Testamento. Annullamento per incapacità del testatore ed impugnazione di una disposizione testamentaria effetto di dolo

Tribunale di Reggio Emilia, sent. 6 settembre 2021
TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA
SEZIONE PRIMA CIVILE

Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:
dott. Francisco Parisoli Presidente
dott. Damiano Dazzi Giudice Relatore
dott. Stefano Rago Giudice
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I° Grado iscritta al n. r.g. 617/2019 promossa da:
CARDOSO LORENA, CARDOSO LIDIA, CARDOSO PAULO ANTONIO, con il patrocinio
dell’avv. FRANCHI DANIELA;
ATTORI
contro
ALBUFERIA MARIA HELENA, MIRANDA MELLO FRANCISCO, con il patrocinio dell’avv.
BONI ANDREA;
CONVENUTI
CONCLUSIONI
Gli attori hanno concluso come da separato foglio, depositato con modalità telematiche in data
07.04.2021.
I convenuti hanno concluso come da separato foglio, depositato con modalità telematiche in data
08.04.2021.
MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
1.
Lorena Cardoso, Lidia Cardoso e Paulo Antonio Cardoso convenivano in giudizio Albuferia Maria
Helena e Francisco Miranda Mello, per impugnare il testamento pubblico redatto a ministero Notaio
di Modena dr. Alessandro Frigo in data 15.07.2016, pubblicato il 27.09.2018, con il quale il de
cuius Alexis Cardoso, deceduto a Castelnovo né Monti (RE) in data 23.06.2018, aveva nominato eredi
universali i convenuti Albuferia Maria Helena e Francisco Miranda Mello, rispettivamente badante
e vicino di casa del defunto.
Gli attori, nell’atto di citazione, chiedevano che il testamento impugnato del 15.07.2016 fosse
dichiarato nullo perché tale atto non risultava firmato dal testatore e dai testimoni.
Proponevano inoltre azione di annullamento del testamento per incapacità naturale del testatore,
deducendo che il de cuius, alla data del 15/07/2016, si trovasse in stato di assoluta incapacità di
intendere e di volere.
In via subordinata, svolgevano domanda di annullamento del testamento ex art. 624 c.c., sostenendo
che le disposizioni testamentarie fossero state frutto della captazione della volontà del de cuius e di
violenza.
Deducevano, conseguentemente, che la successione dovesse essere regolata dal precedente
testamento pubblico del 11.11.2013, redatto a ministero Notaio di Scandiano (RE) dr. Benedetto
Catalini, che li vedeva nominati eredi universali.
Concludevano quindi chiedendo:
• di accertare che il testamento pubblico redatto il 15.07.2016 a ministero del Notaio
Alessandro Frigo, pubblicato il 27.09.2018, fosse affetto da nullità per carenza della firma del
testatore e dei due testimoni;
• di accertare la sussistenza dell’incapacità di intendere e volere del testatore e di conseguenza
di dichiarare l’annullamento del testamento, nonché, in subordine, di dichiararne
l’annullamento “per captazione, dolo e/o violenza subiti dal testatore”.
I convenuti, costituitisi in giudizio, eccepivano in via preliminare la mancanza della condizione di
procedibilità della domanda di nullità del testamento, nonché della domanda subordinata di
annullamento del testamento per captazione, stante il mancato esperimento, su tali domande, del
procedimento di mediazione obbligatoria. Nel merito, contestavano la fondatezza delle domande
attoree e ne chiedevano il rigetto con condanna delle controparti al risarcimento del danno per lite
temeraria ex art. 96 c.p.c.
Deducevano che il testamento pubblico in questione del 15.07.2016 fosse pienamente valido in
quanto munito delle firme del testatore, dai testimoni e del Notaio, e che parte attrice non avesse
fornito la prova rigorosa richiesta dalla giurisprudenza di legittimità in ordine al fatto che il
testatore, in epoca prossima al 15.07.2016, fosse incapace di intendere e volere ex art. 591 cod. civ.
Alla prima udienza del 20.06.2019 il Giudice, accogliendo l’eccezione preliminare dei convenuti,
rilevava che la domanda di mediazione contenesse esclusivo riferimento, quali ragioni della pretesa,
all’incapacità naturale del de cuius, e non alla domanda di nullità ed alle altre ragioni di
impugnazione dedotte nell’atto di citazione, cosicché, in ragione della mancata simmetria
tra petitum e causa petendi fatti valere in sede di mediazione e quelli successivamente presentati in
sede processuale e della conseguente mancata realizzazione della condizione di procedibilità di tutte
le domande attoree, assegnava termine per l’esperimento del procedimento di mediazione su tutte
le domande svolte.
La mediazione sortiva esito negativo.
Nel corso del giudizio di merito, in accoglimento dell’istanza cautelare ex art. 670 c.p.c. avanzata
dagli attori, il Giudice, con decreto inaudita altera parte confermato con successiva ordinanza a sua
volta confermata in sede di reclamo, autorizzava il sequestro giudiziario dei beni rientranti nell’asse
ereditario del de cuius Alexis Cardoso.
Assegnati i termini ex art. 183 comma 6 c.p.c., la causa veniva istruita con CTU a firma della dr.ssa
Laura Lestingi, finalizzata ad accertare, sulla base della documentazione medica in atti, se il testatore
Alexis Cardoso fosse o meno in condizioni di capacità di intendere e di volere al momento della
redazione del testamento pubblico del 15.07.2016.
Veniva inoltre assunta la prova testimoniale alle udienze del 25/11/2020, del 27/01/2021 e del
10/03/2021.
Gli attori, in corso di causa, chiedevano in data 10/03/2021 l’ammissione di due querele di falso
aventi ad oggetto, rispettivamente, la prima il testamento pubblico del 15/07/2016, e la seconda il
certificato medico del 24.05.2016 del Dott. Farouk Ramadan; querele entrambe non autorizzate dal
giudice istruttore con ordinanza del 12.03.2021.
All’udienza del 15.04.2021, le parti precisavano le conclusioni ed il giudice istruttore rimetteva la
causa al Collegio, assegnando i termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e
di memorie di replica.
Fatte queste premesse, si esamina la fattispecie in decisione.
Parte attrice ha introdotto il presente giudizio affermando, nell’atto di citazione, che il testamento
pubblico impugnato fosse privo della firma del testatore e dei testimoni, e per tale ragione ne ha
chiesto la declaratoria di nullità.
Quanto agli elementi identificativi dell’azione di nullità proposta, il petitum è dunque rappresentato
dalla pronuncia di nullità del testamento, mentre la causa petendi (ossia la ragione per cui si è
domandata la nullità) è rappresentata dall’affermata mancanza di firma in calce al testamento: si
legge infatti nella sesta e settima pagina dell’atto di citazione, che il testamento in questione non
riportasse in calce le firme (“delle firme non vi è traccia”), con conseguente sua nullità (“Ne deriva che
qualora il testamento non sia stato sottoscritto questo sarà affetto da nullità”).
Ritiene il Collegio che la domanda sia infondata perché, come si evince chiaramente dal documento
n. 9 prodotto dagli stessi attori con la memoria ex art. 183, comma 6, n. 1 c.p.c., il testamento pubblico
del 15.07.2016 risulta sottoscritto sia dal testatore che dai testimoni e dal Notaio, come peraltro
attestato dal Notaio stesso.
Mentre nell’atto introduttivo del giudizio, come si è detto, gli attori hanno fondato la loro domanda
di nullità sull’assunto che il testamento fosse privo della firma del testatore, nella successiva
memoria ex art. 183, comma 6, n. 1 c.p.c. essi hanno introdotto, a sostegno della domanda di nullità,
una nuova e diversa causa petendi, affermando che il testamento risultasse sì firmato (“le firme ci
sono”), ma che la firma non fosse riconducibile al testatore o comunque fosse stata apposta “con mano
guidata ovvero con mano forzata”.
Ora, un conto è affermare la nullità del testamento perché non risulta firmato (come asserito dagli
attori nell’atto di citazione); altro è affermare la nullità del testamento perché la firma, seppur
presente, non sia autografa del testatore o comunque sia stata guidata dalla mano di terzi (come pare
sostenere parte attrice nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 1 c.p.c.).
Le due causae petendi sono diverse.
Ritiene pertanto il Collegio che la domanda attorea di accertamento della nullità del testamento del
15.07.2016 (petitum) così come formulata per la prima volta con la memoria ex art. 183, comma 6, n.
1 c.p.c. (“Accertare che il testamento pubblico redatto il 15.07.2016 dal de cuius Alexis Cardoso a ministero
del Notaio Alessandro Frigo e pubblicato il 27.09.2018 dallo stesso Notaio è affetto da nullità/annullabilità in
quanto la firma del testatore Alexis Cardoso non è riconducibile allo stesso ovvero è stata apposta
con mano guidata ovvero con mano forzata”) debba essere dichiarata inammissibile trattandosi di
domanda nuova, in quanto avente una causa petendi diversa da quella indicata nell’atto di citazione,
ove gli attori avevano domandato che il testamento fosse dichiarato nullo perché era privo della
firma del testatore e dei testimoni (“accertare che l’originale del testamento pubblico redatto il 15.07.2016
dal de cuius Alexis Cardoso a ministero del Notaio Alessandro Frigo e pubblicato il 27.09.2018 dallo stesso
Notaio è affetto da nullità per carenza di elementi essenziali nello specifico carenza della firma del testatore
e dei due testimoni”).
Va poi osservato che, come chiarito dalle Sezioni Unite della Cassazione, la parte che contesti
l’autenticità del testamento deve proporre non già querela di falso, bensì azione di accertamento
negativo della provenienza della scrittura, e l’onere della relativa prova, secondo i principi generali
dettati in tema di accertamento negativo, grava sulla parte stessa: in questo senso si sono espresse
Cass. Sez. Un. 15 giugno 2015, n. 12307 (conf., ancora più di recente, Cass. n. 109/2017).
Ebbene, nel caso di specie nessuna prova è stata fornita da parte attrice, entro i termini
istruttori ex art. 183, comma 6, n. 2 c.p.c., circa il fatto che la firma fosse stata apposta da Alexis
Cardoso “a mano guidata”, o che fosse stata apposta da soggetti terzi; quindi l’azione di
accertamento negativo della provenienza della firma sarebbe comunque infondata nel merito per
mancanza della relativa prova.
Anzi, nel testamento pubblico in questione, il Notaio dr. Alessandro Frigo ha attestato testualmente
che “il presente testamento viene sottoscritto alle ore diciassette e trenta dal testatore, dai testimoni…”, ed
ha ricevuto le dichiarazioni del testatore Alexis Cardoso, che in tal sede dichiarava al Notaio “di poter
sottoscrivere con difficoltà …per l’età avanzata”.
Inoltre, nel corso del giudizio, all’udienza del 25.11.2020, lo stesso Notaio dr. Alessandro Frigo,
escusso come testimone, ha precisato: “Preciso che il sig. Alexis Cardoso firmò davanti a me ed ai
testimoni da solo sebbene a fatica, con mano tremolante”, e dunque, contrariamente a quanto
sostenuto dagli attori, deve escludersi che la firma fosse stata apposta dal testatore “a mano guidata” o
addirittura da persona diversa dal testatore medesimo.
Parte attrice, ad istruttoria orale già esaurita, all’udienza del 10.03.2021 ha proposto querela di falso
nei confronti del testamento pubblico del 15.07.2016 di cui si discute.
Si tratta, tuttavia, di querela inammissibile. Questo Collegio, al riguardo, condivide e fa proprie le
motivazioni dell’Ordinanza del Giudice Istruttore resa in data 12.03.2021, stante il necessario
esperimento, a tal fine, non già di querela di falso ma di azione di accertamento negativo in ordine
alla riferibilità della firma al testatore; azione risultata nel caso concreto inammissibile e comunque
infondata nel merito per le ragioni più sopra esplicitate.
La difesa attorea ha, poi, dedotto l’invalidità del testamento impugnato sotto il diverso profilo
dell’asserita infermità e deficienza psichica del de cuius, sostenendo che Alexis Cardoso, all’atto del
testamento pubblico in data 15.07.2016 ricevuto dal notaio Alessandro Frigo, sarebbe stato “affetto da
grave deficit cognitivo così come certificato dalla Dott.ssa Patrizia Cardoso il 13.02.2017”.
La prova dell’incapacità di intendere e di volere del testatore al momento della redazione del
testamento era a carico della parte che ha chiesto l’annullamento del testamento, ossia a carico degli
attori (ex multis, Cass. ord. 22 gennaio 2019, n. 1682).
Non è sufficiente una semplice alterazione delle capacità psichiche, ma occorre la prova dell’assenza
assoluta della coscienza dei propri atti e della capacità di autodeterminarsi nel momento in cui viene
redatto il testamento.
Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha un orientamento ormai da tempo consolidato,
secondo cui “L’annullamento di un testamento per incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non
già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del “de cuius”, bensì la prova
che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia
privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti
ovvero della capacità di autodeterminarsi, con il conseguente onere, a carico di chi quello stato di incapacità
assume, di provare che il testamento fu redatto in un momento di incapacità di intendere e di volere” (così, tra
le tante, Cass. n. 8690/2019; Cass. n. 27351/2014; Cass. n. 15480/2011 Cass. n. 9081/2010), con la
precisazione per cui “poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta
a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità salvo che il testatore non risulti affetto da
incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la
corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo” (così Cass. n. 27351/2014; conf., da ultimo,
Cass. sez. 6-2, ord. n. 3934 del 19 febbraio 2018).
Nel caso per cui si procede, quindi, gli attori avevano l’onere di dimostrare in modo preciso e
rigoroso la sussistenza non di mere difficoltà psicofisiche del defunto, ma di una grave
compromissione delle sue capacità cognitive, tale da determinarne un vero e proprio stato di
incapacità.
Ciò premesso, deve rilevarsi che, nel caso di specie, anche la domanda attorea di annullamento del
testamento per asserita incapacità naturale del de cuius, proposta ai sensi dell’art. 591, comma 2, n.
3) cod. civ., si sia rivelata sfornita di prova sufficiente.
La causa è stata istruita mediante l’acquisizione di prove documentali (documentazione medica
relativa al de cuius) e testimoniali, nonché tramite l’espletamento di una C.T.U. depositata il
25.01.2021 a firma della dr.ssa Laura Lestingi, medico specialista in neurologia e specialista in
psichiatria, per verificare la valenza della documentazione medica fornita dalle parti.
Le prove testimoniali ed i documenti prodotti non hanno fornito la prova rigorosa richiesta dalla
succitata giurisprudenza di legittimità in ordine alla sussistenza dell’incapacità di intendere e di
volere del de cuius.
Quanto alla documentazione medica in atti, la C.T.U. ha osservato che “Solo DOPO l’esecuzione
dell’atto testamentario sono presenti agli atti certificati attestanti la presenza di un deterioramento senile la
cui entità viene valutata solo con test di primo livello e senza alcun tipo di esame strumentale”.
In particolare, con specifico riferimento al certificato redatto della geriatra dr.ssa Patrizia Cardoso in
data 13 febbraio 2017 presso il Centro Disturbi Cognitivi, Distretto di Scandiano, valorizzato da parte
attrice a sostegno della propria domanda di annullamento per incapacità (doc. attoreo n. 4), in tale
certificato la geriatra riporta testualmente: “nel corso dell’ultimo anno, c’è stato un peggioramento del
deficit cognitivo. E’ disorientato, non riconosce la propria casa e la persona che lo assiste, presenta un rapido
oblio per le informazioni recenti. Totale dipendenza nella IADL; nelle attività di base della vita quotidiana per
evidenti deficit nella fase esecutiva dipende da altra persona nell’igiene e nella vestizione, …. si alimenta da
solo con cibi pronti, deambula affiancato per sicurezza. Alla valutazione neuropsicologica paziente
collaborante, l’eloquio spontaneo è fluente ma ridotto e povero nei contenuti; non sempre adeguata la
comprensione delle consegne verbali, ci sono deficit nella lettura e nella scrittura. E’ disorientato nel tempo,
parzialmente orientato nello spazio e sui dati personali. Sono presenti deficit importanti
nell’attenzione/calcolo, nella memoria, nelle funzioni visuo-spaziali e visuo-costruttive, esecutive …
Conclusioni: Quadro di avanzata demenza senile…”.
Pur vero che la geriatra dr.ssa Cardoso ha riportato, nel citato certificato del 13/02/2017, un
peggioramento del deficit cognitivo “nel corso dell’ultimo anno” (da cui si desume un esordio del
decadimento cognitivo già a febbraio 2016); tuttavia la C.T.U. ha ritenuto tale inciso generico,
inducendo “presuntivamente a considerare la presenza di sintomi di impossibile entità e definizione,
considerando la mancanza di dati obiettivi sui quali confermare la modalità di esordio”, ed ha sottolineato
