Tribunale di Palermo, 10 gennaio 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI PALERMO
in composizione monocratica, nella persona del giudice dott. Andrea
Compagno, della Sezione III civile, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al nr. 2029/17 RGAC pendente
TRA
M. V., nato a Carini (PA) il .., C.F.: .. e P. C., nata a Carini
(PA) il .., C.F.: .., entrambi residenti in Carini nella via P., in
proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà
genitoriale sui minori M. Vi., nata a Palermo l’.., C.F.: .. e M.
G.J., nato a Palermo lo .., tutti elettivamente domiciliati in
Palermo, Via C., nello studio e presso l’Avv. Carmela Castello, che
li rappresenta e difende giusta procura in atti.
Attori
CONTRO
C. L. e M. F., con l’Avvocato Marcello Assante.
M. A., con l’Avvocato Rita De Michele e con l’Avv. Marcello Assante.
M. E., con l’Avvocato Annalisa Vullo .
Convenuti
CONCLUSIONI: all’udienza del 30.11.2020 le parti hanno concluso come
da note conclusive.
Con atto di citazione notificato a mezzo del servizio postale in data 26.1.2017, M. V. e P. C., in
proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà dei minori M. Vi. e M., convenivano in giudizio
C. L., M. An, M. F. e M. E., al fine di sentire:
“accertare e dichiarare responsabili del sinistro de quo e dei danni subiti dagli attori, i convenuti C.
L., M. An, M. F., M. E., per i motivi esposti nella narrativa del presente atto;
ritenere e dichiarare il nesso di causalità tra l’evento causato dal mancato adeguamento dell’impianto
elettrico dell’immobile di proprietà dei convenuti alla normativa prevista dalla legge 46/1990 e il
decesso della minore M. A.;
conseguentemente e per l’effetto, condannare in solido e separatamente i sigg.ri C. L., M. An, M. F.,
M. E., al risarcimento in favore dei sig.ri M. V. e P. C., in proprio e nella qualità di genitori esercenti
la potestà sui minori M. Vi. e M. G.J., in proprio, dei danni tutti subiti a causa dell’evento, per cui è
causa la cui stima appare equo quantificare complessivamente in Euro 1.176.025,00 per le causali di
cui alla narrativa del presente atto, determinata sulla base delle Tabelle del Tribunale di Milano o
nella maggiore o minor somma che sarà ritenuta di giustizia oltre al danno patrimoniali subito dagli
attori a seguito del decesso del congiunto, tenendo conto dei futuri miglioramenti di reddito della
vittima e da liquidarsi equitativamente, con rivalutazione delle somme liquidate ed interessi tutti a far
tempo dal sinistro sino all’effettivo soddisfo.
Con la condanna al pagamento di spese e compensi professionali del giudizio”
A tal fine, gli attori esponevano che:
– in data 7 agosto 2012, M. A., figlia dodicenne del sig. M. V. e della sig.ra P. C., si trovava ospite
presso l’abitazione di proprietà dei convenuti sita in Carini (Pa), Lungomare C.;
– intorno alle ore 18.30, provenendo della spiaggia, la bambina entrava nell’immobile citato, inseriva
in una presa elettrica la spina per accendere un computer portatile e veniva purtroppo folgorata da
una scarica;
– M. A. veniva soccorsa e trasportata presso il Punto Territoriale d’Emergenza (PTE) di Carini dove i
sanitari non potevano far altro che constatarne il decesso, per arresto cardiocircolatorio determinato
da “verosimile folgorazione”.
Soggiungevano, altresì, gli attori che il tragico evento doveva essere imputato alla colpevole condotta
dei proprietari dell’immobile sito in Carini (Pa) alla via Lungomare C., i quali, omettendo di
provvedere alla manutenzione straordinaria dell’impianto elettrico a norma di legge (legge 46/1990
Norme per la sicurezza degli impianti), non avendo installato il cosiddetto salvavita ovvero idoneo
strumento di sicurezza e isolamento dell’impianto elettrico al servizio dell’immobile, avevano causato
la folgorazione e quindi il decesso della minore M. A..
Ritualmente costituitisi, a mezzo di separate comparse, tutti i convenuti contestavano il fondamento
della domanda.
