Unioni civili. Legittimo l’annullamento dell’annotazione di riconoscimento della filiazione

Tribunale di Reggio Emilia, decr. 22 aprile 2021 – Pres. Rel. Parisoli
TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA
VOLONTARIA GIURISDIZIONE CIVILE
Il Tribunale in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:
dott. Francesco Parisoli – Presidente rel.
dott. Damiano Dazzi – Giudice
dott. Stefano Rago – Giudice
nel procedimento di V.G. iscritto al n. r.g. 4886/2020 promosso dal Procuratore della Repubblica
presso questo Tribunale per ottenere l’annullamento dell’atto di riconoscimento di figlio nato fuori
dal matrimonio iscritto al n. 1190 II 2 Anno 2020 e della relativa annotazione a margine dell’atto di
nascita del minore
Lette le note depositate dai soggetti interessati
Visto il parere del Giudice Tutelare
O S S E R V A
In data 2 aprile 2020 l’Ufficiale dello stato civile del Comune di Reggio Emilia ha formato l’atto di
nascita di J, nata a Reggio Emilia il (omissis) (omissis) 2020, (atto n. (omissis) parte II serie B anno 2020)
sulla base della dichiarazione resa dalla madre XX, la quale, come si legge nell’atto stesso, ha
affermato al pubblico ufficiale che la bambina, come da allegata attestazione di nascita, era nata dalla
“Unione di essa dichiarante con un uomo non parente né affine con lei nei gradi che ostano al riconoscimento
ex art. 251 c.c.”
Il giorno 28 ottobre 2020, il medesimo Ufficiale di stato civile ha raccolto la dichiarazione di YY, unita
civilmente con XX, di voler riconoscere, con il consenso della madre biologica, la minore J come
propria figlia.
L’atto di riconoscimento è stato iscritto nel registro degli atti di nascita del Comune di Reggio Emilia
parte II serie B con il n. (omissis) ed annotato a margine dell’atto di nascita del minore.
Su segnalazione dello stesso Ufficio dello stato civile, preoccupato di tutelare l’interesse del minore,
il Procuratore della Repubblica presso questo Tribunale, richiamato l’art. 95 del d.P.R. 396/2000 ha
chiesto di procedere alla rettificazione “e dunque all’annullamento dell’annotazione di riconoscimento
della filiazione richiesto dalla sig.ra YY nei riguardi nella minore J.”.
Nel giudizio camerale hanno depositato memoria difensiva XX e YY per eccepire la inammissibilità
del ricorso proposto dal P.M. e per sentir respingere, nel merito, la richiesta di annullamento
dell’atto di riconoscimento.
Secondo le interessate, il ricorso del P.M. è inammissibile, anzitutto, perché l’Ufficiale dello stato
civile non avrebbe potuto sindacare la rispondenza al vero della dichiarazione di riconoscimento,
ma avrebbe dovuto limitarsi a ricevere la dichiarazione di YY, essendo funzione tipica degli atti dello
Stato Civile di attestare la rispondenza a quanto dichiarato all’Ufficiale di Stato Civile e da questi
annotato a margine dell’atto di nascita.
Il Procuratore della Repubblica, pertanto, con il ricorso ex art. 95 d.P.R. 396/2000 avrebbe potuto
unicamente censurare la legittimità dell’atto sotto tale profilo, ma non avrebbe dovuto contestare,
nel merito, la legittimità del riconoscimento attuato da YY perché, così facendo, avrebbe prospettato
una questione di status da far valere con l’azione prevista dall’art. 263 c.c. in un giudizio di
cognizione ordinaria.
L’altro profilo di inammissibilità deriverebbe, sempre nell’assunto delle interessate, dalla genericità
del ricorso, in quanto privo della enunciazione dei motivi di annullamento dell’atto, senza specifici
riferimenti normativi ed inidoneo a consentire agli interessati un adeguato esercizio del diritto di
difesa.
Nel merito, hanno affermato la piena legittimità dell’atto impugnato dal P.M. sostenendo che
l’Ufficiale dello stato civile del Comune di Reggio Emilia ha compiuto un’applicazione corretta di
norme già esistenti nel nostro ordinamento per garantire piena tutela ai figli di genitori omosessuali.
In particolare, l’art. 8 della legge 40/2004 impone di riconoscere il figlio della coppia che ha prestato
il consenso, il quale può anche avvenire, ai sensi dell’art. 9 stessa legge, per fatti concludenti e tale
norma deve intendersi riferita anche ai figli di coppie omosessuali per non creare una evidente
disparità di trattamento e una ingiustificabile violazione del principio di uguaglianza tra minori nati
da coppie eterosessuali, pur facendo ricorso alla fecondazione assistita, e rispetto a minori nati
all’estero da coppie omosessuali il cui atto di nascita sia stato trascritto in Italia.
Ancora, la legittimità dell’operato dell’Ufficiale dello stato civile deve essere riconosciuta, secondo
le interessate, allo scopo di tutelare la minore e nel supremo interesse di quest’ultima ad essere
inserita in un nucleo familiare composto da due genitori ed a ricevere cura, educazione, istruzione
ed assistenza morale da parte di entrambi.
È intervenuto nel giudizio anche il Sindaco del Comune di Reggio Emilia, nella sua qualità di
Ufficiale di Stato Civile, per segnalare, tra l’altro, l’orientamento non uniforme esistente in tema di
riconoscimento dei minori nati nell’ambito di coppie dello stesso sesso unite civilmente.
Il giudice tutelare, sentito ai sensi dell’art. 96 cpv. d.P.R. 396/2000, ha espresso parere non favorevole
all’accoglimento del ricorso in quanto ritenuto contrario all’interesse della minore.
*****
Le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dalle interessate XX e YY non sono fondate.
L’art. 7 del d.P.R. 396/2000, nell’osservanza del più generale principio di legalità che regge l’azione
della P.A., attribuisce all’ufficiale dello stato civile il potere-dovere di rifiutare l’adempimento di un
atto da chiunque richiesto.
Tale norma circoscrive il limite che incontra l’Ufficiale dello stato civile nell’esercizio delle sue
funzioni, delineando una attività non discrezionale diretta ad evitare che possano essere poste in
essere situazioni giuridicamente rilevanti in contrasto con specifiche disposizioni di legge.
Era, dunque, preciso dovere dell’Ufficiale dello stato civile del Comune di Reggio Emilia verificare
la legittimità del riconoscimento prima di provvedere alla relativa formazione, non essendo
consentita la formazione di un atto contra legem.
Nel caso in esame, poi, è dirimente la previsione dell’art. 42 d.P.R. 396/2000 che fa obbligo a chi
intende riconoscere un figlio nato fuori dal matrimonio davanti all’Ufficiale dello stato civile di
dimostrare che nulla osta al riconoscimento a norma di legge.
Del resto, la S.C. ha ricordato che il procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile,
disciplinato dall’art. 96 d.P.R. 396/2000, è ammissibile ogni qualvolta sia diretto ad eliminare una
difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo le previsioni di
legge, e come risulta dall’atto dello stato civile per un vizio, comunque o da chiunque originato, nel
procedimenti di formazione di esso ed in tale procedimento l’autorità giudiziaria dispone di una
cognizione piena sull’accertamento della rispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione
alla completezza dell’atto con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica del minore
(cfr. Cass. n. 13000/2019).
Neppure può dirsi inammissibile il ricorso del P.M. per eccessiva genericità o mancata esposizione
dei motivi posti a fondamento della istanza di annullamento
Invero, anche a voler trascurare la considerazione che nel rito in questione, di volontaria
giurisdizione, non valgono le norme del giudizio di cognizione ordinario, deve riconoscersi che il
Procuratore della Repubblica ha demandato al Tribunale la verifica della legittimità dell’atto, a tutela
del pubblico interesse che sottende l’attività dello stato civile.
L’oggetto del presente giudizio, pertanto, è rappresentato dalla rispondenza alla legge del
riconoscimento effettuato da YY davanti all’Ufficiale dello stato civile del Comune di Reggio Emilia
e non anche, come pure affermato dalle interessate, una questione che incide, quantomeno in via
diretta, sullo status del minore.
*****
In fatto, è pacifico che la minore J è nata a seguito di un percorso di procreazione medicalmente
assistita (PMA) cui si è sottoposta la madre, XX.
La legge n. 40/2004, nella sua originaria formulazione, consentiva il ricorso alle tecniche di PMA di
tipo omologo nei soli casi di sterilità o infertilità irreversibili, documentate da atto medico (art. 4,
comma 1°) e vietava tout court il ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo (art. 4, comma 3°).
L’art. 5 comma 1°, poi, poneva, e tuttora pone, una limitazione di carattere soggettivo, prevedendo
la possibilità di accedere alle tecniche di PMA soltanto per le coppie di maggiorenni di sesso diverso,
coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi.
La Corte Cost., con sentenza n. 162/2014, ha però dichiarato la illegittimità costituzionale del divieto
di PMA di tipo eterologo, sempre limitatamente alle coppie di sesso diverso, sopra indicate, qualora
sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute e irreversibili.
Una ulteriore estensione della possibilità di ricorrere alle tecniche di PMA si è avuta con Corte Cost.
n. 96/15 che ha dichiarato la illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, 4, comma 1, della
legge 40/2004 laddove non consentono la PMA alle coppie che, pur essendo fertili, sono portatrici di
malattie genetiche trasmissibili.
Dal quadro normativo, pertanto, emerge inequivocabilmente che il ricorso alle tecniche di PMA di
tipo eterologo, come nel caso che ci occupa, è legittimo soltanto se praticato da coppie di sesso
diverso e in presenza di patologie che hanno causato una irreversibile sterilità o infertilità.
Si aggiunga che l’art. 1, comma 20, della legge n. 76/2016 sulle unioni civili espressamente esclude
la possibilità di applicare alle coppie omosessuali la normativa sulla filiazione e le disposizioni di
cui alla legge n. 184 del 1983, fermo restando quanto previsto e consentito in materia di adozione
dalle norme vigenti
In forza di tale quadro normativo, pertanto, l’Ufficiale dello stato civile del Comune di Reggio Emilia
avrebbe dovuto rilevare che la dichiarazione di riconoscimento quale propria figlia, di J da parte di
YY contrastava con le predette disposizioni di legge stante il divieto, da esso derivante, per le coppie
dello stesso sesso (nel caso, femminile), anche se unite civilmente, di diventare genitori di un minore
nato in forza di PMA da una di loro.
In tal senso, del resto, si è pronunciata anche la S.C. per la quale «..nel caso di minore concepito mediante
l’impiego di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e nato all’estero, non è accoglibile
la domanda di rettificazione dell’atto di nascita volta ad ottenere l’indicazione in qualità di madre del bambino,
accanto a quella che l’ha partorito, anche della donna a costei legata in unione civile, poiché in contrasto con
l’art. 4, comma 3, della l. n. 40 del 2004, che esclude il ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie
omosessuali, non essendo consentite, al di fuori dei casi previsti dalla legge, forme di genitorialità svincolate
da un rapporto biologico mediante i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio
o riconosciuto.» (Cass. n. 8029/2020 e n. 7668/2020)
******
Peraltro, nell’assunto difensivo delle interessate, se si è ben compreso, la legittimità del
riconoscimento in esame trarrebbe origine dal disposto dell’art. 8 della legge n. 40/2004 per il quale
chi nasce dalla fecondazione artificiale acquista lo stato di figlio nato dal matrimonio o di figlio
riconosciuto della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche di PMA.
Secondo una interpretazione adottata anche da alcuni giudici di merito, lo status di figlio rimane o
viene acquisito anche quando il minore nasce da PMA perpetrata nella inosservanza dei divieti di
legge, ivi incluso quello che riguarda le coppie omosessuali.
L’art. 9 della legge 40, invero, secondo questa tesi, inibisce a chi fa ricorso a tecniche di PMA in
violazione dei divieti di legge di promuovere azione di disconoscimento della paternità nei casi
previsti dall’art. 235, comma 1°, numeri 1) e 2) c.c. e di ricorrere alla impugnazione di cui all’art. 263
dello stesso codice, rendendo in tal modo non più contestabile lo status acquisito dal figlio.
Ancora più significativo, poi, sarebbe l’apparato sanzionatorio introdotto dal legislatore che, all’art.
12, comma 2°, contempla una mera sanzione amministrativa nei confronti di chi, in violazione del
divieto di cui all’art. 5, applica tecniche di PMA a coppie dello stesso sesso, tenendo in tal modo
distinto il fatto della procreazione dalle tecniche scelte per il suo compimento.
Ad avviso delle interessate, non può intendersi tale impianto normativo, anche nel profilo
sanzionatorio, come riferito soltanto a coppie dello stesso sesso, poiché una siffatta interpretazione
comporterebbe la discriminazione delle coppie omosessuali e una disparità di trattamento rispetto
alle coppie omosessuali che, avendo provveduto alla formazione di un atto di nascita all’estero, dove
la PMA è loro consentita, ne ottengono anche la trascrizione nei registri dello stato civile italiano,
alla luce di un orientamento giurisprudenziale, anche di legittimità, che ne esclude il contrasto con
l’ordine pubblico internazionale italiano (v. Cass. n. 14878/2017)
Ora, sul piano ermeneutico, va osservato, ad avviso di questo collegio, che l’art. 8 cit. è previsione
generica il cui intento è di fare chiarezza sulle conseguenze del ricorso alla PMA nei confronti del
nato con riferimento nei casi in cui tali tecniche sono state praticate legittimamente, se si considera
che, in assenza di tale statuizione, i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di PMA non
potrebbero nemmeno conseguire lo stato di figli della coppia che vi ha fatto ricorso, pur
legittimamente: che, però, tale coppia sia quella eterosessuale lo si ricava dallo stesso art. 8 che si
riferisce alle coppie che hanno espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime “..ai sensi
dell’art. 6..” ossia le stesse coppie menzionate nell’art. 5 quali coppie maggiorenni di sesso diverso,
coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile.
La conferma si rinviene proprio nell’art. 9 che individua, come autori del divieto, il coniuge o il
convivente, ossia soggetti di sesso maschile, e, coerentemente, inibisce loro l’azione di
disconoscimento della paternità o l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, ossia
due azioni inequivocabilmente precluse dal lato materno.
*****
L’assetto costituzionale delle norme sopra richiamate è stato ripetutamente sottoposto all’esame
della Corte Costituzionale.
Con la sentenza n. 221 del 2019, la Corte ha dichiarato infondate le questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 5, commi 2, 9 e 10, della legge 40/2004 in riferimento agli artt. 2, 3, 31, comma
2°, 32, comma 1°, e 117, comma 1°, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della
CEDU, ritenendo corretta la interpretazione delle norme di legge indicate — data loro dai giudici
rimettenti — nel senso che alle tecniche di PMA possano accedere solo coppie formate da persone
di sesso diverso.
Con altra sentenza, la n. 237/2019, la stessa Corte ha riconosciuto la legittimità dell’art. 1, comma 20,
della legge 76/2016 sulle unioni civili laddove non estende alle coppie omosessuali la normativa sulla
paternità, la maternità e l’adozione legittimante.
Ancora, con sentenza 230/2020 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità dello stesso
art. 1, comma 20, della legge 76 del 2016 e dell’art. 29, comma 2, del d.P.R. 396/2000 quest’ultimo
laddove disciplina chi può riconoscere il nato, escludendo le donne tra loro unite civilmente che
abbiano fatto ricorso a tecniche di PMA all’estero.
In estrema sintesi, il giudice delle leggi, nelle diverse pronunce richiamate, muovendo dalla
premessa che la legge 40 del 2004 è ispirata a due distinte finalità, una prima diretta a porre rimedio
a situazioni di sterilità o infertilità derivanti da causa patologica e non altrimenti rimuovibile e una
seconda inerente al nucleo familiare scaturente dalle tecniche in esame che riproduca il modello
della famiglia caratterizzata dalla presenza di un padre e di una madre, ha ritenuto che l’ammissione
alla PMA delle coppie omosessuali comporterebbe la sconfessione diretta di entrambe le linee guida
ora menzionate oltre a sollevare interrogativi particolarmente delicati quanto alla sorte delle coppie
omosessuali maschili, e ha affermato che l’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne
non è fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale
tenuto conto che la infertilità fisiologica della coppia omosessuale non è omologabile alla infertilità
di tipo assoluto e irreversibile della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive come non
lo è la infertilità fisiologica della donna sola o delle coppie eterosessuali in età avanzata.
Sempre nell’assunto della Corte, la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente
correlata alla presenza di figli e la libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori
non implica che tale libertà possa esercitarsi senza limiti, dovendo essere bilanciata con altri interessi
di rango costituzionale dal momento che il ricorso alle tecniche de quibus, «..alterando le dinamiche
naturalistiche del processo riproduttivo aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della
genitorialità e della famiglia radicati nella cultura sociale e ai quali è stata costruita la disciplina costituzionale
artt. 29, 30, 31.».
Il vulnus, più volte prospettato, all’art. 3 Cost. non è stato ravvisato con riguardo all’adozione c.d.
non legittimante — la cui fattispecie esula dall’aspetto della procreazione — e neppure rispetto ai
figli nati all’estero e riconosciuti in Italia dal momento che, per la Corte Costituzionale, «..il solo fatto
che il divieto possa essere eluso recandosi all’estero non è ragione per dubitare della sua conformità alla
Costituzione e la differenza tra la normativa interna e quelle di altre paesi è indifferente al nostro ordinamento
perché, diversamente, dovrebbe pervenirsi alla conclusione che la legislazione interna dovrebbe sempre
allinearsi alla più permissiva tra le legislazione estere che regolano la materia per evitare una lesione del
principio di eguaglianza.» —.
*****
Detto questo il collegio, invece, ritiene che un evidente profilo discriminatorio possa ravvisarsi
nell’ambito della tutela del minore in situazioni di disgregazione del nucleo familiare nel quale è
inserito.
E’ indubbio che nel nostro ordinamento i figli nati dalla unione di coppie eterosessuali, nel
matrimonio o al di fuori del vincolo coniugale, sono oggetto di una normativa di tutela
particolarmente estesa, sul piano educativo e del mantenimento, che opera in previsione di una
separazione dei genitori e/o del venir meno della loro convivenza ed è connessa allo status di
genitore, con una piena equiparazione tra i figli a prescindere dalla esistenza o meno di un vincolo
matrimoniale tra i genitori
Alla luce delle conclusioni sopra riferite altrettanto non può dirsi sia previsto, invece, per il figlio
minorenne nato e cresciuto, di fatto, all’interno della coppia omosessuale.
Il rapporto di filiazione, inteso come fenomeno fattuale, prescinde da una identificazione normativa
e può sorgere e svilupparsi nell’ambito di una unione civile, o di una stabile convivenza che
riproduca la quotidianità della vita familiare, anche indipendentemente dalla esistenza di un
riconoscimento da parte del genitore intenzionale.
Può accadere, e spesso accade, che il figlio biologico di uno dei componenti della unione civile sia
cresciuto e allevato nell’ambito di tale rapporto, riconosca i due componenti della unione, con lui
conviventi, come propri genitori ed entrambi, ossia anche l’altro componente della coppia che non
lo ha generato, contribuiscono alla sua crescita, alla educazione, al mantenimento come se fosse un
figlio legalmente riconosciuto.
Del resto, la filiazione, nella sua accezione sociale, oltre che derivare da un atto, naturale o artificiale,
si sviluppa e si consolida principalmente giorno dopo giorno, nella concretezza di un rapporto
quotidiano imperniato sullo sviluppo di relazione affettive legate alla convivenza e del tutto
indipendenti dalla procreazione
Ora, laddove questa convivenza venga meno a causa di un dissidio tra i componenti dell’unione,
contrariamente a quanto accade per il figlio della coppia eterosessuale, che fruisce di un’ampia
tutela ex lege da parte di entrambi i genitori, colui che — in ragione di una convivenza magari durata
anni — ha sempre nutrito verso entrambi i membri della coppia omosessuale un sentimento filiale,
ricambiato, del tutto analogo, ne resta privo e, soprattutto, ogni possibilità di tutela rimane inibita
anche a colui che sul piano affettivo e sociale si sente e si è sempre comportato come genitore.
Anche al riguardo, peraltro, si è pronunciato il giudice delle leggi, il quale, con sentenza n. 32 del
2021, pur riconoscendo che i nati a seguito di PMA eterologa praticata da due donne versano in una
condizione deteriore rispetto a quella di tutti gli altri nati solo in ragione dell’orientamento sessuale
delle persone che hanno realizzato il progetto creativo, ha ritenuto di non poter porre rimedio al
riscontrato vuoto di tutela del minore, essendo compito del legislatore, nell’esercizio della sua
facoltà discrezionale, trovare «..un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti
nel rispetto della dignità della persona umana..», auspicando l’adozione di una disciplina della materia
che sia in grado di individuare le modalità più congrue di riconoscimento dei legami affettivi stabili
del minore, nato da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, anche nei confronti della madre
intenzionale e sottolineando «..che non sarebbe più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è
grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore..».
In attesa di tale intervento, peraltro, le norme sopra richiamate, costituenti un oggettivo ostacolo
normativo al riconoscimento della minore J da parte di YY devono considerarsi vigenti e questo
Collegio non può sottrarsi alla loro applicazione
Non si provvede sulle spese stante la natura del procedimento
P.Q.M.
Visti gli artt. 4 e 5 della legge n. 40 del 2004 e 42, 95 e segg. del d.P.R. 396 del 2000,
in accoglimento del ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica, annulla l’atto di
riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio, iscritto al n. (omissis), parte II, serie B, del Registro
degli atti di nascita del Comune di Reggio Emilia per l’anno 2020 e l’annotazione, ad esso
conseguente, apposta a margine dell’atto di nascita iscritto al n. (omissis), parte II, serie B del
medesimo Registro per l’anno 2020
Così deciso in Reggio Emilia nella camera di consiglio della Prima Sezione Civile il 22 aprile 2021
Il Presidente est.
Francesco Parisoli

