in esecuzione dello stesso che risulta formulata in maniera generica. Invero, il F
chiede “in ogni caso condannare la convenuta società alla restituzione di tutto quanto pagato
dall’attore anche a titolo di spese in esecuzione del contratto oltre alla rivalutazione ed agli interessi
legali dalla data dei singoli pagamenti al saldo”. Tuttavia, preventivamente chiede che con la
riforma dell’ordinanza di primo grado qui impugnata (con riguardo alla parte in cui non ritiene
applicabile l’art 164 c.p.c.) le sia concesso termine per l’integrazione della domanda. 7.1.- Ad avviso
del Collegio, la domanda restitutoria non è nulla e, quindi, il giudice di primo grado non avrebbe
dovuto applicare l’art. 164 c.p.c. Invero, la domanda è stata puntualmente proposta in prime cure e
poi correttamente riproposta in grado di appello. Tuttavia, la domanda restitutoria è stata formulata
in maniera generica e senza alcun supporto documentale relativo ai versamenti effettuati di cui si
chiede la restituzione. Tantomeno, alcuna richiesta di ammissione di mezzi istruttoria è stata
effettuata (e nemmeno risulta proposta – ad esempio – l’istanza ex art. 210 c.p.c.). 7.2.- La
Cassazione ha chiarito che una volta accertata la nullità del contratto d’investimento, il venir meno
della causa giustificativa delle attribuzioni patrimoniali comporta l’applicazione della disciplina
dell’indebito oggettivo, di cui agli artt. 2033 ss. e.e., con il conseguente sorgere dell’obbligo
restitutorio reciproco, subordinato alla domanda di parte ed all’assolvimento degli oneri di
allegazione e di prova, avente ad oggetto, da un lato, le somme versate dal cliente alla banca per
eseguire l’operazione, e, dall’altro lato, i titoli consegnati dalla banca al cliente e gli altri importi
ricevuti a titolo di frutti civili o di corrispettivo per la rivendita a terzi, a norma dell’art. 2038 c. c.,
con conseguente applicazione della compensazione fra i reciproci debiti sino alla loro concorrenza
(Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 16/03/ 2018, n. 6664). In tal senso, è dunque la pronuncia
dichiarativa o estintiva del giudice, avente portata estintiva del contratto, l’evenienza che priva di
causa giustificativa le reciproche obbligazioni dei contraenti e dà fondamento alla domanda del
“solvens” di restituzione della prestazione rimasta senza causa (Cass. civ., Sez. II, Ordinanza,
06/06/2017, n. 14013). 7.3.- Pertanto, nelle azioni di ripetizione è onere dell’attore indicare i
pagamenti ripetibili ed il difetto della loro prova comporta una violazione dell’onere di allegazione e
di prova dei fatti costitutivi della domanda, cui deve conseguire il rigetto della stessa per
infondatezza. La domanda di condanna alla restituzione – da ricond urre al paradigma di cui all’art.
2033 e.e. – presuppone l’esistenza di un pagamento; pertanto colui che agisce per la ripetizione di
somme indebitamente pagate (in forza del contratto nullo) ha l’onere di allegare e provare i fatti
costitutivi della domanda rappresentati dall’attribuzione patrimoniale di cui chiede la restituzione e
non solo dall’inesistenza di un’idonea causa debendi, poiché ripetibile è la somma pagata e non il
debito di cui si predica l’illegittimità. In tal senso, la domanda restitutoria non può essere accolta e
ogni ulteriore domanda resta assorbita dall’accoglimento della domanda relativa alla nullità del
contratto per difetto di forma. 8.- Infine, l’appellante deduce di aver esperito il tentativo di
mediazione previsto come condizione di procedibilità dal D.Lgs. 28/2010, “il quale non ha avuto
esito per mancata adesione della Banca senza alcun giustificato motivo”. Dal tale rilievo fan
conseguire la richiesta di applicazione delle conseguenze di cui all’art. 8, comma 5, D.Lgs. 28/2010
“nonché, ai sensi dell’art 13 dello stesso decreto la ripetibilità delle indennità corrisposte dal
ricorrente per avviare il detto tentativo di mediazione”. Nelle conclusioni chiede poi di “condannare
in ogni caso la convenuta alla ripetizione delle spese sostenute dal ricorrente per avviare il tentativo
di mediazione come da fatture allegate”. 8.1.- Dall’esame della produzione di primo grado del F,
emerge che effettivamente lo stesso il 27 settembre 2012 ha depositato presso l’organismo di
mediazione prescelto (A.D.R. —, iscritto al n. —del Registro ministeriale) l’istanza di mediazione
in relazione alla impugnazione del piano finanziario “My Way” nei confronti della Banca — S.p.A.
e che quest’ultima ha aderito partecipando all’incontro di mediazione svoltosi poi il 22 ottobre 2012
dinanzi al mediatore designato (proced ura n. 62/2012). All’incontro ha partecipato per la parte
istante l’avv. —– e per la parte invitata il dott. —- (“giusta delega in atti”) come si evince dal
relativo verbale redatto dal mediatore e non contestato dalle parti. Risulta altresì non contestata
dalla banca anche la fattura n. 3 del 16 gennaio 2013 emessa dall’organismo di mediazione nome di
P F per l’importo di euro 667,00 che deve ritenersi versata dal medesimo a saldo della procedura
svolta nel regime del D.lgs. 28/2010 (prima della riforma attuata con il D.L. 69/2013). 8.2.- In
questa sede non è possibile esaminare e, se del caso, censurare le condotte tenute in sede di
mediazione in primo grado se le stesse non costituiscono motivo di impugnazione sella sentenza (o
dell’ordinanza) gravata, fermo restando che la banca risulta aver partecipato all’incontro di
mediazione. 8.3.- Pertanto, occorre delibare soltanto in ordine alla richiesta dell’appellante per la
condanna dell’appellata alla refusione delle spese versate per lo svolgimento della procedura di
mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale (trattandosi si un contratto
finanziario ex art. 5, comma 1, D.lgs. 28/ 2010, prima che fosse dichiarato costituzionalmente
illegittimo dalla sentenza n. 272/2012 della Consulta). 8.4.- Ad avviso del Collegio, in applicazione
del principio di causalità, le spese connesse alla mediazione devono essere poste a carico della parte
soccombente rientrando nel novero delle spese processuali di cui all’ art. 91 c.p.c. Al riguardo è
stato chiarito che il rapporto tra la mediazione e il processo civile non si limita, infatti, ad una
relazione “cronologica”, necessaria ovvero facoltativa, implicando anche un necessario
coordinamento tra l’ attività svolta avanti al mediatore e quella dinanzi al giudice, sotto una pluralità
di profili; pertanto, la condotta della parte nel corso della mediazione non può non avere ricadute
nel successivo processo in termini di spese di lite, nel senso che la parte soccombente può essere
condannata a rimborsare al vincitore anche le spese da questo sostenute per l’esperimento del
tentativo obbligatorio, in quanto qualificabili come esborsi ai sensi e per gli effetti dell’ art. 91 c.p.c.