In particolare, sia M. F., che M. E., che M. An eccepivano il proprio difetto di legittimazione passiva,
non avendo mai accettato l’eredità del padre, M. S., proprietario dell’immobile oggetto di causa,
deceduto in data 06.04.2002 (ed, anzi, avendovi espressamente rinunciato), mentre L. C., premesso
di essere “..unica detentrice (aveva solo lei le chiavi dell’immobile di cui segue), e unico soggetto
possessore dell’immobile sito sul Lungomare C.”, contestava il fondamento della domanda,
evidenziando che la responsabilità del fatto era da ascriversi a colpa esclusiva della bambina, che in
modo del tutto imprudente, pur avendo il corpo ancora bagnato, aveva collegato il computer alla presa
elettrica, rimanendo folgorata.
M. An eccepiva, altresì, la prescrizione della pretesa risarcitoria per il decorso del termine
quinquennale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va, preliminarmente, respinta l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dai convenuti
M. An, M. F ed M. E..
Deducono questi ultimi di non avere mai accettato l’eredità del padre, M. S., deceduto in data
06.04.2002 (eredità che comprendeva anche l’immobile ove è accaduto il tragico evento di cui è
causa) ed, anzi, di avervi espressamente rinunciato.
L’assunto non merita di essere condiviso.
Emerge, invero, pacificamente dagli atti di causa (cfr. all. nr. 1 della seconda memoria di parte
attrice) che, con ricorso nr. 6407/2003, tutti gli odierni convenuti hanno proposto impugnazione
avverso il provvedimento del 4.6.2003, con il quale il Capo Ripartizione VIII, Gruppo Fascia
Costiera, del Comune di Carini, aveva negato il rilascio (richiesto dal proprio dante causa, M. S.)
della concessione edilizia in sanatoria dell’immobile di cui si discute.
Orbene, come correttamente rilevato dagli attori, tale contegno integra gli estremi della accettazione
tacita, ex art. 476 c.c..
Deducono, in senso contrario, i convenuti che, così operando, gli stessi, lungi dal manifestare
l’intenzione di accettare l’eredità del padre, altro non avrebbero fatto se non avvalersi della facoltà,
prevista dall’art.. 460 c.c., a tutela del “chiamato all’eredità”, di compiere atti conservativi, di
vigilanza e di amministrazione temporanea.
L’assunto non convince.
Secondo la costante giurisprudenza della Cassazione, “..ai fini della accettazione tacita dell’eredità
sono privi di rilevanza” tutti quegli atti che costituiscono “adempimenti di prevalente contenuto
fiscale, caratterizzati da scopi conservativi” e, come tali, inidonei “ad esprimere, in modo certo,
l’intenzione univoca di assunzione della qualità di erede”.
Esempi di tali atti sono “la denuncia di successione, il pagamento delle relative imposte, la richiesta
di registrazione del testamento e la sua trascrizione” (così Cass. 4843/2019, cit.).
L’acquisizione della qualità di erede è l’effetto, invece, del compimento “di un’attività …
incompatibile con la volontà di rinunciarvi, ovvero di un comportamento tale da presupporre la
volontà di accettare l’eredità secondo una valutazione obiettiva condotta alla stregua del comune
modo di agire di una persona normale” (Cass. 14499/2018).
Così, ad esempio, costituisce principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità che la predetta
volontà “può reputarsi implicita nell’esperimento, da parte del chiamato, di azioni giudiziarie, che
essendo intese alla rivendica o alla difesa della proprietà o ai danni per la mancata disponibilità di
beni ereditari – non rientrino negli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari consentiti dall’art.
460 c.c., ma travalichino il semplice mantenimento dello stato di fatto quale esistente al momento
dell’apertura della successione, e che, quindi, il chiamato non avrebbe diritto di proporre se non
presupponendo di voler far propri i diritti successori” (Cass. 6907/2019, Cass 10060/2018 e, nello
stesso senso, Cass. 14499/2018).