Colui che impugna il testamento deve avervi interesse

Tribunale di Bologna, sent. 27 luglio 2021 – Pres. Rel. Arceri
TRIBUNALE ORDINARIO di BOLOGNA
TERZA SEZIONE CIVILE
Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:
dott. ALESSANDRA ARCERI Presidente rel.
dott. PIETRO IOVINO Giudice
dott. CINZIA GAMBERINI Giudice
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 855/2019promossa da:
TIZIA, con il patrocinio dell’avv. … e dell’avv. …, elettivamente domiciliato in …presso il difensore
Attore
contro
CAIO, IN QUALITA’ DI EREDE DI Mevia (C.F. ***), con il patrocinio dell’avv. …elettivamente
domiciliato in ….presso il difensore
Convenuto
con l’integrazione del contraddittorio nei confronti di
***
CONCLUSIONI
Per parte attrice:
Voglia l’Ill.mo Tribunale di Bologna adìto, contrariis rejectis
– accertare e dichiarare la invalidità, e/o nullità, e/o annullabilità e/o inefficacia del testamento
olografo della signora Mevia redatto a mano, apparentemente in data 28.11.2004, pubblicato con atto
per notar Michela Boscolo rep. 256 – racc. 194 in data 18 marzo 2016 per difetto di forma;
– per l’effetto, di conseguenza, dichiarare aperta la successione, ab intestato con ogni effetto di legge,
pronunziando la condanna dell’odierno convenuto, signor Caio, e, per esso, dai suoi eredi, al
risarcimento di tutti i danni patiti e patiendi, da liquidarsi anche in via equitativa, nonché alla
restituzione dei canoni versati negli anni 2009-2011, per un totale di € 10.150,00 oltre interessi ex art.
1284 c.c e con accessori e frutti come per legge, in via gradata anche ai sensi e per gli effetti dell’art.
2041 c.c.;
– accertare e dichiarare che la signora Tizia ha diritto alla restituzione del bene per cui è causa in
forza del possesso su di esso esercitato ove medio tempore lo abbia perso.
– con vittoria di spese e competenze di causa oltre IVA e CPA.
In via istruttoria si reitera la richiesta di ammissione di CTU grafologica volta ad accertare
l’autenticità o meno dell’autografia del preteso testamento olografo della signora Mevia”
Per parte convenuta:
voglia l’Ecc.mo Tribunale di Bologna, reietta e disattesa ogni diversa istanza, azione od eccezione,
respingere tutte le istanze della sig.ra Tizia in quanto infondate in fatto e diritto, con condanna della
stessa alle spese e competenze professionali difensive, oltre rimborso forfettario 15%, iva e cpa.
Si chiede altresì la condanna della sig.ra Ferreira al risarcimento dei danni patiti dal sig. Caio per lite
temeraria, da quantificarsi nella misura che sarà ritenuta equa o di giustizia.”.
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con atto di citazione ritualmente notificato, Tizia, esponendo di essere rimasta nella detenzione
autorizzata dell’appartamento sito in Bologna, via *** n. ***, già di proprietà della sig.ra Mevia,
deceduta in data 18.10.2008, e di aver subito un procedimento volto a riottenere la disponibilità
dell’alloggio predetto promosso dall’erede testamentario, l’odierno convenuto sig. CAIO, cui aveva
altresì corrisposto una indennità di occupazione, esponeva di aver iniziato a dubitare della
legittimazione di costui a pretendere compensi per la sua permanenza dell’alloggio, ed in
particolare, circa l’autenticità della scheda testamentaria contenente istituzione di erede del
predetto. Sul punto, la sig.ra Tizia precisava di aver presentato una querela in danno del sig. CAIO
per il reato di cui all’art. 491 c.p., non riconoscendo l’olografia della scheda testamentaria.
Nelle more, il CAIO aveva promosso giudizio di rivendicazione dinanzi al Tribunale di Bologna,
all’esito del quale, con sentenza n. 1907/2018, essa attrice era stata condannata a rilasciare l’immobile
in favore del CAIO, corrispondendo a costui una indennità di occupazione pari ad € 6.500.
Incardinando la presente causa, TIZIA ha quindi chiesto al Tribunale di Bologna di pronunciare
l’annullamento della scheda testamentaria in oggetto, con condanna del CAIO alla restituzione
dell’indennità di occupazione già corrisposta.
Si è costituito in lite il CAIO, contestando in fatto e diritto la domanda proposta, ed eccependo, in
via preliminare, la carenza di legittimazione attiva di Tizia.
Le parti precisavano le conclusioni all’udienza del 11 febbraio 2020, ma con ordinanza in data
15.07.2020 il Tribunale, visti gli artt. 102 e 107 c.p.c. rimetteva la causa in istruttoria, ordinando alla
parte più diligente di chiamare in causa gli eventuali eredi ab intestato, previa individuazione con
ogni necessaria richiesta e in particolare tramite acquisizione e produzione dello stato di famiglia
originario della signora MEVIA e rinviando per il prosieguo all’udienza del 17.12.2020 con termine
per la notifica sino al 31.07.2020.
A tanto provvedeva l’attrice, con rituale chiamata in causa di tutti i successibili ex lege, che tuttavia,
sebbene ritualmente notificati, non si costituivano in lite.
La causa veniva poi interrotta in data 17 ottobre 2020 per decesso di CAIO, e riassunta da parte di
CAIO, richiamando le difese già svolte dal proprio dante causa.
Precisate nuovamente le conclusioni, la causa viene ora in decisione.
Rileva il Tribunale, alla luce della lettura degli atti e dei documenti di causa, che l’eccezione di
carenza di legittimazione attiva sollevata da parte convenuta sia fondata.
Infatti l’interesse ad impugnare il testamento, seppure più esteso rispetto alla ordinaria azione di
nullità, deve essere diretto ed attuale, e non eventuale e futuro, di guisa che la posizione giuridica
soggettiva di chi agisce sia suscettibile di ricevere un concreto ed effettivo pregiudizio dal permanere
dell’atto nel mondo del diritto e, per converso, un concreto ed effettivo vantaggio dalla sua
caducazione, in applicazione di un principio non dissimile da quello enunciato con riferimento
all’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.
Come osservato dal Tribunale di Torino in fattispecie analoga: “la tesi prospettata risulta
sostanzialmente confermata dalla Cassazione, la quale ha affermato che: “È inammissibile (per difetto di
interesse) l’impugnazione del testamento per incapacità del testatore proposta, ex art. 591 c.c., da eredi
legittimi (nella specie, cugini del de cuius) esclusi dall’ordine della successione legittima in conseguenza delle
esistenza in vita di altri eredi legittimi di grado poziore (nella specie, le sorelle del testatore) che non abbiano,
invece, impugnato la scheda testamentaria, poiché nessun concreto vantaggio potrebbe loro derivare
dall’eventuale accoglimento dell’azione così proposta, essendo l’eredità destinata a devolversi, in tal caso, ai
detti eredi di grado poziore” (cfr. in tal senso: Cass. civile, sez. II, 4 dicembre 1998, n. 12291 , in Giust.
civ. Mass. 1998, 2533)
Dunque, come anche chiarito nella motivazione della citata sentenza della Suprema Corte, l’art. 591, ult.
comma, cod. civ., ed i successivi artt. 606, 2 comma, e 624, 1 comma, concedendo la possibilità di impugnare
il testamento a “chiunque vi ha interesse”, estendono indubbiamente, rispetto alla normale azione di
annullamento, la categoria dei soggetti legittimati all’impugnazione, assimilando la relativa disciplina a quella
dell’azione di nullità prevista dall’art. 1421 cod. civ. – tanto da indurre taluni autori a coniare l’espressione
“annullabilità assoluta” per rimarcare l’analogia – ma, altrettanto indubbiamente, pone un preciso limite a
detta estensione, rappresentato, appunto dalla necessità che chi invoca l’annullamento abbia interesse ad
ottenerlo e non sia un quisque de populo.
E tale interesse, come ha più volte affermato la Suprema Corte, specie in tema di azione di nullità, deve essere
diretto ed attuale, e non eventuale e futuro, di guisa che la posizione giuridica soggettiva di chi agisce sia
suscettibile di ricevere un concreto ed effettivo pregiudizio dal permanere dell’atto nel mondo del diritto e, per
converso, un concreto ed effettivo vantaggio dalla sua caducazione (cfr. in tal senso anche: Cass. civile 17
maggio 1981 n. 1553, Cass. civile 9 marzo 1982 n. 1475, Cass. civile 12 luglio 1991 n. 7717).
Trattasi in definitiva di un principio non dissimile da quello enunciato con riferimento all’ interesse ad agire
ex art. 100 cod. proc. civ. (cfr. in tal senso anche: Cass. civile 20 giugno 1983 n. 4220; Cass. civile 21 giugno
1988 n. 4232), ossia a quella condizione dell’azione in forza della quale “per proporre una domanda o per
contraddire alla stessa, è necessario avervi interesse”.
L’interesse cui fa riferimento la norma citata non dev’essere inteso in senso economico e tanto meno nel senso
di quella generica convenienza implicita in ogni atto umano consapevole, bensì nel senso di interesse per
quell’ulteriore e diverso bene che può conseguirsi attraverso l’attività giurisdizionale, ossia la tutela
giurisdizionale (cfr. Cass. civile 9 dicembre 1980 n. 6371; Cass. civile 02 febbraio 1983 n. 901). Più
esattamente, l’interesse ad agire consiste nell’ affermazione, contenuta nella domanda, dei fatti costitutivi o
dei fatti lesivi di un diritto già concreto ed attuale (cfr. Cass. civile 07 dicembre 1985 n. 6177). In altre parole
ancora, l’interesse ad agire si risolve nella concreta utilità del provvedimento richiesto al Giudice rispetto alla
situazione antigiuridica denunciata, utilità che deve sussistere non solo al momento della proposizione dell’atto
introduttivo del giudizio, bensì anche al momento della decisione del Giudice” (Trib. Torino 18 ottobre 2005,
est. DI CAPUA).
Aderendo integralmente a tale impostazione di pensiero, osserva il Tribunale come, nel caso di
specie, l’attrice non nutre un interesse attuale e diretto all’annullamento della scheda testamentaria,
in quanto la sua eliminazione dal mondo degli effetti giuridici non determinerebbe certo effetti
immediati e diretti sul suo diritto di trattenere l’immobile, sul quale, oltretutto, vi è già una
pronuncia sfavorevole del Tribunale, che la condanna al rilascio, con pagamento di una indennità
per la occupazione.
La domanda deve esser quindi respinta, con conseguente condanna alle spese di lite, che vengono
regolate come da dispositivo, sulla scorta del valore di causa e dell’attività difensiva svolta.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o
assorbita,dichiarata la contumacia di ***, così dispone:
• Respinge la domanda svolta da TIZIA e la condanna al pagamento in favore della parte
convenuta costituita delle spese di lite, che si liquidano in € 4.400 per compensi, oltre IVA,
CPA e spese generali come per legge.
Bologna 15/07/2021
Il Presidente estensore
dott. ALESSANDRA ARCERI
Pubblicata 27/07/2021

Sussiste abbandono se i genitori rifiutano di collaborare.

Cassazione,2 settembre 2021, n. 23802
La censura in ordine al mancato accoglimento della domanda di consulenza tecnica è
inammissibile in quanto insindacabile se la scelta è adeguatamente motivata.
I giudici di merito avevano acquisito la ctu resa in altro giudizio, nonché le relazioni del
Consultorio familiare.
Nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore, le relazioni
degli assistenti sociali e degli psicologi costituiscono, nel quadro dei rapporti informativi, degli
accertamenti e delle indagini da compiere in via sommaria secondo il rito camerale, indizi sui
quali il giudice può fondare il suo convincimento e la cui valutazione non comporta violazione
dei diritti di difesa dei genitori.
Ricorre lo stato di abbandono in caso di rifiuto ostinato a collaborare con i servizi
predetti qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, la vita da loro offerta al figlio sia
inadeguata al suo normale sviluppo psico-fisico, cosicché la rescissione del legame familiare
risulti infine l’unico strumento che possa evitargli un più grave pregiudizio e assicurargli
assistenza e stabilità affettiva.
Rif. leg.: art. 1 L. n. 184/1983 – L. n. 149/2001
Cassazione civile sez. I – 02/09/2021, n. 23802
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 22247/2020 proposto da:
A.M.G., rappresentata e difesa dall’Avv. Vincenzo
Zummo, per procura in calce al ricorso per cassazione;
– ricorrente –
contro
Avv. S.F., nella sua qualità di tutore dei minori
C.D., Co.De., C.M. e C.S.;
Ca.Ro.;
Co.Ma.;
– intimati –
e nei confronti di:
Procura Generale presso la Corte di appello di Palermo;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte di appello di PALERMO n. 12/2020
pubblicata il 13 luglio 2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
14 giugno 2021 dal consigliere Dott. Lunella Caradonna.