(Tribunale di Trieste, sentenza 11/03/2021). 8.5.- Nel caso in esame, trattandosi di controversia
soggetta a mediazione obbligatoria, dove peraltro è necessaria l’assistenza di un legale, gli istanti
hanno dovuto in effetti sostenere i costi per la procedura di mediazione che si è conclusa
negativamente. Deve essere, quindi, liquidata in favore dell’odierno appellante quale spesa
sostenuta per la mediazione l’importo complessivo di ero 667,00. In assenza di notula e di specifica
richiesta non si ritiene invece di poter liquidare alcun compenso professionale costituendo attività di
assistenza stragiudiziale. 9.- Pertanto, all’esito dell’esame dei motivi proposti con il gravame, la
domanda proposta da P F merita di essere accolta nei limiti di cui in motivazione. 9.1. – Con la
riforma (anche eventualmente solo parziale) della sentenza impugnata la Corte è tenuta a procedere
(d’ufficio), quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle
spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite
poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un
criterio unitario e globale, sicché violerebbe il principio di cui all’art. 91 c.p.c., il giudice di merito
che ritenesse la parte soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado
(Cass. 28 settembre 2015, n. 19122; Cass. n. 6259/2014; in senso conforme: Cass. n. 23226/2013,
Cass. n. 18837/2010, Cass. n. 15483/ 2008). 9.2. – Le spese seguono la soccombenza ex art. 91,
comma 1, c.p.c. 9.3. – Sulla base dei princìpi sopra enunciati, la liquidazione delle spese di entrambi
i gradi del giudizio è dovuta secondo i parametri previsti dal D.M. 10 marzo 2014 n. 55 come
modificati dal D.M. 13 agosto 2022, n. 147 (in vigore dal 23 ottobre 2022) secondo quanto chiarito
di recente dalle Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Unite, ord., 14/11/2022, n. 33482) in base allo
scaglione di valore individuato secondo il criterio del decisum (Cass. civ. Sez. Unite Sent., 11/09/
2007, n. 19014); liquidazione che deve tenere conto in particolare dei criteri di cui all’art. 4, comma
1, del decreto citato e specialmente delle caratteristiche e del pregio dell’attività prestata, oltre che
dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate.
9.4.- Invero, i parametri introdotti dal D.M. n. 55 del 2014, cui devono essere commisurati i
compensi dei professionisti, trovano applicazione ogni qual volta la liquidazione giudiziale
intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto, ancorché la
prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta nella vigenza della pregressa
regolamentazione, purché a tale data la prestazione professionale non sia stata ancora completata.
Ne consegue che, qualora il giudizio di primo grado si sia concluso con sentenza prima della entrata
in vigore del detto D.M., non operano i nuovi parametri di liquidazione, dovendo le prestazioni
professionali ritenersi esaurite con la sentenza, sia pure limitatamente a quel grado; nondimeno, in
caso di riforma della decisione, il giudice dell’impugnazione, investito ai sensi dell’art. 336 c.p.c.
anche della liquidazione delle spese del grado precedente, deve applicare la disciplina vigente al
momento della sentenza d’appello, atteso che l’accezione omnicomprensiva di “compenso” evoca la
nozione di un corrispettivo unitario per l’opera prestata nella sua interezza (Cass. 13/07/ 2021, n.
19989). 9.5. – Si prende atto della dichiarazione ex art. 93, comma 1, c.p.c. resa con riguardo ad
entrambi i gradi del giudizio nella comparsa conclusionale del 18 gennaio 2023 dall’avv. —,
procuratore e difensore di—–.
P. Q. M.
La Corte di Appello di Napoli, definitivamente pron unciando sull’appello proposto da P F (iscritto
al n. 57/ 2014 R.G.) contro l’ordinanza del 26 novembre 2013 rep. n. 2514/13 resa all’esito del
ricorso ex art. 702-bis c.p.c. depositata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere – il 29 novembre
2013, nei confronti della Banca — S.p.A., con atto notificato a mezzo del servizio postale il 27
dicembre 2012 (ricevuto il 2 gennaio 2014), così provvede: a) accoglie l’appello e per l’effetto – in
riforma della sentenza impugnata – accerta e dichiara la nullità del contratto stipulato tra le parti
nell’anno 2000 contenente ilpiano denominato “My Way”; b) condanna la Banca ——S.p.A., in
persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento delle spese del giudizio di primo grado
in favore di P F, con attribuzione all’avv. —-, che liquida in € 2.999,13 (di cui € 124,13 per spese
esenti, € 2.500,00 per compenso ed € 375,00 per spese generali al 15%), oltre agli accessori fiscali e
previdenziali come per legge; c) condanna la Banca —- S.p.A., in persona del legale rappresentante
pro tempore, al pagamento delle spese del giudizio di secondo grado in favore di P F, con
attribuzione all’avv.—-e, che liquida in € 3.797,13 (di cui € 347,13 per spese esenti, € 3.000,00 per
compenso ed € 450,00 per spese generali al 15%), oltre agli accessori fiscali e previdenziali come
per legge; d) condanna, infine, la Banca —-, in persona del legale rappresentante pro tempore, al
pagamento dell’indennità di mediazione in favore di P F, con attribuzione all’aw. Rosario Stingone,
che liquida in € 667,00 a titolo di spese esenti.