Orbene, nel caso di specie, ad avviso di chi giudica, mediante l’impugnazione dell’atto
amministrativo con il quale era stata negata la domanda di sanatoria edilizia del proprio immobile
presentata dal loro dante causa, i convenuti M. non si sono limitati a compiere un “atto
conservativo”, ma – attraverso l’esercizio di un’azione tesa all’annullamento del provvedimento che
ne aveva decretato la illegittimità sul piano urbanistico edilizio (stante il rigetto della domanda di
sanatoria) – hanno posto in essere un’attività che:
– da un lato, denota necessariamente la loro volontà di accettare;
– dall’altro, non avrebbero avuto il diritto di fare se non nella qualità di eredi.
Diversamente, infatti, ove fossero stati dei semplici “chiamati”, non sarebbero stati legittimati a
proporre impugnazione al TAR, postulando la proposizione di detto ricorso la titolarità
dell’interesse ad agire, costituito nella fattispecie proprio dall’essere (com)proprietari del bene
oggetto di sanatoria.
E’ vero che nel 2017 i signori M. An., M. F. ed M. E. hanno formalizzato la propria rinuncia alla
eredità a mezzo di apposito atto pubblico notarile.
E’, tuttavia, altrettanto vero che – una volta ravvisati, nella proposizione del ricorso amministrativo
di cui s’è detto, gli estremi dell’accettazione tacita dell’eredità, da parte dei tre figli del d cuius –
nessuna rilevanza può attribuirsi alla suddetta rinunzia.
Ed invero, “L’atto di accettazione dell’eredità, in applicazione del principio “semel heres semper
heres”, è irrevocabile e comporta in maniera definitiva l’acquisto della qualità di erede, la quale
permane, non solo qualora l’accettante intenda revocare l’atto di accettazione in precedenza posto in
essere, ma anche nell’ipotesi in cui questi compia un successivo atto di rinuncia all’eredità. La
regola della retroattività della rinuncia deve, infatti, essere riferita alla sola ipotesi in cui nelle more
tra l’apertura della successione e la data della rinuncia il chiamato non abbia ancora posto in essere
atti idonei ad accettare l’eredità, e non anche al diverso caso in cui nelle more sia intervenuta
l’accettazione dell’eredità” (Cass. 15663/2020).
***
Sempre in via preliminare, va disattesa l’eccezione di prescrizione sollevata da M. An.
Ed invero, contrariamente a quanto da questa ritenuto, il termine di prescrizione che viene in
considerazione nella vicenda in esame – integrante all’evidenza gli estremi del fatto di reato (art 589
c.p.) – non è quello (quinquennale) di cui al primo comma dell’art. 2947 c.c., bensì quello (di anni
sei, in virtù del combinato disposto degli artt. 589 e 157 c.p.) di cui al terzo comma della medesima
disposizione, a mente del quale, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è
stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile.
***
Risolte, nel senso che precede, le questioni preliminari sollevate dai convenuti, può adesso passarsi
al merito della vicenda.
E’ pacifico, in punto di fatto, che – nelle circostanze di luogo e di tempo narrate dagli attori in
citazione – si è verificato il tragico incidente a causa del quale ha perso la vita la piccola M. A.
(dodicenne).
Più precisamente, può dirsi pacifico, perché incontroverso, che questa si trovava ospite presso
l’abitazione di proprietà dei convenuti sita in Carini (Pa), Lungomare C., allorquando, intorno alle
ore 18.30, di ritorno dalla spiaggia, si è introdotta con il corpo ancora bagnato all’interno
dell’immobile citato, dove ha inserito in una presa elettrica la spina per accendere un computer
portatile.
In quel frangente, veniva immediatamente folgorata da una scarica elettrica, che ne provocava
l’immediato decesso.
Così riassunti, in via di estrema sintesi, i fatti, occorre adesso valutare se, come ritenuto dagli attori,
la morte della figlia possa essere imputata ai convenuti.
Deducono, in proposito, i primi che la responsabilità “..è riconducibile all’assenza dell’impianto
elettrico salvavita, ovvero di idoneo strumento di sicurezza ed isolamento dell’impianto elettrico
posto a servizio dell’immobile..”.