come, in ogni caso, “la presunta diagnosi di demenza prima dell’atto testamentario non sia bastevole a
definire l’esclusione della capacità naturale del testando al momento della disposizione dell’atto” (pagg. 28 e
29 relazione CTU).
Le conclusioni a cui è giunta la C.T.U. sono oltremodo condivisibili, se si considera la deposizione
testimoniale resa all’udienza del 25.11.2020 dalla stessa geriatra dr.ssa Patrizia Cardoso, la quale ha
dichiarato, proprio con riferimento al menzionato certificato dalla stessa redatto il 13.02.2017, che la
situazione dello stato cognitivo di Alexis Cardoso dell’anno precedente (2016) le fosse stata riferita
da coloro che avevano accompagnato il paziente alla visita medica, e non fosse stata quindi da lei
stessa accertata direttamente con riscontri obiettivi (” la situazione dell’anno precedente l’ho raccolta in
sede di anamnesi raccogliendo informazioni da chi lo accompagnava … Preciso che io nel 2016 non ho mai
visitato il paziente Alexis Cardoso , l’ho visitato per la prima volta nel 2017″).
Il C.T.P. degli attori ha sostenuto che, presuntivamente, Alexis Cardoso fosse affetto da demenza
senile già un anno prima rispetto al certificato della geriatra del febbraio 2017.
Ritiene al riguardo il Collegio che la C.T.U. abbia adeguatamente risposto a tale osservazione del
C.T.P. attoreo, evidenziando sul punto che, “nella situazione specifica, l’assenza di accertamenti sanitari
e strumentali, rende impossibile determinare sia l’epoca di esordio che la progressione della sintomatologia,
nonché la sua relazione con la capacità di testare. La mera diagnosi di demenza nel periodo posteriore al
testamento non permette di evincere automaticamente il fatto che il 15 luglio 2016 il testatore sia stato affetto
da incapacità totale e permanente. Nel caso specifico la prima documentazione medica comprovante la patologia
cognitiva è successiva di diversi mesi, circa sette, dalla data di redazione del testamento. Essa è compilata senza
alcun esame strumentale e di secondo livello e quindi non può essere sufficiente, in assenza di dati obiettivi
scientificamente documentati, a far presumere l’incapacità naturale del soggetto al momento dell’atto. Non si
riscontrano i presupposti per l’inversione dell’onus probandi sulla presunzione di incapacità naturale anche
precedente all’atto, in quanto la ricostruzione documentale non permette di trovare riscontri oggettivi
indicanti una compromissione rilevante delle funzioni dell’Io”.
Come visto era onere degli attori dimostrare lo stato di incapacità del defunto al momento del
testamento. Di conseguenza, l’eventuale incertezza sulle sue effettive condizioni deve ricadere su di
loro.
Gli esiti della C.T.U., che il Collegio ritiene di condividere in quanto chiari, ben argomentati e privi
di vizi logico-giuridici, non consentono quindi di accogliere la domanda di annullamento del
testamento.
Il perito incaricato dal Tribunale dott.ssa Laura Lestingi, nella propria relazione peritale depositata
il 25.01.2021, ha infatti affermato, all’esito di un approfondito esame di tutta la documentazione
medica prodotta in atti, che, “nel caso specifico, l’esiguità della documentazione inerente il periodo
antecedente all’atto testamentario, l’assenza di esami strumentali e di tests neuropsicologici di secondo livello,
non permette di stabilire in modo rigoroso che il soggetto fosse incapace di intendere e di volere al momento
dell’atto” (pag. 27 relazione CTU).
In particolare, in ordine al quadro clinico del testatore antecedente al testamento, dalla CTU e dalla
documentazione medica prodotta, emerge innanzitutto un certificato del febbraio 2015, effettuato
presso l’ambulatorio di neurologia di Scandiano, da cui si evince una descrizione dell’esame
obiettivo neurologico “nella norma, “non vengono riferiti disturbi neurologici di recente insorgenza” (pag.
27 CTU).
Spiega a tal proposito la dr.ssa Lestigi che “Cardoso Alexis avrebbe manifestato un episodio di ischemia
cerebrale transitoria che non avrebbe lasciato sintomi neurologici, sia cognitivi che somatici, in base al
contenuto del certificato. La neurologa ha prescritto una terapia antiaggregante finalizzata alla riduzione del
rischio di recidive, ma nel certificato non si evidenziano problematiche cliniche temporanee o permanenti. Si
sottolinea che non vengono citati esami strumentali eseguiti antecedentemente o in occasione della visita e non
è possibile evincere se il TIA abbia interessato il circolo cerebrale anteriore o quello posteriore-vestibolare, quali
siano stati i sintomi …”. La CTU ha in ogni caso rilevato come fosse sicuro che, dal 2009 al 2015, non
fossero sopravvenute complicanze, anzi nel febbraio del 2015 l’obiettività neurologica fosse “nella
norma” (pag. 28 relazione CTU).
Quanto invece al quadro clinico del testatore successivo alla redazione del testamento, osserva la
CTU che, “nel 2017, esistono documenti agli atti che evidenziano uno scadimento delle funzioni cerebrali
superiori del signor Alexis Cardoso, anche se mancano valutazioni neuropsicologiche di secondo livello ed
esami strumentali indispensabili, come la TAC cerebrale o la RMN encefalica. Nella cartella clinica del centro
per le demenze mancano molti dati anamnestici, rendendo così impossibile la ricostruzione dell’esordio e
dell’andamento della condizione involutiva cerebrale” con specifico riferimento alla data del testamento
del 15 luglio 2016 (pag. 30 relazione CTU).
La CTU ha quindi concluso affermando che, “esaminata la documentazione agli atti il signor Alexis
Cardoso il giorno 15 luglio 2016 , alla data della redazione del testamento, era in condizione di capacità di
intendere e di volere in relazione alla capacità di testare esercitata con il suddetto testamento .
Non risultano infatti elementi clinici per ipotizzare l’abolizione della capacità naturale al momento del negozio
giuridico considerando l’assenza di prove documentali in merito all’esistenza in data 15 luglio 2016 di una
patologia neurologica o psichiatrica di entità tale da interferire gravemente con le funzioni cerebrali
superiori” (pagg. 30-31 relazione CTU).
Si aggiunga che le ultime volontà furono espresse da Alexis Cardoso avanti al Notaio con la
redazione di un atto con tutte le formalità previste dalla legge per il testamento pubblico, e
trattandosi di volontà testamentarie rese nella forma pubblica, non può trascurarsi il fatto che il
Notaio dr. Alessandro Frigo non avesse rilevato, nel momento in cui ha ricevuto le ultime volontà
del Cardoso, alcuna alterazione delle sue capacità mentali. Il Notaio Alessandro Frigo, in sede di
deposizione testimoniale, all’udienza del 25.11.2020, ha sul punto dichiarato con riferimento al
testatore: “mi apparve come un signore, che non avevo mai visto prima, anziano alto circa come me che
camminava da solo e parlava normalmente. Mi disse che era vedovo e che aveva perso l’unico figlio, che non
aveva altri parenti, nipoti genitori ovviamente, e che quindi aveva intenzione di lasciare tutti i suoi beni alle
persone che in quel momento gli stavano facendo del bene. Preciso che quando abbiamo redatto il testamento
erano presenti solo i testimoni previsti per legge e il testatore oltre al sottoscritto, l’accompagnatore era rimasto
fuori ad aspettare…” (verbale d’udienza del 25.11.2020).
Infine, deve osservarsi che nessun elemento a sostegno della tesi dell’incapacità naturale del
testatore possa trarsi dal contenuto del testamento.
Secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, infatti, ai fini dell’accertamento sulla sussistenza
o meno della capacità di intendere e di volere del de cuius al momento della redazione del
testamento, il giudice del merito non può ignorare il contenuto del testamento medesimo e gli
elementi di valutazione da esso desumibili, in relazione alla serietà, normalità e coerenza delle
relative disposizioni, nonché ai sentimenti ed ai fini che risultano averle ispirate (cfr. Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 230 del 05/01/2011).
Nel caso specifico, dal testamento si evincono le ragioni delle ultime volontà dichiarate dal testatore
(“Nomino eredi in parti uguali, per ringraziarli per l’assistenza che da anni mi prestano: Miranda Mello
Francisco, nato a…; Albuferia Maria Helena, nata a …”), e non è emerso che tra il defunto ed i beneficiari
del testamento sussistesse una conflittualità incompatibile con la volontà di istituirli eredi, né
tantomeno che i rapporti con gli attori fossero talmente preferenziali da rendere inspiegabile la loro
pretermissione.
La difesa attorea ha, poi, dedotto l’invalidità del testamento pubblico del 15.07.2016, chiedendone
l’annullamento sotto il diverso e subordinato profilo della “captazione, dolo e/o violenza subiti dal
testatore”, come tali riconducibili all’art. 624 cod. civ. .
È noto che, secondo giurisprudenza da tempo consolidata, la cd. “captazione” rientra tra le forme in
cui può manifestarsi il dolo ex art. 624 c.c., per cui deve considerarsi annullabile il testamento redatto
dal de cuius sotto il condizionamento di un’influenza psicologica capace di incidere in modo
determinante sul processo formativo della sua volontà, che altrimenti si sarebbe indirizzata in modo
diverso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6396 del 22/04/2003).
Questa forma di invalidità presuppone, ovviamente, la prova della captazione, che grava sulla parte
che chiede l’annullamento, la quale ha l’onere di dimostrare non soltanto l’esistenza di un’influenza
sul de cuius, ma anche che il beneficiario della disposizione testamentaria si sia avvalso di un mezzo
fraudolento.
In particolare, in tema di impugnazione di una disposizione testamentaria che si assuma effetto di
dolo, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “per potere configurarne la sussistenza non è
sufficiente qualsiasi influenza di ordine psicologico esercitata sul testatore mediante blandizie, richieste,
suggerimenti o sollecitazioni, ma occorre la presenza di veri e propri raggiri o altri mezzi fraudolenti, i quali –
avuto riguardo all’età, allo stato di salute, alle condizioni di spirito dello stesso – siano idonei a trarlo in
inganno, suscitando in lui false rappresentazioni ed orientando la sua volontà in un senso in cui non si sarebbe
spontaneamente indirizzata. La relativa prova, pur potendo essere presuntiva, deve fondarsi su fatti certi che
consentano di identificare e ricostruire la attività captatoria e la conseguente influenza determinante sul
processo formativo della volontà del testatore che altrimenti si sarebbe indirizzata in modo diverso” (Cass.
Sez. 2, n. 14011 del 28/05/2008; Cass. Sez. 2, n. 824 del 16/01/2014; Cass. Sez. 2, n. 6396 del 22/04/2003;
Cass. Sez. 2, n. 4653 del 28/02/2018).
Ciò posto, ritiene il Collegio che, nel caso concreto, gli attori non abbiano allegato, né tantomeno
provato, fatti certi e specifici che consentano di identificare e ricostruire l’attività captatoria e
l’influenza determinante sul processo formativo della volontà del testatore, essendosi limitati a
riferire, genericamente, che il de cuius vivesse “in uno stato di assoggettamento psicologico nei confronti
della badante” (pag. 2 atto di citazione), nonché di un tentativo messo in atto dalla convenuta
Albuferia di isolare il Cardoso dai nipoti mediante cambiamento della serratura di casa, in modo
tale da impedire ai nipoti stessi di accedervi liberamente.
Né sono stati allegati e provati specifici fatti da cui possa trarsi la conclusione che le disposizioni
testamentarie in questione fossero state l’effetto di una violenza subita dal testatore.
La domanda degli attori va, dunque, rigettata anche sotto questo profilo.
Alla luce delle considerazioni che precedono, pertanto, le domande attoree vanno, in definitiva, tutte
respinte in quanto infondate. Ne consegue la revoca del sequestro giudiziario disposto in corso di
causa.
Le spese di lite, ivi comprese quelle della fase cautelare e di mediazione, sono regolate dal principio
della soccombenza e sono liquidate in dispositivo facendo applicazione dei criteri e dei parametri
previsti dal DM 55/2014 così come modificato dal D.M. 08/03/2018 n. 37.
Quanto alle spese della fase cautelare (procedimento per sequestro giudiziario in corso di causa R.G.
617/2019 – sub 1), si precisa che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, “il provvedimento
cautelare chiesto in corso di causa dà vita ad un subprocedimento incidentale, come tale privo di autonomia
rispetto alla causa di merito. Ne consegue che la regolamentazione delle spese processuali di detto
subprocedimento non può che essere disposta, al pari di quella relativa alle spese che si sostengono nel
procedimento principale, con il provvedimento che chiude quest’ultimo” (in tal senso, Cass. civ. Sez. II,
sentenza n. 3436 dell’11/02/2011; si veda inoltre Cass. civ. Sez. III, ordinanza n. 12898 del 13/05/2021).
Non trova applicazione l’aumento richiesto del 30% ex art. 4, comma 2, D.M. 55/2014, atteso che, pur
essendo presenti due parti convenute aventi la stessa posizione processuale, tale maggiorazione
risulta neutralizzata dalla speculare riduzione in pari misura del 30% prevista dal successivo art. 4,
comma 4, del D.M. 55/2014, non avendo la prestazione professionale dell’avvocato nei confronti di
più soggetti comportato l’esame di specifiche e distinte questioni di fatto e di diritto.
Le spese di C.T.U., già liquidate con separato decreto del 26.01.2021, sempre in forza del principio
di soccombenza vanno poste in via definitiva a carico degli attori in solido tra loro.
Il compenso del custode giudiziario nominato con decreto del 12 agosto 2019, nel procedimento per
sequestro giudiziario R.G. 617/2019 – sub 1 e già liquidato con separato decreto del 04/09/2021, deve
parimenti da porsi in via definitiva a carico degli attori in solido tra loro in quanto soccombenti.
Confluisce inoltre negli esborsi da riconoscere ai convenuti anche il compenso del consulente tecnico
di parte convenuta Dott. Personé, pari ad € 1.020,00, documentato dalla fattura n. 292 del 14-12-2020,
prodotta dai convenuti con la memoria di replica.
Venendo, infine, alla richiesta di condanna degli attori ai sensi dei commi primo e terzo dell’art. 96
c.p.c., ritiene il Tribunale che le difficoltà insite nella valutazione postuma della capacità di intendere
e volere del de cuius e dell’evoluzione del suo quadro clinico, escludano la sussistenza del
presupposto soggettivo previsto dall’art. 96 c.p.c., vale a dire l’aver agito in giudizio con mala fede
o colpa grave.
P.Q.M.
Il Tribunale di Reggio Emilia in composizione collegiale, definitivamente pronunciando, ogni
diversa ed ulteriore istanza, eccezione e deduzione disattesa o assorbita, così provvede:
1. respinge le domande degli attori;
2. revoca il sequestro giudiziario disposto con decreto emesso in data 12.08.2019 e confermato
con ordinanza in data 3.9.2019;
3. condanna gli attori in solido tra loro al pagamento in favore dei convenuti delle spese di lite,
ivi comprese quelle della fase cautelare, che liquida complessivamente in € 15.343,00 per
compenso, in € 1.210,40 per esborsi (di cui € 1.020,00 per spese di CTP, € 16,40 per spese di
citazione dei testi ed € 174,00 per anticipazioni sostenute nella fase cautelare), oltre IVA e
CPA come per legge e rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% del compenso ex
art. 2 del D.M. 55/2014;
4. condanna gli attori in solido tra loro al pagamento, in favore dei convenuti, delle spese
relative al procedimento di mediazione, che liquida in € 510,00 per compenso, in € 341,60 per
anticipazioni, oltre IVA e CPA come per legge e rimborso delle spese forfettarie nella misura
del 15% del compenso ex art. 2 del D.M. 55/2014;
5. pone il compenso del custode giudiziario così come già liquidato con separato decreto del
04/09/2021, in via definitiva a carico degli attori in solido tra loro;
6. pone le spese di CTU, così come già liquidate con separato decreto del 26.01.2021, in via
definitiva a carico degli attori in solido tra loro;
7. rigetta la domanda dei convenuti formulata ex art. 96 c.p.c.
Reggio Emilia, 6 settembre 2021.
Il Giudice estensore
Dott. Damiano Dazzi
Il Presidente
Dott. Francisco Parisoli

Pubblicazione il 06/09/2021

Sussiste abbandono se i genitori rifiutano di collaborare

Cassazione civile sez. I – 02/09/2021, n. 23802
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 22247/2020 proposto da:
A.M.G., rappresentata e difesa dall’Avv. Vincenzo
Zummo, per procura in calce al ricorso per cassazione;
– ricorrente –
contro
Avv. S.F., nella sua qualità di tutore dei minori
C.D., Co.De., C.M. e C.S.;
Ca.Ro.;
Co.Ma.;
– intimati –
e nei confronti di:
Procura Generale presso la Corte di appello di Palermo;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte di appello di PALERMO n. 12/2020
pubblicata il 13 luglio 2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
14 giugno 2021 dal consigliere Dott. Lunella Caradonna.