RILEVATO
CHE:
1. Con sentenza del 13 luglio 2020, la Corte di appello di Palermo ha rigettato l’appello
proposto da A.M.G. e Ca.Ro., avverso la sentenza del Tribunale per i Minorenni di Palermo n.
90/2019, depositata il 18 luglio 2019, che aveva dichiarato lo stato di adottabilità dei minori
C.D., nata a (OMISSIS), Co.De., nata a (OMISSIS), C.M., nato a (OMISSIS) e C.S., nata a
(OMISSIS).
2. La Corte di appello di Palermo, a sostegno della decisione impugnata, condividendo
le statuizioni di primo grado, ha ritenuto che le risultanze istruttorie erano inequivoche e che
sussisteva il rischio che lo sviluppo psicofisico dei minori potesse essere gravemente e
irreversibilmente pregiudicato; che la relazione del 16 dicembre 2013 degli operatori della
comunità (OMISSIS) aveva messo in evidenza che i minori provenivano da una ambiente
familiare non tutelante e che, dopo un anno dall’inserimento in comunità, le difficoltà dei
minori si erano lievemente attenuate.
3. I giudici di secondo grado, inoltre, hanno affermato:
-con specifico riferimento all’ A., che la madre era incapace di prendersi cura dei propri
figli e specificamente di accudire la più piccola, S., e che si relazionava con loro solo con il
rimprovero, senza ascoltare i loro bisogni e mostrava un atteggiamento svalutante durante le
visite, inficiando così il lavoro svolto dagli operatori sui minori e incidente sulla autostima della
figlia De.; la stessa, oltre a squalificare il marito davanti ai figli, non si rendeva conto delle
gravi crisi respiratorie delle figlia J.; la stessa, dopo la nascita di Cl. il (OMISSIS), avuta dalla
relazione con il convivente Cr.Gi., non si era più presentata agli appuntamenti fissati dal
Consultorio e nel riprendere i contatti, continuava a non ammettere le proprie carenze
genitoriali;
– con riguardo a Co.Ma. che lo stesso, inizialmente, si era reso irreperibile e che aveva
dimostrato di non sapere instaurare con i figli un valido rapporto, tanto da non venire
percepito come persona autorevole e che diverse volte non si era presentato alle visite,
senza avvisare, con ciò confermando il suo disinteresse alla cura e all’assistenza dei bambini;
egli non reagiva a comportamento della moglie, che lo squalificava davanti ai figli e nemmeno
alle offese proferite dai figli stessi;
– in relazione a Ca.Ro., nonna materna, che la stessa, oltre ad essere del tutto
inconsapevole delle problematiche dei minori, come la figlia, non aveva mai manifestato una
concreta disponibilità all’affidamento, limitandosi ad aderire alle iniziative della A.;
– con riferimento a P.M., nonna paterna, che la stessa non aveva mai instaurato alcun
legame affettivo con i nipoti, dando una disponibilità ad accoglierli e durante gli incontri i nipoti
non manifestavano alcun piacere nel vederla e anche la P. rimaneva passiva e non faceva
nulla per relazionarsi con loro.
4. A.M.G., avverso la detta sentenza, ha proposto ricorso per cassazione con atto
affidato a due motivi.
5. Co.Ma., Ca.Ro. e l’Avv. S.F., nella sua qualità di tutore dei minori, non hanno svolto
difese.
CONSIDERATO
CHE:
1. Preliminarmente va rilevato che l’Avv. Gaetana Valenti, difensore del tutore, Avv.
S.F., ha rappresentato che, per mero errore materiale, non era stato inoltrato il deposito
necessario a formalizzare la sua costituzione nel giudizio di Cassazione; la stessa, peraltro,
tenuto conto dell’impossibilità di costituirsi tardivamente, ha inviato ugualmente il
controricorso, corredato dalle notifiche alle controparti a mezzo pec; si tratta di
documentazione, tuttavia, che, in quanto tardiva, è inammissibile.
2. Con il primo motivo la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n.
5, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, perché la
sentenza è stata motivata in modo apparente circa la dichiarazione dello stato di abbandono
dei minori e della conseguente dichiarazione dello stato di adottabilità.
3. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 3, la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 1 come sostituito dalla
L. n. 149 del 2001; degli artt. 1, 8 e 9 della Convenzione di Strasburgo, resa esecutiva con L.
n. 357 del 1974; degli artt. 29 e 30 Cost., con riguardo all’accertamento della sua capacità
genitoriale e alla conseguente dichiarazione dello stato di abbandono e alla successiva
dichiarazione dello stato di adottabilità.
3.1 I motivi, che vanno trattati unitariamente perché riguardano entrambi lo stato di
abbandono e la dichiarazione dello stato di adottabilità, sono infondati.
3.2 Sulla istanza difensiva volta all’esperimento di una consulenza psicologica sulla
capacità della ricorrente, va affermato che “il principio secondo cui il provvedimento che
dispone la consulenza tecnica rientra nel potere discrezionale del giudice del merito,
incensurabile in sede di legittimità, va contemperato con l’altro principio secondo cui il giudice
deve sempre motivare adeguatamente la decisione adottata su una questione tecnica
rilevante per la definizione della causa; ne consegue che, quando il giudice disponga di
elementi istruttori e di cognizioni proprie, integrati da presunzioni e da nozioni di comune
esperienza, sufficienti a dar conto della decisione adottata, non può essere censurato il
mancato esercizio di quel potere, mentre se la soluzione scelta non risulti adeguatamente
motivata, è sindacabile in sede di legittimità sotto l’anzidetto profilo” (Cass., 3 gennaio 2011,
n. 72).
Questa Corte, inoltre, ha evidenziato che “in tema di dichiarazione dello stato di
adottabilità di un minore, ove i genitori facciano richiesta di una consulenza tecnica relativa
alla valutazione della loro personalità e capacità educativa nei confronti del minore per
contestare elementi, dati e valutazioni dei servizi sociali – ossia organi dell’Amministrazione
che hanno avuto contatti sia con il bambino che con i suoi genitori – il giudice che non intenda
disporre tale consulenza deve fornire una specifica motivazione che dia conto delle ragioni
che la facciano ritenere superflua, in considerazione dei diritti personalissimi coinvolti nei
procedimenti in materia di filiazione e della rilevanza accordata in questi giudizi, anche dalla
giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, alle risultanze di perizie e
consulenze” (Cass., 7 maggio 2019, n. 12013; Cass., 26 giugno 2019, n. 17165).
3.3 Peraltro, “nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un
minore le relazioni degli assistenti sociali e degli psicologi costituiscono, nel quadro dei
rapporti informativi, degli accertamenti e delle indagini da compiere in via sommaria e
secondo il rito camerale, indizi sui quali il giudice può fondare il suo convincimento e la cui
valutazione non comporta violazione dei diritti di difesa dei genitori, atteso che questi ultimi,
nel successivo giudizio di opposizione alla dichiarazione di adottabilità (e oggi di
impugnazione), hanno il diritto di prendere cognizione di dette relazioni, di controdedurre e di
offrire prova contraria” e che “ricorre la situazione di abbandono in caso di rifiuto ostinato a
collaborare con i servizi predetti qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, la vita
da loro offerta al figlio sia inadeguata al suo normale sviluppo psico-fisico, cosicché la
rescissione del legame familiare risulti infine l’unico strumento che possa evitargli un più
grave pregiudizio e assicurargli assistenza e stabilità affettiva” (Cass., 23 gennaio 2019, n.
1883).
3.4 Tanto premesso, nel caso in esame, non si ravvisa il vizio dedotto poiché, la
motivazione dettata dalla Corte di appello è esistente e consente di ricostruire il percorso
logico seguito nel rispetto dei canoni di congruità logica e come tale è idonea a sottrarsi alla
dedotta censura (Cass., 30 giugno 2020, n. 13248; Cass., 5 agosto 2019, n. 20921; Cass., 7
aprile 2017, n. 9105; Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).
3.5 Ciò posto, i giudici di secondo grado, dopo avere affermato che sussisteva il rischio
che lo sviluppo psicofisico dei minori potesse essere gravemente e irreversibilmente
pregiudicato e che la relazione del (OMISSIS) degli operatori della comunità (OMISSIS)
aveva messo in evidenza che i minori, privi di regole, poco abituati ad una corretta igiene
quotidiana e con atteggiamenti aggressivi e provocatori, provenivano da un ambiente
familiare non tutelante, con specifico riferimento all’ A., hanno evidenziato che la madre era
incapace di prendersi cura dei propri figli e specificamente di accudire la più piccola, S., e che
si relazionava con loro solo con il rimprovero, senza ascoltare i loro bisogni e mostrava un
atteggiamento svalutante durante le visite, inficiando così il lavoro svolto dagli operatori sui
minori e incidente sulla autostima della figlia De.; la stessa, oltre a squalificare il marito
davanti ai figli, non si rendeva conto delle gravi crisi respiratorie delle figlia J.; il tentativo della
stessa di recuperare la propria capacità genitoriale, imponendo delle regole di
comportamento, non era stato continuo e la stessa, dopo la nascita di Cl. il (OMISSIS), avuta
dalla relazione con il convivente Cr.Gi., non si era più presentata agli appuntamenti fissati dal
Consultorio e nel riprendere i contatti, continuava a non ammettere le proprie carenze
genitoriali, non riconoscendo neppure le problematiche della figlia neonata e, presso
l’abitazione della stessa, sono state rilevate evidenti inadeguatezze strutturali e igieniche; che
nel senso dell’incapacità genitoriale dell’ A. deponevano anche le dichiarazioni rese dalla
psicologa del consultorio familiare e dal consulente tecnico d’ufficio nominato nel
procedimento riguardante la minore Cr.Cl..
3.6 Anche il profilo di censura riguardante la circostanza che la sentenza non spiega
adeguatamente il fatto che non si sia proceduto ad una consulenza tecnica sulle capacità
genitoriali della madre è infondato avendo i giudici di secondo grado affermato che la
richiesta di disporre una ulteriore consulenza tecnica era dilatoria ed aveva carattere
meramente esplorativo, risultando esaustiva, oltre che tecnicamente corretta, coerente ed
immune da vizi logici e, quindi pienamente condivisibile, la relazione di consulenza svolta
dalla Dott. L. in altro procedimento sulla capacità genitoriale della A..
3.7 Risulta, inoltre, dalla lettura della sentenza impugnata, contrariamente a quanto
affermato dalla ricorrente, che il Tribunale aveva sentito sia i genitori, che le nonne, materna
e paterna, (pag. 3) e che la Corte territoriale aveva ritenuto, come già detto, superfluo ogni
ulteriore approfondimento istruttorio, ivi compresa l’audizione della A. in appello, alla luce
della natura e della consistenza degli elementi emersi e specificamente dell’acquisizione delle
relazioni del Consultorio familiare (pag. 14 del provvedimento impugnato).
Si legge, poi, a pag. 6 della sentenza impugnata, che la Corte ha acquisito, con
ordinanza del 21-26 febbraio 2020, la relazione di consulenza svolta dalla Dott. L. sulla
capacità genitoriale della A. nel procedimento n. 127/2016 reg. ADS., con ciò instaurando il
contraddittorio delle parti e potendo la ricorrente svolgere specifiche osservazioni, così come,
peraltro, rileva a pagina 26 del ricorso, dove vengono genericamente richiamate le pagine 39-
40 della consulenza del 21 marzo 2019.
3.8 Non risultano, inoltre, in alcun modo esaminate nella decisione impugnata la “serie
di questioni determinanti” elencata a pag. 25 del ricorso, con conseguente inammissibilità del
profilo di censura sollevato, poiché, in tema di ricorso per cassazione, qualora siano
prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a
pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al
giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico
atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire
questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle
parti, in sede di legittimità, a prospettazioni di questioni o temi di contestazione nuovi, non
trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio (Cass., 13 giugno 2018, n. 15430).
3.9 E’ utile ribadire, al riguardo, che dovendo tutelarsi esclusivamente l’interesse del
minore, la valutazione della situazione di abbandono, quale presupposto legittimante la
declaratoria del suo stato di adottabilità, impone di avere riguardo, piuttosto che ai
comportamenti di ciascun genitore, alle possibili conseguenze sullo sviluppo psicofisico della
personalità del bambino, considerato non in astratto, ma in concreto, cioè in relazione al suo
vissuto, alle sue caratteristiche fisiche e psicologiche, alla sua età e al suo grado di sviluppo,
mentre l’età dei genitori o il livello di maturità o la consistenza intellettiva o cognitiva non
rivestono, da soli, ai fini della suddetta valutazione, una specifica rilevanza (Cass., 8
novembre 20132, n. 25213).
In poche parole, il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia
d’origine, considerata l’ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è tutelato
dalla L. n. 184 del 1983, art. 1 nel senso che il giudice di merito deve, prioritariamente,
verificare se possa essere utilmente fornito un intervento di sostegno diretto a rimuovere
situazioni di difficoltà o disagio familiare; e, solo ove risulti impossibile, quand’anche in base a
un criterio di grande probabilità, prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi
compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittimo e
corretto l’accertamento dello stato di abbandono (Cass., 27 settembre 2017, 22589; Cass.,
(Cass., 23 gennaio 2019, n. 1883, citata) e, nel caso di specie, la Corte di appello ha fatto
corretta applicazione dei citati principi.
3.10 In ultimo, va rilevato che, il disposto normativo di cui alla L. n. 184 del 1993, art. 8 e
art. 15, lett. b), laddove fa riferimento all'”assistenza morale”, oltre che materiale, afferma che
il diritto del minore a crescere ed essere educato nell’ambito della famiglia di origine incontra i
suoi limiti in presenza di uno stato di abbandono, che sussiste allorché il contegno dei
genitori, lungi dal risolversi in una mera insufficienza dell’apporto indispensabile per lo
sviluppo e la formazione della personalità del minore, comprometta o determini grave pericolo
di compromissione per la salute e le possibilità di armonico sviluppo fisico e psichico del
minore stesso. Di fronte ad un siffatto nocumento o al rischio di esso, successivi
atteggiamenti o progetti genitoriali per un miglioramento della situazione in tanto rilevano in
quanto, oltre che seri, siano oggettivamente idonei al recupero della situazione medesima
(Cass., 28 ottobre 2005, n. 21100).
3.11 Alla stregua dei principi suesposti, appare, pertanto, evidente che la decisione di
appello non è censurabile sotto il profilo del difetto assoluto di motivazione circa il fatto storico
principale della controversia, costituito dalla situazione di abbandono dei minori, né sotto
quello della violazione di legge delle norme in materia di adozione indicate, correttamene
interpretate dalla Corte territoriale.
4. Per quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Nessuna statuizione va assunta sulle spese, poiché gli intimati non hanno svolto difese.
Trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione il
D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle
generalità e degli altri dati identificativi ai sensi delD.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, il 14 giugno 2021

Presupposti per l’esenzione dal reato ex art. 570 c.p.

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI CASSINO SEZIONE PENALE
il giorno 11.11.2020 Il Tribunale di Cassino, Sezione Penale, in composizione monocratica, nella persona del Giudice Avv./Dott. Gaetano LA MILZA, nella causa penale di primo grado (registrata ai mod. 16 e mod. 21 sopra indicati) ha pronunciato la seguente SENTENZA 1) nei confronti dell’Imputato/a: (…), nato/a a (…), il (…), residente (…), in Via (…) (cfr. procura speciale del Notaio in
(…), dott. (…), del (…), rep. n. (…), per la nomina difensiva e richiesta di riti alternativi), – posizione (a)libero presente; b) libero assente; c) detenuto presente o rinunciante con la specificazione se l’imputalo sia detenuto nell’ambito dello specifico processo o per altra causa; d) sottoposto ad una misura cautelare personale diversa dalla custodia cautelare in carcere): libero assente – domiciliato/a (dichiarazione o elezione di domicilio): presso il difensore, in virtu’ di della sopra citata Procura Speciale, redatto da dal Notaio come sopra indicato; – difeso/a (di Fiducia/d’Ufficio) di Fiducia dall’Avv. (…) del Foro di Cassino-FR; – eventuale ammissione al patrocinio a spese dello Stato: (si/no), con provvedimento depositato il (…); – imputato/a del reato/dei reati p. e p. dagli artt.: 570 cp, indicati nel/i capo/i d’imputazione allegato/i alla presente, formandone parte integrante; – eventuale modifica dell’imputazione nel corso del giudizio da parte del PM o la diversa qualificazione giuridica data dal Giudice: (eventuali) Parti Private 1) (…), quale (parte Civile, Responsabile Civile, Civilmente Obbligato), nato a(…), il (…), residente, in Via; – domiciliato (dichiarazione o elezione di domicilio): – difeso dall’Avv. PROCESSO PENALE CONTRO (…), nato a (…) il (…) Elett.te domic. in (…), Via (…) presso (…) Ass.to e difeso dall’Avv. (…) del Foro di Cassino con studio in (…) IMPUTATO Del delitto di cui all’art. 570 bis c.p., perché, violava gli obblighi di assistenza familiare essendosi sottratto all’obbligo di corresponsione al coniuge separato (…) l’assegno mensile pari ad Euro 300 per il concorso al mantenimento della figlia minore (…), nonché il 50% delle spese straordinarie poste a suo carico dal giudice civile del Tribunale di Novara nell’ambito del procedimento civile RG n. 2176/16 con Decreto del 24.11,2016. – eventuale ammissione al patrocinio a spese dello Stato: con provvedimento depositato il (…); (Si omettono le conclusioni delle parti)
Svolgimento del processo (Motivi di fatto e di diritto ex art. 546/1, lett. E, nn. 1 e 4, cpp)
INTRODUZIONE DEL PROCESSO. Con Decreto di Citazione a Giudizio del 26.04.19, per l’ud. del 21.11.19, l’Imputato veniva
tratto a giudizio direttissimo per rispondere del/i reato/i di cui sopra in Epigrafe.
UDIENZE CELEBRATE-ISTRUTTORIA. Alla predetta prima udienza il processo veniva trasmesso sul ruolo del sottoscritto magistrato;
testi assenti. All’ud. del 24.06.20 si rinviava su istanza della difesa per consentirle di munirsi di procura
speciale, al fine di definire il giudizio con rito alternativo; sospesa la prescrizione. All’ud. dell’11.11.20 la difesa esibiva procura speciale per i motivi sopra detti; la difesa
dell’Imputato formulava istanza di applicazione della pena ex art. 444 cpp, subordinata alla
sospensione della pena; Imputato assente. Il PM prestava il consenso e produceva il proprio fascicolo che veniva acquisito a quello del
dibattimento. Il Giudice ammetteva la scelta del rito. Quindi, il Giudice invitava le parti alla discussione, si ritirava in camera di consiglio e decideva
come di seguito. SULLA DOCUMENTAZIONE ACQUISITA: – fascicolo del PM; – procura speciale notarile, meglio descritta in epigrafe; – istanza di patteggiammento con “visto positivo” del PM titolare; – verbale di denuncia/querela orale del 25.07.18 a firma della PO; – provvedimento del Tribunale di Novare RG n. 685/15; – verbale di denuncia/querela orale del 22.08.18 a firma della PO; CONCLUSIONI DELLE PARTI. Come da verbale di udienza di discussione che forma parte integrante della presente. Motivi della decisione (- Accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione e alla loro
qualificazione giuridica; – Accertamento dei fatti dai quali dipende l’applicazione di norme
processuali ex art. 546/1, lett. E, nn. 1 e 4, cpp)
ACCERTAMENTO DEI FATTI E DELLE CIRCOSTANZE CHE SI RIFERISCONO
ALL’IMPUTAZIONE
Dall’esame dei documenti e atti processuali non si evincono elementi per una pronuncia ex
art. 129 cpp. Infatti, dal verbale di denuncia/querela orale del 25.07.18, dal decreto del Tribunale di Novare
RG n. 685/15, dal verbale di denuncia/querela orale del 22.08.18 a firma della PO, emerge
che l’imputato, in virtù’ del precitato provvedimento era onerato al versamento delle somme
specificate nel capo d’imputazione; tali somme, si legge negli atti istruttori, che ne versava
parzialmente e sporadicamente. Di sostanziale identico tenore, emergono i fatti denunciati anche negli atti del PM, acquisiti
per il rito scelto dall’imputato. Nessun atto di segno favorevole emergeva dalla documentazione sopra citata.
QUALIFICAZIONE GIURIDICA DEI FATTI E DF.LLE CIRCOSTANZE
Art. 570 Codice Penale – Violazione degli obblighi di assistenza famigliare. (1). Chiunque, abbandonando il domicilio domestico (45, 143, 146 c.c.), o comunque
serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi
di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale (1) (147, 316 c.c.) o alla qualità di coniuge
(2) (143, 146 c.c.), è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da 103 euro a
1.032 euro. (II). Le dette pene si applicano congiuntamente a chi: 1) malversa o dilapida i beni del figlio minore (o del pupillo) (3) o del coniuge; 2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti (540; 75 c.c.) di età minore, ovvero inabili
al lavoro, agli ascendenti (540; 75 c.c.) o al coniuge, il quale non sia legalmente separato (per
sua colpa) (4) (146, 150, 151 c.c.). (III). Il delitto è punibile a querela della persona offesa (120) salvo nei casi previsti dal numero
1 e, quando il reato è commesso nei confronti dei minori, dal numero 2 del precedente
comma (5). (IV). Le disposizioni di questo articolo non si applicano se il fatto è preveduto come più grave
reato da un’altra disposizione di legge.
Il delitto è punito a querela di parte (è prevista la procedibilità d’ufficio nei casi di cui al comma
2: n. 1 e n. 2: malversazione o dilapidazione dei beni del figlio minore o del coniuge o della
omessa prestazione dei mezzi di sussistenza ove la condotta venga realizzata a danno dei
minori); la competenza è del Tribunale monocratico. L’obbligo di assistenza familiare nei confronti dei figli sussiste dal momento della nascita, ma
se l’imputazione individua in un momento posteriore il termine iniziale della condotta
omissiva, il giudice di merito non può estendere in sentenza la condanna per il reato sin dal
momento della nascita senza violare il principio di correlazione tra accusa e sentenza (Cass.
VI, n. 27194/2018). Si tratta di un reato proprio, in quanto può essere commesso soltanto dai soggetti su cui gravano obblighi di assistenza, stabiliti dal codice civile, verso taluni membri della famiglia
(del Tufo, 444; la S.C. ha precisato come tale obbligo civile costituisca “presupposto” del
reato, ad esso preesistente, rispetto al quale il giudice deve limitarsi all’accertamento,
esulando dai suoi compiti ogni potestà dichiarativa o costitutiva, Cass. VI, n. 2968/1972). Titolari di obblighi di assistenza familiare sono innanzitutto: i genitori, anche adottivi, titolari
della potestà genitoriale (la S.C. ha affermato come la configurabilità del reato di
malversazione dei beni del figlio minore non sia esclusa dalla circostanza che il soggetto
attivo sia il genitore non affidatario, Cass. VI, n. 22401/2008), la cui eventuale decadenza non
incide tuttavia sulla persistenza dell’obbligo di assistenza (Fiandaca-Musco, 366). Soggetto attivo può anche essere il coniuge, il cui obbligo all’assistenza (che sorge con la celebrazione del matrimonio), cessa con la dichiaratone di nullità del matrimonio o nel momento in cui la sentenza di divorzio divenga esecutiva (Fiandaca-Musco, 366). Attualmente la dottrina prevalente e la giurisprudenza più recente ravvisano nella previsione di cui all’art. 570, tre fattispecie autonome. a) la condotta di chi si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà genitoriali o alla qualità di coniuge, abbandonando il domicilio domestico, o serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale familiare (comma 1); b) la condotta di chi malversa o dilapida i beni del figlio minore, del pupillo, del coniuge (comma 2, n. 1); c) la condotta di chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore o inabili al lavoro, agli ascendenti, al coniuge, da cui non sia legalmente separato (comma 2, n. 2). Il caso che ci occupa rientra nell’ipotesi della “Omessa prestazione dei mezzi di sussistenza”.
Si tratta di un reato proprio. La norma non sanziona l’inosservanza degli obblighi civilistici di
mantenimento; essa tutela invece il diritto della persona – che l’ordinamento penale riconosce
e tutela- a ricevere il necessario sostegno dai propri familiari, ove si trovi in condizioni di
estremo disagio. L’omesso versamento dei mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore è configurabile
anche in mancanza di un valido provvedimento giudiziale di separazione, in quanto l’obbligo
morale e giuridico di contribuire al mantenimento dei figli grava sui genitori anche in caso di
separazione di fatto (la S.C. ha confermato la condanna dell’imputato con la quale si era
ritenuto irrilevante che il provvedimento che disciplinava l’assegno di mantenimento fosse
stato dichiarato nullo per un difetto di notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, Cass. VI,
n. 5237/2020). Lo stato di bisogno è un presupposto della condotta e viene fatto consistere nella mancanza
dei mezzi di sussistenza, da cui la persona non è in grado di uscire autonomamente. Quanto alla nozione di “mezzi di sussistenza”, essa non coincide con gli “alimenti”, disciplinati
dal codice civile: mentre i primi indicano ciò che è indispensabile per vivere; i secondi hanno
ad oggetto quanto occorre per soddisfare i bisogni della vita, secondo la condizione
economica e sociale del beneficiario (Cass. VI, n. 49755/2012, Cass. VI, n. 3485/2020). L’obbligo giuridico di prestare gli alimenti costituisce il presupposto del reato: in assenza di
tale obbligo il reato non sussiste (Cass. VI, n. 2968/1972). Il soggetto deve essere in condizione di adempiere (anche parzialmente): la prova
dell’impossibilità di farlo a tenore della giurisprudenza, spetta all’interessato (Cass. VI, n.
2736/2008). L’incapacità economica dell’obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli
inadempimenti sanzionati dall’art. 570, deve essere assoluta e deve altresì integrare ima
situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti (Cass. VI, n.
33997/2015). L’obbligo non viene meno quando i soggetti siano assistiti da terzi o dall’assistenza pubblica
(Cass. VI, n. 21320/2018). In particolare, nel caso di minori, è l’età ad integrare lo stato di bisogno, così da configurare il
reato anche se l’assistenza è assicurata dall’altro coniuge o da terzi (Cass. VI, n. 21320/2018;
si v. pure Cass. VI, n. 19508/2018 in cui si è stabilito come eventuale convincimento del
genitore inadempiente di non essere tenuto, in caso di prestazione sussidiaria da parte
dell’altro genitore, all’assolvimento del suo primario dovere, non integri nemmeno un’ipotesi di
ignoranza scusabile di una norma che corrisponde ad un’esigenza morale universalmente
avvertita sul piano sociale). Il delitto è doloso; il dolo, generico, consiste nella volontà di sottrarsi senza giusta causa agli
obblighi di cui si è titolari in ragione della propria qualità, nella consapevolezza dello stato di
bisogno cui versa il soggetto passivo (Dipaola, 47). Non è necessario che la condotta venga
posta in essere con l’intenzione e la volontà di far mancare i mezzi di sussistenza alla
persona bisognosa (Cass. VI, n. 24644/2014). Ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo di cui all’art. 570, è sufficiente che il
soggetto attivo si sia volontariamente posto nella situazione di non poter adempiere gli
obblighi di assistenza familiare (è stato ritenuto doloso, quanto meno sotto il profilo del dolo
eventuale, il comportamento del marito e padre che, inopinatamente dimettendosi dal posto di
lavoro, aveva fatto venir meno i mezzi di sussistenza alla moglie e ai figli, Cass. VI, n.
5287/1989). Il delitto di cui all’art. 570, comma 2, n. 1, è doloso; il dolo è generico. Il delitto di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, è doloso; il dolo è generico. In materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare, non si può invocare Terrore di
fatto, né l’ignoranza inevitabile della legge penale, poiché l’obbligo sanzionato deriva da
inderogabili principi di solidarietà, ben radicati nella coscienza della collettività, prima ancora
che nell’ordinamento (Cass. V, n. 5447/1995). La previsione di cui al comma 1 è considerato “reato permanente” da costante
giurisprudenza, a tenore della quale, la consumazione si protrae finché dura la sottrazione
agli obblighi morali e materiali e cessa con il sopraggiunto pagamento o con l’accertamento
della responsabilità da parte del giudice di primo grado (Cass. VI, 51499/2013, che ha
precisato come il termine di prescrizione decorra dalla cessazione della permanenza). In
sede di legittimità si è affermato come la natura permanente del reato ne impedisca la
scomposizione in una pluralità di reati omogenei (in ragione dell’unicità del bene leso
dall’omissione); pertanto le cause di estinzione del reato operano non in relazione alle singole
violazioni, ma solo al cessare della permanenza, che si verifica o con l’adempimento
dell’obbligo eluso ovvero con la pronuncia della sentenza di primo grado (Cass. VI,
45462/2015). Il reato si consuma nel luogo di effettiva dimora dell’avente diritto alla
prestazione (Cass. VI, n. 29161/ 2016). In sede di legittimità si è affermato come la condotta del genitore separato che faccia
mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori – omettendo di versare l’assegno di
mantenimento – integri esclusivamente il reato di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, nel quale è
assorbita la violazione meno grave prevista dall’art. 12-sexiesl. n. 898/1970 (ora abrogato
N.d.R.) (Cass. VI, n. 57237/2017). La minore età dei discendenti, destinatari dei mezzi di sussistenza, rappresenta in re ipsa una
condizione soggettiva di stato di bisogno, che obbliga i genitori a contribuire al loro
mantenimento, pertanto il reato di cui al secondo comma dell’art. 570 sussiste anche quando uno dei genitori ometta la prestazione di mezzi di sussistenza in favore dei figli minori o
inabili, ed al mantenimento della prole provveda in via sussidiaria l’altro genitore (Cass. VI, n.
53607/2014). Nel caso in esame, la fattispecie concreta coincide con quella astratta contestata e prevista
dal comma 2, n. 2 dell’art. 570 cp: procedibile d’ufficio. (eventuale) Responsabilità’ civile derivante da reato (ex art. 546/1, lett. E, n. 3, cpp) (eventuale) – Punibilità e determinazione della pena, ex art. 533/2 cpp – Misura di sicurezza (ex art, 546/1, lett. E, n. 2, cpp) Deve essere pure esclusa la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del
fatto, di cui all’art, 131-bis, in quanto risulta contestata una condotta perdurante,
configurandosi un’ipotesi di “comportamento abituale” ostativa al riconoscimento (Cass. II, n.
23020/ 2016). Dalle Parti (PM e Difesa) veniva calcolata la pena come segue: – pena base mesi 3 di reclusione ed Euro 100,00 di multa; – ridotta per la concessione delle attenuanti generiche a mesi 2 ed Euro 200,00, diminuita per
il rito ex art. 444 cpp a mesi 1 di reclusione ed Euro 100,00 di multa; il tutto subordinato alla
sospensione condizionale della pena. La pena indicata dalle parti risulta essere congrua. Dal Casellario Giudiziale in atti si evince l’incensuratezza dell’Imputato, facendo ritenere che
questi si asterrà per il futuro a commettere reati. Viene esclusa la condanna al pagamento delle spese processuali dello stato, essendo, il
patteggiamento, contenuto entro i due anni.
P.Q.M. (ex art. 546/1, lett. F, cpp) Visto l’art. 444 cpp, su concorde richiesta delle parti, applica all’imputato la pena finale di mesi
1 di reclusione ed Euro 100,00 di multa. Pena sospesa e non menzione. Motivazione gg.: 60 Così deciso in Cassino l’11 novembre 2020. Depositata in Cancelleria il 7 gennaio 2021. (1) L’ art. 93, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito alle parole: “potestà dei genitori” le
parole: “responsabilità genitoriale”. Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica
entra in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. (2) V. l’art. 1, comma 11 e 20 1. 20 maggio 2016, n. 76, sull’obbligo reciproco all’assistenza
reciproco all’assistenza morale e materiale nelle unioni civili. (3) Il riferimento al pupillo deve intendersi superato a seguito della soppressione dell’istituto
della tutela legale: v. sub art. 564. (4) Dopo le innovazioni apportate dalla 1. 19 maggio 1975, n. 151, che non fa più menzione della separazione per colpa, v.artt. 151 e156 c.c., ove è configurata l’eventualità di una
separazione giudiziale “addebitabile” ad uno dei due coniugi.

