Mancato consenso informato: diritto al risarcimento

Sentenza n. 194/2023 pubbl. il 30/05/2023 RG n. 328/2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI
SEZIONE CIVILE
composta dai MAGISTRATI:
Dott. Donatella Aru Presidente relatore
Dott. Emanuela Cugusi Consigliere
Dott. Grazia Maria Bagella Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
OGGETTO: responsabilità professionale
nella causa iscritta al n. 328 del Ruolo Generale degli Affari Civili Contenziosi dell’anno 2020,
promossa da:
Omissis, nato a Collinas il omissis e residente in Omissis – codice fiscale Omissis,
elettivamente domiciliato in Cagliari Via … presso lo studio dell’avv. … che lo rappresenta e
difende unitamente all’avv. Giuseppe Sale in forza di procura speciale a margine dell’atto di
citazione in primo grado e della procura speciale a margine dell’atto di appello;
APPELLANTE
CONTRO
ATS SARDEGNA (ex AZIENDA U.S.L. N. 8 della SARDEGNA), in persona del legale
rappresentante pro tempore, il Commissario Dott. …, nato a Sassari il …, con sede in Sassari
alla Via …, p.iva …, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. … che la rappresenta e
difende in virtù di procura speciale in calce alla comparsa di costituzione nonché in virtù di
Determinazione Dirigenziale n. 6427 dell’11.12.2020;
APPELLATA
All’udienza del 4 novembre 2023 la causa è stata tenuta a decisione sulle seguenti
CONCLUSIONI
Nell’interesse dell’appellante (come da atto di appello):
“in via principale
A) accertare e dichiarare l’inadempimento della convenuta Azienda USL N.8 della Sardegna
alle obbligazioni alla stessa facenti capo in dipendenza della richiesta di assistenza medica
formulata dal Signor Omissis;
B) dichiarare tenuta e condannare la convenuta Azienda USL N.8 della Sardegna – in
dipendenza di tutte le azioni esperibili, contrattuali e/o da contatto sociale ovvero anche di
natura extracontrattuale – al risarcimento di tutti i danni – patrimoniali e non patrimoniali, e, in
particolare, di tutti i danni ai diritti della persona garantiti a livello normativo – costituzionale
e/o legislativo – e, specificamente del danno da invalidità temporanea totale e parziale, da
perdita della capacità lavorativa specifica di casalinga e della capacità lavorativa generica, del
danno non patrimoniale con riferimento alla componente “biologica”, alla vita di relazione, ai
profili esistenziali e morali per le sofferenze patite – derivati all’attore Signor Omissis in
conseguenza dei fatti per cui è causa e specificamente in conseguenza degli interventi allo
stesso praticati e della violazione degli obblighi inerenti al diritto del paziente alla
autodeterminazione, alla corretta informazione ed alla acquisizione del suo consenso ai
trattamenti medico-chirurgici;
C) condannare la Azienda per la Tutela della Salute- ATS Sardegna al risarcimento dei predetti
danni in favore dell’appellante nell’importo di Euro 250.000,00* (duecentocinquantamila),
ovvero in quell’altro importo anche maggiore ritenuto di giustizia, se del caso anche con
valutazione equitativa, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali;
D) con la condanna della appellata al rimborso delle spese processuali, comprese quelle relative
alla procedura di mediazione ex D. Lgs. 28/2010 e di consulenza tecnica di parte;
in via subordinata istruttoria
E) dichiarare la nullità della consulenza tecnica d’ufficio e disporre la rinnovazione delle
indagini con la sostituzione del consulente tecnico d’ufficio, ovvero con la nomina di un
medico legale che affianchi il medico “specialista”.”
Nell’interesse dell’appellata
“Piaccia all’Ill.mo Collegio adito, respinta ogni avversa istanza, deduzione e conclusione,
confermare la sentenza impugnata e, per l’effetto, rigettare l’avverso appello, poiché in fondato
sia in fatto che in diritto, con vittoria di spese, competenze e accessori di giudizio, da distrarsi
in favore del procuratore anticipatario.”
IN FATTO E IN DIRITTO
Con atto di citazione del 19 settembre 2020 Omissis ha proposto appello avverso la sentenza n.
1662/2020 pubblicata il 15 luglio 2020 con la quale il Tribunale di Cagliari ha rigettato la
domanda da lui proposta nei confronti dell’Azienda USL n.1 della Sardegna (da ora ASL) per
essere risarcito dei danni conseguenti alle menomazioni derivate da una grave lesione arteriosa
cagionata durante un intervento chirurgico di “dilatazione di stenosi dell’anasto-mosi uretero
ileale sinistra” cui era stato sottoposto l’8 gennaio 2009 nella Divisione di Urologia
dell’Ospedale SS. Trinità di Cagliari, facente capo all’epoca alla ASL n.8.
La domanda è stata rigettata alla luce delle conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio
disposta nel corso del giudizio che aveva consentito di accertare che la patologia sofferta
dall’attore, definita rene grinzo, non era riconducibile causalmente a condotte attive od
omissive dei sanitari che lo avevano avuto in cura.