Maltrattamenti in famiglia. I fatti nuovi acclarati in dibattimento devono sempre essere contestati all’imputato

Cass. Pen., Sez. II, Sent., 04 ottobre 2023, n. 40368; Pres. Agostinacchio, Rel. Pellegrino
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 07/12/2022, la Corte di appello di Bari, in parziale riforma della pronuncia
resa in primo grado dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari in data 18/01/2022
all’esito di giudizio abbreviato, appellata dall’imputato A.A., ritenute le già concesse circostanze
attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante contestata, rideterminava la pena in anni due, mesi
dieci e giorni venti di reclusione ed Euro 1.666,67 di multa in relazione ai reati di maltrattamenti in
famiglia ed estorsione aggravata, con revoca dell’interdizione dai pubblici uffici e conferma nel resto
della sentenza di primo grado.
2. Avverso la predetta sentenza d’appello, nell’interesse di A.A., è stato proposto ricorso per
cassazione, per i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex
art. 173 disp. att. c.p.p..
Primo motivo: mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla
sussistenza del requisito dell’abitualità della condotta, necessario per la configurazione del delitto di
cui all’art. 572 c.p. I giudici di merito, al fine di ritenere integrato il presupposto dell’abitualità della
condotta hanno valorizzato i comportamenti assunti dal prevenuto nel 2019, arco temporale non
contestato nel capo d’imputazione che, invece, focalizza il tempus commissi delicti dal gennaio 2021
al 24/06/2021. In tal modo risulta violato il diritto di difesa dell’imputato che non è stato messo nelle
condizioni di difendersi da siffatte risalenti condotte in quanto mai contestate. La querelante ha
descritto solo due episodi, in nessuno dei quali vi è stata oggettiva e concreta minaccia o violenza tali
da ledere o compromettere l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona. L’assenza di una
vera abitualità ed assiduità della condotta e l’esistenza di soli due episodi esclude la sussistenza
dell’elemento oggettivo.
Secondo motivo: mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla
sussistenza dell’elemento della minaccia e della violenza necessario per la configurazione del delitto
di cui all’art. 629 c.p.. Non vi è prova della condotta minacciosa e violenta assunta dal prevenuto in
occasione delle asserite richieste di danaro formulate dal A.A. nei confronti della madre.
L’aggressione verbale non attesta la commissione di un atto violento o comunque minaccioso, in
assenza di una precisa descrizione delle condotte agenti.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato con riferimento ad entrambi i motivi proposti e il suo accoglimento impone
l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Bari per
nuovo giudizio.
2. In relazione alla contestazione di cui all’art. 572 c.p., evidenzia il Collegio come la consolidata
giurisprudenza di legittimità, cui si intende dare ulteriore corso, abbia ripetutamente affermato che il
reato di maltrattamenti sia necessariamente abituale, caratterizzandosi per la sussistenza di una serie
di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali, isolatamente considerati potrebbero anche
essere non punibili (ad esempio, atti d’infedeltà, di umiliazione generica, ecc.) ovvero non perseguibili
(ad esempio, ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), ma acquistano rilevanza
penale per effetto della loro reiterazione nel tempo; ne consegue che il reato de quo si perfeziona
allorchè si realizza un minimo di tali condotte collegate da un nesso di abitualità e può formare
oggetto anche di continuazione ex art. 81 cpv. c.p., come nel caso in cui la serie reiterativa sia
interrotta da una sentenza di condanna ovvero da un notevole intervallo di tempo tra una serie di
episodi e l’altra (cfr., la risalente ed ancora attuale, Sez. 6, n. 4636 del 28/02/1995, Cassani, Rv.
201148; v., più recentemente, Sez. 6, n. 51212 del 12/11/2014, F., in motivazione; Sez. 6, n. 15146
del 19/03/2014, D’A., Rv. 259677; Sez. 6, n. 13422 del 10/03/2016, 0, Rv. 267270).
2.1. Trattandosi di reato abituale (e non permanente), ne consegue l’inapplicabilità, nella fattispecie,
del principio secondo cui l’intrinseca idoneità del reato permanente a durare nel tempo, anche dopo
l’avverarsi dei suoi elementi costitutivi, comporta che l’originaria contestazione cd. aperta (ossia senza
indicazione della data di cessazione della permanenza) si estenda all’intero sviluppo della fattispecie
criminosa, con la conseguenza che l’imputato è chiamato a difendersi, oltre alla parte di contestazione
già realizzata anche di quella successiva emersa all’esito dell’istruttoria dibattimentale.
Al contrario, proprio perchè il reato di cui all’art. 572 c.p. è abituale, i fatti nuovi acclarati in
dibattimento devono sempre essere contestati all’imputato, sia che servano a perfezionare o ad
integrare la fattispecie criminosa enunciata nel capo d’imputazione, sia – a maggior ragione – che
costituiscano una serie autonoma unificabile alla precedente per vincolo di continuazione (Sez. 6, n.
4636/1995, cit., Rv. 201149; nello stesso senso, Sez. 6, n. 9235 del 14/02/2001, Vitiello, Rv. 218514).
In applicazione del principio, ai fini della perseguibilità, pari contestazione formale devono ricevere
i fatti acclarati in dibattimento di cui si è accertata la commissione in data antecedente a quella della
contestazione.
2.2. Fermo quanto precede, evidenzia il Collegio come, nella fattispecie, al A.A. sia stata contestata
la condotta maltrattante ai danni della madre (B.B.) e della sorella (C.C.) commessa nel periodo
compreso tra (Omissis). E’ stato accertato come, in relazione al periodo in contestazione, gli eventi
maltrattanti sarebbero stati commessi solo nei mesi di (Omissis), in quanto in epoca successiva,
l’imputato si sarebbe astenuto da qualsivoglia condotta illecita.