Maltrattamenti in famiglia e percosse: quando non sussiste il difetto di correlazione tra accusa

Cass. Pen., Sez. V, Sent., 13 agosto 2021, n. 31665;

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SABEONE Gerardo – Presidente – Dott. SCARLINI Enrico V. S. – Consigliere – Dott. CALASELICE Barbara – Consigliere – Dott. BORRELLI Paola – Consigliere – Dott. BRANCACCIO Matilde – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da: M.A.D., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 12/09/2018 della CORTE APPELLO di LECCE; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MATILDE BIRANCACCIO; udito il Sostituto Procuratore Generale Dr. LOCATELLI GIUSEPPE che ha concluso chiedendo
l’inammissibilità del ricorso; udito il difensore di parte civile, l’avv. M., che si associa alle conclusioni del PG e deposita
conclusioni e nota spese; udito, altresì, l’avv. G., in difesa dell’imputato, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con la decisione in epigrafe, la Corte d’Appello di Lecce ha confermato la sentenza del Tribunale
di Lecce del 1.12.2016, con cui M.A. è stato condannato, in relazione a due episodi di percosse nei
confronti della moglie R.F.M., alla pena di quattro mesi di reclusione, pena sospesa
condizionalmente, subordinandola al risarcimento dei danni in favore della parte civile nel termine di
60 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza; risarcimento danni cui pure l’imputato è stato
condannato, nella misura di 3000 Euro oltre accessori di legge.
L’imputazione di percosse continuate è stata ritenuta, sin dalla sentenza di primo grado, contestata “in
fatto”, all’interno del capo riferito al reato di maltrattamenti in famiglia, delitto dal quale, invece,
l’imputato è stato assolto, così come si è dichiarato con detta pronuncia il non doversi procedere nei
confronti dell’imputato quanto al reato di lesioni perchè, esclusa l’aggravante di cui all’art. 585 c.p.,
l’azione penale non poteva essere iniziata per tardività della querela. Il ricorrente avrebbe percosso la moglie, sbattendole contro, volontariamente e di proposito, l’uscio
della porta della stanza di casa (la mansarda) dove egli si trovava, al momento dell’apertura. 2. Ha proposto ricorso l’imputato, tramite il difensore avv. R., deducendo due motivi di censura. 2.1. Il primo argomento eccepito si duole della violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., per difetto di
correlazione tra accusa e sentenza, nonchè del vizio di motivazione manifestamente illogica,
riproponendo le ragioni già formulate nell’analogo motivo d’appello e lamentando come il giudice di
secondo grado abbia omesso di rilevare la nullità della sentenza e di disporre la trasmissione degli
atti al pubblico ministero. Il ricorrente, in sintesi, ritiene del tutto fuori fuoco ipotizzare – come invece hanno fatto i giudici di
merito – che nella contestazione del reato di cui all’art. 572 c.p., in relazione alla quale vi è stata
assoluzione in primo grado, si possano ritrovare gli elementi di fatto per potersi sostenere la
sostanziale imputazione nei suoi confronti per i reati di percosse continuate: mancano la descrizione
materiale delle condotte, nonchè l’indicazione del luogo e la collocazione temporale degli episodi in
relazione ai quali vi è stata condanna; nè si può sostenere che sia sufficiente a garantire il diritto di
difendersi compiutamente in relazione ad un’imputazione di reato ai sensi dell’art. 581 c.p.). il
generico inciso contenuto nel capo A alle “diverse occasioni” in cui il ricorrente avrebbe “picchiato”
la moglie. Vi sarebbe, dunque, rapporto di eterogeneità tra imputazione e reato ritenuto in sentenza (si cita Sez.
6, n. 54457 del 2016) e l’imputato non ha avuto modo di difendersi adeguatamente in seguito alla
riqualificazione del fatto, nè gli è stato consentito di chiedere, eventualmente, di essere ammesso
all’istituto della messa alla prova previsto dall’art. 168-bis c.p. 2.2. Il secondo motivo di censura eccepisce violazione di legge in relazione agli artt. 192, 530 e 533
c.p.p., nonchè all’art. 581 c.p. ed inoltre vizio di manifesta illogicità della motivazione quanto
all’affermazione di responsabilità del ricorrente, fondata su una valutazione di attendibilità della
persona offesa che si contesta in radice e sulla presenza di riscontri alle dichiarazioni di costei,
riscontri che invece sarebbero inesistenti. Il ricorso analizza la prova dichiarativa nel dettaglio, riportandone brani parziali, e deduce
travisamento di essa, quanto meno nella mancata considerazione di alcune testimonianze favorevoli,
volte a sostenere l’instabilità psichica della persona offesa (quella dell’assistente sociale P.) ovvero a
negare che il ricorrente abbia mai usato violenza contro la moglie (si fa riferimento alle dichiarazioni
del figlio della coppia M.- R.). Infine, si contesta anche la configurabilità del reato di percosse dal punto di vista della condotta
oggettiva e soggettiva, avuto riguardo ai due episodi enucleati dai giudici di merito e riferiti
all’aggressione del ricorrente, consistita nell’apertura violenta della porta della mansarda di casa ove
egli si trovava, facendola sbattere appositamente contro la persona offesa che attendeva dietro di essa. Mancherebbe la volontarietà dell’azione del percuotere e tutto sarebbe sorto da mera accidentalità. 2.3. Il terzo motivo di ricorso eccepisce vizio di motivazione quanto al diniego delle circostanze
attenuanti generiche, fondato sulla gravità del reato commesso, elemento valutativo già impiegato ai
fini della commisurazione della sanzione e, quindi, utilizzato due volte illegittimamente (in
violazione, si sostiene, del ne bis in idem). 3. Il Sostituto Procuratore Generale Dr. Giuseppe Locatelli ha chiesto, con requisitoria scritta,
l’inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è complessivamente infondato e deve essere, pertanto, rigettato.
2. Il primo motivo propone una questione in astratto meritevole di attenzione ma priva di pregio nella
fattispecie in esame. In generale, occorre analizzare l’eccezione difensiva sulle basi logico-giuridiche tracciate dalle
Sezioni Unite nella sentenza Sez. U, n. 36551 del 15/7/2010, Carelli, Rv. 248051, con la quale è stato
chiarito come, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento
del fatto, occorra una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta
nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza
sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa. Le Sezioni Unite hanno, altresì, indicato parametri sostanzialistici per l’indagine volta ad accertare la
violazione del principio suddetto, che non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente
letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la
violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a
trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione. Non rileva, pertanto, il mutamento che riguardi profili marginali, non essenziali per l’integrazione del
reato e sui quali l’imputato abbia avuto modo di difendersi nel corso del processo (Sez. 2, n. 17565
del 15/3/2017, Beretti, Rv. 269569). Da un punto di vista della verifica di compatibilità convenzionale del principio di correlazione tra
accusa e sentenza, la giurisprudenza di legittimità ha poi segnalato che la diversa qualificazione del
fatto effettuata dal giudice di appello non determina alcuna compressione o limitazione del diritto al
contraddittorio, anche alla luce dei criteri stabiliti dalla Corte EDU con la sentenza Drassich c. Italia
del 11 dicembre 2007, essendo consentito all’imputato di contestarla nel merito con il ricorso per
cassazione e tenuto conto della prevedibilità del mutamento e dell’attuazione del contraddittorio (cfr.,
tra le molte, Sez. 6, n. 422 del 19/11/2019, dep. 2020, Petittoni, Rv. 278093). Orbene, al di là dell’evidente omogeneità tra la contestazione concreta di atti persecutori e il delitto
di percosse ritenuto in sentenza, che della prima è stato ritenuto una componente essenziale, deve
essere evidenziato, in generale, come le percosse siano ritenute da sempre una delle possibili modalità
di manifestazione dei maltrattamenti, normalmente realizzate dall’autore delle vessazioni familiari
abituali insieme ad altre condotte, anch’esse configurabili come reati autonomi, fatta salva
l’unificazione logico-giuridica nell’epifenomenologia delittuosa sanzionata complessivamente
dall’art. 572 c.p., (cfr. Sez. 6, n. 6126 del 9/10/2018, dep. 2019, C., Rv. 275033, in cui la Corte
scompone il reato unico di maltrattamenti in singoli episodi sporadici di percosse, minacce e ingiurie,
qualora questi ultimi non siano idonei a costituire una persistente azione vessatoria; Sez. 1, n. 8618
del 12/2/1996, Adamo, Rv. 205754; cfr. altresì Sez. 6, n. 44700 del 8/10/2013, P., Rv. 256962). Più esplicitamente si è affermato, per quel che rileva in questa sede, che il reato di maltrattamenti in
famiglia assorbe i delitti di percosse e minacce, anche gravi (ma non quello di lesioni, attesa la diversa
obiettività giuridica dei reati: Sez. 6, n. 13898 del 28/3/2012, S., Rv. 252585; Sez. 2, n. 15571 del
13/12/2012, dep. 2013, Di Blasi, Rv. 255780; Sez. 1, n. 7043 del 9/11/2005, dep. 2006, Taheri, Rv.
234047). L’assorbimento dei delitti di percosse e minacce è condizionato, peraltro, al fatto che tali
comportamenti siano stati contestati come finalizzati al maltrattamento, poichè essi, a queste
condizioni, costituiscono elementi essenziali della violenza fisica o morale propria della fattispecie
prevista dall’art. 572 c.p., (Sez. 6, n. 33091 del 19/6/2003, Jardas, Rv. 226443). Deve, pertanto, ritenersi che correttamente, nel caso di specie, le percosse non erano state inizialmente
contestate in via autonoma, in quanto ricomprese nello schema legale del reato necessariamente
abituale di maltrattamenti che le assorbiva; successivamente, risolta con un’assoluzione la questione
della sussistenza o meno del delitto previsto dall’art. 572 c.p., si sono riespanse le possibilità di
configurare la fattispecie di percosse, ritenendone i presupposti. L’eccezione difensiva, alla luce di quanto sin qui esposto, non può trovare accoglimento. Già il
giudice d’appello – cui l’imputato ha formulato analoga censura, essendo stata operata la
riqualificazione giuridica con la sentenza di primo grado – ha correttamente ritenuto che la
contestazione per il reato di maltrattamenti inglobasse in sè quella, in fatto, degli episodi singoli di
percosse commessi dal ricorrente ai danni della moglie, sicchè, una volta esclusa la fattispecie di reato
prevista dall’art. 572 c.p., si è nuovamente svelata l’autonomia di singole componenti di condotta
prima assorbite dalla figura di reato complesso. Più precisamente, la sentenza impugnata dà atto di come, nell’originario capo d’imputazione, la
descrizione della condotta di maltrattamenti faccia specifico riferimento alle percosse poste in essere
dall’imputato nei confronti della moglie in diverse circostanze, delineando il periodo temporale in cui
dette percosse sono state ricomprese (fra il 10.4.2014, data in cui alla persona offesa venivano
diagnosticate anche lesioni, egualmente inserite nella contestazione delittuosa, ed il mese di giugno
2015, giorno sino al quale si sarebbero protratti i maltrattamenti). Anche l’istruttoria dibattimentale, per quanto espressamente chiarito dal provvedimento di secondo
grado, ha fatto richiamo, in maniera esplicita, agli episodi di percosse, oggetto della prova dichiarativa
costituita dall’esame di alcuni testimoni, nonchè di quella documentale, con rilievi fotografici
acquisiti in atti. Dunque, appare evidente la coerenza della contestazione di reato in relazione alla quale è intervenuta
condanna nel merito con il principio di correlazione dettato dall’art. 521 c.p.p.: le percosse hanno
costituito parte integrante dell’imputazione formale e sono state al centro dell’istruttoria
dibattimentale, in tal modo consentendo all’imputato una piena conoscenza delle accuse per le quali
è intervenuta condanna e il dispiegarsi completo del suo diritto di difesa. Deve affermarsi, pertanto, che non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e
sentenza nell’ipotesi in cui il giudice di merito assolva l’imputato dall’iniziale contestazione di
maltrattamenti, nella quale erano chiaramente ricomprese alcune condotte di percosse, e lo condanni
per queste ultime, in continuazione, ritenendone sussistenti i presupposti di configurabilità; tenuto
conto, altresì, del fatto che le percosse, ove realizzatesi, costituiscono elementi essenziali della
violenza fisica o morale propria della fattispecie prevista dall’art. 572 c.p. 2.1. Quanto all’eccezione relativa alla mancata accessibilità del ricorrente all’istituto di diversion della
messa alla prova, deve essere rilevata la sua genericità e, dunque, la sua inammissibilità. Il ricorrente non spiega di averla formulata con l’atto di appello, nè deduce tantomeno di aver proposto
una riqualificazione, in primo grado, che consentisse di superare l’ostatività del reato inizialmente
contestato, contemporaneamente facendo istanza di ammissione all’istituto di definizione alternativa
del processo previsto dall’art. 168-bis c.p.; sicchè, per quanto consta, l’eccezione viene formulata per
la prima volta dinanzi alla Corte di cassazione. Orbene, a prescindere dalla constatazione della arielasticità della previsione dell’art. 464 bis c.p.p.,
che non consente la richiesta della messa alla prova in un momento successivo all’apertura del
dibattimento, coerentemente all’impostazione codicistica per cui tutti i riti alternativi devono
prevedere termini Ultimi per richiederli (con la possibilità, eventualmente, di ottenere il beneficio
offerto all’imputato in determinati casi in cui la mancata ammissione al rito risulti ingiustificata, giusta
previsione espressa di legge), nel caso di specie, il Collegio ribadisce il condivisibile principio,
recentemente affermato, secondo cui il riconoscimento della diversa qualificazione giuridica del fatto
in dibattimento non legittima l’imputato a proporre tardivamente la richiesta di messa alla prova, in
quanto l’inesatta contestazione del reato non preclude l’accesso al rito speciale, giacchè la messa alla
prova ben può essere avanzata deducendosi l’erronea qualificazione giuridica del fatto (Sez. 6, n.
19673 del 8/4/2021, Amico, Rv. 281161). Ed invero, il giudice, riqualificando l’originaria contestazione ai sensi dell’art. 521 c.p.p., in una
fattispecie rientrante nei limiti edittali di cui all’art. 168-bis c.p., può sospendere il giudizio, con
messa alla prova dell’imputato, solo se questi abbia sollecitato la riqualificazione del fatto e
contestualmente richiesto il beneficio che, pertanto, non può essere concesso d’ufficio (Sez. 3, n. 8982
del 15/12/2019, dep. 2020, Bahir, Rv. 278402). Qualora l’imputato sia stato diligente, dunque, e si sia prefigurato un diverso, più favorevole esito
della contestazione delittuosa mossagli, investendo il giudice della questione sulla corretta
qualificazione giuridica della sua condotta, può essere ammesso al beneficio, alla luce delle modifiche
dell’imputazione che successivamente intervengano nel corso del processo (cfr. la sentenza n. 131 del
2019 in tema di giudizio abbreviato). L’impostazione adottata, come osservato anche dalla sentenza
n. 8982 del 2020 cit., è coerente con le direttrici ermeneutiche tracciate dalle Sezioni Unite in una
pronuncia afferente all’istituto dell’oblazione, che si rivela per molti aspetti affine a quello della messa
alla prova, in ragione dell’effetto estintivo del reato che ne può derivare. Ed infatti, Sez. U, n. 32351 del 26/6/2014, Tamborrino, Rv. 259925 ha stabilito che, nel caso in cui è
contestato un reato per il quale non è consentita l’oblazione ordinaria di cui all’art. 162 c.p. nè quella
speciale prevista dall’art. 162-bis c.p. l’imputato, qualora ritenga che il fatto possa essere
diversamente qualificato in un reato che ammetta l’oblazione, ha l’onere di sollecitare il giudice alla
riqualificazione del fatto e, contestualmente, a formulare istanza di oblazione; con la conseguenza
che, in mancanza di tale espressa richiesta, il diritto a fruire dell’oblazione stessa resta precluso ove
il giudice provveda di ufficio ex art. 521 c.p.p., con la sentenza che definisce il giudizio, ad assegnare
al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe l’applicazione del beneficio. In motivazione, le Sezioni Unite hanno rimarcato la sostanziale differenza che corre tra il caso in cui
il pubblico ministero proceda a modificare la contestazione ex artt. 516 e ss. c.p.p., che pertanto
l’imputato “subisce” e dalla quale sorge il diritto ad essere “restituito nel termine” per l’esercizio del
diritto di chiedere l’oblazione in rapporto alla imputazione modificata, e quello in cui il mutamento
non coinvolga il fatto oggetto del giudizio, ma semplicemente la sua qualificazione giuridica (come
nel caso in esame); tale ultimo profilo, infatti, non è “patrimonio” del pubblico ministero, ma tema di
diritto, sul quale le parti – e il giudice – sono chiamati a misurarsi, nell’ambito e nel quadro di una
prospettiva eminentemente dialettica. La sentenza del supremo collegio ha sottolineato come non venga richiesto all’imputato di
“antevedere” le possibili scelte del giudice in ordine ad una eventuale riqualificazione del fatto, ma
di esercitare il proprio diritto ad una qualificazione giuridica corretta, con le conseguenze che da ciò
possono derivare proprio sul terreno della oblabilità del reato. Le medesime considerazioni possono
essere utilizzate per fondare la regola di principio enunciata dal Collegio in materia di “messa alla
prova”. 3. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato e svolto, nella gran parte, in fatto, secondo
linee di censura non consentite nel giudizio di legittimità. I giudici di merito hanno ricostruito i fatti con compiutezza, dedicando la giusta attenzione alla
verifica di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa e confrontando queste ultime con la
prova dichiarativa ulteriore, molteplice e qualificata. Il tentativo del ricorrente di ridiscuterne gli esiti
in sede di legittimità, peraltro proponendo una sua parziale lettura dei risultati probatori
dibattimentali, parcellizzandoli e prospettandoli solo nella porzione di interesse, non può che essere
ritenuto estraneo al sindacato della Corte di cassazione. Inoltre, il ricorso propone censure aspecifiche che non tengono conto delle motivazioni delle due
sentenze di merito, le quali si saldano tra loro secondo lo schema giustificativo della “doppia
pronuncia conforme”, che pone limiti alla ricorribilità in cassazione deducendo il vizio di
travisamento della prova, come pure propone il ricorrente. Come noto, infatti, in tema di ricorso per cassazione, ai fini della deducibilità del vizio di
“travisamento della prova” – che si risolve nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nella
omessa valutazione della prova esistente agli atti – è necessario che il ricorrente prospetti la decisività
del travisamento o dell’omissione nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica (cfr.,
per tutte, Sez. 6, n. 36512 del 16/10/2020, Villari, Rv. 280117); cosa che non è avvenuta nel caso di
specie. 3.1. Quanto alla questione della configurabilità, dal punto di vista oggettivo, del reato di percosse, in
una fattispecie come quella in esame, da un lato, non può essere ammesso il piano di confronto che,
ancora una volta, si propone di rivalutare nel merito il tessuto di prova, per condurre il Collegio a
ritenere l’accidentalità della condotta con cui il ricorrente ha colpito la moglie, scagliandole contro
l’anta della porta al momento della repentina, ed invece volontaria, apertura violenta. Dall’altro, non vi è dubbio che anche la manomissione violenta della vittima attuata con la
“mediazione” di un oggetto può integrare il reato di percosse (e con ciò si intende rispondere alle
osservazioni difensive formulate in udienza nel corso della discussione). Tale fattispecie, invero, si
configura, secondo il senso anche del lessico comune, quando l’agente “percuota”, e cioè batta, picchi,
colpisca o violentemente comunque manometta l’altrui persona fisica con un pugno, uno schiaffo, un
urto o una spinta, pur quando l’azione venga compiuta con un oggetto contundente (cfr. Sez. 1, n.
9286 del 1/4/1980, Casani, Rv. 145924, che ha fatto l’esempio della “bastonata”, idonea ad integrare
il reato di cui all’art. 581 c.p.). Quando questa Corte regolatrice ha escluso la configurabilità del reato ha avuto riguardo alla
circostanza che una “manomissione” qualsiasi dell’altrui persona, nel senso ampio sopradetto, non si
fosse verificata (come nella fattispecie decisa da Sez. 5, n. 48322 del 2018, in cui l’assenza di energia
fisica diretta dell’agente sulla vittima è stata ritenuta nell’ipotesi di colui il quale, scuotendo una scala,
abbia provocato la caduta della vittima che era collocata su di essa), sul presupposto che la
disposizione normativa richiede un contatto fisico diretto, ancorchè “mediato” da un oggetto
contundente dal punto di vista fisico, tra il soggetto agente e la persona colpita (cfr. Sez. 3, n. 43316
del 30/09/2014, R., Rv. 260988; Sez. 5, n. 38392 del 17/05/2017, Moraldi, Rv. 271122; Sez. 5, n.
4272 del 14/09/2015, dep. 2016, De Angelis, Rv. 265629; Sez. 5, n. 51085 del 13/06/2014,
Battistessa, Rv. 261451). Ed infatti, si configura il reato di percosse nel caso in cui un’energia fisica sia esercitata, in qualsiasi
modo, con violenza e direttamente sulla persona, purchè essa non sia produttiva di malattia
(ricadendosi in tal caso nel reato di lesioni) ovvero purchè essa non si esprima in una manifestazione
di violenza di entità inavvertibile e simbolica, indice dell’esclusivo proposito di arrecare sofferenza
morale o disprezzo (in tale ipotesi configurandosi una condotta di ingiuria, oramai depenalizzata: cfr.,
prima della depenalizzazione, Sez. 3, n. 43316 del 30/9/2014, R., Rv. 260988).8 Diversamente,
sussiste il reato di percosse nell’ipotesi in cui – come accaduto nel caso di specie – l’autore della
condotta colpisca la vittima con l’anta di una porta, volontariamente aprendola con violenza, nella
consapevolezza della presenza di costei dietro di essa. 4. Anche l’ultimo motivo di censura è privo di pregio. Ai fini della determinazione della pena, il giudice può tenere conto più volte del medesimo dato di
fatto sotto differenti profili e per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del “ne bis
in idem” (Sez. 3, n. 17054 del 13/12/2018, dep. 2019, M., Rv. 279504; Sez. 2, n. 24995 del 14/5/2015,
Rechichi, Rv. 264378; Sez. 2, n. 933 del 11/10/2013, dep. 2014, Debbiche, Rv. 258011). 5. Al rigetto del ricorso segue la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali, nonchè
la condanna dell’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente
giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata
dalla Corte d’Appello di Lecce con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,
artt. 82 e 83, disponendo il pagamento in favore dello Stato, secondo quanto stabilito dalle Sezioni
Unite con la pronuncia Sez. U, ord. n. 5464 del 26/9/2019, dep. 2020, De Falco, Rv. 277760. Il Collegio, infatti, rileva che già in sede di pronuncia d’appello la parte civile era ammessa al gratuito
patrocinio e che, dinanzi al Collegio, sono state depositate conclusioni e nota spese. 5.1. Deve essere disposto, altresì, che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma
del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre,
l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla
parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte
d’Appello di Lecce con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e
83, disponendo il pagamento in favore dello Stato. In caso di diffusione del provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma
del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 6 maggio 2021. Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2021.