RILEVATO CHE:
1. Con sentenza del 13 luglio 2020, la Corte di appello di Palermo ha rigettato l’appello
proposto da A.M.G. e Ca.Ro., avverso la sentenza del Tribunale per i Minorenni di Palermo n.
90/2019, depositata il 18 luglio 2019, che aveva dichiarato lo stato di adottabilità dei minori
C.D., nata a (OMISSIS), Co.De., nata a (OMISSIS), C.M., nato a (OMISSIS) e C.S., nata a
(OMISSIS).
2. La Corte di appello di Palermo, a sostegno della decisione impugnata, condividendo
le statuizioni di primo grado, ha ritenuto che le risultanze istruttorie erano inequivoche e che
sussisteva il rischio che lo sviluppo psicofisico dei minori potesse essere gravemente e
irreversibilmente pregiudicato; che la relazione del 16 dicembre 2013 degli operatori della
comunità (OMISSIS) aveva messo in evidenza che i minori provenivano da una ambiente
familiare non tutelante e che, dopo un anno dall’inserimento in comunità, le difficoltà dei
minori si erano lievemente attenuate.
3. I giudici di secondo grado, inoltre, hanno affermato:
-con specifico riferimento all’ A., che la madre era incapace di prendersi cura dei propri
figli e specificamente di accudire la più piccola, S., e che si relazionava con loro solo con il
rimprovero, senza ascoltare i loro bisogni e mostrava un atteggiamento svalutante durante le
visite, inficiando così il lavoro svolto dagli operatori sui minori e incidente sulla autostima della
figlia De.; la stessa, oltre a squalificare il marito davanti ai figli, non si rendeva conto delle
gravi crisi respiratorie delle figlia J.; la stessa, dopo la nascita di Cl. il (OMISSIS), avuta dalla
relazione con il convivente Cr.Gi., non si era più presentata agli appuntamenti fissati dal
Consultorio e nel riprendere i contatti, continuava a non ammettere le proprie carenze
genitoriali;
– con riguardo a Co.Ma. che lo stesso, inizialmente, si era reso irreperibile e che aveva
dimostrato di non sapere instaurare con i figli un valido rapporto, tanto da non venire
percepito come persona autorevole e che diverse volte non si era presentato alle visite,
senza avvisare, con ciò confermando il suo disinteresse alla cura e all’assistenza dei bambini;
egli non reagiva a comportamento della moglie, che lo squalificava davanti ai figli e nemmeno
alle offese proferite dai figli stessi;
– in relazione a Ca.Ro., nonna materna, che la stessa, oltre ad essere del tutto
inconsapevole delle problematiche dei minori, come la figlia, non aveva mai manifestato una
concreta disponibilità all’affidamento, limitandosi ad aderire alle iniziative della A.;
– con riferimento a P.M., nonna paterna, che la stessa non aveva mai instaurato alcun
legame affettivo con i nipoti, dando una disponibilità ad accoglierli e durante gli incontri i nipoti
non manifestavano alcun piacere nel vederla e anche la P. rimaneva passiva e non faceva
nulla per relazionarsi con loro.
4. A.M.G., avverso la detta sentenza, ha proposto ricorso per cassazione con atto
affidato a due motivi.
5. Co.Ma., Ca.Ro. e l’Avv. S.F., nella sua qualità di tutore dei minori, non hanno svolto
difese.
CONSIDERATO CHE:
1. Preliminarmente va rilevato che l’Avv. Gaetana Valenti, difensore del tutore, Avv.
S.F., ha rappresentato che, per mero errore materiale, non era stato inoltrato il deposito
necessario a formalizzare la sua costituzione nel giudizio di Cassazione; la stessa, peraltro,
tenuto conto dell’impossibilità di costituirsi tardivamente, ha inviato ugualmente il
controricorso, corredato dalle notifiche alle controparti a mezzo pec; si tratta di
documentazione, tuttavia, che, in quanto tardiva, è inammissibile.
2. Con il primo motivo la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n.
5, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, perché la
sentenza è stata motivata in modo apparente circa la dichiarazione dello stato di abbandono
dei minori e della conseguente dichiarazione dello stato di adottabilità.
3. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 3, la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 1 come sostituito dalla
L. n. 149 del 2001; degli artt. 1, 8 e 9 della Convenzione di Strasburgo, resa esecutiva con L.
n. 357 del 1974; degli artt. 29 e 30 Cost., con riguardo all’accertamento della sua capacità
genitoriale e alla conseguente dichiarazione dello stato di abbandono e alla successiva
dichiarazione dello stato di adottabilità.
3.1 I motivi, che vanno trattati unitariamente perché riguardano entrambi lo stato di
abbandono e la dichiarazione dello stato di adottabilità, sono infondati.
3.2 Sulla istanza difensiva volta all’esperimento di una consulenza psicologica sulla
capacità della ricorrente, va affermato che “il principio secondo cui il provvedimento che
dispone la consulenza tecnica rientra nel potere discrezionale del giudice del merito,
incensurabile in sede di legittimità, va contemperato con l’altro principio secondo cui il giudice
deve sempre motivare adeguatamente la decisione adottata su una questione tecnica
rilevante per la definizione della causa; ne consegue che, quando il giudice disponga di
elementi istruttori e di cognizioni proprie, integrati da presunzioni e da nozioni di comune
esperienza, sufficienti a dar conto della decisione adottata, non può essere censurato il
mancato esercizio di quel potere, mentre se la soluzione scelta non risulti adeguatamente
motivata, è sindacabile in sede di legittimità sotto l’anzidetto profilo” (Cass., 3 gennaio 2011,
n. 72).
Questa Corte, inoltre, ha evidenziato che “in tema di dichiarazione dello stato di
adottabilità di un minore, ove i genitori facciano richiesta di una consulenza tecnica relativa
alla valutazione della loro personalità e capacità educativa nei confronti del minore per
contestare elementi, dati e valutazioni dei servizi sociali – ossia organi dell’Amministrazione
che hanno avuto contatti sia con il bambino che con i suoi genitori – il giudice che non intenda
disporre tale consulenza deve fornire una specifica motivazione che dia conto delle ragioni
che la facciano ritenere superflua, in considerazione dei diritti personalissimi coinvolti nei
procedimenti in materia di filiazione e della rilevanza accordata in questi giudizi, anche dalla
giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, alle risultanze di perizie e
consulenze” (Cass., 7 maggio 2019, n. 12013; Cass., 26 giugno 2019, n. 17165).
3.3 Peraltro, “nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un
minore le relazioni degli assistenti sociali e degli psicologi costituiscono, nel quadro dei
rapporti informativi, degli accertamenti e delle indagini da compiere in via sommaria e
secondo il rito camerale, indizi sui quali il giudice può fondare il suo convincimento e la cui
valutazione non comporta violazione dei diritti di difesa dei genitori, atteso che questi ultimi,
nel successivo giudizio di opposizione alla dichiarazione di adottabilità (e oggi di
impugnazione), hanno il diritto di prendere cognizione di dette relazioni, di controdedurre e di
offrire prova contraria” e che “ricorre la situazione di abbandono in caso di rifiuto ostinato a
collaborare con i servizi predetti qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, la vita
da loro offerta al figlio sia inadeguata al suo normale sviluppo psico-fisico, cosicché la
rescissione del legame familiare risulti infine l’unico strumento che possa evitargli un più
grave pregiudizio e assicurargli assistenza e stabilità affettiva” (Cass., 23 gennaio 2019, n.
1883).
3.4 Tanto premesso, nel caso in esame, non si ravvisa il vizio dedotto poiché, la
motivazione dettata dalla Corte di appello è esistente e consente di ricostruire il percorso
logico seguito nel rispetto dei canoni di congruità logica e come tale è idonea a sottrarsi alla
dedotta censura (Cass., 30 giugno 2020, n. 13248; Cass., 5 agosto 2019, n. 20921; Cass., 7
aprile 2017, n. 9105; Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).
3.5 Ciò posto, i giudici di secondo grado, dopo avere affermato che sussisteva il rischio
che lo sviluppo psicofisico dei minori potesse essere gravemente e irreversibilmente
pregiudicato e che la relazione del (OMISSIS) degli operatori della comunità (OMISSIS)
aveva messo in evidenza che i minori, privi di regole, poco abituati ad una corretta igiene
quotidiana e con atteggiamenti aggressivi e provocatori, provenivano da un ambiente
familiare non tutelante, con specifico riferimento all’ A., hanno evidenziato che la madre era
incapace di prendersi cura dei propri figli e specificamente di accudire la più piccola, S., e che
si relazionava con loro solo con il rimprovero, senza ascoltare i loro bisogni e mostrava un
atteggiamento svalutante durante le visite, inficiando così il lavoro svolto dagli operatori sui
minori e incidente sulla autostima della figlia De.; la stessa, oltre a squalificare il marito
davanti ai figli, non si rendeva conto delle gravi crisi respiratorie delle figlia J.; il tentativo della
stessa di recuperare la propria capacità genitoriale, imponendo delle regole di
comportamento, non era stato continuo e la stessa, dopo la nascita di Cl. il (OMISSIS), avuta
dalla relazione con il convivente Cr.Gi., non si era più presentata agli appuntamenti fissati dal
Consultorio e nel riprendere i contatti, continuava a non ammettere le proprie carenze
genitoriali, non riconoscendo neppure le problematiche della figlia neonata e, presso
l’abitazione della stessa, sono state rilevate evidenti inadeguatezze strutturali e igieniche; che
nel senso dell’incapacità genitoriale dell’ A. deponevano anche le dichiarazioni rese dalla
psicologa del consultorio familiare e dal consulente tecnico d’ufficio nominato nel
procedimento riguardante la minore Cr.Cl..
3.6 Anche il profilo di censura riguardante la circostanza che la sentenza non spiega
adeguatamente il fatto che non si sia proceduto ad una consulenza tecnica sulle capacità
genitoriali della madre è infondato avendo i giudici di secondo grado affermato che la
richiesta di disporre una ulteriore consulenza tecnica era dilatoria ed aveva carattere
meramente esplorativo, risultando esaustiva, oltre che tecnicamente corretta, coerente ed
immune da vizi logici e, quindi pienamente condivisibile, la relazione di consulenza svolta
dalla Dott. L. in altro procedimento sulla capacità genitoriale della A..
3.7 Risulta, inoltre, dalla lettura della sentenza impugnata, contrariamente a quanto
affermato dalla ricorrente, che il Tribunale aveva sentito sia i genitori, che le nonne, materna
e paterna, (pag. 3) e che la Corte territoriale aveva ritenuto, come già detto, superfluo ogni
ulteriore approfondimento istruttorio, ivi compresa l’audizione della A. in appello, alla luce
della natura e della consistenza degli elementi emersi e specificamente dell’acquisizione delle
relazioni del Consultorio familiare (pag. 14 del provvedimento impugnato).
Si legge, poi, a pag. 6 della sentenza impugnata, che la Corte ha acquisito, con
ordinanza del 21-26 febbraio 2020, la relazione di consulenza svolta dalla Dott. L. sulla
capacità genitoriale della A. nel procedimento n. 127/2016 reg. ADS., con ciò instaurando il
contraddittorio delle parti e potendo la ricorrente svolgere specifiche osservazioni, così come,
peraltro, rileva a pagina 26 del ricorso, dove vengono genericamente richiamate le pagine 39-
40 della consulenza del 21 marzo 2019.
3.8 Non risultano, inoltre, in alcun modo esaminate nella decisione impugnata la “serie
di questioni determinanti” elencata a pag. 25 del ricorso, con conseguente inammissibilità del
profilo di censura sollevato, poiché, in tema di ricorso per cassazione, qualora siano
prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a
pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al
giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico
atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire
questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle
parti, in sede di legittimità, a prospettazioni di questioni o temi di contestazione nuovi, non
trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio (Cass., 13 giugno 2018, n. 15430).
3.9 E’ utile ribadire, al riguardo, che dovendo tutelarsi esclusivamente l’interesse del
minore, la valutazione della situazione di abbandono, quale presupposto legittimante la
declaratoria del suo stato di adottabilità, impone di avere riguardo, piuttosto che ai
comportamenti di ciascun genitore, alle possibili conseguenze sullo sviluppo psicofisico della
personalità del bambino, considerato non in astratto, ma in concreto, cioè in relazione al suo
vissuto, alle sue caratteristiche fisiche e psicologiche, alla sua età e al suo grado di sviluppo,
mentre l’età dei genitori o il livello di maturità o la consistenza intellettiva o cognitiva non
rivestono, da soli, ai fini della suddetta valutazione, una specifica rilevanza (Cass., 8
novembre 20132, n. 25213).
In poche parole, il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia
d’origine, considerata l’ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è tutelato
dalla L. n. 184 del 1983, art. 1 nel senso che il giudice di merito deve, prioritariamente,
verificare se possa essere utilmente fornito un intervento di sostegno diretto a rimuovere
situazioni di difficoltà o disagio familiare; e, solo ove risulti impossibile, quand’anche in base a
un criterio di grande probabilità, prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi
compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittimo e
corretto l’accertamento dello stato di abbandono (Cass., 27 settembre 2017, 22589; Cass.,
(Cass., 23 gennaio 2019, n. 1883, citata) e, nel caso di specie, la Corte di appello ha fatto
corretta applicazione dei citati principi.
3.10 In ultimo, va rilevato che, il disposto normativo di cui alla L. n. 184 del 1993, art. 8 e
art. 15, lett. b), laddove fa riferimento all'”assistenza morale”, oltre che materiale, afferma che
il diritto del minore a crescere ed essere educato nell’ambito della famiglia di origine incontra i
suoi limiti in presenza di uno stato di abbandono, che sussiste allorché il contegno dei
genitori, lungi dal risolversi in una mera insufficienza dell’apporto indispensabile per lo
sviluppo e la formazione della personalità del minore, comprometta o determini grave pericolo
di compromissione per la salute e le possibilità di armonico sviluppo fisico e psichico del
minore stesso. Di fronte ad un siffatto nocumento o al rischio di esso, successivi
atteggiamenti o progetti genitoriali per un miglioramento della situazione in tanto rilevano in
quanto, oltre che seri, siano oggettivamente idonei al recupero della situazione medesima
(Cass., 28 ottobre 2005, n. 21100).
3.11 Alla stregua dei principi suesposti, appare, pertanto, evidente che la decisione di
appello non è censurabile sotto il profilo del difetto assoluto di motivazione circa il fatto storico
principale della controversia, costituito dalla situazione di abbandono dei minori, né sotto
quello della violazione di legge delle norme in materia di adozione indicate, correttamene
interpretate dalla Corte territoriale.
4. Per quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Nessuna statuizione va assunta sulle spese, poiché gli intimati non hanno svolto difese.
Trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione il
D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle
generalità e degli altri dati identificativi ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, il 14 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2021