La Corte territoriale ha censurato (o, quantomeno, ritenuto opinabile) la decisione dell’Accusa di
limitare la condotta maltrattante solo nel primo semestre del 2021 ed ha ritenuto che la circostanza
“non impedisce di valutare nella sua completezza la condotta antecedente tenuta dal A.A. (in quanto)
gli episodi a partire dall’anno 2019… non possono essere ritenuti avulsi dal contesto, cioè privi di
valore specifico a valutare la condotta nella sua interezza. Infatti dagli stessi si trae in tutta evidenza
che le condotte maltrattanti dei primi mesi del 2021, hanno solo portato all’esasperazione la povera
B.B., al punto da non poter più fare a meno di denunciare il proprio figlio. E’ proprio la decisione di
sporgere denuncia che in gran parte neutralizza le parole con le quali la B.B. ha cercato ancora una
volta di edulcorare i comportamenti del figlio, sostenendo che nell’ultimo periodo si stava
comportando bene. Diversamente da quanto opinato dalla difesa, inoltre, quanto alla “neutralità” degli
episodi inerenti il periodo (solo formalmente) in contestazione (cioè l’anno 2021) narrati dalla B.B.,
vi è peraltro prova di ulteriori condotte violente e minacciose anche nel periodo in contestazione
effettiva…”.
2.3. Ritiene il Collegio che l’individuazione da parte dei giudici di merito del presupposto
dell’abitualità della condotta in taluni comportamenti vessatori tenuti dall’imputato nell’anno 2019, in
presenza di contestazione chiusa escludente il periodo antecedente al primo semestre del 2021 ed in
mancanza altresì di modifica dell’imputazione, non consente di ritenere utilizzabili sotto il profilo
probatorio tali condotte a ragione di un’evidente violazione del diritto di difesa non solo attuale
(l’imputato non è stato messo in condizione di difendersi da tali ulteriori accuse) ma anche futuro
(l’imputato potrebbe subire condanna per fatti che, formalmente estranei al perimetro di questo
procedimento, potrebbero tuttavia essergli contestati con una nuova futura incolpazione nei confronti
della quale non potrebbe far valere il presente giudicato).
Invero, secondo la contestazione, il A.A. avrebbe maltrattato la madre e la sorella conviventi “…
insultando costantemente la prima con epiteti quali troia e puttana, estorcendole continuamente
piccole somme di denaro (20/25 Euro al giorno) che usava per drogarsi, aggredendola fisicamente in
caso di rifiuto a consegnargli i soldi, cagionandole lesioni che la donna era costretta a celare con abiti
e trucco, denigrandola con frasi quali “non sei buona a fare nulla, non sai nemmeno cucinare”
costringendola a comprargli una macchina che poi lui vendeva falsificando la firma della genitrice,
sottomettendo sia la madre che la sorella e costringendole ad un regime di vita infernale, aggredendo
fisicamente e strattonando la sorella ogniqualvolta tentava di difendere la madre, od anche colpendola
con schiaffi per futili motivi, offendendo la sorella con farsi quali “sei una puttana, sei una troia”,
ovvero intimandole di non intromettersi in difesa della madre, ed inoltre perchè, con le violenze sopra
descritte e mediante la minaccia costante di aggressione qualora le sue richieste economiche non
fossero state soddisfatte… costringeva la madre convivente a consegnarli quotidianamente 20/25
Euro, procurandosi quindi il corrispondente ingiusto profitto con pari danno per la menzionata parte
lesa. Con l’aggravante di aver commesso il fatto in casa, in uno dei luoghi di cui all’art. 624-bis c.p.;
con la recidiva reiterata infraquinquennale”.
2.3.1. In realtà, il processo avrebbe consentito di far emergere, nel periodo gennaio-febbraio 2021 –
unico, come detto, a far registrare episodi asseritamente maltrattanti con riferimento all’ambito
temporale oggetto della contestazione formale ed all’interno del quale vanno riscontrate le contestate
condotte di reato – solo due fatti astrattamente idonei a sostegno dell’Accusa: il primo, relativo
all’acquisto da parte dell’imputato di un cane marca pitbull (poi allontanato da casa dopo una
settimana su richiesta della madre); il secondo, relativo alla rivendita di un’autovettura acquistata in
comproprietà con la madre ad opera del solo imputato, responsabile di aver falsificato la firma di
quest’ultima.
Altre pretese condotte violente e/o vessatorie del A.A., quali riferite rispettivamente dalla sorella e
dal fratello della madre (B.B. e D.D.) non è stato chiarito in quale contesto temporale ebbero a
verificarsi, ossia se nel periodo di contestazione formale ovvero in quello (indefinito) antecedente ad
esso.
2.3.2. Orbene, potendosi escludere che le due condotte certamente verificatesi nel 2021 (acquisto del
cane e rivendita dell’autovettura), poste in essere in danno della sola madre, possano costituire prova
della condotta di maltrattamenti, non essendo state precisate quali ulteriori condotte denigratorie di
violenza e/o minaccia le avrebbero accompagnate, dovrà essere accertato da parte del giudice del
rinvio se altre accertate e non sporadiche condotte maltrattanti che siano manifestazione di un
atteggiamento di contingente aggressività (cfr., Sez. 6, n. 6126 del 09/10/2018, dep. 2019, C., Rv.
275033), astrattamente idonee ad integrare il tipo di reato in contestazione, abbiano trovato la loro
(ad oggi incerta) collocazione temporale nel periodo 1.1.2021-24.06.2021, unico scrutinabile.
3. Fondato è anche il secondo motivo afferente alla condotta estorsiva.
La stessa, sulla base dell’edito accusatorio, consisterebbe nell’avere l’imputato preteso dalla sola
madre (e non anche dalla sorella) la somma di Euro 20/25 al giorno (denaro destinato al successivo
acquisto di stupefacente), aggredendola – in mancanza di consegna – con epiteti offensivi e con
condotte materiali che avrebbero cagionato alla stessa lesioni personali. Dette condotte avrebbero
visto il loro perimetro temporale nel primo semestre del 2021.