La corresponsione dell’assegno di mantenimento si prescrive alle singole scadenze di pagamento

Tribunale di Napoli, sent. 29 luglio 2021 – Giud. Ciccarelli

TRIBUNALE di NAPOLI
Sezione V CIVILE

Il Tribunale di Napoli, in persona del Giudice Unico Dr. Mario Ciccarelli, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I grado iscritta al numero 12273 del ruolo generale degli affari contenziosi
dell’anno 2018, riservata in decisione all’udienza del 5 maggio 2021 con i termini di cui all’art. 190
c.p.c.

TRA

B.R. (C.F.: (…)), rappresentato e difeso dagli Avv.ti…, presso i quali elettivamente domicilia in
Napoli al….;
-ATTORE-

CONTRO

B.N. (C.F.: (…)), rappresentata e difesa dall’Avv.to Conny Scalzi, elettivamente domiciliata presso il
suo studio in Portici (Na) alla via Campitelli n. 26;

A.S. (P.I.: (…)), in persona del Direttore Generale, rappresentata e difesa dall’Avv.to Rosa Anna
Peluso, elettivamente domiciliata con la stessa presso l’U.O.C. Affari Legali, in Torre del Greco (NA)
alla Via Marconi n. 66;
-CONVENUTA-

Oggetto: opposizione esecutiva

Svolgimento del processo
A mezzo di opposizione esecutiva, B.R. ha evocato in giudizio B.N. e l’A.S. chiedendo l’accoglimento
delle seguenti conclusioni: “1) Accertare e dichiarare per tutti i motivi innanzi indicati la nullità, inefficacia
ed illegittimità delle trattenute operate nella busta paga del sig. B.R. pari ad Euro 233,55 mensili e, comunque,
2) Accertare e dichiarare prescritti i crediti anteriori al mese di giugno dell’anno 2011. 3) Con vittoria di spese
ed onorari della presente procedura da attribuirsi ai procuratori costituiti”.
A fondamento della domanda, premesso il rapporto di lavoro alle dipendenze della
Amministrazione sanitaria convenuta e la sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio
contratto con la B., ha allegato che il proprio datore di lavoro, su istanza di quest’ultima, aveva
operato l’aggiornamento Istat delle somme dovute in favore della figlia a titolo di mantenimento e
provveduto a calcolare anche l’importo dovuto per lo stesso titolo, operando l’ulteriore trattenuta
dallo stipendio.
Ha eccepito, quindi, l’inammissibilità della trattenuta in difetto di intimazione di pagamento del
creditore e, comunque, l’erroneità del calcolo dell’importo dovuto per i ratei pregressi, attesa la
parziale prescrizione della pretesa.
Si è costituita l’A.S. deducendo la legittimità del proprio operato alla luce della istanza formulata
dalla creditrice.
Del pari, si è costituita B.N. chiedendo dichiararsi l’inammissibilità della domanda e, comunque,
rigettarsi la stessa.
Rilevata la natura documentale della controversia, la stessa è pervenuta per la precisazione delle
conclusioni alla udienza trattata in modalità scritta del 5 maggio 2021, allorquando è stata riservata
in decisione con i termini di legge.

Motivi della decisione
L’opposizione è parzialmente fondata e va accolta nei limiti di seguito esposti.
Giova premettere che a mezzo dello strumento di reazione attivato, la parte ha eccepito
l’inammissibilità della iniziativa assunta dal proprio datore di lavoro volta al calcolo ed alla
conseguente trattenuta sullo stipendio dell’adeguamento Istat dell’assegno di mantenimento
disposto in sede divorzile in favore della figlia.
Segnatamente, ha addotto che l’operazione di calcolo dell’adeguamento e di ulteriore trattenuta sui
ratei stipendiali non poteva prescindere da una domanda del creditore e, in particolare, da una sua
intimazione di pagamento; ha, poi, eccepito la parziale prescrizione della pretesa.
Il primo motivo di opposizione non può trovare riconoscimento.
In difetto di più circostanziata allegazione e prova delle parti in proposito, deve ritenersi che nella
specie venga in rilievo una ipotesi di pagamento diretto del mantenimento in favore dell’avente
diritto a carico del datore di lavoro dell’obbligato.
Tanto si può supporre, pur in difetto di specificazione negli scritti difensivi, in ragione delle
prospettazioni fornite.
Come è noto, nel caso in cui l’obbligo di mantenimento sia stabilito in sede di divorzio, non è
necessario un provvedimento del tribunale al fine di disporre il pagamento diretto, i cui effetti si
producono in ragione della sola istanza della parte in favore della quale l’obbligo è previsto. Inoltre,
il coniuge creditore gode di azione esecutiva diretta nei confronti del terzo inadempiente.
Trattasi, all’evidenza, di uno strumento di garanzia dei crediti di mantenimento, inquadrato dalla
principale giurisprudenza nella cessione coattiva del credito, nell’ambito quindi della cessione del
credito di cui all’art. 1260 c.c. disposta dalla legge nel caso di invito stragiudiziale ex art. 8 L. n. 898
del 1970.
Ciò posto in linea generale e venendo al profilo di doglianza in esame, così come il versamento
diretto ad iniziativa del datore di lavoro dell’obbligato costituisce conseguenza immediata della
richiesta della parte, l’adeguamento Istat dell’assegno è un effetto automatico dell’obbligo.
Detto automatismo consente di prescindere dalla intimazione di pagamento al fine di rivendicarne
l’ammontare proprio alla luce delle caratteristiche tipiche dell’istituto.
Innanzitutto, il rapporto diretto che si istaura tra il creditore ed il terzo tenuto al pagamento della
prestazione in favore del debitore induce a ritenere quest’ultimo estraneo alla richiesta di
adeguamento dell’assegno di mantenimento e, a fortiori, dalla intimazione di pagamento per detta
causale. Conferma di quanto sostenuto, del resto, si trae proprio dal diritto di azione esecutiva
diretta che il beneficiario della prestazione gode nei riguardi del terzo inadempiente.

Inoltre, l’irrilevanza della notificazione della intimazione di pagamento nei confronti del debitore si
ricava anche dalle caratteristiche proprie dell’adeguamento, che è un effetto accessorio, ma
automatico, che sfugge addirittura dalla specifica previsione all’interno del titolo che prevede la
prestazione principale del mantenimento.
Infine, sempre in ragione del rapporto tra prestazione principale e accessoria, non avrebbe senso
consentire al creditore di rivolgersi direttamente al terzo, a fronte dell’inadempimento del debitore,
per il versamento diretto dell’ammontare dell’assegno, ma imporre per l’adeguamento Istat della
prestazione la previa intimazione di pagamento al debitore.
Sulla scorta delle determinazioni che precedono, il motivo di opposizione non può trovare
accoglimento.
Parzialmente fondato, nei limiti che seguono, è l’altro motivo.
A mezzo dello stesso, l’opponente ha contestato il calcolo dell’ammontare dell’adeguamento Istat
dovuto al creditore per i ratei pregressi, quindi l’ulteriore trattenuta in busta paga disposta per tale
causale, assumendo come il quinquennio della prescrizione decorresse a ritroso a partire dalla
comunicazione dell’adeguamento, non già dalla data di pubblicazione della sentenza che ha
riconosciuto il diritto.
In punto di diritto, la prospettazione della parte coglie nel segno.
La giurisprudenza ha costantemente affermato che “In tema di separazione dei coniugi e di
cessazione degli effetti civili del matrimonio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di
mantenimento, in quanto avente ad oggetto più prestazioni autonome, distinte e periodiche, si
prescrive non a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della
sentenza di separazione o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, bensì dalle singole
scadenze di pagamento, in relazione alle quali sorge, di volta in volta, l’interesse del creditore a
ciascun adempimento” (Cass. Civ., 4 aprile 2005, n. 6975). Tale principio si applica anche alla
rivalutazione monetaria.
Il terzo ha fatto iniziale corretta applicazione del canone ermeneutico che precede nelle
comunicazioni intrattenute in via stragiudiziale con le parti.
Ed, invero, a seguito della richiesta di adeguamento inoltrata al terzo dal creditore con nota prot.
(…) del 23.06.2014 (cfr. doc. n. 2 del fascicolo di parte convenuta B.), il datore di lavoro comunicava
al proprio dipendente/debitore con nota prot.n. (…) del 10.07.2014 che “…il totale dell’importo dovuto
alla creditrice per il mancato versamento degli aggiornamenti per il periodo giugno 2009/maggio
2014 ammonta ad Euro 3.471,34 (comprensivi di interesse come per legge)” (cfr. doc. fascicolo di
parte attrice e di parte convenuta A.S.).

Tuttavia, con successiva nota prot.n. (…) del 2.8.2016, comunicava che “Per quanto concerne gli
arretrati dal mese di giugno 2006 a tutto luglio 2016 – Euro 3.736,80 – comprensivi di interesse come
per legge, avverrà con trattenute mensili nell’ambito della disponibilità dello stipendio tenuto conto
della sua situazione debitoria e nell’ambito di quanto stabilito dall’art.2 D.P.R. 5 gennaio 1950, n.
180”.
Il computo effettuato, da ultimo, dalla parte ed applicato in concreto (si veda anche il calcolo
analitico di rivalutazione ed interessi contenuto nel fascicolo di parte convenuta A.S.) risulta
effettivamente erroneo perché fa risalire la decorrenza dell’adeguamento sin dalla data di deposito
della sentenza, senza tener conto della maturata prescrizione dei retei anteriori al quinquennio.
Al contempo, però, non può condividersi neppure la tesi attorea in virtù della quale il calcolo della
prescrizione della pretesa decorrerebbe dalla comunicazione del 2.08.2016, atteso che detta
prescrizione risulta interrotta dalla precedente comunicazione del 23.06.2014, di cui la stessa parte
attrice ha sostenuto di essere a conoscenza.
In ragione di quanto precede, l’ammontare della rivalutazione della prestazione dovuta, unitamente
agli interessi maturati, per il periodo giugno 2009-luglio 2016 è pari a Euro 3.024,13.
Ne consegue l’accoglimento parziale della domanda.
La manifesta infondatezza del primo profilo di doglianza, unitamente alla modesta incidenza sul
quantum debeatur dell’altro motivo di opposizione che ha trovato limitato riconoscimento,
costituiscono gravi ragioni per compensare integralmente tra le parti le spese di lite.

P.Q.M.
il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da B.R. nei confronti di B.N. e
dell’A.S. iscritta al n. 12273/18 del R.G., così provvede:

1. accoglie l’opposizione nei limiti di cui alla parte motiva;

per l’effetto,

2. dichiara legittima e dovuta la trattenuta stipendiale effettuata dal terzo nei limiti dell’importo di
Euro 3.024,13;

3. dichiara prescritta la pretesa maturata anteriormente alla mensilità di giugno 2009;

4. compensa integralmente tra le parti le spese di lite.

Così deciso in Napoli, il 28 luglio 2021.
Depositata in Cancelleria il 29 luglio 2021

Il pagamento del compenso del difensore di parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato può essere chiesto con autonomo giudizio contro il Ministero della Giustizia?

Nella causa n. 720/2020 R.G. promossa da
TRIBUNALE BOLOGNA
SECONDA SEZIONE CIVILE
Z. avv. V. (avv. V. Z.) contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (convenuto contumace)

ORDINANZA
(art. 702 – ter, comma 2, c.p.c.)

Il giudice, esaminati gli atti e i documenti di causa;
analizzate le questioni controverse;
osserva quanto segue.