Sull’assenza di comportamenti di dissenso ai rapporti sessuali da parte della moglie

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 29 settembre 2021, n. 35676
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARINI Luigi – Presidente –
Dott. DI NICOLA Vito – Consigliere –
Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere –
Dott. CERRONI Claudio – Consigliere –
Dott. AMOROSO Maria C. – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
M.C., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 18/06/2020 della Corte d’appello di Trieste;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere AMOROSO MARIA CRISTINA;
udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
ANGELILLIS Ciro, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore avv. F. S., anche in sostituzione, con delega orale dell’avv. M.G., che chiede
l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 06/12/2018, il Tribunale di Gorizia ha dichiarato M.C. responsabile dei reati a lui
ascritti di cui agli artt. 572, 612, e 609 bis c.p., commessi ai danni della moglie, condannandolo alla
pena di anni 11 di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali e dichiarandolo interdetto in
perpetuo dai pubblici uffici.
2. Il presente ricorso è stato presentato avverso la decisione della Corte d’appello di Trieste che ha
confermato la sentenza di primo grado.
3. Nel primo e nel secondo motivo d’impugnazione si lamenta l’erronea applicazione della legge
penale in relazione all’art. 609 – bis c.p., e l’inesistenza della motivazione in punto di elemento
psicologico del reato.
In primo luogo, il ricorrente si duole della circostanza che il giudice di merito abbia ritenuto integrati
di estremi oggettivi del reato contestato pur in assenza di comportamenti di dissenso ai rapporti
sessuali da parte della vittima.
In proposito si è evidenziato che la stessa persona offesa avrebbe chiarito che sebbene inizialmente
non entusiasta delle proposte intime rivoltele dal marito poi vi accondiscendeva senza alcuna
costrizione ed in maniera volontaria.
In secondo luogo, in maniera collegata e conseguente, il ricorrente si duole della riconosciuta
sussistenza dell’elemento soggettivo del reato alla luce di quanto precedentemente esposto.
4. Nel terzo motivo e nel quarto motivo, afferenti al reato di cui all’art. 572 c.p., si contesta la
decisione del giudice di merito relativa al riconoscimento degli elementi oggettivi e soggettivi del
reato di maltrattamenti e l’inesistenza della motivazione in punto di elemento psicologico del reato.
Si lamenta che pur difettando la abitualità delle condotte, essendo stati contestati solo tre distinti
episodi di minaccia ingiurie e percosse commesse dall’imputato in un arco temporale
significativamente lungo, il tribunale abbia ritenuto sussistere il reato contestato e, pertanto, si censura
il riconoscimento dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti alla luce di quanto appena
esposto.
5. Il quinto motivo di ricorso censura la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sotto
il profilo del travisamento della prova.
Il giudice, ad avviso del ricorrente, avrebbe fondato il giudizio di responsabilità per i reati contestati
sulla base di una lettura non accurata delle dichiarazioni testimoniali intendendo che le stesse abbiano
confermato il quadro accusatorio della procura, mentre dalle stesse sarebbe emersa una versione
esattamente contraria dell’accaduto.
6. Da ultimo e in subordine il ricorrente, qualora non si demolisse l’intera ricostruzione accusatoria,
comunque censura il mancato riconoscimento delle circostanze generiche, a suo avviso concedibili
alla luce della risalenza nel tempo dei fatti, della convivenza tuttora esistente tra il M. e la moglie e
della comprovata dissociazione dell’imputato dal sodalizio criminale cui in passato era legato.

Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile.
2. I primi cinque motivi di ricorso, esaminabili unitariamente, sono inammissibili.
Pur formalmente deducendo la violazione di legge l’inesistenza di motivazione in punto di elemento
oggettivo e soggettivo dei reati in contestazione, richiamando l’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), e
lamentando la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione a seguito di travisamento
della prova, le censure si risolvono, a ben vedere, nella richiesta di una diversa lettura degli elementi
di fatto posti a fondamento della decisione e nell’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio
in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti, attività entrambe precluse nel giudizio di
legittimità, non potendo la Corte di cassazione ripetere l’esperienza conoscitiva del giudice del merito,
bensì esclusivamente riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della
decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il
giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle
acquisizioni processuali.
3.11 diffuso e argomentato iter motivazionale del giudice, che si presenta logico, coerente e scevro
da contraddizioni dà adeguatamente conto di tutti gli elementi fondanti la condanna dell’imputato.
Esaustivo e immune da vizi è il giudizio reso circa la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi
dei reati contestati.
La Corte d’appello ha esaminato accuratamente i racconti della vittima formulando il giudizio sulla
sua credibilità intrinseca sulla base della precisione e lucidità del narrato ed ha logicamente e
coerentemente valorizzato le dichiarazioni del teste P., cui la donna aveva confidato le proprie
vicende coniugali, quale riscontro estrinseco dei fatti storici illustrati dalla persona offesa.
Si è, inoltre, soffermata adeguatamente anche sulle ragioni per le quali ha ritenuto maggiormente
credibile quanto dichiarato dalla donna prima del dibattimento individuando logicamente la causa del
contrasto tra le versioni rese nel timore provato dalla donna nei confronti del coniuge con un
ragionamento immune da censure riscontrabili in sede di legittimità.
Quanto al reato di maltrattamenti, la Corte ha rappresentato coerentemente che il giudizio sulla
sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi del reato è stato desunto dalle dichiarazioni della
vittima e dalle dichiarazioni dei testimoni e in parte anche da quanto appurato dagli psicologi; e che
la lettura congiunta dei atti processuali ha indotto a ritenere che sebbene gli episodi di maltrattamenti
descritti nel dettaglio fossero solo tre, la donna era sottoposta a continue minacce e violenze delle
quali l’imputato era perfettamente consapevole.
In relazione alla contestazione di violenza sessuale il collegio coerentemente e logicamente desume
le ragioni per le quali sussistono gli elementi oggettivi e soggettivi del reato; dalle dichiarazioni della
vittima e dalla testimonianza de relato del P. il Collegio, con ragionamento coerente e immune da
censure, evince che la donna era costretta a subire le violenze sessuali del marito alle quali, dopo aver
manifestato invano il suo dissenso, soggiaceva a causa del suo stato di prostrazione e di “sudditanza”
temendo reazioni violente di cui il marito aveva dato prova ogni volta che lo aveva contraddetto anche
in relazione ad episodi futili.
Sul punto va ricordato l’insegnamento di questa Corte secondo cui in tema di violenza sessuale, il
mancato dissenso ai rapporti sessuali con il proprio coniuge, in costanza di convivenza, non ha valore
scriminante quando sia provato che la parte offesa abbia subito tali rapporti per le violenze e le
minacce ripetutamente poste in essere nei suoi confronti, con conseguente compressione della sua
capacità di reazione per timore di conseguenze ancor più pregiudizievoli, dovendo, in tal caso, essere
ritenuta sussistente la piena consapevolezza dell’autore delle violenze del rifiuto, seppur implicito, ai
congiungimenti carnali (C.f.r. Sez. 3 n. 17676 del 14/12/2018 Ud. (dep. 29/04/2019) Rv. 275947 –
01).
4. Manifestamente infondato è anche l’ultimo motivo di ricorso) diretto a contestare la mancata
concessione delle attenuanti generiche.
L’imputato lamenta il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ma gli elementi
richiamati dalle difese sono stati ampiamente presi in considerazione dalla Corte territoriale, la quale
ha evidenziato come invece la modalità della condotta, la durata e la sua gravità, unitamente ai
precedenti dell’imputato sono ostative alla concessione delle attenuanti richieste.
5. Per le ragioni che precedono, il ricorso va dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere
condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000,00 da versare alla Cassa
delle Ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al
versamento della somma di Euro 3.000,00 alla Cassa delle Ammende.
Dispone, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2000, n. 196, art. 53, che – a tutela dei diritti o della dignità
degli interessati – sia apposta, a cura della cancelleria, sull’originale della sentenza un’annotazione
volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, l’indicazione
delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessi in essa riportati.
Motivazione semplificata

Revoca dell’ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato

TRIBUNALE DI LUCCA R.G. 626 f 2021
Il Giudice designato e delegato dal Presidente,
sciogliendo la riserva di c,.,ui al verbale che precede ;
letti gli atti ed i documenti prodotti ;
pronuncia la seguente
ORDINANZA
ai sensi degli artt. 702-bis e ss. c.p.c., 170 DPR 115 / 2002 e 15 Digs. 150 / 2011,
nel procedimento come sopra rubricato.
Osserva in fatto e in diritto.
ha proposto ricorso in opposizione
avverso il provvedimento contenuto nella sentenza n.11 del 18.1.2021 pronunciata dal
Giudice del Lavoro del Tribunale di Lucca, con il quale il Giudice revocava
l’ammissione della ricorrente al patrocinio a spese dello Stato “per manifesta
oggettiva infondatezza della domanda “, rilevando che tale provvedimento era errato
cd ingiusto sia in fatto che in diritto ; che, infatti, il presupposto per la concessione
del gratuito patrocinio era la “non manifesta infondatezza della domanda proposta ” e
il rigetto della domanda proposta dalla nei confronti dell’ex convivente e
datore di lavoro dott. Marco avente ad oggetto il pagamento di retribuzioni
ed altro, era stato determinato dal fatto che la ricorrente non aveva provato, in base
all’esame dei diversi testimoni ammessi, il rapporto di subordinazione intercorrente
tra le parti, precisandosi dal Giudice che nella fattispecie, in cui era presente un
rapporto di convivenza tra le parti, la prova della subordinazione avrebbe dovuto
essere particolarmente rigorosa ; che, quindi, nella fattispecie, al contrario di quanto
affermato dal Giudice, non sussisteva la manifesta infondatezza dell’azione, tanto che
il Giudice medesimo aveva respinto la domanda dopo un approfondito ed articolato
esame degli atti e delle prove espletate, non altrimenti necessario per affermare la
manifesta infondatezza del ricorso ; che, infatti, la domanda era stata respinta per
difetto della prova – nella fattispecie richiesta in maniera particolarmente rigorosa-
dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, pur se dall’esame dei testi era
risultato che la ricorrente aveva comunque lavorato nello studio dentistico, a fianco
del dm_ ; che, dunque, il rigetto della domanda per le ragioni sopra esposte
non bastava da solo a disporre !a revoca del provvedimento di concessione del
gratuito patrocinio ( adottato nella specie dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Lucca con delibera del 27.1.2018) per manifesta infondatezza della domanda.
Pertanto, la ricorrente ha concluso per l’annullamento elo revoca del provvedimento
di revoca della concessione del gratuito patrocinio contenuto nella sentenza in
oggetto e per l’accertamento del diritto della ricorrente al patrocinio a spese dello
Stato attraverso l’attività di difesa dell’Avv. , con conseguente
liquidazione delle spese nella somma di curo 7.722,25, già dimidiata della metà, o
nella diversa somma ritenuta di giustizia, con ordine di pagamento della somma
liquidata da parte dell’Erario ex art.131 DPR 115 / 2002 in favore dell’Avv.
o in subordine della ricorrente,
Si è costituito in giudizio il Ministero della Giustizia ( C.F. 97591110586 ), in
persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura dello
Stato, deducendo che la giurisprudenza di legittimità aveva chiarito i presupposti
della revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, statuendo che andava
revocata l’ammissione al patrocinio per manifesta infondatezza della pretesa e per
colpa grave nel promovimento del giudizio e che in tema di ammissione al
patrocinio erano insussistenti i presupposti per la sua concessione allorché, dall’esame
della relativa istanza contenente le enunciazioni in fatto e in diritto utili ai fini del
relativo accertamento, ivi comprese le prove di cui si intendeva chiedere
l’ammissione, risultasse in concreto la manifesta infondatezza della pretesa, sicché,
sussistendo il requisito della colpa grave nell’avere l’interessata continuato a svolgere
le medesime difese nei vari gradi del giudizio, ricorrevano i presupposti per la
revoca del provvedimento di ammissione ; che anche la Corte costituzionale aveva
chiarito che il legislatore aveva previsto sia una valutazione ex arde del requisito
della non manifesta infondatezza ( art. 122 DPR 115 i 2002) sia la revoca ex post
dell’ammissione al beneficio, se risultava provato che la persona aveva agito o
resistito con mala fede o colpa grave ( art. 136 comma 2 stesso DPR) ; che in base
ai predetti principi non potevano porsi a carico dell’Erario gli oneri per la difesa di
chi svolgesse in giudizio difese manifestamente infondate in concreto, come si era
verificato nel caso di specie, in cui i presupposti fattuali dell’azione promossa
dall’odierna ricorrente nei confronti del dentista con cui aveva convissuto, ovvero in
particolare la circostanza che la avesse prestato continuativamente una vera e
propria attività di lavoro dipendente nello studio dentistico, erano stati completamente
sconfessati dall’istruttoria giudiziale ; che, dunque, la pretesa della nei confronti
dell’ex compagno era risultata manifestamente infondata e il Tribunale correttamente
aveva disposto la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, non
potendo giustificarsi che i costi di un’azione in concreto manifestamente infondata
venissero posti a carico della collettività.
Il Ministero della Giustizia ha concluso per il rigetto del ricorso in quanto infondato.
All’esito del presente procedimento, esaminati gli atti e i documenti prodotti dalle
parti, il ricorso in opposizione proposto da Laura non può trovare
accoglimento, per le ragioni di seguito indicate.
Con il provvedimento impugnato il Giudice del Lavoro di questo Tribunale ha
disposto la revoca dell’ammissione della ricorrente al patrocinio a spese dello Stato,
già disposta in via anticipata e provvisoria dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati
di Lucca con delibera del 27 gennaio 2018, in conseguenza della “manifesta
infondatezza ” della domanda dalla medesima proposta, osservando che “…deve farsi
luogo alla revoca del beneficio in quanto la sua anticipata concessione Si è rivelata
non giustificata in ragione dell’oggettiva manifesta infondatezza della domanda
proposta ” pag. 7 della sentenza pronunciata in data 1812021 ).
In motivazione il Giudice osserva con dovizia di argomentazioni che la ricorrente
Laura non ha raggiunto la prova, attraverso l’istruttoria svolta, della sussistenza
di un rapporto di lavoro subordinato tra la stessa e il dott. Marco
odontoiatra, con il quale vi era stato un rapporto di convivenza protrattosi dal 2003
sino al 2016, prova che nel caso di collaborazione lavorativa prestata all’interno
della coppia di coniugi o di conviventi more uxorio doveva essere particolarmente
rigorosa e precisa, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza ( pagg. 3-4
della sentenza ). All’esito di una puntuale ed analitica ricostruzione delle risultanze
istruttorie il Giudice conclude nei seguenti termini ” La mancanza di qualsivoglia
prova e le sopra indicate evidenze documentali e istruttorie contrarie alla
prospettazione attorea, rendono manifestamente infondata la domanda, da rigettare”
( pag. 6 ). Dunque, la manifesta infondatezza della domanda proposta dalla
per carenza assoluta di prova ( ” mancanza di qualsivoglia prova ” ) emerge con
evidenza dagli atti e dal contenuto della sentenza in esame, contrariamente a quanto
dedotto con l’odierno ricorso in opposizione : nell’articolata motivazione della
sentenza, infatti, si esaminano dettagliatamente le deposizioni dei vari testimoni
escussi, evidenziando ad esempio che taluno ( il teste Daniele Rossi ) ha reso una
dichiarazione che ” …sconfessa platealmente la versione della ricorrente in ordine a
un quotidiano impegno a fianco del compagno nello studio di pareggio, per ben
otto ore giornaliere, sei giorni a settimana .,.” pag. 6 ).
Ciò detto, si sottolinea in punto di diritto che il giudice dì legittimità ha precisato
che la revoca del beneficio del patrocinio a spese dello Stato costituisce conseguenza
automatica, prevista per legge ( cfr. art. 74, comma 2, DPR 115 / 2002 ), della
dichiarazione di manifesta infondatezza della domanda, trattandosi di ” misura
evidentemente ispirata ad evitare che i costi derivanti dalla proposizione di domande
evidentemente infondate, ovvero di iniziative giudiziarie attivate con malafede e colpa
grave, ricadano sulla collettività ” ne consegue che, dato che l’ammissione al
beneficio viene sempre disposta in via provvisoria, ” appare ulteriormente ragionevole
che, in sede di verifica finale, si faccia luogo alla revoca del beneficio in tutti i casi
in cui la sua anticipata concessione si riveli non giustificata in ragione,
alternativamente o cumulativamente, dell’atteggiamento soggettivo dell’interessato
ovvero dell’ oggettiva manifesta infondatezza della domanda da esso proposta ” ( così
Cass. 7869 2020 ).
Pertanto, rilevato che il provvedimento impugnato recepisce pienamente questo
indirizzo giurisprudenziale, richiamando testualmente alcuni passaggi della sentenza
citata della Corte di Cassazione, non si può che concludere che il ricorso in
opposizione proposto da Laura è infondato e va disatteso, risultando corretta e
condivisibile la revoca dell’ammissione della ricorrente al gratuito patrocinio disposta
con la sentenza del Giudice del Lavoro pronunciata in data 18.1.2021.
Infine, Se spese del presente procedimento seguono la soccombenza.
P. Q. M.
Visti gli artt. 702-ter c.p.c., 170 DPR 115 12002, 15 D. Lgs. 150 12011, così provvede :
1) Rigetta il ricorso in opposizione proposto da Laura ;
2) Condanna la ricorrente alla rifusione in favore del resistente Ministero della
Giustizia delle spese del procedimento, che liquida in euro 3.545,00 per
compenso, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15% del compenso
totale, Iva e Cpa nella misura di legge .