La sentenza, sul punto, è alquanto criptica, dal momento che, dopo aver rilevato che – testualmente –
“la stessa persona offesa… già in denuncia-querela aveva espressamente riferito le frasi minacciose a
lei rivolte (“Tu sei una puttana, una troia, lo ti ammazzo”), per poi affermare, in occasione
dell’escussione a s.i.t., che dopo un principio di “violenze” verbali estrinsecatesi essenzialmente in
forma offensiva, comunque il A.A., quando lei si rifiutava di dargli il denaro richiesto, la “aggrediva”
verbalmente. Nella parola “aggredire” vi è l’attestazione inequivoca di un atto “violento” o, comunque
“minaccioso”…”.
3.1. Rileva il Collegio come la Corte territoriale abbia ritenuto sufficiente, ai fini della configurabilità
del reato, la sola condotta di aggressione verbale del reo, ritenendola manifestazione di violenza e/o
di minaccia, senza inoltre chiarire se tali condotte vessatorie, integranti alternativamente o
cumulativamente violenza e/o minaccia, siano intervenute nell’ambito temporale in contestazione: in
ogni caso, il giudice di merito è pervenuto a dette conclusioni in termini del tutto assertivi,
insufficienti per pervenire ad una pronuncia di condanna.
3.2. Come è noto, la condotta di estorsione si caratterizza per l’uso, da parte dell’agente, di violenza o
minaccia, diretto, prima a creare uno stato di costrizione psichica e, poi, ad ottenere un profitto
ingiusto per sè od altri, con altrui danno. Tra vis e costrizione deve esistere un rapporto strumentale
ed eziologico: di tal che, la costrizione, senza vis, attraverso – per esempio – altre forme di pressione
o di convincimento, non costituisce estorsione.
3.2.1. La giurisprudenza ha riconosciuto come il contenuto della nozione di violenza (sia propria, cioè
volta a vincere la resistenza della vittima con l’impiego diretto di qualsiasi mezzo di coazione fisica
o impropria, cioè attuata mettendo taluno nell’impossibilità di determinarsi liberamente con un’attività
insidiosa o esercitando, comunque, con azioni od omissioni giuridicamente rilevanti e non
riconducibili allo schema della minaccia o del semplice inganno, una apprezzabile pressione psichica
sul soggetto passivo, tale da indurlo a comportamenti che egli in condizioni normali non porrebbe in
essere) deve essere ricavato dal raffronto e dalla conseguente reciproca delimitazione della sfera di
operatività della minaccia. In tal senso, va considerato che, per la sussistenza del delitto di estorsione,
non si richiede che la volontà del soggetto passivo, per effetto della minaccia, sia completamente
esclusa, ma che, residuando la possibilità di scelta fra l’accettare le richieste dell’agente o subire il
male minacciato, la possibilità di autodeterminazione sia condizionata in maniera più o meno grave
dal timore di subire il pregiudizio prospettato: ciò che conta è l’idoneità del comportamento, da
valutare con giudizio ex ante, a coartare Ira libertà di determinazione: detti accertamenti sono stati
totalmente omessi da parte del giudice di merito.
3.2.2. Fermo quanto precede, il giudice del rinvio dovrai, pertanto, chiarire quale mezzo di coazione
e con quali modi e forme di estrinsecazione è intervenuto nel periodo contestato e se lo stesso abbia
prodotto nella vittima quell’effetto intimidatorio previsto dalla fattispecie incriminatrice.
4. Da qui l’annullamento della sentenza impugnata ed il rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione
della Corte di appello di Bari.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello
di Bari.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a
norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge

Cambio di fede, se le violazioni sono oggettive c’è l’addebito.

Cass. civ., sez. I, ord., 10 luglio 2023, n. 19502
Presidente Genovese – Relatore Pazzi
Rilevato che
1. Il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 8280/2019 del 20 settembre 2019,
pronunciava la separazione personale dei coniugi C.R. e R.V., rigettava le
reciproche domande di addebito presentate dai coniugi e poneva a carico del R.
l’obbligo di contribuire al mantenimento della moglie e del figlio nella misura,
rispettivamente, di Euro 400 e Euro 250 mensili.
2. La Corte d’appello di Napoli, a seguito dell’impugnazione presentata da R.V.,
riteneva che la frequentazione di una congregazione religiosa a parte della C. ,
di per sé, non potesse assumere rilievo determinante per la pronuncia di
addebito, dato che non risultava dimostrato che un simile comportamento
avesse comportato una violazione dei doveri coniugali e assunto rilievo causale
nel provocare l’intollerabilità della convivenza
Reputava, inoltre, che non sussistessero i presupposti per revocare o ridurre
l’assegno di mantenimento previsto dal tribunale in favore della C. e del figlio.
3. Per la cassazione della sentenza di rigetto dell’appello, pubblicata in data 21
febbraio 2022, ha proposto ricorso R.V. prospettando tre motivi di doglianza.
L’intimata C.R. non ha svolto difese.
Considerato che
4. Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e
5, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 155-ter c.c. e 9 l.
898/1970, perché la Corte di merito non ha disposto la revoca dell’assegno di
mantenimento in favore del figlio D., benché l’appellante avesse prodotto, in
sede di precisazione delle conclusioni, documentazione attestante che il
giovane era stato assunto con contratto a tempo indeterminato.
5. Il motivo, da interpretarsi come volto a denunciare l’omesso esame
dell’estratto contributivo prodotto in sede di precisazione delle conclusioni, è
fondato.
Il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione nel
caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della
controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la
prova di circostanze di portata tale da invalidare, con un giudizio di certezza e
non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno
determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio
decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (v. Cass. 16812/2018, Cass.
19150/2016).
Il documento in discorso dimostra lo svolgimento, da parte di R.D., di una
attività lavorativa retribuita quale lavoratore dipendente a partire dal 9
dicembre 2020.
Esso assumeva rilievo di certo decisivo al fine di verificare l’esistenza di un
obbligo di mantenimento a carico del padre, dato che costituiva un elemento
rappresentativo della capacità del figlio di procurarsi un’adeguata fonte di
reddito e, quindi, della raggiunta autosufficienza economica.
Nè è possibile dubitare del fatto che la Corte territoriale fosse tenuta ad
esaminarlo, benché prodotto soltanto in sede di precisazione delle conclusioni.