L’avv. V. Z. ha promosso, nelle forme del procedimento sommario di cognizione (artt.
702 – bis e ss., c.p.c.), una causa contro il Ministero della Giustizia per ottenere il pagamento <> della somma di euro 2.767,00 <<(importo già ridotto del 50% per gratuito patrocinio ex art. 130 D.P.R. n. 115/2002)>>, oltre al
rimborso forfettario delle spese generali pari al 15% e agli accessori di legge, <
> da lui svolta davanti al Tribunale di Ferrara nel
procedimento di separazione consensuale n. 3968/15 R.G., nell’interesse e su mandato della signora
M. A., parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato. Come chiaramente illustrato nel ricorso introduttivo, il presente procedimento è stato instaurato alcuni anni dopo che l’istanza di liquidazione del compenso presentata dall’avv. Z. era
stata dichiarata tardiva dal giudice dell’omologa della separazione consensuale, ossia il Tribunale di
Ferrara in composizione collegiale.
2. La domanda, così è esplicitato nel ricorso, è stata proposta davanti al Tribunale di Bologna in
applicazione dell’art. 25 c.p.c., sul rilievo che il creditore è domiciliato a Ferrara, mentre a Bologna
ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe
competente secondo le norme ordinarie. Come si legge nel ricorso, nelle cause in cui è parte una amministrazione dello Stato l’art. 25
c.p.c. opera come eccezione alle regole generali: dunque, se l’amministrazione è convenuta il
distretto competente <>. Per
individuare il forum destinatae solutionis, si legge sempre nel ricorso, <>.
3. Ricorso e decreto sono stati notificati all’Avvocatura dello Stato di Bologna a mezzo PEC il 6 giugno 2020.
4. Nonostante la regolare notifica, il Ministero convenuto non si è costituito ed è stato
dichiarato contumace.
5. Il ricorrente ha illustrato le sue ragioni sia con una nota scritta autorizzata dal giudice, come
richiesto nel decreto di fissazione dell’udienza, sia con gli argomenti esposti nell’udienza in presenza.
6. Sulla scorta delle allegazioni e produzioni del ricorrente, i fatti rilevanti per la decisione possono
essere così riassunti: – l’avv. Z., quale difensore di fiducia, ha assistito la signora M. A. nel procedimento per
separazione consensuale n. 3968/15 R.G. Vol. instaurato dalla sua cliente, unitamente al marito
(anch’esso difeso dall’avv. Z.), davanti al Tribunale di Ferrara; – già prima del deposito del ricorso congiunto datato 5 novembre 2015, la signora M. A. era
stata ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato con delibera n. 192 del Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Ferrara assunta nell’adunanza consiliare del 29 settembre 2015, richiamata nell’intestazione del ricorso ex art. 711 c.p.c. e prodotta in copia come allegato 4; – il 12 gennaio 2016 si è tenuta l’udienza di comparizione personale dei coniugi davanti al presidente designato; – il procedimento per separazione consensuale si è concluso con decreto di omologa emesso il 12 gennaio 2016 dal Tribunale di Ferrara in composizione collegiale, depositato in via telematica il 30 gennaio 2016; – il 22 agosto 2017 l’avv. Z. ha depositato istanza per la liquidazione del compenso a lui spettante
quale difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato e ha chiesto la liquidazione
della somma (già dimezzata ex art. 130, d.p.r. n. 115/2002) di euro 2.767.00, oltre rimborso spese
forfettario e accessori di legge; – con decreto deliberato il 20 settembre 2017 e comunicato via PEC il 23 settembre 2017, il
Tribunale di Ferrara in composizione collegiale ha dichiarato inammissibile l’istanza di liquidazione
in quanto <>.
7. Il decreto deliberato il 20 settembre 2017 dal Tribunale di Ferrara in composizione collegiale,
affetto da un evidente, ma non rilevante, errore materiale nell’indicazione della parte assistita e
ammessa al patrocinio a spese dello Stato (in esso infatti è menzionato il marito della signora A.), è
così formulato: <>.
8.
3 Firmato Da: COSTANZO ANTONIO Emesso Da: ARUBAPEC S.P.A. NG CA 3 Serial#: 54e96e82eb281fbc1ec47773cc8ef09e
Come pacifico (v. i chiarimenti resi dal ricorrente sulle questioni sollevate dal giudice), il
predetto decreto del Tribunale di Ferrara non è stato impugnato.
9. Nell’atto introduttivo del presente procedimento, lo stesso avv. Z., riportando altresì il principio
di diritto enunciato da Cass., sez. II, 9 settembre 2019, n. 22448 (che però aveva dichiarato
inammissibile il ricorso dell’avvocato allora ricorrente e ciò per la ragione enunciata al par. 2 della
motivazione), ha illustrato ampiamente le ragioni per cui, contrariamente all’interpretazione
dell’art. 83, comma 3-bis, d.p.r. n. 115/2002 accolta dal Tribunale di Ferrara, non vi è alcuna
decadenza a carico del difensore di parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato che abbia
depositato l’istanza di liquidazione del compenso dopo la pronuncia del provvedimento che chiude
la fase cui l’istanza si riferisce. Pur ritenendo <>, il ricorrente, richiamati alcuni
precedenti di merito, ha dichiarato di voler esercitare <>. Come si legge nel ricorso, l’avv. Z. ha altresì invocato una decisione del Tribunale di Ferrara (si tratta di un’ordinanza deliberata il 20 giugno 2017, il cui testo è prodotto come doc. 8) <> e, sulla scorta di tale precedente, ha precisato
<>.
10. Il ricorrente ha dunque chiesto, in sostanza, la condanna del Ministero della Giustizia al
pagamento della somma di euro 2.767,00 (oltre rimborso forfettario, CPA e IVA) <>, nonché <>.
11. Si tratta ora di verificare l’ammissibilità del ricorso così come proposto, atteso che a norma
dell’art. 83, commi 1 e 2, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, la liquidazione del compenso spettante al
difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato <<è effettuata al termine di ciascuna fase o grado del processo e, comunque, all'atto della cessazione dell'incarico, dall'autorità giudiziaria che ha proceduto>> e che, nel caso ora in esame, l’autorità giudiziaria che
ha proceduto va identificata nel Tribunale di Ferrara (in composizione collegiale).
12. Tra gli antecedenti di fatto allegati a fondamento della domanda di condanna proposta nelle
forme del procedimento sommario di cognizione introdotto contro il Ministero della Giustizia, il
ricorrente pone, tra l’altro, il decreto collegiale deliberato il 20 settembre 2017 con cui il Tribunale di Ferrara ha dichiarato inammissibile la sua istanza di liquidazione del compenso depositata il 22
agosto 2017. Come già osservato, tale decreto collegiale non è stato impugnato dall’odierno ricorrente. Verosimilmente, e in tal senso si è espresso il ricorrente, il Tribunale di Ferrara ha dichiarato inammissibile l’istanza di liquidazione sulla base del comma 3 bis dell’art. 83, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115 (introdotto con l’art. 1, comma 783, l. 28 dicembre 2015, n. 208, in SO n. 70, relativo
alla G.U. 30 dicembre 2015, n. 302), in vigore dal 1 gennaio 2016, a norma del quale <>: e cioè sul presupposto, ricavato in via interpretativa,
che l’istanza di liquidazione depositata dal difensore dopo la pronuncia del decreto che ha definito
il procedimento per separazione consensuale fosse tardiva e che dunque il difensore fosse incorso
in una decadenza (contra, Cass., sez. II, 9 settembre 2019, n. 22448 e Cass., sez. VI-2, ord. 22
settembre 2020, n. 19733, secondo cui l’art. 83, comma 3-bis, d.p.r. n. 115/2002 è una disposizione
volta ad accelerare e semplificare il procedimento di liquidazione senza stabilire termini di decadenza per
la presentazione dell’istanza né la perdita della potestas iudicandi del giudice – davanti al quale si è svolto
il giudizio di merito presupposto – una volta che sia stato pronunciato il provvedimento che definisce la
fase giudiziale di riferimento; nella giurisprudenza di merito, v., fra gli altri precedenti, Trib. Mantova, 29
settembre 2016, Trib. Reggio Emilia, 6 dicembre 2017, in Resp. civ. prev., 2018, 4, 1221).
Ad ogni modo, è evidente che il presente giudizio non ha ad oggetto il controllo della correttezza
dell’interpretazione accolta dal Tribunale di Ferrara con il decreto collegiale deliberato il 20
settembre 2017.
13. Rispondendo a specifica questione sollevata dal giudice, il ricorrente ha precisato che: <>. Il ricorrente ha altresì precisato di non aver in precedenza instaurato un giudizio ex art. 702-
bis c.p.c. davanti al Tribunale di Ferrara, essendogli noto l’orientamento di quell’ufficio che, in un
caso analogo, con ordinanza 20 giugno 2017 (menzionata nel ricorso, prodotta come doc. 8, e qui
già citata nel paragrafo 9) aveva già dichiarato la propria incompetenza territoriale <>. A tal
proposito, il ricorrente ha depositato, quale precedente favorevole alla sua prospettazione,
l’ordinanza, di accoglimento della domanda di liquidazione del compenso, pronunciata dal Tribunale
di Bologna nel giudizio riassunto dopo la predetta declaratoria di incompetenza deliberata il 20
giugno 2017 dal Tribunale di Ferrara. Invero, Trib. Bologna, ord. 12-13 novembre
2017, questo il precedente ora invocato dall’avv. Z., <> si è
limitata ad <> dei provvedimenti emessi dal Tribunale di Ferrara (il primo,
un decreto collegiale che – come nel caso ora in esame – aveva dichiarato tardiva l’istanza di
liquidazione del compenso presentata dal difensore dopo il deposito del decreto di omologa della
separazione giudiziale; il secondo, l’ordinanza monocratica 20 giugno 2017 che, nel giudizio ex art.
702 bis c.p.c. contro il Ministero della Giustizia, aveva ravvisato la competenza esclusiva del
Tribunale di Bologna in base al foro erariale ex art. 25 c.p.c.) e, pur non condividendo l’orientamento
espresso nelle due decisioni del Tribunale di Ferrara, ha ravvisato <>, e ciò sul rilievo che <>. Detta ordinanza
dunque, in accoglimento del ricorso ex art. 702 bis c.p.c., ha liquidato il compenso in favore del
difensore e condannato il Ministero della Giustizia al pagamento della somma liquidata,
compensando però le spese processuali (<>). Peraltro, sul punto non vi è un orientamento univoco del Tribunale di Bologna. Anzi, vi è un precedente di segno opposto, la cui <> è stata ravvisata, sia pur in
via incidentale, dalla stessa Cassazione. Si tratta di un’ordinanza, emessa a definizione di un
procedimento ex art. 702 – bis c.p.c. analogo a quello ora introdotto dall’avv. Z. e sempre relativo ad
una istanza di liquidazione di compenso per attività svolta davanti al Tribunale di Ferrara, che ha
dichiarato il difetto di legittimazione del Ministero della Giustizia. La sostanziale <> di tale declaratoria è stata individuata dalla Cassazione <>: queste le parole di Cass., sez. II, 9
settembre 2019, n. 22448, la cui articolata motivazione, che affronta questioni diverse, è stata
invero invocata dall’odierno ricorrente a supporto della propria domanda. Ed infatti Trib. Bologna, ord. 18 settembre 2017, ossia la decisione emessa ai sensi dell’art. 702-ter c.p.c. ed esaminata da Cass., sez. II, 9 settembre 2019, n. 22448 (in quel caso, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso per saltum proposto dal difensore in violazione dell’art. 702-quater c.p.c.), ha accolto una soluzione diversa da quella del precedente invocato dal ricorrente.
Il caso concreto era esattamente sovrapponibile a quello qui in esame: vi era stata una declaratoria
di inammissibilità dal parte del giudice del Tribunale di Ferrara che aveva definito il giudizio di merito
e (a differenza di quando avvenuto nella vicenda analizzata da Trib. Bologna, ord. 12-13 novembre
2017) non risulta che il ricorso ex art. 702-bis c.p.c. fosse stato preventivamente proposto davanti
al Tribunale di Ferrara. Nella contumacia del Ministero della Giustizia, Trib. Bologna, ord. 18
settembre 2017 ha respinto la domanda, osservando che:
a) <>;
b) <>.
14. Per risolvere la questione relativa all’ammissibilità del ricorso, occorre interrogarsi sulla via
prescelta dall’odierno ricorrente in rapporto alle disposizioni in materia di spese di giustizia
(sull’ambito di applicazione del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, v. l’art. 2). La domanda giudiziale può essere proposta con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. al tribunale
competente <>.
6
Il ricorso ex art. 702-bis c.p.c. ora in esame dà per presupposto un diritto di credito dell’avv. Z. nei confronti del Ministero della Giustizia e più precisamente una pretesa suscettibile di essere
fatta valere in via autonoma nell’ambito di un giudizio ordinario di cognizione volto alla tutela di
condanna. E ciò fa sulla scorta di alcuni precedenti di merito, a loro volta fondati sull’assunto che, a
norma dell’art. 83, comma 3 bis, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, l’istanza di liquidazione del compenso
deve ritenersi tardiva, e per ciò inammissibile, se presentata dal difensore dopo l’emissione del
provvedimento che chiude la fase cui la richiesta si riferisce. Sull’interpretazione accolta dai precedenti invocati dal ricorrente si è pronunciata la corte di
legittimità (Cass., sez. II, 9 settembre 2019, n. 22448 e Cass., sez. VI-2, ord. 22 settembre 2020, n.
19733; v. inoltre Cass., sez. I, ord. 16 giugno 2020, n. 11677) Peraltro, ai fini della presente decisione è sufficiente rilevare che l’accesso al rito sommario di
cognizione di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c. è previsto quale alternativa al processo ordinario. In altri termini, se non è data azione di condanna esperibile nelle forme del giudizio ordinario davanti al tribunale in composizione monocratica, il ricorso al procedimento sommario è
inammissibile. Ciò premesso, se, da un lato, è pacifica l’inapplicabilità al caso di specie dell’art. 14, d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, poiché, in sostanza, il Ministero della Giustizia non è cliente del difensore
della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato (lo riconosce lo stesso ricorrente, sulle orme
di Cass., sez. II, 9 settembre 2019, n. 22448), dall’altro, il legislatore non prevede che quel
difensore possa promuovere un autonomo giudizio ordinario di condanna (una causa <>) contro il Ministero della Giustizia, proprio
perché il Ministero non è cliente del difensore e perché il diritto al compenso, sia pur fondato su
presupposti di legge, sorge solo col <> emesso ai sensi degli artt. 82-83,
d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115 <> e << secondo le norme del ... testo unico>> in materia di spese di giustizia (cfr., sulla nozione di <>,
contenuta nell’art. 168, d.p.r. cit., relativo al decreto di pagamento delle spettanze agli ausiliari del
magistrato e dell’indennità di custodia, Cass., sez. I, 24 gennaio 2019, n. 2074, con riguardo alla
diversa ipotesi di liquidazione del compenso per il noleggio ad una Procura della Repubblica di
apparecchiature destinate ad intercettazioni telefoniche ed ambientali). Decreto di pagamento che
viene pronunciato <> (così l’art. 83, comma 2,
cit., che aggiunge <<[...] per il giudizio di cassazione, alla liquidazione procede il giudice di rinvio, ovvero quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato. In ogni caso, il giudice competente può provvedere anche alla liquidazione dei compensi dovuti per le fasi o i gradi anteriori del processo, se il provvedimento di ammissione al patrocinio è intervenuto dopo la loro definizione>>; cfr. Cass., sez. VI-1, ord. 15 ottobre 2020, n. 22281; Cass., sez. I, ord. 16 giugno
2020, n. 11677; Cass., sez. VI-2, ord. 25 giugno 2019, n. 16940) ed è comunicato al beneficiario e
alle parti, compreso il pubblico ministero (art. 83, comma 3, cit.). Ai sensi del t.u. spese di giustizia, la competenza a liquidare il compenso in favore del
difensore della parte ammessa al beneficio de quo appartiene dunque solo al giudice (non
necessariamente civile né tanto meno necessariamente al tribunale in composizione monocratica)
che ha definito il procedimento cui l’istanza si riferisce e che proprio in ragione di tale posizione,
ossia del punto di osservazione in cui si trova, può, con piena cognizione di causa, valutare la qualità
e l’efficacia dell’attività difensiva e dunque attribuire all’avvocato un equo compenso <> (art. 82, d.p.r. cit.). Il legislatore non prevede altra via. Oltretutto, ai sensi dell’art. 136, d.p.r. cit., spetta solo all’autorità giudiziaria che ha proceduto

(o, per il giudizio di cassazione, al giudice di rinvio ovvero a quello che ha pronunciato la sentenza
passata in giudicato: Cass., sez. VI-2, ord. 25 giugno 2019, n. 16940; Cass., sez. II, ord. 2 ottobre
2018, n. 23972), nell’esercizio di un potere del tutto estraneo alla controversia tra le parti del giudizio di merito, la competenza a disporre la revoca dell’ammissione al patrocinio, cui consegue
il radicale diniego del compenso al difensore (Cass., sez. VI-2, ord. 11 settembre 2018, n. 21997), se
l’interessato ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (cfr. Cass., sez. VI-2, ord.
27 novembre 2020, n. 27203; Cass., sez. I, ord. 28 luglio 2020, n. 16117; Cass., sez. II, ord. 17
ottobre 2018, n. 26060; Cass., sez. VI-2, ord. 6 dicembre 2017, n. 29144; sulla valutazione spettante
al <> in tema di protezione internazionale, v. Cass., VI-2, ord. 10 aprile 2020,
n. 7788; quanto allo stretto nesso tra liquidazione del compenso ed esito dell’attività difensiva, v.
ora l’art. 130-bis, d.p.r. cit., che al comma 1 esclude la liquidazione del compenso al difensore
<) oppure se risulta
l’insussistenza dei presupposti per l’ammissione o una variazione delle condizioni reddituali (cfr.
Cass., sez. VI-2, ord. 21 luglio 2020, n. 15458). In tali ipotesi, legittimato a proporre opposizione ai
sensi dell’art. 170, d.p.r. cit., è solo la parte, mentre unico legittimato passivo è il Ministero della
Giustizia, poiché esclusivo titolare del rapporto debitorio oggetto del procedimento stesso (v.
Cass., sez. VI-2, ord. 15 marzo 2019, n. 7486; Cass., sez. VI-2, ord. 29 gennaio 2019, n. 2517;
Cass., sez. VI-2, ord. 11 settembre 2018, n. 21997; Cass., sez. III, ord. 8 febbraio 2018, n. 3028;
cfr. inoltre Cass., sez. I, ord. 28 luglio 2020, n. 16117; Cass., sez. un., 20 febbraio 2020, n. 4315;
Cass., sez. I, ord. 3 giugno 2020, n. 10487; Cass., sez. VI-2, ord. 22 gennaio 2019, n. 1684,
secondo cui <>; v. anche Corte cost., 24 aprile 2020, n. 80). Il potere di revoca
dell’ammissione al beneficio, che ove esercitato preclude in radice la liquidazione del compenso in
favore del difensore e dunque è strettamente legato al potere (spettante alla <>, ossia al <>, secondo la formula
impiegata da Cass., VI-2, ord. 10 aprile 2020, n. 7788) di emettere il decreto di pagamento, non
appartiene invece al giudice che sia adito con una domanda di condanna proposta, come nella
specie, in via autonoma contro il Ministero della Giustizia. Ciò porta ad escludere che la liquidazione
del compenso possa essere disposta da un giudice privo del potere di controllo, e revoca, riservato
dall’art. 136, d.p.r. n. 115/2002 all’autorità giudiziaria che ha proceduto. Per altro verso, contro il decreto di pagamento del compenso, o il decreto che quel compenso
nega, è ammessa ex art. 84, d.p.r. n. 115/2002 (solo) l’opposizione del difensore ai sensi dell’art. 170, d.p.r. cit., da proporsi, secondo la previsione di cui all’art. 15, d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150,
nelle forme del rito sommario di cognizione: legittimato attivo è il solo difensore, legittimato passivo
è il Ministero della Giustizia (Cass., sez. VI-2, ord. 17 ottobre 2017, n. 24423; Cass., sez. un., 29
maggio 2012, n. 8516: si veda anche l’iter processuale che ha condotta alla pronuncia della più volte
citata Cass., sez. VI-2, ord. 22 settembre 2020, n. 19733). Sul punto si rimanda, da ultimo, a
Cass., sez. VI-2, ord. 23 giugno 2020, n. 12320 e ai precedenti ivi richiamati. Secondo la Cassazione,
nel regime introdotto dall’art. 170, d.p.r. n. 115/2002, come già nella vigenza della I. n. 319/1980,
il ricorso avverso il decreto di liquidazione del compenso all’ausiliario del magistrato non è atto di
impugnazione, ma atto introduttivo di un procedimento contenzioso, nel quale il
giudice adito ha il potere-dovere di verificare la correttezza della liquidazione in base ai criteri legali,
a prescindere dalle prospettazioni dell’istante, con il solo obbligo di non superare la somma richiesta
(da ultimo, Cass., sez. II, 30 gennaio 2020, n. 2206, nel senso che i poteri istruttori officiosi
che connotano il procedimento di liquidazione dei compensi degli ausiliari del giudice e dei
difensori delle parti ammesse al patrocinio a spese dello Stato, accedono non solo alla
determinazione del quantum ma anche alla verifica dell’an: pertanto, la domanda non può essere
rigettata per il solo fatto della mancanza, nel fascicolo dell’opposizione, della nota spese
presentata dall’avvocato o del provvedimento di ammissione al beneficio predetto della parte da
questo assistita). Infine, come affermato dalla Cassazione, qualora la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato sia vittoriosa in una controversia civile proposta contro una amministrazione statale, l’onorario
e le spese spettanti al difensore vanno liquidati ai sensi dell’art. 82, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, ovvero, con istanza rivolta al giudice del procedimento, non potendo riferirsi a tale ipotesi l’art. 133, d.p.r. cit., a norma del quale la condanna alle spese della parte soccombente non
ammessa al patrocinio va disposta in favore dello Stato (Cass., sez. VI-2, ord. 29 novembre 2018,
n. 30876; Cass., sez. II, 29 ottobre 2012, n. 18583). Il che conferma come la liquidazione del
compenso del difensore della parte ammessa al beneficio de quo abbia una sua autonomia
formale rispetto al giudizio di merito ma vada pur sempre richiesta all’autorità che ha proceduto. Le disposizioni di cui agli artt. 82-83 e 170, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115 consentono al difensore
di parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato un accesso pratico ed efficace ad un giudice al
fine di ottenere la liquidazione del compenso (cfr., in un ben diverso contesto, Corte EDU, prima
sezione, 11 giugno 2020, caso Kandarakis c. Grecia, ric. 48345/12 +2). In conclusione, poiché la domanda di liquidazione del compenso del difensore di parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato va proposta nel rispetto della disciplina, in punto di
competenza e di rito (oltre che di criteri di liquidazione), prevista dal d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, e
non instaurando un autonomo giudizio di cognizione ordinaria contro il Ministero della Giustizia
davanti al tribunale in composizione monocratica, allora il ricorso in esame, presentato ai sensi
dell’art. 702-bis c.p.c., è inammissibile ex art. 720-ter, comma 2, c.p.c..
15. Nulla sulle spese, stante la contumacia del convenuto.
P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso.
Si comunichi. Bologna, 17 febbraio 2021 Il giudice Antonio Costanzo