Onere della prova ai fini dell’addebito.

Tribunale di Cuneo, 15 luglio 2021
Tribunale Cuneo sez. I, 15/07/2021, n.596
Fatto
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
I signori M.A.D. e F.G.A. contraevano matrimonio con rito concordatario in CRISSOLO,
il ..
L’atto di matrimonio veniva trascritto nei registri dello Stato Civile del Comune di
CRISSOLO (atto n. 1, parte II, serie A del registro degli atti di matrimonio dell’anno
2002).
Dal matrimonio sono nati tre figli, T. M. il .. a Savigliano, C. F. il .. a Savigliano e C. V.
il .. a Savigliano.
Con ricorso depositato il 08.05.2017 la parte ricorrente ha chiesto a questo Tribunale di
pronunciare la separazione personale dei coniugi con addebito al marito, l’affidamento
dei figli minori ad entrambi i genitori con residenza anagrafica e collocazione prevalente
presso la madre, diritto di visita paterno a fine settimana alterni, nonché un pomeriggio
infrasettimanale con pernottamento; la ricorrente ha altresì richiesto l’assegnazione
della casa coniugale in proprio favore, un contributo al mantenimento dei figli per
complessivi euro 900,00 (300,00 per ciascun figlio) e un contributo al mantenimento
della moglie pari ad euro 200,00 mensili.
Radicatosi il contraddittorio, il resistente si costituiva in giudizio e, pur non
opponendosi alla domanda di separazione personale tra i coniugi, chiedeva che la
separazione venisse pronunciata alle diverse condizioni di cui alla comparsa costitutiva,
e dunque rigettando la richiesta di addebito, assegnando la casa coniugale ad entrambi
i coniugi congiuntamente, con alternanza paritetica settimanale, disponendo
l’affidamento condiviso dei figli minori, la loro collocazione presso la casa coniugale,
ponendo a carico del padre un assegno perequativo per i figli pari ad euro 200,00 per
ciascun figlio oltre 50% delle spese straordinarie, nulla prevedendo quale contributo al
mantenimento per la moglie.
Avanti al Giudice delegato alle funzioni presidenziali la parte convenuta compariva e
veniva esperito il tentativo di conciliazione con esito negativo.
Il Giudice delegato alle funzioni presidenziali, ascoltati i minori C. F. e T. M. all’udienza
del 16.01.2018, disponeva con ordinanza del 29.03.2018 il passaggio alla fase
istruttoria.
Avanti al G.I. nominato, le parti si costituivano ed integravano le proprie difese.
Accolte alcune delle istanze istruttorie con ordinanza istruttoria in data 02.02.2020,
escussi i testi all’udienza del 02.10.2020 ed eseguito l’interpello delle parti all’udienza
del 19.01.2021, venivano quindi precisate le conclusioni come in epigrafe e la causa
veniva rimessa al Collegio per la decisione con concessione dei termini massimi di cui
all’art. 190 c.p.c.
***
La domanda di separazione
La domanda di separazione, spiegata da entrambe le parti, appare accoglibile, poiché
risulta configurata la fattispecie di cui all’art. 151 co. 1 c.c.
E’ provato che si sono verificati fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della
convivenza; i coniugi, infatti, vivono separati ormai da tempo e dal comportamento
tenuto nel corso degli anni, dalle difese e dalle domande formulate si evince che la
prosecuzione della convivenza non sarebbe tollerabile.
2
La domanda di addebito della separazione al convenuto
Passando ad esaminare le questioni controverse, e rigettate in via definitiva tutte le
richieste istruttorie formulate dalle parti, non ammesse dal giudice istruttorie, e
reiterate in sede di precisazione delle conclusioni, essendo la causa matura per la
decisione allo stato degli atti, si procede ad esaminare la domanda di addebito della
separazione al marito proposta da parte ricorrente.
Va premesso che, ai fini della addebitabilità della separazione all’altro coniuge, il
coniuge richiedente deve provare, da un lato, che sono state tenute dall’altro coniuge
condotte contrarie ai doveri matrimoniali, e dall’altro che tali condotte abbiano avuto
un’efficienza causale diretta sull’intollerabilità della convivenza e sulla compromissione
definitiva dell’affectio coniugalis (doppio onere probatorio).
Tra le tante pronunce in questo senso, già Cassazione n. 2059 del 2012 aveva chiarito
come “Grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà,
l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la
sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre
è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e
quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le
circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale
all’accertata fedeltà”.
Con la ancora più risalente pronuncia n. 14840 del 2006, la Suprema Corte aveva
evidenziato che “La dichiarazione di addebito della separazione implica la prova che la
irreversibile crisi coniugale sia ricollegabile esclusivamente al comportamento
volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno
o di entrambi i coniugi, ovverosia che sussista un nesso di causalità tra i
comportamenti addebitati ed il determinarsi dell’intollerabilità della ulteriore
convivenza; pertanto, in caso di mancato raggiungimento della prova che il
comportamento contrario ai predetti doveri tenuto da uno dei coniugi, o da entrambi,
sia stato la causa efficiente del fallimento della convivenza, legittimamente viene
pronunciata la separazione senza addebito (Cassa con rinvio, App. Messina, 25
novembre 2004)”.
Tra le pronunce più recenti in materia si ricordano, invece, tra le tante:
– Cassazione civile n. 16691 del 2020, secondo cui “In tema di separazione, grava sulla
parte che richieda l’addebito l’onere di provare sia la contrarietà del comportamento del
coniuge ai doveri che derivano dal matrimonio, sia l’efficacia causale di questi
comportamenti nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza”;
3
– Cassazione civile n. 16735 del 2020, secondo cui: “Grava sulla parte che richiede, per
l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge,
l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile
la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti
posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione
dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda,
vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà (nella specie,
l’infedeltà era stata ritenuta comprovata sulla base della testimonianza di un
investigatore privato, la cui relazione era stata confermata in udienza, assurgendo al
valore di prova piena).
Calando i sovra esposti principi al caso di specie si osserva che la domanda di parte
ricorrente è infondata e va rigettata, non avendo la M.A.D. assolto al proprio onere
probatorio.
Ed invero, sin dall’atto introduttivo la ricorrente ha richiesto l’addebito della
separazione al marito deducendo condotte aggressive e violente del marito nei suoi
confronti – sia sul piano verbale, in particolare a mezzo minacce e ingiurie, sia sul
piano fisico – anche alla presenza dei figli, condotte che avrebbero causato
l’intollerabilità della convivenza.
La ricorrente ha altresì dedotto che il F.G.A. avrebbe intrattenuto, “senza grandi
cautele o rispetto verso la moglie”, una relazione extraconiugale “con una persona
conosciuta alla ricorrente” ed appartenente “all’ambiente montano comune”.
Infine il F.G.A. avrebbe “piazzato telecamere in casa per controllare i comportamenti
dei congiunti”.
Orbene, le condotte contrarie ai doveri matrimoniali come genericamente descritte da
parte ricorrente non sono state in alcun modo provate, né tanto meno è stato provato il
nesso causale tra tali presunte e indimostrate condotte e l’intollerabilità della
convivenza matrimoniale.
Quanto agli episodi di aggressività fisica o verbale, la ricorrente non ha mai denunciato
il marito per questi presunti fatti occorsi in costanza di matrimonio, né ha prodotto la
“relazione di servizio preliminare ad un eventuale ammonimento” che sarebbe stata a
suo dire redatta dai Carabinieri in occasione di un episodio che si sarebbe verificato
dinanzi ai figli, allorquando il marito avrebbe “preso per il collo la moglie in cucina”.
Ancora si osserva che la querela sporta dalla ricorrente in data 12 ottobre 2018 è ben
successiva all’iscrizione della presente causa al ruolo e riguarda episodi che non
possono pertanto essere tenuti in considerazione ai fini dell’addebitabilità della
separazione al marito.
4
Ancora, nessun referto medico è stato prodotto dalla ricorrente a dimostrazione delle
aggressioni fisiche subite, né l’istruttoria ha fatto emergere la sussistenza di condotte
contrarie ai doveri matrimoniali da parte del sig. F.G.A., ma al più un clima di
conflittualità coniugale caratterizzato da litigi anche accesi.
Invero, all’udienza in data 2.10.2020, il teste F. G., amica da oltre quarant’anni della
ricorrente, unico testimone sentito sui capi di prova ammessi in relazione all’addebito,
ha riferito di non aver mai assistito personalmente a nessun episodio di violenza fisica
o verbale da parte del marito nei confronti della moglie, di aver soltanto raccolto delle
“confidenze sulla crisi familiare” da parte dell’amica, confidenze risalenti a “circa dieci
anni fa”, e quindi poco significative anche rispetto alla valutazione sul nesso causale tra
le presunte condotte contrarie ai doveri matrimoniali e l’intervenuta intollerabilità della
convivenza, avuto riguardo alla data di iscrizione della causa a ruolo.
Ancora si evidenzia che il teste ha riferito solo quanto raccontatole dalla ricorrente (in
particolare in merito ai “disaccordi” e al “carattere del sig. F.G.A.” che “non era
tranquillo, nel senso che si innervosiva o alzava il tono di voce anche con i bambini
durante i litigi”, o ancora a un episodio in cui la notte di Natale il F.G.A. aveva “rotto
tutte le preparazioni di Natale fatte dalla mamma per i bambini”), avendo solo una
volta in quarant’anni di amicizia sentito direttamente, al telefono, il F.G.A. urlare con i
presenti in casa e in particolare nei confronti della figlia C..
Come si comprende, si tratta di una testimonianza poco significativa, che non consente
di giungere alla pronuncia di addebito della separazione.
Del resto, gran parte dei capi di prova articolati dalla parte ricorrente nella memoria n.
2 ex art. 183 comma 6 c.p.c. riguardavano episodi di violenze verbali e/o fisiche
successivi all’instaurazione del giudizio, e dunque irrilevanti ai fini dell’addebito, mentre
nessun capo di prova è stato articolato in relazione alla presunta relazione extra
coniugale del F.G.A. (peraltro non circostanziata nel tempo) né con riguardo alla
presunta violazione della privacy dei congiunti a mezzo piazzamento di telecamere.
Nessun valore può inoltre – come è ovvio – essere attribuito a quanto dichiarato in
sede di ascolto dalla figlia minore F.G.A. T. M. (udienza del 16.1.2018 – fase
presidenziale), trattandosi appunto di ascolto e non di testimonianza, e tenuto conto
altresì della circostanza (già presumibile ex ante, ma oltretutto emersa in maniera
concreta in udienza) del pesante coinvolgimento della bambina nel conflitto genitoriale.
Nel verbale di udienza di ascolto il Giudice delegato alle funzioni presidenziali ha infatti
dato atto di come “durante l’audizione la minore […] è apparsa […] emotivamente
coinvolta soprattutto durante il racconto dei litigi violenti tra i genitori a cui ha assistito,
in cui ha avuto attimi di commozione”.
5
Colpisce peraltro la richiesta della madre di affidamento condiviso dei figli con ampio
diritto di visita paterno formulata dalla ricorrente negli stessi atti in cui vengono
sottolineate – e poste alla base della richiesta di addebito – presunte condotte di
grande violenza e aggressività che il convenuto avrebbe perpetrato ai danni della
moglie anche alla presenza dei figli piccoli.
A margine, per mera completezza, si osserva che neppure in sede penale le accuse
mosse dalla M.A.D. nei confronti del marito (peraltro in data successiva alla iscrizione
della presente causa a ruolo) hanno avuto alcun serio riscontro: invero, con decreto di
archiviazione ex art. 409 c.p.p. del 26.11.2020, emesso dal g.i.p. del Tribunale di
Cuneo, è stato dichiarato inammissibile l’atto di opposizione all’archiviazione proposto
dalla M.A.D. avverso la richiesta di archiviazione del pubblico ministero in sede (per il
reato di cui all’art. 612 bis c.p., “unico astrattamente configurabile” secondo il pubblico
ministero in sede).
Nel decreto di archiviazione si legge, per quanto qui interessa, che non sussistono
elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio e che “dalle approfondite indagini è
emerso un clima di accesa conflittualità fra le parti, nell’ambito del quale, tuttavia, non
si ravvisano condotte penalmente rilevanti, tenuto conto anche che le dichiarazioni
della M.A.D. non trovano riscontro alcuno nelle emergenze investigative”.
Per tutto quanto sopra esposto, la domanda di addebito va rigettata, tenuto conto della
granitica giurisprudenza in materia sopra ricordata e del fatto che la ricorrente non ha
assolto all’onere probatorio sulla stessa incombente.
L’affidamento, la collocazione, il diritto di visita dei figli minori C. F. e C. V.
Va premesso che la figlia T. M. è divenuta maggiorenne nelle more del giudizio, e
dunque nulla deve essere disposto in merito all’affidamento, alla collocazione, al diritto
di visita della stessa.
Quanto ai due figli ancora minori, C. F. e C. V., non vi è controversia tra le parti in
merito all’affidamento, alla collocazione abituale, al diritto di visita.
Ed invero, la ricorrente ha domandato disporsi l’affidamento condiviso dei figli ad
entrambi i genitori, con residenza anagrafica e collocazione abituale presso la madre,
assegnazione della casa coniugale in favore della madre stessa, diritto di visita paterno
articolato su weekend alternati dal venerdì sera alla domenica sera, nonché un
pomeriggio infrasettimanale seguito da pernottamento.
Parte resistente ha prestato acquiescenza all’ordinanza presidenziale, con la quale
veniva appunto disposto l’affidamento condiviso dei figli minori ad entrambi i genitori,
con collocazione abituale e residenza anagrafica presso la madre, assegnazione della
casa coniugale alla moglie, diritto di visita paterno articolato su weekend alternati, dal
venerdì all’uscita da scuola sino alla domenica alle ore 21.30 con accompagnamento a
6
casa della madre, oltre a un giorno infrasettimanale con pernottamento, sette giorni
durante le feste natalizie e tre durante le feste pasquali alternando le maggiori
festività, quindici giorni durante le vacanze estive.
Si può dunque disporre in conformità alla richiesta di entrambe le parti l’affidamento
condiviso dei figli minori, con collocazione presso la mamma, diritto di visita paterno
come già da ordinanza presidenziale, salvo diversi e più ampi accordi tra genitori,
trattandosi di regolamento rispondente alle esigenze dei figli e pienamente rispettoso
del principio di bigenitorialità.
L’assegnazione della casa coniugale
Nessun dubbio sulla (conferma, già disposta in fase presidenziale, della) assegnazione
della casa coniugale sita in Crissolo (CN), Frazione S. in favore della ricorrente, stanti
la collocazione abituale presso la stessa dei due figli ancora minori e la richiesta
congiunta delle parti in tal senso.
Il contributo al mantenimento dei tre figli nati dal matrimonio e della moglie
Quanto al contributo al mantenimento dei tre figli nati dal matrimonio entrambe le parti
hanno sostanzialmente prestato acquiescenza a quanto previsto in ordinanza
presidenziale (la quale prevedeva l’obbligo del padre di versare entro il giorno 5 di ogni
mese alla madre, a titolo di assegno perequativo per il mantenimento, la cura,
l’istruzione e l’educazione dei figli minori T. M., C. F. e C. V., la somma di € 900,00,
ovverosia € 300,00 per ciascun figlio, somma rivalutabile al termine di ogni anno
secondo indici ISTAT, oltre al 50% delle spese straordinarie mediche non coperte dal
S.S.N., scolastiche, sportive e ludico-ricreative, previamente concordate, salvo
necessità e urgenza, e successivamente documentate).
Pertanto, considerato ancora congruo il contributo perequativo a suo tempo disposto
dal giudice delegato alle funzioni presidenziali a carico del padre per il mantenimento
dei figli, si confermano in questa sede i provvedimenti provvisori, non essendovi
ragione di modificarli.
Quanto alla richiesta di contributo al proprio mantenimento spiegata dalla ricorrente
essa merita accoglimento nei termini di cui ai provvedimenti provvisori (del resto la
ricorrente ha chiesto appunto confermarsi il contributo posto a carico del marito, in
proprio favore, con l’ordinanza presidenziale).
Si deve in proposito osservare che, come già evidenziato con i provvedimenti provvisori
ed urgenti, sussiste nella specie una significativa sperequazione tra la situazione
reddituale e patrimoniale dei coniugi, che emerge dalle dichiarazioni delle parti e dalla
documentazione in atti, deteriore in capo alla moglie. Sarebbe infatti sufficiente
confrontare le dichiarazioni dei redditi dei coniugi per addivenire alla considerazione di
cui sopra.
7
Inoltre il matrimonio ha avuto lunga durata, la sig.ra M.A.D. ha fornito senz’altro un
importante contributo alla vita matrimoniale (avendo cresciuto tre figli, e avendo
prestato anche attività lavorativa nel corso del matrimonio, oltre ad attendere agli
impegni casalinghi), il tenore di vita goduto dai coniugi nel corso della convivenza
coniugale deve presumersi medio-alto.
D’altra parte però si deve osservare che la M.A.D. è dotata di capacità lavorativa, ha
svolto per lungo tempo diversi tipi di attività contemporaneamente con discreti
guadagni (es. guida naturalistica, soccorso alpino, gestione di bad and breakfast), è
comproprietaria della casa coniugale, è proprietaria esclusiva di un negozio che viene
affittato, ha un terreno edificabile, ancora oggi svolge attività non regolarizzate come
affittacamere, così come emerso in sede di interpello e in fase istruttoria.
Per le sovra esposte ragioni pare congruo ed equo riconoscere in favore della stessa un
contributo minimo al suo mantenimento pari ad euro 200,00, rivalutabile al termine di
ogni anno secondo indici Istat.
Le spese di lite
Le spese di lite possono essere integralmente compensate tenuto conto della natura
della lite, del sostanziale accordo raggiunto dalle parti su diverse questioni (regime di
affidamento, collocazione, diritto di visita, mantenimento dei figli, assegnazione della
casa coniugale) e della soccombenza reciproca sulle uniche questioni controverse
(addebito, contributo al mantenimento della moglie).
PQM
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa
o assorbita, così dispone:
pronuncia la separazione personale dei coniugi M.A.D. e F.G.A. ai sensi dell’art. 151 co.
1 c.c.;
affida i figli minori C. F. e C. V. ad entrambi i genitori, che eserciteranno
congiuntamente la responsabilità genitoriale e che congiuntamente adotteranno le
decisioni relative alla loro istruzione, educazione e cura, mentre quelle di ordinaria
amministrazione potranno essere adottate dal genitore con il quale i figli si troveranno
in quel momento;
dispone che i minori vivranno abitualmente con la madre, presso la quale
continueranno a mantenere la propria residenza anagrafica;
8
dispone che il padre potrà vedere e tenere con sé i figli secondo gli accordi tra i genitori
e, in difetto, con le tempistiche e modalità di cui all’ordinanza presidenziale del
29.3.2018, che qui si intendono integralmente riportate e trascritte;
assegna alla madre M.A.D. la casa coniugale in Crissolo (CN), Frazione S., con mobili
ed arredi in uso;
pone a carico del padre F.G.A. l’obbligo di versare entro il giorno 5 di ogni mese alla
madre M.A.D., a titolo di assegno perequativo per il mantenimento, la cura, l’istruzione
e l’educazione dei figli T. M., C. F. e C. V., la somma di € 900,00 (€ 300,00 per ciascun
figlio), rivalutabile al termine di ogni anno secondo indici ISTAT, oltre al 50% delle
spese straordinarie mediche non coperte dal S.S.N., scolastiche, sportive e ludico-
ricreative, previamente concordate, salvo necessità e urgenza, e successivamente
documentate;
pone a carico del marito F.G.A. l’obbligo di versare entro il giorno 5 di ogni mese alla
moglie M.A.D. la somma di € 200,00, rivalutabile al termine di ogni anno secondo indici
ISTAT, a titolo di contributo alle spese per il suo mantenimento;
compensa integralmente le spese di lite.
Così deciso in Cuneo nella camera di consiglio del 9.7.2021.