In vero, la nuova formulazione dell’art. 345, comma 3, c.p.c., introdotta dalla
novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella l. n.
134 del 2012, pone il divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova in
appello, senza che assuma rilevanza l'”indispensabilità” degli stessi e ferma per
la parte la possibilità di dimostrare di non aver potuto proporli o produrli nel
giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (Cass. 26522/2017).
La produzione di questi ultimi documenti deve poi avvenire, a pena di
decadenza, mediante specifica indicazione nell’atto introduttivo del secondo
grado di giudizio, salvo che la loro formazione sia successiva e la loro
produzione si renda necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo,
rimanendo comunque preclusa una volta che la causa sia stata rimessa in
decisione (Cass. 12574/2019).
Nel caso di specie il documento prodotto attestava l’esistenza di un rapporto di
lavoro che aveva preso avvio il 9 dicembre 2020; ne discende che esso non
poteva essere certo presentato con l’atto introduttivo del giudizio di appello
(risalente al 10 marzo 2019) e risultava ritualmente depositato in sede di
precisazione delle conclusioni.
6. Il secondo motivo di ricorso prospetta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3
e 5, c.p.c., la violazione dell’art. 143 c.c., in quanto la Corte di merito ha
tralasciato di valorizzare, ai fini dell’accoglimento della domanda di addebito, il
fatto che la C. avesse aderito a un credo religioso diverso da quello praticato
dal R. e, a causa di questa pratica, avesse assunto un comportamento
contrario ai doveri conseguenti al rapporto matrimoniale, secondo la
ricostruzione delle vicende familiare offerta dal teste C. .
7. Il motivo è fondato, nei termini che si vanno ad illustrare.
La Corte di merito ha ricordato che il mutamento di fede religiosa e la
conseguente partecipazione alle pratiche collettive del nuovo culto,
configurandosi come esercizio dei diritti garantiti dall’art. 19 Cost., non
possono di per sé considerarsi come ragione di addebito della separazione, a
meno che l’adesione al nuovo credo religioso non si traduca in comportamenti
incompatibili con i concorrenti doveri di coniuge previsti dall’art. 143 c.c., in tal
modo determinando una situazione di improseguibilità della convivenza (Cass.
14728/2016); ha poi ritenuto che la violazione dei doveri coniugali ascritta alla
C. , in termini di atteggiamenti di indifferenza verso il marito (tanto da non
occuparsi più delle faccende domestiche), non trovasse adeguata conferma
nella deposizione testimoniale raccolta, sottolineando anche che la scelta della
stessa di dedicarsi alla congregazione religiosa o di trascorrere tempo davanti
al computer non aveva avuto un’effettiva incidenza causale, intervenendo in un
progetto di vita di separati in casa.
Un simile rilievo si presta a una duplice censura.
Non vi è dubbio che la dichiarazione di addebito della separazione implica la
prova che l’irreversibile crisi coniugale sia ricollegabile in via esclusiva al
comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri
nascenti dal matrimonio di uno o entrambi i coniugi, ovverosia che sussista un
nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi
dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza; cosicché, in caso di mancato
raggiungimento della prova in relazione al fatto che il comportamento contrario
ai predetti doveri tenuto da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stato la causa
efficiente del fallimento della convivenza, legittimamente viene pronunciata la
separazione senza addebito (si veda in questi termini, per tutte, Cass.
40795/2021).
Il giudice di merito, tuttavia, laddove intenda sostenere che una determinata
condotta, che di per sé varrebbe a integrare una violazione dei doveri
conseguenti al matrimonio, non sia idonea a giustificare l’addebito della
separazione ai sensi dell’art. 151 c.c., essendo non la causa del fallimento
dell’unione matrimoniale ma la conseguenza di una situazione di crisi già
irrimediabilmente in atto, deve fondare una simile constatazione su una
compiuta descrizione della situazione di vita invalsa fra i coniugi in epoca
precedente al verificarsi della condotta di cui intende sminuire il valore
eziologico; ciò onde dar conto dei termini e dell’epoca in cui il rapporto
matrimoniale aveva avuto la sua deriva.
Nel caso di specie la Corte di merito, al fine di sostenere che l’allegata
violazione dei doveri coniugali fosse la conseguenza di una rottura dell’unione
matrimoniale già avvenuta e non la causa del fallimento della stessa, ha inteso
valorizzare una situazione di “reciproca sostanziale autonomia di vita”
testimoniata dal fatto che i due coniugi dormivano separati, ma non ha
spiegato se una simile situazione risalisse ad epoca antecedente al momento in
cui le condotte denunciate si verificarono.
Ne discende che la negazione dell’esistenza di un nesso di causalità tra i
comportamenti lamentati ed il determinarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore
convivenza è rimasta affidata alla constatazione di una situazione di fatto priva
di sicura collocazione temporale in un’epoca idonea a giustificare la ravvisata
esclusione del nesso di causalità.
Peraltro, il teste escusso – come rileva il mezzo in esame – non si è limitato a
riferire di atteggiamenti di disaffezione costituiti dal fatto che la C. si era
rifiutata di cucinare, di occuparsi della casa e del bucato, ma ha raccontato
pure di continue denigrazioni e richieste. Queste condotte, del tutto ignorate
dalla Corte di merito, ove fossero consistite in un comportamento moralmente
violento dovevano essere considerate ontologicamente incompatibili con gli
obblighi di assistenza morale e materiale e collaborazione nell’interesse della
famiglia a cui ciascuno dei coniugi è tenuto ex art. 143, comma 2, c.c. ed
assumevano incidenza causale effettiva e preminente rispetto a qualsiasi causa
eventualmente preesistente di crisi dell’affectio coniugalis (Cass. 7388/2017).
8. L’accoglimento del precedente motivo comporta l’assorbimento dell’ultima
censura, concernente il contributo al mantenimento dovuto dal R. alla C. .
9. La sentenza impugnata deve essere dunque cassata, con rinvio della causa
alla Corte distrettuale, la quale, nel procedere al suo nuovo esame, si atterrà ai
principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del
giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso nei termini di cui in
motivazione, dichiara assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata in
relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Napoli in
diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del
giudizio di legittimità.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli
altri titoli identificativi a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003 in quanto
imposto dalla legge.