Pertanto, “..l’evento deve essere imputato alla colpevole condotta dei proprietari dell’immobile in
argomento, che, omettendo di provvedere alla manutenzione straordinaria dell’impianto elettrico a
norma di legge (legge n°46/1990 “Norme per la sicurezza degli impianti”), non installando il
cosiddetto “salvavita”, ovvero idoneo strumento di sicurezza e isolamento dell’impianto elettrico al
servizio dell’immobile, hanno determinato la folgorazione e quindi il decesso della minore M. A.”.
L’assunto va condiviso.
Deve, invero, ritenersi pacifico, in punto di fatto, che l’immobile in questione -oltre ad essere stato
realizzato abusivamente (tanto da essere stato colpito da un’ordinanza di demolizione già nel 2011)
– è stato realizzato prima dell’entrata in vigore della legge 46/1990 sopra citata e, soprattutto, non è
stato mai adeguato alla normativa dettata, in tema di sicurezza degli impianti, dalla legge sopra
indicata.
Depongono, invero, in tal senso non solo le risultanze del processo penale espletato, conclusosi con
sentenza ex. art. 444 c.p.p. (cfr. doc. 15 di parte attrice), ma ancor prima gli esiti delle indagini
espletate dai Carabinieri nell’immediatezza del fatto, nel cui rapporto in atti (cfr. doc. 9 allegato alla
seconda memoria di parte attrice) si legge che “Nel corso del sopralluogo emergeva che l’impianto
elettrico non era a norma, infatti vi erano dei fili di luce scoperti, alcune cassette di diramazione
aperte e mancava il salvavita..”.
Ciò acclarato in fatto, quel che adesso occorre mettere in evidenza, in diritto, è che la fattispecie in
esame appare agevolmente riconducibile – cfr., proprio con riferimento ad una fattispecie del tutto
affine a quella qui in esame, Cass. 17733/2008 (laddove si afferma che il proprietario dell’immobile
locato, conservando la disponibilità giuridica e la custodia, delle strutture murarie e degli impianti,
su cui il conduttore non ha il potere-dovere di intervenire, è responsabile, in via esclusiva, ai sensi
dell’art. 2051 c.c. dei danni arrecati a terzi da dette strutture ed impianti, e Cass. nr. 7699/2015 (in
cui la Suprema Corte ha confermato la decisione dei giudici di merito, in ordine alla
corresponsabilità del proprietario e del conduttore nel caso di danni a terzi procurati dall’impianto
elettrico non a norma) – nell’ambito della responsabilità da cosa in custodia, di cui all’art. 2051 c.c.,
a mente del quale “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo
che provi il caso fortuito”.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, “la fattispecie di cui all’art.
2051 c.c. individua pacificamente un’ipotesi di responsabilità oggettiva, essendo sufficiente per
l’applicazione della stessa la sussistenza del predetto rapporto di custodia tra il responsabile e la
cosa che ha dato luogo all’evento lesivo, senza che assuma rilievo in sé la violazione dell’obbligo di
custodire la cosa da parte del custode, la cui responsabilità è esclusa dal solo “caso fortuito”.
Sul piano dell’onere della prova, si è, altresì, precisato in giurisprudenza che grava sull’attore l’onere
di provare il nesso causale tra il danno e la cosa in custodia, mentre spetta al convenuto dare la
prova dell’evento imprevedibile, integrante gli estremi del “caso fortuito”.
Nel caso di specie, è pacifico, alla luce di quanto si è sin qui detto che, mentre gli attori hanno
pienamente assolto all’onere probatorio su di essi incombente, nessuna prova è stata data dai
convenuti circa la riconducibilità del fatto al “caso fortuito”.
Questi, infatti, si sono limitati ad allegare che la responsabilità del fatto sarebbe da ascriversi alla
“culpa in vigilando” degli attori, i quali, omettendo di vigilare sul comportamento della figlia
minore, non le avrebbero impedito di accedere, col corpo bagnato, all’interno dell’appartamento.
Sennonchè, tale circostanza – se può certamente indurre ad attribuire, a carico degli attori, un
concorso di colpa (quantificabile in misura pari al 30%), ex art. 1227 comma 1 c.c., attesa la
obiettiva imprudenza del comportamento tenuto nella fattispecie dalla vittima – non appare, tuttavia,
idonea ad integrare gli estremi del caso fortuito.