La risorsa rappresentata dai nonni esclude lo stato di abbandono.

Cass. sez. I, 14 settembre 2021 n. 24727
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 10722/2020 proposto da:
D.N.E., e S.L., quali genitori del minore S.E.;
S.S., e So.Li., quali zie paterne del minore;
S.N.A., quale nonno paterno del minore; D.B.A., e
D.N.D.F., quali nonni materni del minore; tutti
elettivamente domiciliati in Roma, Via Luigi Settembrini n. 28,
presso lo studio dell’avvocato Morcavallo Francesco, che li
rappresenta e difende, giusta procura in calce alla memoria di
nomina e costituzione di nuovo difensore;
– ricorrenti –
contro
Procura Generale presso la Corte di Appello di Venezia, Procura
Generale presso la Corte di Cassazione, Z.P.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1/2020 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,
pubblicata il 24/02/2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del
14/06/2021 dal Cons. Dott. TRICOMI LAURA.
RITENUTO che:
Con ricorso ex lege n. 184/1983 de14/8/2014 il Pubblico ministero presso il Tribunale per i
Minorenni di Venezia aveva chiesto la verifica della capacità genitoriali per la tutela del
minore S.E. (nato il (OMISSIS)), figlio di D.N.E. e di S.L., che dalla nascita presentava
sindrome da astinenza prenatale. Era stato disposto il collocamento della madre e del
bambino in comunità terapeutica; i genitori avevano chiesto di potersi prendere cura del
minore con possibile collocamento presso i nonni materni, che già si occupavano della
sorellina di E., nata da una precedente relazione di D.N.E..
Nel (OMISSIS) D.N.E. era stata allontanata dalla comunità perché positiva agli oppiacei. Dal
(OMISSIS) in poi E. era vissuto presso una famiglia collocataria.
Il nonno paterno aveva chiesto l’affidamento del minore; a ciò si era aggiunta la disponibilità
dichiarata dall’e sorelle di S.L.. Anche i nonni materni avevano chiesto l’affidamento del
minore.
Con sentenza n. 120/2018, il Tribunale per i minorenni, ritenuti tutti i familiari non adeguati,
aveva dichiarato lo stato di adottabilità del minore, confermando la sospensione dei genitori;
aveva affidato il minore ai Servizi Sociali con mantenimento del bambino presso la famiglia
collocataria; aveva mantenuto i rapporti solo con i nonni materni e con il nonno paterno, con
facoltà di sospenderli se disturbanti o pregiudizievoli per il minore.
La Corte di appello di Venezia, con la sentenza impugnata in epigrafe indicata, ha confermato
la decisione di primo grado.
Propongono unico ricorso per cassazione con due mezzi D.N.E. e S.L. (genitori di E.), S.S. e
So.Li. (zie paterne di E.), S.N.A. (nonno paterno di E.), D.B.A. e D.N.F. (nonni materni di E.).
Il Tutore Avvocato Z.P. è rimasto intimato.
CONSIDERATO che:
1.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione della L. n. 184 del 1983, artt. 1, 8 e 11,
essendo stata dichiarata l’adottabilità del minore in presenza di soluzioni alternative allo stato
degli atti e dell’istruttoria, per la conservazione del diritto del medesimo di crescere ed essere
educato in seno alla propria famiglia, in conseguenza dello stato di tossicodipendenza dei
genitori, seppure in presenza di parenti disponibili ad accogliere il bambino, di cui taluni già
accudenti il medesimo (anche in ausilio e supporto alla famiglia affidataria) peraltro pure in
assenza di un adeguato progetto di sviluppo e supporto della genitorialità.
1.2. Con il secondo motivo si denuncia la manifesta illogicità della motivazione in relazione al
contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili; invalidità della sentenza per violazione
dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c. e art. 156 c.p.c., comma 2, ove, da
un lato viene dichiarato lo stato di adottabilità del minore e dall’altro viene confermata la mera
sospensione della responsabilità genitoriale e non viene disposta, per contro, la decadenza. I
ricorrenti lamentano l’incomprensibilità nella valutazione degli elementi portanti la decisione.
2.1. I motivi, da trattare congiuntamente perché connessi, sono fondati e vanno accolti.
2.2. Vengono all’attenzione di questa Corte profili di violazione di legge e di illogicità della
motivazione diretti a censurare l’inosservanza, nell’impugnata decisione, del principio cardine
cui si ispira l’istituto della dichiarazione dello stato di abbandono e della dichiarazione di
adottabilità.
2.3. In merito all’accertamento dello stato di abbandono, giova ricordare che, come già
affermato da questa Corte, “La situazione di abbandono, che ai sensi della L. n. 184 del
1983, art. 8, è presupposto necessario per la dichiarazione dello stato di adottabilità del
minore, comportando il sacrificio dell’esigenza primaria di crescita in seno alla famiglia
biologica, è configurabile non solo nei casi di materiale abbandono del minore, ma
ogniqualvolta si accerti l’inadeguatezza dei genitori naturali a garantirgli il normale sviluppo
psico-fisico, così da far considerare la rescissione del legame familiare come strumento
adatto ad evitare al minore un più grave pregiudizio ed assicurargli assistenza e stabilità
affettiva, dovendosi considerare “situazione di abbandono”, oltre al rifiuto intenzionale e
irrevocabile dell’adempimento dei doveri genitoriali, anche una situazione di fatto obiettiva del
minore, che, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, impedisca o ponga in pericolo il suo
sano sviluppo psicofisico, per il non transitorio difetto di quell’assistenza materiale e morale
necessaria a tal fine” (Cass. n. 1838 del 26/01/2011; v. anche Cass. n. 5580 del 04/05/2000;
Cass. n. 4503 del 28/03/2002): invero, poiché “il ricorso alla dichiarazione di adottabilità
costituisce solo una “soluzione estrema”, essendo il diritto del minore a crescere ed essere
educato nella propria famiglia d’origine, quale ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo
psicofisico, tutelato in via prioritaria dalla L. n. 184 del 1983, art. 1, il giudice di merito deve
operare un giudizio prognostico teso, in primo luogo, a verificare l’effettiva ed attuale
possibilità di recupero delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento sia alle
condizioni di lavoro, reddituali ed abitative, senza però che esse assumano valenza
discriminatoria, sia a quelle psichiche, da valutarsi, se del caso, mediante specifica indagine
peritale, estendendo detta verifica anche al nucleo familiare, di cui occorre accertare la
concreta possibilità di supportare i genitori e di sviluppare rapporti con il minore, avvalendosi
dell’intervento dei servizi territoriali.” (Cass. n. 7559 del 27/03/2018; in tema Cass. n. 18563
del 29710/2012).
Ne consegue che il giudice di merito deve, prioritariamente, verificare se possa essere
utilmente fornito un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio
familiare, e, solo ove risulti impossibile, quand’anche in base ad un criterio di grande
probabilità, prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la
necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittimo e corretto
l’accertamento dello stato di abbandono (Cass. n. 6137 del 26/03/2015); ciò a maggior
ragione se si considera che la valutazione dello stato di adottabilità non può fondarsi di per sé
su anomalie non gravi del carattere e della personalità dei genitori, comprese eventuali
condizioni patologiche di natura mentale, che non compromettano la capacità di allevare ed
educare i figli senza danni irreversibili per il relativo sviluppo ed equilibrio psichico (Cass. n.
18563 del 29/10/2012; cfr. anche Cass. n. 20954 del 22/08/2018).
A ciò va aggiunto, in merito al possibile apporto delle figure vicarie interfamiliari, trattandosi di
tema decisivo nel caso di specie, che se è vero che “Lo stato di abbandono dei minori non
può essere escluso in conseguenza della disponibilità a prendersi cura di loro, manifestata da
parenti entro il quarto grado, quando non sussistano rapporti significativi pregressi tra loro ed
i bambini, e neppure possano individuarsi potenzialità di recupero dei rapporti, non
traumatiche per i minori, in tempi compatibili con lo sviluppo equilibrato della loro personalità”
(Cass. n. 9021 del 11/04/2018), pur tuttavia la seria disponibilità a prendersi cura del minore
manifestata dai parenti entro il quarto grado (nella specie, i nonni) che abbiano instaurato e
coltivato rapporti significativi con il bambino, può valere ad integrare il presupposto giuridico
per escludere lo stato di abbandono, ove concretamente accertata e verificata (Cass. n.
23979 del 24/11/2015; v. in tema affine, anche Cass. n. 28257 del 04/11/2019).
2.4. La Corte del merito, nella specie, non ha fatto corretta applicazione degli esposti principi.
2.5. Innanzi tutto, va osservato che l’affermazione della Corte di appello, secondo la quale “E’
un fatto che la procedura sia stata condizionata da una scelta compiuta alcuni anni or sono
quando E. – affidato ai Servizi Sociali e non potendo rimanere con la madre – fu collocato al di
fuori della famiglia di origine. Sulla scelta influì la posizione all’epoca assunta dai nonni
materni, collocatari di St.” (fol. 15 della sent.), sembra quasi sancire in via prioritaria ed
assorbente l’irreversibilità della condizione di affido etero-familiare del minore e la
necessarietà della dichiarazione dello stato di abbandono, come conseguenza della posizione
assunta dai nonni materni inizialmente non disponibili all’accoglienza, ritenuta
immotivatamente come irretrattabile. Tale assunto non può essere condiviso perché non è
congruente con la funzione propria dell’affidamento familiare che è istituto inteso come
misura offerta ad un bambino che versa in difficoltà, determinate dalla malattia di un genitore,
isolamento sociale, trascuratezza, fenomeni di violenza fisica e psichica, relazioni
disfunzionali, e quindi in casi che, temporaneamente possono ostacolare la funzione
educativa e la convivenza tra genitore e figlio; è destinato a rimuovere queste situazioni di
difficoltà e di disagio familiare connesse all’esercizio della responsabilità genitoriale e si pone
in funzione strumentale alla tutela, riconosciuta con carattere prioritario dall’ordinamento, del
diritto del minore a crescere nella propria famiglia di origine (Cass. n. 1837 del 26/1/2011);
anzi, l’affermazione della Corte di merito si pone in palese ed inequivoco conflitto con i
principi teste’ enunciati e vizia tutto il ragionamento svolto, con evidenti ricadute sulla logicità
e comprensibilità della statuizione conclusiva.
2.6. A ciò va aggiunto che la Corte territoriale ha riconosciuto l’esistenza della condizione di
abbandono del minore, sul presupposto dell’essere l’inadeguatezza genitoriale della madre e
del padre troppo profonda e non recuperabile nei tempi scanditi dalla crescita del piccolo e
non ipotizzabile il soccorso della famiglia allargata, valorizzando i seguenti elementi: per
quanto riguarda la madre, la condizione di tossicodipendenza, ancora non risolta ed
addirittura negata, e lo scarso trasporto affettivo verso il figlio; per quanto riguarda il padre – la
mancanza di attività lavorativa, le ricadute nella tossicodipendenza e l’incapacità di
comprendere le tappe evolutive del bambino e di costruire un progetto di vita con lui, pur
conservando con lo stesso un rapporto affettuoso ed empatico; per quanto riguarda i nonni
materni, ai quali è già affidata St., la prima figlia di D.N.E., l’ambivalente rapporto tra i nonni e
la madre – della quale a volte rifiutano lo stile di vita ed altre volte ritengono che abbia un
ruolo nella crescita del minore – e la problematicità dello stesso, pur dando atto che il minore
ha un buon rapporto con i nonni ed è a proprio agio nella loro casa, che questi hanno
continuato ad intrattenere i rapporti con E. anche dopo la sua collocazione presso una
famiglia affidataria; per quanto riguarda il nonno paterno, l’età avanzata, la sua difficoltà
personale a comprendere le ragioni della dichiarazione dello stato di adottabilità del minore
ed il rifiuto ad accordarsi personalmente con la famiglia affidataria per incontrare il minore, la
non consapevolezza dell’impegno che richiederebbe l’accudimento del bambino; per quanto
riguarda le zie paterne S. e Lu., la disponibilità ad essere solo di supporto al padre.
2.7. Nessuno di tali elementi, però, ad avviso di questo Collegio, appare idoneo, se
esaminato nella necessaria ed imprescindibile correlazione con gli altri, a giustificare,
sufficientemente ed adeguatamente, lo stato di abbandono; risulta, peraltro, assolutamente
carente la considerazione della (pur reiteratamente dedotta) mancata assistenza prestata al
nucleo familiare allargato per aiutarli, nel recupero della genitorialità.
Inoltre, nulla è detto di specifico e concreto sul minore, se non che sta bene con gli affidatari,
circostanza sicuramente meritevole di attenzione e valutazione, ma certo non esaustiva per la
decisione da adottare; la valutazione delle figure vicarie interfamiliari, nonni e zie, è svolta in
termini molto generici – tanto più se si considera la ampia platea di familiari disponibili a
collaborare — ed astratti, considerando i potenziali rischi di una confusione tra il ruolo di nonni
e quello di genitori, le possibili incertezze di un contesto condizionato da genitori inadeguati, il
probabile trauma del bambino nel separarsi dagli affidatari, senza alcuna esposizione e
valutazione dei rapporti esistenti in concreto con i nonni e le zie, senza illustrare in che modo
questi siano stati supportati nel coltivare la relazione parentale nel corso del periodo
dell’affidamento etero-familiare, alla luce delle finalità – prima illustrate – che l’utilizzo di questo
istituto imponeva di perseguire; non viene considerato il rapporto con la sorella St., collocata
presso i nonni materni, se non per dire genericamente che il legame va mantenuto (fol. 21
della sent. imp.).
Trattasi, sostanzialmente, di elementi astratti e generici, che potrebbero verosimilmente
essere riscontrati, in tutto o in parte, in molte coppie genitoriali ed in molte famiglie colpite dal
dramma della tossicodipendenza, senza, per questo, integrare lo stato di abbandono previsto
dalla L. n. 184 del 1983, art. 8 (Cass. n. 20954 del 22/08/2018).
2.8. Alla stregua delle fin qui esposte considerazioni, dunque, ed in accoglimento dei motivi in
esame, va rimesso al giudice di rinvio, come in prosieguo individuato, di procedere ad un
nuovo esame circa la configurabilità dello stato di abbandono morale e materiale del minore
S.E. (costituente il presupposto dell’eventuale stato di sua adottabilità): esame da effettuarsi
acquisendo ulteriori, diversi e più recenti elementi di valutazione rispetto a quelli di cui si è
detto, soprattutto in relazione al contesto familiare allargato, che possano configurarsi come
fattori concreti idonei ad integrare la fattispecie, piuttosto che elementi affatto anodini al fine di
giustificare una legittima cancellazione dei legami familiari del minore, con lesione dei diritti
fondamentali dello stesso costituzionalmente tutelati (anche mediante la norma interposta
dell’art. 8 Cedu).
3. In conclusione, il ricorso va accolto; la sentenza impugnata va cassata nei sensi di cui in
motivazione e rinviata alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione per il riesame
e la statuizione sulle spese anche del presente grado alla luce dei principi espressi.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità
delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
P.Q.M.
– Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di
Venezia, diversamente composta, anche per le spese di questo grado del giudizio;
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle
parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52