Godimento di un fondo per mera permissio e animus possidendi

TRIBUNALE DI BRINDISI
sezione civile
Il giudice,
letto il ricorso per reintegra nel possesso depositato in data 24.1.2020 nell’interesse di
Antonio;
sentite le parti, esaminati gli atti e sciogliendo la riserva di cui al verbale del 22/6/2021,
osserva:
Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
La espletata attività istruttoria ha invero confermato che la resistente ha avuto la disponibilità ed il
godimento del terreno oggetto del diritto di enfiteusi del ricorrente per mera permissio del
possessore.
Dall’ascolto degli informatori è invero emerso che Antonio, che vive a Paderno
Dugnano (Mi) da molti anni, ha affidato alla sorella Grazia la coltivazione e
manutenzione del suo terreno, ma senza la volontà di dismettere la propria signoria di fatto e di
diritto dal momento che, durante i suoi rientri a ha continuato a recarsi presso il suo
fondo e a comportarsi uti dominus.
È incontestato che la resistente e il di lei marito Rocco hanno provveduto nel corso degli
anni alla coltivazione e potatura degli alberi insistenti sul terreno di che trattasi, nonchè alla
raccolta dei relativi frutti, ma è altresì provato che tanto è avvenuto con il consenso del ricorrente
il quale, emigrato nel milanese negli anni ’80 e non potendosi occupare personalmente del suo
cespite, ne ha affidato la cura alla sorella e al cognato, proprietari del confinante fondo.
E che il ricorrente non abbia inteso abdicare al possesso del proprio terreno emerge dalle
dichiarazioni rese dai testi Caliandro Giuseppe e Ammirabile Pantaleo.
Il primo ha riferito che “era Rocco (n.d.r. marito della resistente) a tenere informato il
ricorrente in ordine ai lavori eseguiti …Un anno ricordo che Rocco consegnò ad
Antonio 10 litri di olio dicendo che quello era il frutto di quell’anno”.
Ammirabile Pantaleo, dopo aver confermato che è sempre stato Rocco ad occuparsi
della manutenzione e coltivazione degli alberi esistenti nel fondo del ricorrente, ha riferito che,
sebbene si fosse relazionato sempre con Rocco per ogni questione di carattere ordinario
attinente al predetto terreno, ha precisato altresì che in una circostanza, in occasione del crollo del
muro posto al confine tra la sua proprietà e quella del ricorrente, si relazionò direttamente con
Antonio per il ripristino dello status quo.

Questo episodio, risalente al settembre 2018, appare sintomatico del fatto che il ricorrente
apparisse anche di fronte ai terzi come il reale dominus della res.
Il fatto che la resistente e il di lei marito informassero Antonio dei lavori straordinari
inerenti il terreno per cui è causa e rendessero a lui conto del raccolto sono elementi indicativi del
fatto che la resistente fosse ben consapevole dell’appartenenza di quel fondo al ricorrente, e che la
disponibilità della cosa da parte della resistente era dovuta alla mera permissio del fratello, il
quale, in occasione dei suoi rientri in Puglia, aveva tuttavia la possibilità di ripristinare la sua
signoria, accedendo liberamente al suo fondo.
Deve pertanto ritenersi accertato che alla resistente sia stato permesso di fare uso del terreno del
fratello e di percepirne i relativi frutti, secondo un’usanza comune, proprio in virtù del vincolo
parentale con il ricorrente il quale, pur impossibilitato a occuparsene stabilmente di persona in
quanto emigrato nel nord Italia, non mai inteso né manifestato la volontà di rinunciare al proprio
possesso in favore della sorella.
Peraltro la resistente non ha neppure allegato di avere contribuito nel corso degli anni, a titolo
esemplificativo, al pagamento delle spese di manutenzione inerenti l’immobile di che trattasi,
ovvero al pagamento delle tasse e delle imposte; il che rappresenta ulteriore conferma della
assenza in capo alla resistente dell’animus possidendi, ossia della volontà di disporre
dell’immobile come se fosse proprio.
Gli informatori Daria Maria e Giuseppe hanno inoltre fatto emergere che nel
settembre 2018 la resistente ha apposto – all’insaputa del ricorrente – una recinzione metallica di
colore verde, in continuità con quella esistente sul suo fondo confinante, così impedendogli il
libero accesso nel suo terreno. Prima dell’apposizione di detta recinzione l’ingresso nel fondo era
invece libero in quanto esercitato attraverso un cancelletto in metallo leggero, facilmente
amovibile.
Orbene, per quanto sopra esposto, non vi è dubbio che un siffatto comportamento integri gli
estremi dello spoglio violento, che consiste nella privazione totale o parziale del possesso contro
la volontà espressa o presunta del possessore.
Il ricorso deve pertanto essere accolto.
Le spese di lite, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.T.M.
-1) accoglie il ricorso e, per l’effetto, ordina a Grazia di reintegrare Antonio
nel possesso del terreno ubicato in
) mediante il ripristino
dell’originario stato dei luoghi;
-2) condanna la resistente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in complessivi
euro 1.580,00, di cui euro 80,00 per spese, euro 1.500,00 per competenze, oltre spese generali,
IVA e Cpa come per legge;
-3) pone le spese di ctu definitivamente a carico della resistente.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti e le comunicazioni di rito.
Brindisi, 2 agosto 2021
Il Giudice
dott.ssa Gabriella Del Mastro

Cass Civ., Sez. I, 01/07/2015, n. 13506, Cons. Rel. Dott. G. Bisogni

Svolgimento del processo
Rilevato che: 1. Il 30 luglio 2009 M.L. ha depositato ricorso al Tribunale per i minorenni di Firenze
con il quale ha chiesto l’affidamento del figlio M.F.E.C., nato a (OMISSIS) dall’unione
con B.G., esponendo i seguenti fatti. 2. Già dal 2007 erano insorti fra i genitori gravi conflitti che avevano portato alla
rottura dell’unione e alla proposizione di una serie di azioni giudiziali per ottenere
l’affidamento del piccolo F.. Nel 2008 B.G. e M.L. avevano sottoscritto un accordo che
prevedeva l’affidamento condiviso del figlio, l’impegno di partecipare a un percorso
di mediazione familiare e la possibilità per B.G. di vivere con il minore presso
l’abitazione di proprietà di M.L.. Tale accordo però non aveva avuto una piena
esecuzione e si dimostrava impossibile una sua modifica consensuale che lo rendesse
pienamente attuabile. 3. Si è costituita B.G. che ha chiesto l’affidamento condiviso del figlio con
collocazione presso di lei, assegnazione della casa familiare, regolamentazione del
diritto di visita e determinazione del contributo del padre al mantenimento. 4. Il Tribunale per i minorenni di Firenze ha disposto consulenza tecnica affidata al
servizio sociale e all’esito, con decreto del 15 marzo 2011, ha disposto l’affidamento
condiviso di F. con collocamento presso il padre, dando facoltà a B.G. di tenere con sè
il figlio secondo la disciplina descritta nella motivazione del decreto, prescrivendo ai
genitori di rivolgersi al servizio sociale per ricevere informazioni e farsi indirizzare
verso un percorso di mediazione familiare, dando mandato al servizio sociale e alla
U.O.P. di Siena di seguire la situazione del minore con interventi di sostegno,
orientamento e controllo mirati alla diminuzione del conflitto genitoriale e alla
ricerca di ulteriori accordi che terranno conto della crescita del minore. 5. Avverso il decreto hanno proposto separati ricorsi la B. e il M.. Quest’ultimo ha
richiesto l’affidamento esclusivo del figlio. 6. La Corte di appello, riuniti i procedimenti, ha disposto nuova CTU. Il 3 luglio 2012
è stata depositata la relazione del consulente tecnico cui è stata allegata una bozza di
accordo sottoscritto dalle parti in cui viene previsto l’affidamento condiviso con
collocamento presso il padre, percorso di mediazione a sostegno della genitorialità,
organizzazione del regime di visita, previsione di un periodo di monitoraggio da
parte della Corte di appello. La Corte di appello ha affidato al CTU il compito di
depositare una relazione sull’esito del monitoraggio. La nuova relazione del CTU ha
dato atto dell’esito negativo del percorso di mediazione a causa della immaturità
della coppia genitoriale, ancora troppo coinvolta nel conflitto personale che rende
impossibile un confronto autonomo tra i due genitori e necessario un percorso di
sostegno e cura per entrambi, al fine di giungere a un reciproco rispetto dei ruoli,
essenziale per garantire la loro collaborazione necessaria per la cura e l’educazione
del figlio. Per altro verso la relazione del consulente ha dato atto del rispetto degli
accordi assunti dalle parti e della mancanza di disagi da parte del minore ascrivibili
alla collocazione prevalente presso il padre. 7. La Corte di appello, con decreto del 18 aprile 2013, ha confermato le statuizioni del
T.M. relative all’affidamento condiviso e alla collocazione e domiciliazione
prevalente presso il padre ribadendo la indicazione per cui, laddove, il pomeriggio, il
padre sia impegnato nell’attività lavorativa e non possa occuparsi personalmente del
figlio, si rivolga prioritariamente alla madre, verificandone la disponibilità, prima di
chiedere l’ausilio di altri familiari o di terzi estranei. E’ stato confermato anche il
mandato ai servizi sociali di monitorare il rispetto delle statuizioni e la condizione
del minore. 8. Ricorre per cassazione M.L. affidandosi a due motivi di impugnazione con i quali
deduce: a) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 155 c.c. in relazione all’art. 360
c.p.c., n. 3; b) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2, 13, 32, 111 Cost. e dell’art.
155 sexies c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. 9. Si difende con controricorso B.G. che propone a sua volta ricorso incidentale
basato su due motivi di impugnazione con i quali deduce: a) la violazione e falsa
applicazione dell’art. 155 c.c., art. 111 Cost., art. 8 C.E.D.U. nonchè vizio di
motivazione comportante la violazione di legge del giusto processo ai sensi dell’art.
111 Cost.; b) violazione e falsa applicazione di legge, violazione dell’art. 111 Cost.,
dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e dell’art. 195 c.p.c.. 10. M.L. replica con controricorso al ricorso incidentale. 11. Con il primo motivo del ricorso principale M.L. contesta la statuizione che lo
obbliga a contattare preventivamente la B. per verificare la disponibilità ad occuparsi
del figlio qualora egli sia impegnato nell’attività lavorativa senza poterlo tenere con
sè, seppure coadiuvato dalla nonna o dalla baby- sitter. 12. Con il secondo motivo del ricorso principale contesta la legittimità della
statuizione che obbliga i genitori a sottoporsi a un percorso psicoterapeutico
individuale. 13. Con il primo motivo del ricorso incidentale B.G. rileva che il collocamento del
figlio F.E. presso il padre è, a tutt’oggi, sfornito di una motivazione logico-giuridica
definibile come tale. Inoltre lamenta che alla dichiarazione della Corte di parziale
accoglimento del suo reclamo corrisponda in realtà una sostanziale conferma degli
spazi di tempo del figlio riservati alla madre. Il provvedimento che la preferisce
rispetto ad altri soggetti, nel caso in cui il padre collocatario sia impedito a stare con
il figlio, perchè impegnato in attività lavorativa, è del tutto inattuabile, secondo la
ricorrente incidentale, data la forte conflittualità dei genitori e la volontà del M. di
allontanare il figlio da lei cosicchè tale regolamentazione inattuabile si trasforma in
un sostanziale affido esclusivo al padre il quale limita ai soli giorni rigorosamente
indicati nel provvedimento il diritto di visita della madre.
14. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione del principio
del contraddittorio e del giusto processo in quanto il consulente, dopo aver
prospettato nella relazione una volontà delle parti di definire consensualmente il
conflitto e dopo essersi reso conto del fallimento della mediazione, avrebbe dovuto
rispettare il diritto di difesa e consentire alle parti di formulare le proprie
osservazioni come esplicitamente richiesto dalla consulente di parte. Ritenuto che: 15. Il primo motivo del ricorso principale è inammissibile in quanto investe una
disposizione non decisoria nè definitiva e, pertanto, non ricorribile per cassazione. La
prescrizione impugnata, infatti, è sottoponibile in qualsiasi momento dalle parti al
riesame del giudice competente, il quale ben potrà revocarla o modificarla nel corso e
all’esito del mandato conferito al Servizio Sociale e all’UOP di Siena. Inoltre, la
disposizione che si ritiene violata con il motivo in esame, è volta prioritariamente alla
tutela dell’interesse del minore. E’ dunque chiaro che, in base a questa necessaria
lettura dell’art. 155 c.c., con la prescrizione impugnata – che peraltro si autodefinisce
come indicazione – si chiede esclusivamente ai genitori una collaborazione, volta al
superamento della persistente conflittualità che contraddistingue il loro rapporto, al
solo fine di assicurare al minore la possibilità di crescere con un rapporto sereno e
costante con entrambi i genitori, specificamente con riguardo alle situazioni in cui la
possibilità per il genitore non collocatario di occuparsi del figlio è facilmente
realizzabile. Nè può ritenersi che la indicazione della Corte di appello debba essere
interpretata come una rigida imposizione di un obbligo di consultazione, volta per
volta, a carico del genitore collocatario come è stato prospettato dal ricorrente ovvero
come una inutile previsione rimessa alla volontà del genitore collocatario, come è
stato rilevato dalla ricorrente incidentale, proprio perchè l’indicazione della Corte di
appello si inquadra nel mandato conferito al Servizio sociale e all’UOP di Siena,
finalizzato al rispetto delle disposizioni in materia di frequentazione madre-figlio e
all’osservazione delle condizioni del minore con interventi di sostegno, orientamento
e controllo, mirati alla riduzione del conflitto. Evidente pertanto che il rispetto della
disposizione presuppone una cooperazione fra i genitori da realizzare con l’ausilio e
il controllo del Servizio sociale e che in questa prospettiva solo una reciproca
programmazione dell’attività professionale e del tempo aggiuntivo da dedicare al
figlio potrà consentire l’operatività di una indicazione finalizzata a garantire
un’ampia frequentazione fra la madre e il figlio e la piena fruizione da parte del
minore del suo diritto alla bi-genitorialità. Infine il motivo di ricorso non coglie la
ratio decidendi perchè la Corte di appello ha determinato con precisione il tempo di
permanenza del minore con i suoi genitori e non ha affatto escluso che il genitore
collocatario possa rivolgersi a terzi per essere coadiuvato nella cura del figlio quando
è impegnato nella sua attività professionale ma ha prescritto, come si è detto, a
entrambi i genitori una cooperazione finalizzata all’interesse del minore e affidata al
controllo e al sostegno del Servizio sociale.
16. Il secondo motivo del ricorso principale è invece fondato in quanto la prescrizione
ai genitori di sottoporsi ad un percorso psicoterapeutico individuale e a un percorso
di sostegno alla genitorialità da seguire insieme è lesiva del diritto alla libertà
personale costituzionalmente garantito e alla disposizione che vieta l’imposizione, se
non nei casi previsti dalla legge, di trattamenti sanitari. Tale prescrizione, pur
volendo ritenere che non imponga un vero obbligo a carico delle parti, comunque le
condiziona ad effettuare un percorso psicoterapeutico individuale e di coppia
confliggendo così con l’art. 32 Cost.. Inoltre non tiene conto del penetrante intervento,
affidato dallo stesso giudice di merito, al Servizio sociale che si giustifica in quanto
strettamente collegato all’osservazione del minore e al sostegno dei genitori nel
concreto esercizio della responsabilità genitoriale. Laddove la prescrizione di un
percorso psicoterapeutico individuale e di sostegno alla genitorialità da seguire in
coppia esula dai poteri del giudice investito della controversia sull’affidamento dei
minori anche se viene disposta con la finalità del superamento di una condizione,
rilevata dal CTU, di immaturità della coppia genitoriale che impedisce un reciproco
rispetto dei rispettivi ruoli. Mentre infatti la previsione del mandato conferito al
Servizio sociale resta collegata alla possibilità di adottare e modificare i
provvedimenti che concernono il minore, la prescrizione di un percorso terapeutico
ai genitori è connotata da una finalità estranea al giudizio quale quella di realizzare
una maturazione personale dei genitori che non può che rimanere affidata al loro
diritto di auto-determinazione. 17. Il ricorso incidentale è infondato in quanto la decisione dei giudici della Corte
d’Appello di Firenze di confermare la collocazione del minore presso il padre
dipende dall’esito positivo che il CTU ha riferito circa il periodo di monitoraggio
relativamente a detto collocamento, che peraltro era stato oggetto di uno specifico
accordo tra le parti. Tale decisione, pertanto, non implica un giudizio negativo circa
l’adeguatezza genitoriale della madre o circa la possibilità di collocare il minore
presso la stessa, bensì afferma – con una motivazione per relationem al decreto
emesso in primo grado nonchè fondata sull’esito della CTU disposta in secondo
grado – che non sussistono i presupposti per una modifica della previsione del
collocamento del minore presso il padre, tenuto conto delle informazioni positive sul
periodo trascorso con domiciliazione prevalente presso il padre durante il quale non
risultano essere stati ostacolati in alcun modo gli incontri con la madre. Inoltre non
sussiste la dedotta indeterminatezza del rinvio alla regolamentazione degli incontri
madre-minore cosi come indicata in motivazione. 18. Il secondo motivo del ricorso incidentale è infondato sia perchè dalla stessa
esposizione della ricorrente non risulta la concessione di un termine ex art. 195 c.p.c.
con specifico riferimento all’elaborato peritale finale. Per altro verso non risulta
contestata l’affermazione della difesa del M. per cui non è stata tempestivamente
sollevata alcuna eccezione di nullità della C.T.U. da parte della B. che
conseguentemente in ipotesi deve ritenersi comunque sanata (cfr. Cass. Civ. sezione
2 n. 1744 del 24 gennaio 2013 e Cass. Civ. sezione 1, n. 24966 del 10 dicembre 2010,
secondo cui l’eccezione di nullità della consulenza tecnica d’ufficio, dedotta per vizi
procedurali inerenti alle operazioni peritali, avendo carattere relativo, resta sanata se
non fatta valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito, per tale
intendendosi anche l’udienza successiva al deposito, nella quale il giudice abbia
rinviato la causa per consentire l’esame della relazione, poichè la denuncia di detto
inadempimento formale non richiede la conoscenza del contenuto della relazione). 19. Va pertanto dichiarato inammissibile il primo motivo del ricorso principale,
accolto il secondo motivo dello stesso ricorso con conseguente cassazione del decreto
impugnato e decisione nel merito di revoca della prescrizione ai genitori di
sottoporsi ad un percorso psico-terapeutico individuale oltre a un percorso di
sostegno alla genitorialità da seguire insieme. Va infine respinto il ricorso incidentale. 20. In considerazione dell’oggetto e dell’esito del giudizio le spese processuali
devono essere interamente compensate.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso principale, accoglie il
secondo motivo e decidendo nel merito, cassa il decreto impugnato nei limiti del
motivo accolto. Rigetta il ricorso incidentale. Spese compensate. Dispone che in caso
di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati
identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Atteggiamento prevaricatore, possessivo e violento: confermata la condanna per stalking