Si è, infatti, precisato in giurisprudenza che “In ambito di responsabilità da cose in custodia, ex art.
2051 c.c., …non risulta predicabile la ricorrenza del caso fortuito a fronte del mero accertamento di
una condotta colposa della vittima (la quale potrà invece assumere rilevanza, ai fini della riduzione
o dell’esclusione del risarcimento, ai sensi dell’art. 1227, commi 1 e 2, c.c.), richiedendosi, per
l’integrazione del fortuito, che detta condotta presenti anche caratteri di imprevedibilità ed
eccezionalità tali da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno” (Cass.
26524/2020).
Dunque, in ragione di quanto precede, può concludersi nel senso che la responsabilità del fatto va
così ripartita tra le parti:
– 30%, a carico degli attori, ex art. 1227 comma 1 c.c.;
– 70% a carico dei convenuti, ex art. 2051 c.c.
***
Risolta, nel senso che precede, la questione dell’an della responsabilità, può adesso passarsi alla
disamina del quantum.
A tal proposito, occorre anzitutto ricordare che gli attori agiscono per il risarcimento del danno iure
proprio patito, a seguito della morte della propria congiunta.
In particolare, rivendicano il risarcimento tanto del danno patrimoniale che di quello non
patrimoniale.
Per quanto attiene al primo, osserva il Tribunale che – tenuto conto della giovanissima età della
vittima e della sua assoluta incapacità lavorativa (alla data del fatto), oltre che della assoluta
mancanza di elementi che possano indurre a ritenere che la sessa avrebbe in futuro svolto una
qualche attività produttiva di reddito (e che dei relativi profitti avrebbero pure beneficiato gli
odierni attori) – il chiesto risarcimento non appare neppure lontanamente ipotizzabile.
Discorso evidentemente diverso deve, invece, farsi con riferimento al danno non patrimoniale,
espressione (questa) onnicomprensiva di qualsiasi lesione di interesse o valore costituzionalmente
protetto, non suscettibile di valutazione economica (tale, dunque, da ricomprendere sia il danno
“morale” che quello c.d. “esistenziale”).
Si è, invero, precisato in giurisprudenza (cfr. Cassazione, sentenza 18 gennaio 2021, n. 703), che sia
il danno biologico – cioè, la lesione della salute (che, peraltro, nel caso di specie non viene in
considerazione) – sia quello morale (la sofferenza interiore) che quello dinamico-relazionale
(altrimenti definibile “esistenziale” e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita
quotidiane, risarcibile nel caso in cui l’illecito abbia violato diritti fondamentali della persona), pur
costituendo pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili, devono essere
liquidati complessivamente, in maniera tale da coprire l’intero pregiudizio a prescindere dal “nomen
iuris” dei vari tipi di danno, i quali non possono essere invocati singolarmente per un aumento
dell’anzidetta liquidazione.
Per la materiale quantificazione del danno, deve aversi riguardo alle c.d. tabelle di Milano, le quali
costituiscono un parametro quanto mai utile, se non altro al fine di individuare una “forbice” di
riferimento.
Una volta stabilita la “cornice”, si tenterà di adeguare il risarcimento invocato dagli attori alla
effettività del danno lamentato, in base agli elementi di cui si dispone.
Orbene, nella versione più recente (risalente al marzo 2021), le citate tabelle prevedono, per il caso
di morte del proprio congiunto, i seguenti importi:
a) in favore di ciascun genitore, per la morte del figlio, da € 168.250,00 a € 336.500,00;
b) in favore del fratello/sorella, per la morte del fratello/sorella, da € 24.650,00 a € 146.120,00.
Prendendo in esame, anzitutto, la posizione dei genitori, ritiene il Tribunale liquidabile, in favore di
ciascuno di essi la somma di € 270.000,00.
Occorre, invero, considerare:
a) anzitutto, la giovanissima età della figlia (appena dodicenne, all’epoca del fatto);
b) in secondo luogo, le modalità traumatiche che l’hanno portata all’improvviso decesso;
c) in terzo luogo, che la vittima (nata il ..) era la loro prima figlia e che solo nel .. è nata la seconda
figlia (Vi.).