Illecito endofamiliare e risarcimento dei danni subiti dal minore per l’abbandono del padre

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 06 ottobre 2021, n. 27139
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACIERNO Maria – Presidente –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22315/2019 proposto da:
R.L., in proprio e nella qualità di genitore unico legale rappresentante del minore R.M., elettivamente
domiciliata in Roma, presso lo studio dell’avvocato M. M., rappresentata e difesa dall’avvocato G. L.,
con procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
F.R., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione,
rappresentato e difeso dall’avvocato S. A., con procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 770/2019 della CORTE D’APPELLO di TORINO, pubblicata il 06/05/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/04/2021 dal cons., Dott.
CAIAZZO ROSARIO.

Svolgimento del processo
CHE:
Con citazione del 15.4.14 R.L. convenne innanzi al Tribunale di Torino F.R. chiedendone la
condanna: al rimborso delle somme sborsate per il mantenimento del figlio M. (nato nel (OMISSIS))
dalla nascita al (OMISSIS), figlio la cui paternità in capo al convenuto era stata accertata con sentenza
emessa nel (OMISSIS) dal Tribunale per i minorenni di Torino; al rimborso delle spese mediche e
scolastiche, per il periodo (OMISSIS); al risarcimento dei danni non patrimoniali nella somma di
Euro 340.000,00.
Con sentenza emessa il 6.11.17, il Tribunale accolse parzialmente la domanda e, per l’effetto:
condannò il convenuto a corrispondere all’attrice la somma di Euro 330,00 mensile a titolo di arretrati
dell’assegno di mantenimento per il figlio, in ordine al periodo antecedente alla stessa domanda
esaminata, dal (OMISSIS) al (OMISSIS) (giorno del deposito del ricorso ex art. 269 c.c.), oltre al
50% di Euro 403,77 per le spese mediche e scolastiche sostenute nello stesso periodo; rigettò la
domanda risarcitoria e la domanda del convenuto, ex art. 89 c.p.c.
La R. ha proposto appello avverso tale sentenza, chiedendone la parziale riforma circa il rigetto della
domanda di risarcimento del danno non patrimoniale sofferto a causa della condotta di progressivo
abbandono del figlio da parte del F. e della relativa trascuratezza circa i doveri incombenti sul padre
del minore; in particolare, l’appellante si doleva della mancata ammissione dell’interrogatorio formale
e delle prove testimoniali dedotte tendenti, appunto, a dimostrare i danni subiti da attribuire alle
condotte illegittime ascritte al convenuto, tali da configurare, nel loro insieme, un illecito
endofamiliare consistito nella privazione della figura paterna sofferta dal minore, protrattasi per anni
e da valutare anche alla luce della domanda di decadenza dalla responsabilità genitoriale proposta
dallo stesso F. innanzi al Tribunale per i minorenni e da quest’ultimo accolta con decreto dell’1.8.14.
Con sentenza emessa il 6.5.19, la Corte d’appello ha rigettato il gravame, osservando che: non era
stato provato il danno non patrimoniale che il minore avrebbe subito dato che, pur non essendo
contestato che il F. avesse frequentato il figlio fino ai diciotto mesi – avendo deciso di privilegiare la
sua famiglia, composta da cinque figli – non era emersa la prova che il minore, dall’abbandono del
padre, avesse sofferto un danno nel concreto del suo percorso evolutivo nei contesti di riferimento
(scuola e famiglia), considerando altresì che la frequentazione del padre era stata minima e per un
breve periodo della vita del minore da non aver potuto lasciare, a livello cosciente, ricordi della stessa
figura paterna. Pertanto, la Corte d’Appello ha ritenuto al riguardo irrilevanti, per la prova del danno,
i bigliettini scritti dal minore che erano da ritenere inerenti a ricordi non spontanei ma indotti.
R.L. ricorre in cassazione con tre motivi, illustrati con memoria.
Il F. resiste con controricorso.

Motivi della decisione
CHE:
Il primo motivo deduce l’omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, avendo
la Corte territoriale trascurato di considerare la minore età del figlio danneggiato dal mancato
riconoscimento del padre e dalla sua richiesta di farsi dichiarare decaduto dalla responsabilità
genitoriale. Al riguardo, la ricorrente si duole del fatto che il giudice di secondo grado abbia negato
il risarcimento dei danni causati dall’abbandono del minore, in quanto il F. aveva frequentato il figlio
fino ai diciotto mesi d’età, affermando che non era stato dimostrato che quest’ultimo avesse subito un
danno nel percorso evolutivo, dato che la frequentazione del padre era avvenuta in un periodo di
tempo così breve da “non aver potuto lasciare nel minore a livello cosciente ricordi della figura
paterna”.
Il secondo motivo denunzia violazione degli artt. 2, 3 Cost., art. 30 Cost., commi 1 e 3, artt. 147, 148,
315, 315bis, 316, 316bis, 337 bis, 337 ter c.c., artt. 570 e 572 c.p., L. n. 176 del 1991, artt. 2, 3, 19,
27 della Dichiarazione di N. Y., Trattato UE n. 83/403 E Carte dir. f. UE, avendo la Corte d’appello
negata la sussistenza dell’illecito endofamiliare pur in presenza della chiara violazione dei diritti
fondamentali del minore, come sanciti dalle richiamate norme.
Il terzo motivo denunzia violazione degli artt. 2697, 2727, 2729 c.c., art. 115 c.p.c., commi 1 e 2, in
quanto la ricorrente lamenta la mancata ammissione delle prove orali dedotte dirette a dimostrare il
dolore e le sofferenze patite dal minore per l’abbandono del padre.
I tre motivi, esaminabili congiuntamente poichè tra loro connessi, sono fondati. Invero, la ricorrente
in sostanza assume che la Corte d’appello avrebbe errato nell’escludere l’illecito endofamiliare e,
dunque, il risarcimento dei danni subiti dal minore per l’abbandono del padre dopo i primi diciotto
mesi di vita. In particolare, la ricorrente sostiene che il fatto stesso che il padre abbia di fatto
abbandonato il figlio dopo pochi mesi di vita, disinteressandosene del tutto, integrerebbe la lesione
dei diritti fondamentali del minore, garantiti dalla richiamata normativa sovranazionale e unionale,
mentre la Corte di merito ha invece ritenuto che il danno non fosse stato dimostrato, nel senso che
non erano emerse prove di un concreto danno allo sviluppo fisio-psichico del bambino.
Tale motivazione è da ritenere del tutto erronea. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa
Corte, la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole
non trova sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, potendo integrare gli
estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti; questa, pertanto,
può dar luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art.
2059 c.c., esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e
maternità (Cass., n. 5652/12; n. 14382/19).
Va ancora osservato che il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale
integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e
determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli artt. 2 e 30 Cost.,
– oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento – un elevato grado di
riconoscimento e tutela, sicchè tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e
legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 c.c., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni
non patrimoniali sofferti dalla prole (Cass., n. 3079/15). E’ stato altresì osservato, ai fini del decorso
del termine di prescrizione, che l’illecito endofamiliare commesso in violazione dei doveri genitoriali
verso la prole può essere sia istantaneo, ove ricorra una singola condotta inadempiente dell’agente,
che si esaurisce prima o nel momento stesso della produzione del danno, sia permanente, se detta
condotta perdura oltre tale momento e continua a cagionare il danno per tutto il corso della sua
reiterazione, poichè il genitore si estranea completamente per un periodo significativo dalla vita dei
figli (Cass., n. 11097/2020).
Ora, nel caso concreto, la Corte d’appello ha escluso che la condotta ascritta al F. costituisse un illecito
endofamiliare, e fosse stata produttiva di danni non patrimoniali, per la sola brevità del periodo
durante il quale quest’ultimo frequentò il figlio, omettendo del tutto di considerare che l’abbandono
del minore, protrattosi ininterrottamente dopo i diciotto mesi di vita del bambino, configurasse una
condotta in violazione dei suddetti doveri di educazione e mantenimento del minore, peraltro
formulando anche rilievi certamente inappropriati in ordine all’asserita mancata incidenza di tale
condotta sul percorso evolutivo del minore.
Al riguardo, non può essere invece sottaciuto che, a fronte dell’abbandono del figlio dopo appena
diciotto mesi dalla nascita, emergendo con indubbia evidenza la condotta lesiva dei predetti principi
costituzionali, la Corte territoriale avrebbe dovuto accertare quali fossero stati gli effetti causati dal
disinteresse del padre, e dunque dall’assoluta elisione della figura paterna, sullo sviluppo fisiopsichico
del bambino, nella fase evolutiva della sua vita.
Pertanto, sotto questo profilo, la motivazione della sentenza impugnata appare anche carente,
proiettandosi al di sotto del minimo costituzionalmente garantito, avendo il giudice di merito omesso
di esplicitare con chiarezza le ragioni che lo inducevano ad escludere che la condotta del
controricorrente non costituisse un illecito endofamiliare, chiaramente prospettato negli atti difensivi
della R..
Nella fattispecie, pertanto, la Corte territoriale ha omesso di valutare qualsivoglia conseguenza
dannosa cagionata dalla condotta del F. nei confronti del figlio, sia circa il cd. danno morale subiettivo
(la sofferenza ingiusta, ovvero il turbamento interiore, arrecata al minore perchè privato della figura
del padre), sia in ordine all’evoluzione fisio-psichica del figlio, anche considerando l’intensità
dell’elemento soggettivo dell’illecito, atteso che il padre ha deliberatamente deciso di trascurare il
bambino per dedicarsi esclusivamente ai figli nati in costanza del suo matrimonio, con evidente grave
ed iniqua discriminazione.
Per quanto esposto, in accoglimento dei tre motivi, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla
Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, anche perchè provveda al regolamento delle spese
del grado di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie i tre motivi di ricorso e cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte d’appello
di Torino, in diversa composizione, anche in ordine al regolamento delle spese del grado di
legittimità.
Dispone che i dati identificativi delle parti siano oscurati nel caso di pubblicazione del
provvedimento, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021.

Il rappresentante del minore è parte necessaria dei giudizi di adozione

. Cass. sez. I, ord. 15 settembre 2021 n. 24884
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 18319/2020 proposto da:
B.M., B.A.M., B.S.,
Bo.Ga., I.V., elettivamente domiciliati in Roma, Via O.
di Montecelio n. 19, presso lo studio dell’avvocato Davoli Vincenzo,
che li rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
M.M., nella qualità di curatore speciale dei minori
B.A. e B.N., elettivamente domiciliata in Roma,
Via E.Q. Visconti n. 20, presso lo studio dell’avvocato Paparoni
Francesca, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato
Baroni Raffaella, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
contro
P.G., Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di
Cassazione, Pubblico Ministero presso la Corte di Appello di Torino;
– intimati –
avverso la sentenza n. 12/2020 della CORTE D’APPELLO di TORINO,
pubblicata il 03/06/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
14/06/2021 dal cons. Dott. TRICOMI LAURA.