Assegno di divorzio per l’ex marito invalido e disoccupato

Cass. civ. Sez. I, Ord., (ud. 02/03/2023) 16-05-2023, n. 13420
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACIERNO Maria – Presidente –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23663-2021 R.G. proposto da:
A.A., rappresentato e difeso dell’avv. BEJOR-GAJANI MARIO, indirizzo PEC
mario.bejorgajani(at)ordineavvocatiravenna.eu;
– ricorrente –
CONTRO
B.B.;
– intimata –
avverso l’ORDINANZA della CORTE D’APPELLO BOLOGNA n. 2437-2019 depositata il
13/07/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 02/03/2023 dal Consigliere RITA E.
A. RUSSO.
Svolgimento del processo
Con ricorso ex L. 898-70, art. 9 A.A. ha chiesto al Tribunale di Bologna la condanna di
B.B. al versamento di una somma mensile non inferiore ad Euro 500,00 a modifica delle
condizioni di divorzio, deducendo di essere invalido e privo di redditi. Il Tribunale ha
ritenuto inammissibile la domanda. A.A. ha proposto reclamo alla Corte d’appello che, pur
ritenuta ammissibile la domanda di assegno divorzile, poichè non si era formato alcun
giudicato sulla stessa, ha respinto il reclamo osservando: a) che non ne sussistono i
presupposti in relazione alla funzione compensativa dell’assegno, poichè entrambi i
coniugi, separati sin dal 1995 senza che fosse previsto alcun contributo economico,
lavoravano (anzi l’A.A. aveva una avviata attività commerciale), dal matrimonio non sono
nati figli e non risulta che il richiedente abbia sacrificato le proprie aspirazioni di attività
professionale per le esigenze della famiglia; b) in relazione alla funzione assistenziale
dell’istituto osserva che sebbene la ex moglie abbia una pensione come insegnante e sia
proprietaria dell’appartamento già costituente la casa coniugale, non che risulta che A.A.
nonostante la documentata invalidità del 46% non possa svolgere attività lavorativa, non
avendo egli provato di aver cercato di reperire un’attività consona alle proprie condizioni
fisiche.
Avverso il predetto provvedimento propone ricorso per cassazione l’A.A. affidandosi a tre
motivi; non si è costituita la intimata. Il ricorrente ha depositato memoria. La causa è stata
tratta alla udienza camerale non partecipata del 2 marzo 2023.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 la nullità
sentenza per omessa motivazione, o comunque la sua illogicità e apparenza, per
violazione artt. 132, II c, n. 4, CPC e Cost., art. 111. Il ricorrente deduce che la
motivazione del gravato provvedimento risulta del tutto inidonea a spiegare le ragioni della
decisione con argomentazioni corrette e congrue. La valutazione della diligenza prestata
dal reclamante nella ricerca di un lavoro è stato l’unico, effettivo “accertamento” operato
dalla Corte territoriale e sul punto la motivazione è incongrua, come lo è sulla condizione
di disabilità di esso istante, dimostrata per tabulas.
2.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 l’omesso
esame di fatti decisivi e la violazione degli artt. 115 -116 c.p.c. nonchè degli artt. 2727 e
segg. c.c. La parte osserva che l’apodittica affermazione secondo cui l’attore “non avrebbe
provato, nè offerto di provare di aver cercato di reperire un’attività consona…”, rende
opportuno chiarire come non sussista, in materia, una sorta di probatio diabolica. Le
emergenze processuali dimostrano – specie se esaminate nel loro insieme – come il
ricorrente sia sfornito di tutti i requisiti della autosufficienza, posto che egli è privo di
redditi, nonchè di cespiti di sorta, è documentato che gli sia stata attribuita una invalidità
del 46%, ed è pacifico che ha dovuto trovare ospitalità dal padre, presso la di lui casa, in
(Omissis). Si aggiunga che il ricorrente risulta iscritto da anni nelle liste di disoccupazione
ed è stato comunque diligente nella ricerca di un lavoro. Richiama tutta una serie di
documenti depositati in atti e afferma che la cancellazione -per un breve periodo- dalle
liste di disoccupazione è dovuta ad un involontario errore da parte sua, fatto questo non
esaminato dalla Corte, e che ciò non è sufficiente a dimostrare che egli è in difetto sulla
ricerca di un lavoro, perchè si è comunque di nuovo iscritto.
2.1- Con il motivo II bis si deduce a sensi dell’art. art. 360 c.p.c., n. 4 la nullità sentenza
per omessa/apparente motivazione, con violazione degli artt. 115, e 132 c.p.c. e della
Cost., art. 111.
Deduce che decreto de quo risulta viziato per difetto di motivazione laddove il secondo
giudice, pur dubitando del persistere della inabilità (“non potendosi escludere che le
condizioni del reclamante fossero in seguito migliorate”) e affermando comunque che “non
risulta che…le patologie sofferte non consentano all’odierno reclamante di svolgere una
qualche attività lavorativa” (pag. 7), ha omesso di esaminare e di ammettere i mezzi di
prova ritualmente formulati dal ricorrente, che ben avrebbero potuto accertare la
persistenza della accertata incapacità lavorativa e le sue condizioni di vita, ai fini della
valutazione di quali – eventualmente – lavori gli sarebbero confacenti. Subito dopo, il
secondo giudice soggiunge che “sembra” evincersi che tale disabilità non gli sia stata
riconosciuta, poichè nell’ulteriore attestazione di iscrizione nell’elenco dei disoccupati,
rilasciata dal Centro per l’impiego, non vi era più alcun riferimento alla disabilità, ma senza
indicare in motivazione i motivi razionali per cui si potrebbe seriamente ipotizzare un
miglioramento delle sue condizioni fisiche, pur se la resistente non ha minimamente
contestato che l’inabilità risultante dai documenti sia ancora sussistente e nonostante i
mezzi di prova articolati.