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 31 agosto 2021, n. 32381; Pres. Marini, Rel. Cons. Di Nicola
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MARINI Luigi – Presidente – Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere – Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere – Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere – Dott. CORBETTA Stefano – Consigliere – ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da: P.G., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 22-06-2020 della Corte di appello di Catania; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso trattato ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23,
comma 8; udita la relazione del Consigliere Di Nicola Vito; Udita la requisitoria del Procuratore Generale, Dott. Mastroberardino Paola che ha concluso per
l’inammissibilità; Udita per la parte civile l’avvocato E.L. che conclude per l’inammissibilità del ricorso e condanna alle
spese sostenute dalla parte civile ammessa al gratuito patrocinio.
Svolgimento del processo
1. P.G. ricorre per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di
Catania ha confermato quella emessa dal Tribunale della stessa città in data 01 luglio 2019, che aveva
condannato il ricorrente alla pena di giustizia per il reato di atti persecutori nei confronti di C.N.
Al ricorrente è stato contestato il reato di atti persecutori per aver posto in essere reiterate azioni
minacciose e violente nei confronti della parte offesa, cagionandole un mutamento delle proprie
abitudini di vita; è stato inoltre contestato il reato di lesioni personali aggravate per avere cagionato,
nel commettere il reato di atti persecutori, alla medesima persona offesa lesioni personali giudicate
guaribili in giorni quattro; per il reato di violenza sessuale continuata e aggravata sempre in danno di
C.N., avendo costretto quest’ultima, con violenza e minaccia, a consumare con lui rapporti sessuali,
secondo le dettagliate modalità esecutive indicate nel capo d’accusa. Con l’aggravante di avere
commesso il fatto con persona cui era legato da una relazione affettiva. 2. Il ricorrente, tramite il difensore di fiducia, impugna con tre motivi, di seguito riassunti ai sensi
dell’art. 173 disp. att. c.p.p. 2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione
alla ritenuta attendibilità della persona offesa con riferimento al reato di atti persecutori (art. 606 c.p.p.
comma 1, lett. b)). Premette che, contrariamente all’assunto della Corte territoriale, egli aveva censurato le dichiarazioni
della persona offesa e criticato il giudizio di attendibilità espresso dai giudici del Tribunale. A questo proposito, precisa che i motivi di doglianza contenevano una analitica e puntuale disamina
delle ragioni che incrinavano la credibilità della parte offesa, tanto che erano stati evidenziati passi
delle dichiarazioni della stessa e la loro conseguente inconciliabilità con il reato di atti persecutori
contestato al ricorrente. Osserva come il comportamento della parte offesa fosse decisamente contraddittorio in quanto, dopo
aver presentato denuncia, la vittima si incontrava regolarmente con il ricorrente, con ciò dimostrando
di non provare alcuno stato d’ansia, tensione e paura. Nel caso di specie, quindi, le condotte moleste non avevano ingenerato nella vittima uno stato
d’oppressione, per come era emerso anche dal suo esame testimoniale, con la conseguenza che la
motivazione sarebbe, sotto questo aspetto, carente e contraddittoria rispetto a quanto censurato dalla
difesa. La Corte territoriale non avrebbe poi fornito una chiave di lettura univoca e coerente con quanto
emerso in dibattimento, atteso che era stata la parte offesa, la quale non aveva tenuto un
comportamento ostativo nei confronti della condotta del ricorrente, ad aver viceversa mostrato un
contegno accomodante. Riportando nel ricorso anche alcuni passi delle dichiarazioni della persona offesa, a dimostrazione
dell’inconfigurabilità del reato di atti persecutori, il ricorrente sottolinea come l’iter motivazionale e
l’apparato argomentativo dell’impugnata sentenza appaia debole e contraddittorio, avendo trascurato
ictu oculi le doglianze difensive che miravano ad evidenziare come non potesse sussumersi la vicenda
in oggetto nell’alveo del reato di cui all’art. 612-bis c.p. 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta il vizio di motivazione in relazione al reato di lesioni
(art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)). Assume che nè nella sentenza di primo grado, nè in quella d’appello, vi sarebbe motivazione in ordine
al reato di lesioni. Dalle dichiarazioni della parte offesa era emersa la accidentalità e casualità del
fatto e sul punto la difesa nei motivi di doglianza (pag. 6 dell’atto di impugnazione) aveva evidenziato
che non vi fosse alcuna volontà da parte del ricorrente di ferire la C., la quale affermava di aver
sbattuto l’occhio sul cambio, così procurandosi l’ecchimosi peri-orbitaria (pag. 19 v. ud. 08/04/2019). La difesa, dunque, sollecitava una riforma della sentenza impugnata, quantomeno per assenza
dell’elemento psicologico. Sul punto, però, non vi sarebbe, nella decisione impugnata, il minimo
accenno alle doglianze della difesa, essendo pertanto la pronuncia incorsa nel vizio di motivazione
denunciato. 2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge
penale nonchè la mancanza (apparenza) e l’illogicità della motivazione in ordine al reato di violenza
sessuale (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Osserva che, con i motivi di doglianza, la difesa aveva evidenziato lacune e contraddittorietà nelle
propalazioni della parte offesa, sottolineando il tenore di alcuni messaggi inviati dalla vittima,
disarmonici rispetto alla pesante accusa mossa nei confronti del ricorrente, nonchè l’assenza di
riscontri estrinseci e addirittura il rifiuto di sottoporsi a visita ginecologica, per come riferito dal teste,
dottoressa T., in servizio presso l’ufficio servizio sociale del Comune di S. A. Trattandosi di
dichiarazioni rese da persona portatrice di interessi personali, il vaglio della attendibilità doveva
necessariamente essere più penetrante e rigoroso, vieppiù in assenza di elementi probatori che ne
confermassero l’asserto accusatorio. Assume il ricorrente che l’indice di genuinità delle dichiarazioni della vittima appariva assai basso,
non avendo mai la donna raccontato di dette violenze ad alcuno dei familiari (il ricorrente ricorda che
la vittima viveva in casa con l’ex marito, sebbene separati) o di amici e, nel corso del suo esame, il
pubblico ministero più volte aveva fatto ricorso a contestazioni, ricordando passi della denuncia. A fronte di dette, specifiche censure, i giudici etnei hanno espresso il convincimento che le violenze
narrate apparissero plausibili e il narrato della parte offesa fosse dettagliato e completo, nonchè
attendibile, senza tuttavia rispondere adeguatamente ai rilievi difensivi che evidenziavano, ad
esempio, la difficoltà di coniugare la credibilità della persona offesa con la circostanza che mai, gli
stessi familiari di quest’ultima, avevano chiesto delucidazioni in ordine alle asserite violenze subite
dalla donna, mai peraltro refertate. Nè la Corte d’Appello si sarebbe soffermata sulla possibile natura vendicativa delle dichiarazioni della
presunta parte offesa la quale, nel corso del dibattimento, aveva più volte affermato che soffriva di
gelosia. Obietta il ricorrente come la Corte territoriale non abbia utilizzato gli strumenti ermeneutici più idonei
e riconosciuti per giungere alla conclusione censurata: avrebbe infatti dovuto, dal punto di vista
oggettivo, valutare l’assenza di certificati medici o il contesto ambientale nel quale i fatti sarebbero
maturati e, dal punto di vista soggettivo, i rapporti, spesso tesi, tra la vittima e il ricorrente, con la
conseguenza che, avendo omesso ciò, la Corte di merito sarebbe incorsa nei vizi di violazione di legge
di motivazione denunciati. 3. Il Procuratore generale, riportandosi alla requisitoria scritta che era stata già presentata, ha concluso
per l’inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile per le seguenti ragioni. I motivi di gravame, essendo tra loro strettamente connessi, possono essere congiuntamente
esaminati. 2. Il ricorrente non ha tenuto in alcuna considerazione la motivazione della sentenza impugnata, che
ha criticato formulando osservazioni disallineate rispetto al principio di autosufficienza del ricorso,
non allegando ai motivi di impugnazione alcun atto del procedimento e riportando nel ricorso solo
alcuni stralci di presunte dichiarazioni, richiamando nell’atto di gravame alcune pagine del verbale di
udienza in data 8 aprile 2019 (solo pagine, 19, 26, 27 e 28). Le doglianze muovono dal presupposto, già oggetto di devoluzione alla Corte di appello, che la
decisione del primo giudice fosse fondata esclusivamente sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla
parte offesa (costituitasi parte civile), sulle quali il Tribunale non avrebbe operato il necessario vaglio
di attendibilità. 3. La Corte d’appello – nell’affermare che il tribunale aveva ricostruito la vicenda processuale
attraverso un’ampia ricostruzione dei fatti nella loro evoluzione storica, partendo dai primissimi dati
investigativi raccolti dagli inquirenti e tenendo conto dei successivi sviluppi processuali – ha osservato
come le dichiarazioni della persona offesa fossero invece dettagliate, logiche, complete e ricche di
riferimenti spazio-temporali sull’accaduto, assolutamente convergenti tra loro, mentre doveva
ritenersi del tutto generica l’asserzione difensiva che le stesse fossero finalizzate ad ottenere il
risarcimento del danno. La Corte territoriale ha dato atto come le dichiarazioni, descrivendo in modo convergente fatti e
comportamenti, non contenessero elementi tali da fare trasparire sentimenti di “rancore”, certamente
non riscontrabili nelle parole della parte offesa che, anzi, aveva mostrato ripetutamente di nutrire
ancora affetto nei confronti dell’imputato. Contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, poi, le dichiarazioni della parte offesa avevano
trovato puntuale riscontro nella testimonianza resa da T.M.R., operatrice del servizio sociale del
Comune di Sant’Alfio, che aveva in carico già da tempo il nucleo familiare della persona offesa a
causa di una grave disabilità del figlio della vittima. In particolare la teste spiegava di avere saputo
dalla stessa persona offesa, nell’aprile 2018 e dunque prima ancora che quest’ultima presentasse la
denuncia (del luglio 2018), della relazione in corso e dell’atteggiamento prevaricatore, possessivo e
violento tenuto dall’uomo nei confronti della vittima, aggiungendo anche di avere notato visivamente
tracce della violenza (lividi sul collo ed in altre pareti del corpo), oltre ad avere chiaramente percepito
il sentimento di paura vissuto dalla persona offesa. Anche il contenuto dei messaggi inviati dal ricorrente alla persona offesa, contrariamente a quanto
dedotto nel corso del processo di merito, testimoniava il rapporto “malato” intercorso tra l’imputato e
la vittima. Come desumibile dal testo di alcuni messaggi acquisiti, emergeva come la violenza e la
minaccia fossero state assunte dal ricorrente come modo per esprimere i propri sentimenti e le proprie
pretese e come, di contro, la donna avesse assunto un ruolo sub-valente (vedi per tutti foto n. 28). La Corte d’appello ha logicamente osservato come fosse del tutto irrilevante il fatto che, nonostante
le violenze e le minacce, la donna avesse continuato a frequentare l’imputato anche dopo averlo
denunciato e fino all’applicazione della misura cautelare. Invero tale circostanza è stata giustificata
con l’affetto “morboso” nutrito dalla vittima nei confronti dell’imputato, tanto da accettare
passivamente, subendolo, ogni sopruso fisico, psicologico e sessuale. La Corte di merito ha evidenziato come le anomalie del rapporto in esame fossero inconfutabilmente
corroborate anche dalla relazione psicologica – acquisita con il consenso delle parti e redatta dalla
Dott.ssa G. – nella quale si dava atto di come la fragilità psicologica della persona offesa avesse
permesso al ricorrente di esercitare sulla stessa una violenza totale, espressa in varie forme,
fortemente manipolativa e tale da creare un assoggettamento mentale, il cui scopo era quello di
esercitare un totale controllo sulla vittima, isolandola da qualsiasi contatto esterno, plagiandola e
disponendone a proprio piacimento. Da ciò, la Corte distrettuale ha tratto il logico convincimento che nessun dubbio poteva sussistere in
ordine alla configurabilità dei reati ritenuti in sentenza. Infatti, relativamente al reato di atti persecutori, le dichiarazioni della vittima testimoniavano le
aggressioni fisiche, morali e sessuali esercitate dall’imputato nei suoi confronti. L’uomo, invero,
estremamente possessivo e geloso, non perdeva occasione per accusarla di intrattenere altre relazioni
e non esitava a tirarle violentemente le orecchie ed i capelli, a darle pizzicotti su tutto il corpo, a
colpirla ripetutamente, ad apostrofarla, a minacciarla, tanto che, per farle confessare i suoi tradimenti,
le aveva detto che l’avrebbe legata e poi uccisa servendosi di una pistola. Tali atteggiamenti avevano
causato un grave turbamento psicologico nella persona offesa, alterando le sue abitudini di vita e
creando un perdurante stato di ansia e paura, impedendo alla donna di vivere liberamente la propria
quotidianità. Le relazioni psicologiche redatte dal servizio di assistenza sociale non lasciavano dubbi sul punto,
attestando la debolezza psicologica della donna a causa delle violenze subite, tanto da richiedere
l’intervento del Dipartimento di Salute Mentale al fine di aiutarla a superare la fase confusionale. Nessuna rilevanza poteva essere attribuita alla circostanza che, anche dopo la presentazione della
querela e nonostante l’invito delle forze dell’ordine ad allontanarsi dal ricorrente, la parte offesa avesse
continuato a frequentarlo, in quanto la sudditanza psicologica della donna, nel frangente artatamente
creata dall’imputato, le impediva, infatti, una scelta diversa. Quanto al reato di violenza sessuale, la Corte territoriale ha osservato come fosse priva di pregio la
doglianza relativa ad un presunto consenso putativo desunto dal fatto che la vittima mai ebbe a
manifestare avversità o diniego alla consumazione degli atti sessuali. Dal racconto reso in aula dalla
parte offesa è, invece, emerso che in più occasioni la donna era stata costretta a soddisfare le voglie
dell’imputato il quale non esitava ad esercitare la violenza pur di ottenere quanto desiderato.
La Corte d’appello ha perciò ritenuto che non vi fosse alcun elemento per dubitare dell’attendibilità
delle dichiarazioni della persona offesa che restava dimostrata dalla specificità e logicità interna di
tutto il narrato, scevro da contraddizioni e/o genericità. In altri termini, il giudizio di colpevolezza formulato dal Tribunale non si fondava su “illazioni”, ma
sull’attendibile racconto della vittima, racconto che non solo non presentava alcuna contraddizione,
sui fatti di violenza da lei subiti e narrati all’A.G., con dovizia di particolari e specificazioni, ma
appariva dettagliato e completo in ordine alla spiegazione degli accadimenti. In particolare, il
racconto sulle violenze sessuali patite dall’imputato faceva perno su violenze plausibili, logicamente
collegate al contesto relazionale esistente con l’imputato. Sussisteva inoltre l’accentuata attendibilità della persona offesa, desunta dalla notevole logica interna
che pervadeva l’intero racconto, in considerazione della localizzazione e tempistica degli eventi, della
dettagliata spiegazione circa il cronologico succedersi degli eventi. Su queste basi, la Corte di merito ha ritenuto che il quadro probatorio fosse esaustivo e convergente,
con la conseguenza che andava confermato il giudizio di colpevolezza espresso dal Tribunale. 4. Al cospetto di una motivazione congrua e priva di vizi di manifesta illogicità, il ricorrente propone
una ricostruzione alternativa del materiale probatorio, chiedendo inammissibilmente alla Corte una
rivalutazione delle prove sulla base, peraltro, di asserzioni disallineate rispetto al principio di
autosufficienza del ricorso, il quale esige, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 165-bis disp.
att. c.p.p., introdotto dal D.Lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, art. 7, comma 1, un onere di puntuale
indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria
l’allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento
impugnato (Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, Talamanca, Rv. 276432 – 01), con la conseguenza che
è inammissibile il ricorso, contenente un limitato stralcio di dichiarazioni neppure decisive perchè
inidonee a disarticolare il puntuale ragionamento probatorio svolto nel provvedimento impugnato. In particolare, sulla questione relativa al formulato giudizio di attendibilità delle dichiarazioni della
persona offesa dal reato, va poi ribadito come la Corte di appello sia pervenuta a ritenere pienamente
attendibili, sia estrinsecamente che intrinsecamente, le dichiarazioni della persona offesa, sul già
ricordato presupposto che le stesse avessero anche ricevuto chiari ed inequivocabili riscontri esterni. Quanto al reato di atti persecutori e al reato di lesioni, la Corte d’appello ha fatto leva sulle relazioni
psicologiche redatte dai servizi di assistenza sociale, sulla testimonianza dell’operatrice dei servizi
sociali che aveva anche raccolto le confidenze della vittima nonchè sulle prove documentali
dell’immagine salvate sullo schermo del dispositivo informatico in relazioni ai messaggi comprovanti
le violenze subite. Nel pervenire alla conclusione circa l’attendibilità delle dichiarazioni della vittima del reato, la Corte
distrettuale si è attenuta al principio secondo il quale le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3,
non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste
da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica,
corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità
intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a
quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del
19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214). E’ pur vero che, nel caso in cui la persona offesa, come nella specie, si sia costituita parte civile, il
Giudice deve valutare l’opportunità di procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi
ma la Corte del merito non si è sottratta a tale incombenza, posto che i riscontri esterni sono stati
enunciati nella sentenza impugnata e le obiezioni difensive tutte dettagliatamente disattese. Sul punto, la Corte di legittimità ha, in diverse occasioni, sottolineato che i riscontri esterni, i quali
non sono predeterminati nella specie e nella qualità, possono essere di qualsiasi tipo e natura e
possono essere tratti sia da dati obiettivi, quali fatti e documenti, sia da dichiarazioni di altri soggetti,
purchè siano idonei a convalidare “aliunde” l’attendibilità dell’accusa, tenuto anche presente che essi
devono essere ricercati e valutati, con specifico riferimento alle dichiarazioni della persona offesa,
costituita parte civile, nella prospettiva della verifica del grado di affidabilità della dichiarazione e
non ai fini specifici previsti dall’art. 192 c.p.p., comma 3, disposizione che non si applica alle
dichiarazioni della vittima del reato (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, cit.), con la
conseguenza che, per fondare il ragionevole convincimento che il dichiarante non abbia mentito, è
sufficiente che i riscontri siano idonei a confermare la credibilità della dichiarazione nel suo
complesso e non rispetto a ciascuno dei particolari riferiti dal dichiarante, e neppure è necessario che
i riscontri attengano alla posizione soggettiva della persona attinta dalle dichiarazioni perchè le
narrazioni della persona offesa, anche se costituita parte civile, non possono mai essere equiparate
alla chiamata in reità o in correità (Sez. 3, n. 33589 del 24/04/2015, T., non mass.). Va allora ricordato che, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, le doglianze che
il ricorrente muove nei confronti della sentenza impugnata non possono ridursi a sostenere un diverso
quadro probatorio fondato su una differente e alternativa lettura, peraltro parziale e lacunosa, come
nel caso di specie, del corredo processuale, per come reso palese al giudice di legittimità sulla base
del testo della sentenza impugnata, dei motivi di ricorso e degli atti ad esso allegati e specificamente
indicati. Così strutturate, le censure si connotano, oltre che per la loro manifesta infondatezza, anche per la
portata tipicamente fattuale, in quanto il ricorrente, nel denunciare i vizi della motivazione, introduce
frequentemente nel ricorso rilievi di merito che non possono rientrare nell’orizzonte cognitivo del
giudice di legittimità, non potendosi devolvere alla Corte di cassazione doglianze con le quali,
deducendosi apparentemente una violazione della legge penale o una carenza logica od argomentativa
della decisione impugnata, si pretende, invece, una rivisitazione del giudizio valutativo sul materiale
probatorio, operazione non consentita nel giudizio di cassazione all’interno del quale non è possibile
innestare censure che implichino la soluzione di questioni fattuali, adeguatamente e logicamente
risolte, come nel caso in esame, dai giudici di merito con doppia conforme decisione. Ne discende che l’apparato logico della decisione impugnata, come in precedenza riassunto, deve
ritenersi corredato da una motivazione priva di vizi di legittimità e priva altresì di manifesti vizi di
illogicità sui temi di prova, oggetto dei motivi di ricorso che hanno investito i tre reati (atti persecutori,
lesioni e violenza sessuale) per i quali è stata affermata la responsabilità del ricorrente. 5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il ricorso debba essere dichiarato
inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., di sostenere le
spese del procedimento e alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile ammessa al
gratuito patrocinio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e
considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa
nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che la ricorrente versi la somma,
determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla
rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile
ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di
Catania con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83,
disponendo il pagamento in favore dello Stato. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a
norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 8 giugno 2021. Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2021.