RITENUTO CHE:
Con sentenza emessa il (OMISSIS) il Tribunale per i minorenni del Piemonte e della Valle
d’Aosta dichiarò lo stato di adottabilità dei minori B.A. (n. il (OMISSIS)) e di B.N. (n. il
(OMISSIS)), attualmente collocati in una comunità, figli di B.M. e di P.G..
A seguito di una segnalazione per maltrattamenti nell’ambito della famiglia paterna allargata
dove il padre li aveva portati dopo la separazione dalla madre, i minori erano stati allontananti
dall’abitazione dei nonni paterni e collocati in comunità.
Svolta l’istruttoria il Tribunale per i minorenni con decreto del 21/11/2016 ritenne non idonea
la famiglia paterna rispetto alle esigenze evolutive dei minori, che presentavano sintomi
riferibili a disturbo post traumatico da stress, ritenne non idonee le zie paterne e rilevò che la
madre viveva con un altro compagno e non chiedeva di occuparsi dei minori; dispose l’affido
eterofamiliare e la regolamentazione del diritto di visita da parte del padre e della madre da
svolgersi alla presenza di un educatore e la disciplina degli incontri con gli zii paterni.
Dopo un periodo di affidamento etero-familiare, i bambini vennero collocati in una nuova
comunità educativa per il trattamento dei bambini traumatizzati.
Il Tribunale con sentenza del 28 giugno 2019 dichiarò lo stato di adottabilità dei due minori
per le ragioni riportate a fol. 7 della sent. imp. B.M. (padre dei minori) e B.A.M., Bo.Ga., B.S. e
I.V. (zii dei minori) ricorrono per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Torino
con due mezzi. Ha replicato con controricorso il curatore speciale dei minori Avv. M.M..
CONSIDERATO CHE:
Preliminarmente va esaminata l’eccezione di difetto di integrità del contraddittorio sollevata
dal Curatore speciale dei minori, che risulta fondata.
Questi ha osservato che il ricorso per cassazione non è stato notificato al Tutore dei minori (e
cioè, al legale rapp. p.t. del Consorzio intercomunale servizi socio-assistenziali “(OMISSIS)”
di (OMISSIS)), che ha veste di parte necessaria dell’intero procedimento, era stato presente
in primo e secondo grado ed e’, quindi, litisconsorte necessario anche nel giudizio di
legittimità (L. n. 184 del 1983, artt. 16 e 17 vigente ratione temporis).
L’eccezione va accolta.
In tema di adozione, la L. 28 marzo 2001, n. 149, che ha novellato la L. 4 maggio 1983, n.
184, non prevede la nomina necessaria di un curatore speciale al minore, il quale è
rappresentato in giudizio dai genitori o dal tutore, perché il procedimento è unico e da subito
contenzioso, essendo stata soppressa la fase dell’opposizione L. n. 184 del 1983, ex art. 17
con la conseguenza che il rappresentante legale è investito sin dall’inizio della
rappresentanza del minore ed in tale qualità gli deve essere notificata la sentenza che
dichiara l’adottabilità o il non luogo a provvedere della L. n. 184 del 1983, ex art. 15 e ss.
essendo egli legittimato all’eventuale impugnazione (Cass. n. 3804 del 17/02/2010); inoltre, al
rappresentante legale del minore, tutore provvisorio o curatore speciale, è attribuita una
legittimazione autonoma, connessa ad un’intensa serie di poteri, facoltà e diritti processuali,
atta a far assumere loro la veste di parti necessarie dell’intero procedimento, pure in appello
quand’anche in primo grado non si siano costituiti, sicché è necessario, a pena di nullità,
integrare il contraddittorio nei loro confronti, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., ove tali parti non
abbiano proposto il gravame (Cass. n. 1472 del 25/01/2021).
Nel caso di specie, avendo il tutore provvisorio partecipato ai primi due gradi del giudizio, va
disposta la notifica del ricorso per cassazione al tutore entro il termine di sessanta giorni dalla
comunicazione della presente ordinanza; conseguentemente la causa va rinviata a nuovo
ruolo.
P.Q.M.
La Corte, rinvia la causa a nuovo ruolo, ordinando ai ricorrenti di notificare il ricorso al tutore provvisorio
nel termine di sessanta giorni dalla notifica della presente ordinanza.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati
identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 14 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2021

Il discrimen tra tentativo e consumazione del reato di violenza sessuale

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 20 settembre 2021, n. 34655

Diritto penale della famiglia – Violenza sessuale – Delitti contro la persona; Rif. Leg. Art. 609-bis
c.p.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LAPALORCIA Grazia – Presidente –
Dott. ROSI Elisabetta – Consigliere –
Dott. CORBETTA Stefano – rel. Consigliere –
Dott. REYNAUD Gianni Filippo – Consigliere –
Dott. MACRI’ Ubalda – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
G.F.J.G., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 02/07/2020 della Corte di appello di Torino;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Stefano Corbetta;
letta la requisitoria redatta ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, dal Pubblico Ministero
in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. MOLINO Pietro, che ha concluso chiedendo
l’inammissibilità del ricorso;
lette le note di udienza redatte dal difensore avv. D. G., il quale insiste nell’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Con l’impugnata sentenza, la Corte d’appello di Torino confermava la decisione emessa dal
Tribunale di Torino e appellata dall’imputato, la quale, riconosciuta la circostanza attenuante di cui
all’art. 609 bis c.p., comma 3, con giudizio di prevalenza sulla contestata aggravante, aveva
condannato G.F.J.G. alla pena ritenuta di giustizia in ordine al tentativo di violenza sessuale
commesso in danno della moglie.
2. Avverso l’indicata sentenza, l’imputato, tramite il difensore di fiducia, propone ricorso per
cassazione, affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed b), in
relazione agli artt. 336 e 337 c.p.p. Assume il ricorrente che la querela sarebbe invalida, perchè
contiene domande formulate dall’ufficiale di p.g. alla persona offesa, in violazione dell’art. 336 c.p.p.
2.2. Con il secondo motivo si eccepisce la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in
relazione al riconoscimento del tentativo. La motivazione merita censura, ad avviso del ricorrente,
laddove ha ravvisato l’ipotesi del tentativo, senza valutare adeguatamente l’ipotesi alternativa offerta
dalla difesa, in quanto: a) la donna ha riferito che il marito avrebbe volute ucciderla, sicchè la sua
impressione non era quella di aver subito un tentativo di violenza sessuale; b) l’abbigliamento
indossato dall’imputato era incompatibile con la volontà di abusare della moglie; c) non è riscontrata
la circostanza che l’imputato abbia spostato la moglie in posizione supina; d) la donna ha riferito di
non ricordare se il marito fosse eccitato; e) non è dato comprendere perchè sia stata esclusa l’ipotesi
che il marito avesse semplicemente compiuto un gesto di rabbia; f) la donna non ha avviato le pratiche
per la separazione, nè è comparsa, tramite il difensore, nel giudizio di appello.
2.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in
relazione al mancato riconoscimento della desistenza, che, ad avviso del ricorrente, sarebbe
ravvisabile nel caso in esame, avendo l’imputato interrotto la propria azione.
3. Il ricorso è inammissibile.
4. Il primo motivo è inammissibile perchè l’asserita violazione di legge, con riferimento agli artt. 336
e 337 c.p.p., in relazione ai presupposti della querela presentata dalla persona offesa il 24 settembre
2016, non era stata dedotta con i motivi di appello, sicchè essa non può essere proposta per la prima
volta nel giudizio di legittimità, giusto il disposto dell’art. 606 c.p.p., comma 3, ultima parte.
5. Il secondo motivo è inammissibile perchè diretto a sollecitare una rilettura dei dati probatori.
Premesso che il ricorrente non muove alcuna censura in ordine all’attendibilità della persona offesa,
la Corte di appello, così come aveva fatto il primo giudice, ha ritenuto sussistente il tentativo di
violenza sessuale, sulla base delle dichiarazioni della donna, la quale ha riferito che, sebbene poco
prima avesse rifiutato un approccio sessuale del marito, costui, seminudo, le si mise sopra, mentre si
trovava coricata nel letto, strusciando i propri genitali contro i suoi, e, al contempo, premendole sulla
faccia un panno imbevuto di acetone.
Il fatto, accertato nei termini dinanzi indicati, integra, a ben vedere, il delitto non tentato, bensì
consumato di violenza sessuale, perchè, sebbene l’intenzione dell’imputato fosse quella di non
consumare con la moglie, non consenziente, un rapporto vaginale completo, in ogni caso vi fu
un’invasione nella sfera sessuale della persona offesa, individuabile nello strusciamento dell’organo
sessuale maschile sulle parti intime della donna.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, il tentativo del reato, previsto dall’art. 609 bis c.p.,
è configurabile a condizione che la condotta violenta o minacciosa non abbia determinato una
immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, poichè l’agente non ha raggiunto le
zone intime (genitali o erogene) della vittima ovvero non ha provocato un contatto di quest’ultima
con le proprie parti intime (così, da ultimo, Cass., Sez. 3, n. 17414 del 18/02/2016 – dep. 28/04/2016,
F, Rv. 266900), il che, invece, è avvenuto nella specie, a nulla rilevando che l’agente si prefiggesse il
compimento di un atto sessuale maggiormente invasivo dell’altrui sfera sessuale.
6. In ogni caso, il ricorrente confeziona motivi fattuali, tesi ad accreditare una diversa ricostruzione
della vicenda, sicchè le censure si risolvono nella richiesta di una diversa lettura degli elementi di
fatto posti a fondamento della decisione e nell’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in
ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti, attività entrambe precluse nel giudizio di legittimità,
non potendo la Corte di cassazione ripetere l’esperienza conoscitiva del giudice del merito, bensì
esclusivamente riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della
decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il
giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle
acquisizioni processuali.
7. Il terzo motivo è inammissibile perchè generico.
Il ricorrente non si confronta con la motivazione, laddove, nell’esaminare il corrispondente motivo di
appello, la Corte distrettuale ha negato i presupposti applicativi dell’art. 56 c.p., comma 3, sul
presupposto che la desistenza non fu affatto volontaria, come richiede espressamente la norma in
esame, ma dovuta alla pronta reazione della persona offesa, la quale, svegliatasi, nonostante l’acetone
che fu costretta ad inalare, riuscì a scalciare e a mordere l’imputato, e, quindi, a rinchiudersi nel bagno,
da dove telefonò a un’amica, raccontandole l’accaduto e chiedendole aiuto. Si tratta di una
motivazione immune da vizi logici e giuridici, che, quindi, merita conferma.
8. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa
nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla
condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento
della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, di 3.000 Euro in favore della Cassa delle
Ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a
norma del D.lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Motivazione semplificata.
Così deciso in Roma, il 23 giugno 2021.

Il contributo alla vita familiare fornito dalla ex coniuge va accompagnato da argomenti motivazionali

Cass. Civ., Sez. VI – 1, Ord., 15 settembre 2021, n. 24761

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8937-2020 proposto da:
B.D., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della
CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati….;
– ricorrente –

contro

K.A.O., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TOMMASO SALVINI 55, presso lo studio
dell’avvocato…, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati…;
– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2416/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 30/08/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non partecipata del 04/05/2021 dal
Consigliere Relatore Dott. TRICOMI LAURA.

Svolgimento del processo
che:
Con la sentenza depositata il 30/08/2019 la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della
prima decisione, ha posto a carico di B.D. l’assegno divorzile – prima non previsto – in favore di
K.A.O., nella misura di Euro 500,00=, oltre ISTAT, compensando le spese di giudizio del grado.
B. ha proposto ricorso per cassazione con due mezzi; K. ha replicato con controricorso, corredato da
memoria.
E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i
relativi presupposti.

Motivi della decisione
che:
1. Il ricorso è articolato nei seguenti due motivi:
I) Violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e nullità della sentenza per motivazione apparente.
A parere del ricorrente la Corte di appello non ha compiuto una analisi completa dei parametri da
considerare per riconoscere l’assegno divorzile alla ex coniuge e per determinarlo, limitandosi ad
indicare alcuni dati (durata del matrimonio, età della ex coniuge) senza illustrare in che termini gli
stessi avessero inciso sulla decisione.
II) Violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, alla luce dei principi fissati dalla
sentenza n. 18287 del 2018 delle Sezioni Unite.
Secondo il ricorrente la Corte di appello ha fondato la decisione in merito al riconoscimento
dell’assegno divorzile ed alla sua quantificazione solo sulla accertata disparità reddituale tra le parti,
ricavando – a contrario – che ciò sarebbe stata conseguenza della ripartizione dei ruoli all’interno
della famiglia, senza però compiere alcuna verifica in merito all’effettivo sacrificio delle aspettative
professionali ed economiche che ne sarebbero conseguite, operando un automatismo indebito.
Si duole che sia mancata una puntuale indagine sulla condizione individuale dei coniugi e sul
contributo personale ed economico dato da ciascuno alla vita matrimoniale e alla cura della famiglia
e dei figli.
Rammenta che la ex coniuge lavora part time e percepisce uno stipendio mensile di Euro 1.500, 00=
e che l’impegno per l’accudimento dei figli (uno di 18 anni, l’altro di 14) va scemando.
2. I motivi, da trattarsi congiuntamente perchè strettamente connessi, sono fondati e vanno accolti
nei termini di seguito precisati.
3. Al riguardo, appare opportuno premettere che, con la sentenza delle Sez. U. di questa Corte n.
11490 del 1990, era stato affermato il carattere esclusivamente assistenziale dell’assegno divorzile, il
cui presupposto era stato individuato nell’inadeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge
istante a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, ed il cui
ammontare era da liquidare in base alla valutazione ponderata dei criteri enunciati dalla legge
(condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno
alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito
di entrambi, durata del matrimonio), con riguardo al momento della pronuncia di divorzio. Tale
orientamento, rimasto fermo per un trentennio, è stato modificato con la sentenza n. 11504 del 2017
di questa Corte, che, muovendo anch’essa dalla premessa sistematica relativa alla distinzione tra il
criterio attributivo e quello determinativo, ha affermato che il parametro dell’inadeguatezza dei
mezzi del coniuge istante deve essere valutato al lume del principio dell’autoresponsabilità
economica di ciascun coniuge, ormai “persona singola”, ed all’esito dell’accertamento della
condizione di non autosufficienza economica, da determinare in base ai criteri indicati nella prima
parte della norma. Con la recente sentenza n. 18287 del 2018 le Sezioni Unite di questa Corte sono
nuovamente intervenute, e, nell’ambito di una complessiva riconsiderazione della materia, hanno
ritenuto che l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi o all’incapacità di procurarseli per
ragioni oggettive del coniuge richiedente deve essere espresso alla luce di una valutazione
comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo
fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio
comune, nonchè di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del
matrimonio ed all’età dell’avente diritto.
4. Nel caso in esame la Corte di appello, avendo rammentato rettamente i principi fissati nella più
recente sentenza delle Sezioni Unite, ha motivato il riconoscimento della attribuzione economica
sotto il profilo perequativo e compensativo, valorizzando la forte sperequazione tra il reddito di B.
e quello di O., la notevole durata del matrimonio (18 anni) e l’età della ex moglie (n. nel 1972).
Non risulta, tuttavia condivisibile la statuizione laddove si fonda sulla valorizzazione del “rilevante
contributo fornito (da O.) alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio
comune e personale anche dell’ex marito (contributo da ritenersi provato sulla base delle allegazioni
versate in atti e non adeguatamente contestate in modo specifico)” (fol. 15 della sent. imp.) in quanto
si risolve in una motivazione apparente, come denunciato dal ricorrente, perchè la Corte distrettuale
non si è limitata a ritenere provati, in applicazione del principio di non contestazione, i fatti allegati
dalla O. (peraltro richiamati per relationem, in maniera generica) ma ha esteso l’applicazione di detto
principio anche alla “valutazione” degli stessi fatti, atteso che la qualificazione come “rilevante”
assegnata al contributo alla vita familiare fornito dalla ex coniuge ed alla formazione del patrimonio
comune, non è accompagnato da alcuna argomento motivazionale e comparativo che illustri il
percorso logico/giuridico che ha assistito tale conclusione.
Va, invero, ribadito che l’onere di contestazione che grava sulla parte ha per oggetto fatti storici
sottesi a domande ed eccezioni e non può, quindi, riguardare la componente valutativa dei fatti
stessi (Cass. n. 19181 del 28/9/2016; Cass. n. 5299 dell’8/3/2007; Cass. n. 21460 del 19/08/2019; Cass. n.
6172 del 05/03/2020; Cass. n. 30744 del 21/12/2017), componente valutativa riservata al giudice tenuto
a verificare in concreto, in tema di assegno divorzile, l’incidenza dei parametri integrati ritenuti
rilevanti sulla scorta dei fatti provati e/o non contestati (Cass. n. 32398 del 11/12/2019).
Ne consegue che la complessiva statuizione risulta inficiata da questo vulnus che ne compromette
la completezza motivazionale.
5. In conclusione, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di
appello di Bologna per il riesame alla luce delle considerazioni svolte e dei principi enunciati e per
la statuizione sulle spese anche della presente fase.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti
e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
P.Q.M.
– Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Bologna in diversa
composizione anche per le spese;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52;
– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della non sussistenza
dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma
1 bis.
Così deciso in Roma, il 4 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2021