3.1.- I motivi sono fondati nei termini di cui appresso si dirà.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass., s.u. n. 18287 dell’11/07/2018) il
riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed
in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5 comma
6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante e
dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equi-ordinati di
cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per
decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudice deve
quantificare l’assegno rapportandolo non al pregresso tenore di vita familiare, ma in
misura adeguata innanzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l’indipendenza o
autosufficienza economica dell’ex coniuge, intesa in una accezione non circoscritta alla
pura sopravvivenza ma ancorata ad un criterio di normalità, avuto riguardo alla concreta
situazione del coniuge richiedente nel contesto in cui egli vive (Cass. 07/12/2021, n.
38928; Cass. 08/09/2021, n. 24250). E’ vero che il richiedente deve dare la prova della
oggettiva impossibilità di procurarsi i mezzi adeguati, ma la prova si può raggiungere
anche tramite presunzioni e con valutazione resa in concreto alla attualità. Il giudizio
sull’adeguatezza dei redditi, infatti, deve essere improntato ai criteri dell’effettività e
concretezza non potendo esso risolversi in un ragionamento ipotetico, i cui esiti vengano
ricalcati su pregressi contesti individuali ed economici non più rispondenti, all’attualità, a
quello di riferimento (Cass. 19/11/2021, n. 35710).
3.2.- Di questi principi la Corte di merito non ha fatto corretta applicazione, poichè nel
valutare i requisiti per riconoscere un assegno con funzione assistenziale, ha svolto un
ragionamento ipotetico, dando rilievo a vicende pregresse, esposte peraltro in termini
dubitativi, osservando che il richiedente “avrebbe (non è chiaro quando) cessato l’attività
lavorativa non essendo dato conoscere neppure se l’attività redditizia di commercio di
materiale fotografico e altro e -parrebbe- la titolarità di quote sociali siano state cedute a
terzi”; considerazioni che vengono collegate al rilievo che nel periodo tra il 1995 ed il 2007
egli ha “certamente avuto qualche risorsa” poichè nessun contributo era previsto in sede
di separazione nè, in via provvisoria, nel giudizio di divorzio. Vicende appunto pregresse,
delle quali -proprio perchè ricostruite in termini vaghi- non si apprezza l’incidenza sulla
attuale condizione economica del richiedente che, come lo stesso giudice d’appello rileva,
ha documentato una invalidità del 46% e ha dedotto di essere privo di redditi e di cespiti, a
fonte invece di una condizione della ex moglie più favorevole (pensionata e con proprietà
della casa di abitazione). Del resto, l’assenza di contributo al mantenimento nelle
condizioni di separazione non è elemento di per sè sufficiente a escludere il dritto
all’assegno divorzile, posto che le valutazioni dell’assetto economico effettuate in sede di
separazione rappresentano, al più, un mero indice di riferimento (Cass. 22/09/2021, n.
25635).
Anche in punto di diligenza del ricorrente nel reperire una attività lavorativa, compatibile
con le sue attuali condizioni di salute, la Corte rende un giudizio ipotetico, non calibrato
alla attualità, perchè ha molto valorizzato la circostanza che l’A.A., iscritto nelle liste di
disponibilità immediata al lavoro sin dal 2010, ne è stato dichiarato decaduto nel febbraio
2015 -vicenda dovuta secondo il ricorrente ad un fraintendimento- senza tener conto che
egli si è nuovamente iscritto in data 4 dicembre 2017 e tale risultava ancora al 18 marzo
2019, e cioè quando ha avanzato la pretesa di revisione delle condizioni di divorzio.
Risultava inoltre ancora iscritto al 28 ottobre 2020, ma senza riferimento alla condizione di
disabilità, il che ha portato la Corte, anzichè a valorizzare la continuità nella ricerca –
infruttuosa- di un lavoro, a rendere un altro giudizio ipotetico e dubitativo (“non potendosi
escludere che il quadro complessivo delle condizioni dell’odierno reclamante sia in seguito
migliorato”), non fondato su certificazione medica o accertamento sanitario, e ciò
nonostante la deduzione del ricorrente di essere stato vittima di un altro incidente stradale
nel 2016, la documentazione prodotta e la richiesta di prove testi e di consulenza medica.
Così operando la Corte non ha in concreto verificato, e nonostante le premesse sulla
ammissibilità della domanda di revisione, se le attuali condizioni del ricorrente fossero
effettivamente quelle dedotte in base alle prove offerte, e tali da richiedere l’applicazione
del principio di solidarietà post- coniugale, che non è esclusa dalla circostanza che per
lungo tempo egli abbia provveduto a sè stesso autonomamente ovvero anche -come da
lui dedotto- con l’aiuto del padre, il cui intervento non varrebbe comunque ad esonerare
l’ex coniuge dai suoi obblighi (Cass. n. 15774 del 23/07/2020; Cass. 14/06/2016, n.
12218).
4.- In sintesi, deve qui ribadirsi che ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile è
sufficiente anche verificare, in concreto e all’attualità, l’esigenza assistenziale, che ricorre
ove l’ex coniuge sia privo di risorse economiche bastanti a soddisfare le normali esigenze
di vita, sì da vivere autonomamente e dignitosamente, e non possa in concreto
procurarsele, pur se in ipotesi abbia già goduto in passato di risorse sufficienti ad
assicurarne il sostentamento nel periodo intercorrente tra la separazione e il divorzio,
posto che tanto la sussistenza di mezzi adeguati che la diligenza spesa nel tentativo di
procurarseli sono da valutare alla attualità, tenendo conto delle condizioni personali, di
salute e del contesto individuale ed economico in cui agisce il richiedente.
Ne consegue, in accoglimento per quanto di ragione dei motivi di ricorso, la cassazione
della ordinanza impugnata e il rinvio alla Corte d’appello di Bologna in diversa
composizione per un nuovo esame, attenendosi a principi sopra enunciati. La Corte di
merito provvederà altresì alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa la ordinanza impugnata e rinvia
per un nuovo esame alla Corte di appello di Bologna in diversa composizione, cui
demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per
finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di
comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati
identificativi delle parti, riportati nella ordinanza.
Così deciso in Roma, il 2 marzo 2023.
Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2023