E’, dunque, del tutto ragionevole presumere – anche in considerazione delle normali dinamiche
familiari che ordinariamente caratterizzano (in modo del tutto “speciale”) il rapporto tra i genitori ed
i loro primogeniti – che il legame con la piccola A. fosse particolarmente intenso.
E’, tuttavia, altrettanto vero che il dolore della sua perdita, di lì a poco, è stato (per così dire)
mitigato dalla nascita del terzo figlio (M. G.J.), il che spiega la ragione per la quale, pur a fronte di
un fatto così grave, si ritiene di non elevare ulteriormente la cifra spettante ai coniugi M./P..
Per quanto attiene, invece, ai fratelli della vittima (M. Vi. e M. G.J.), osserva il Tribunale, quanto
alla prima, che questa, all’epoca del fatto, aveva appena 5 anni, ovvero una età che, se da un lato,
consente senz’altro di ritenere configurabile, in capo alla stessa, un diritto al risarcimento (essendo
del tutto ragionevole presumere che la morte della sorella maggiore le abbia provocato una
innegabile sofferenza morale), dall’altro induce a ritenere che tale sofferenza sia andata rapidamente
attenuandosi, con il crescere dell’età (anche grazie alla nascita del fratellino più piccolo, avvenuta
due anni dopo la morte di A.).
In ragione di quanto precede, appare equo liquidare in favore di M. Vi. la somma di € 25.000,00.
Discorso diverso deve, invece, farsi con riferimento a M. G.J..
Questi, infatti, non era ancora neppure nato quando è successo il fatto, per cui nessun risarcimento
appare liquidabile in suo favore.
***
Sottraendo dai superiori importi la quota del 30%, ascrivibile a colpa degli stessi attori n.q., il
risarcimento sopra quantificato discende:
quanto ai coniugi M.-P., ad € 192.500,00;
quanto a M. Vi., ad € 17.500,00.
***
Rivestendo i superiori importi natura di crediti di valore, gli stessi vanno dapprima devalutati alla
data (agosto 2012) dell’illecito (pervenendosi, rispettivamente, ad € 180.921,05 e ad € 16.447,37 ) e,
quindi, rivalutati, secondo gli indici ISTAT.
Quindi, sugli importi annualmente rivalutati, vanno calcolati gli interessi legali, secondo il
meccanismo delineato da Cass. Sez. Un. 1712/1995.
Si giunge, così, ad un totale di € 204.442,70 e ad € 18.585,31, che costituiscono l’ammontare
complessivo dovuto dai convenuti, in solido tra loro, agli attori, a titolo di risarcimento del danno,
oltre interessi dal dì della presente decisione al soddisfo
Tenuto conto dell’esito del giudizio, le spese – da liquidarsi secondo i valori medi del d.m. 55/2014,
in base allo scaglione “da € 260.000,01 a € 520.000,00” (stante il valore del “decisum”), salvo che
per la fase istruttoria (per la quale va disposta la riduzione del 50%, atteso che, dopo il deposito
delle relative memorie, la causa è stata rinviata per conclusioni), maggiorate nei limiti del 50%, ex
art. 4 comma 2 del medesimo d.m. – vanno poste a carico dei convenuti e liquidate a beneficio
dell’Erario, essendo la parte attrice ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
Il Tribunale, ogni contraria istanza ed eccezione respinta e definitivamente pronunciando, nel
contraddittorio delle parti,
CONDANNA
i convenuti, in solido tra loro, al pagamento:
a) in favore dei coniugi M. V. e P. C., della somma di € 204.442,70 ciascuno, oltre interessi dal dì
della presente decisione al soddisfo;
b) in favore dei coniugi M. V. e P. C., n.q. di genitori M. Vi., della somma di € 18.585,31, oltre
interessi dal dì della presente decisione al soddisfo;
c) in favore dell’Erario, delle spese di lite, che liquida in complessivi € 24.64,25, oltre iva, c.p.a. e
rimborso spese generali, come per legge.
Palermo, 5.1.2022
Il Giudice
Andrea Compagno