Si legge nella sentenza:
a. Il consulente tecnico d’ufficio, con relazione esente da vizi logici e congruamente motivata,
ha chiarito:
i. che il paziente è stato correttamente informato delle possibili complicanze, ivi compresa
l’emorragia, menzionata nel foglio che raccoglie il suo consenso, prodotto in causa.
ii. che l’intervento chirurgico per laparotomia era fortemente controindicato per le ragioni
esposte dalla convenuta perché avrebbe comportato elevato rischio di recidiva della stenosi;
iii. che l’intervento endoscopico è stato eseguito correttamente e che la lesione arteriosa non si
è verificata nel corso di esso (8.1.2009) bensì successivamente (il mese dopo) quale
complicanza tardiva prevedibile (l’emorragia era stata prevista anche nel foglio di consenso
informato) ma non riconducibile a imprudenza o imperizia dei sanitari;
iv. che l’emorragia è stata diagnosticata tempestivamente tra il 23.2.2009 (ematuria) e
confermata dalla consulenza angiografica del 28.2.2009 non appena si è manifestata;
v. che l’emorragia è stata poi trattata – previa raccolta di completo consenso informato – in
modo corretto, prima tentando l’embolizzazione e solo dopo – stante l’insuccesso con questa
metodica meno invasiva – tramite chiusura dell’arteria con spirale di Gianturco, soluzione
corretta in quanto l’unica capace di risolvere l’emorragia che se non trattata avrebbe fatto
correre al paziente il pericolo di vita;
vi. che il rene sinistro ha perso la sua funzionalità a causa della mancanza di irrorazione
sanguigna dovuta alla chiusura dell’arteria e non a causa di ritardi o omissioni da parte dei
sanitari.”
Con il primo motivo l’appellante impugna la sentenza stante il mancato rilievo da parte del
consulente tecnico d’ufficio di elementi di censura nella condotta dei sanitari rispetto alla
gestione della prima complicanza (la stenosi della giunzione ureteroileale sinistra) e al
determinarsi della seconda (l’emorragia del ramo dell’arteria retropielica) ed alla conseguente
gestione clinica.
Per quanto riguarda la stenosi, il Omissis evidenzia che lo stesso ausiliario aveva riportato nella
sua relazione diversi dati probativi di un ritardo nella risoluzione della stessa, ritardo che
evidentemente aveva contribuito all’attuale irreversibile condizione di alterazione della
funzionalità renale da lui presentata, essendo il trattamento della condizione di stenosi stato
effettuato solo l’8 gennaio 2009 quando ormai ci si trovava di fronte all’idronefrosi che avrebbe
dovuto essere diagnosticata tempestivamente a fronte della condizione, nota dal novembre
2007, di iniziale dilatazione dell’uretere.
L’emorragia arteriosa di un ramo dell’arteria retropielica doveva ritenersi una lesione iatrogena
occorsa durante l’intervento dell’8 gennaio 2009, dovendo rilevarsi che nella sua gestione vi
era stato un censurabile ritardo terapeutico di ben cinque giorni che aveva comportato
l’inevitabile peggioramento della funzionalità renale, già compromessa dall’idronefrosi.
Il Omissis censura che il consulente avesse omesso di prendere posizione in ordine alla
tempestività nella diagnosi e nel trattamento da parte dei sanitari della stenosi della giunzione
uretero-ileale e dell’emorragia dell’arteria retropielica e al diverso possibile esito, in termini di
conservazione della funzionalità renale, correlato ad un approccio diagnostico-terapeutico
precoce.
Con il secondo motivo l’appellante impugna la sentenza deducendo che egli non aveva prestato
correttamente alcun valido consenso all’intervento praticatogli, comportando ciò, di per sé il
diritto al risarcimento per l’indubbio peggioramento delle sue condizioni. Al riguardo ha
evidenziato che il 7 gennaio 2009 aveva sottoscritto due consensi informati che prevedevano
due diversi tipi di intervento. Egli, in particolare, ha contestato che l’intervento fosse stato
effettuato con un accesso chirurgico percutaneo della regione lombare che lo stesso CTU aveva
riferito essere la via di accesso praticata in Clinica Urologica Universitaria nel trattamento della
calcolosi renale complessa, censurando l’adozione di tale tecnica considerato che non risultava
che avesse dei calcoli, la cui sussistenza peraltro non era stata accertata con l’esecuzione di una
TAC prima dell’intervento.
Alla luce delle esposte considerazioni si doveva pertanto pervenire all’accoglimento delle
domande attrici anche senza disporre il rinnovo della consulenza tecnica d’ufficio, considerato
che la decisione aveva violato le regole processuali applicabili nel caso di specie ed in
particolare gli oneri probatori gravanti sulle parti in materia di risarcimento dei danni da
responsabilità medica. Infatti la relazione del CTU appariva in contrasto con le evidenze
documentali e pertanto doveva ritenersi che la convenuta non avesse fornito la prova di aver
correttamente adempiuto alle sue obbligazioni di corretta assistenza sanitaria.
Infine l’appellante ha evidenziato che nel corso delle operazioni peritali l’ausiliario era venuto
meno ripetutamente ai suoi doveri con il mancato rispetto dei termini a suo tempo fissati dal
Tribunale, tanto che egli ne aveva più volte chiesto la sostituzione; “ciò può giustificare il
dubbio dell’inquinamento della piena serenità dei rapporti ed integra comunque una ragione
autonomamente valutabile quale ragione di sostituzione dell’ausiliario.”
L’ATS Sardegna (ex Azienda Usl n.8 della Sardegna), costituitasi in giudizio, ha concluso per
il rigetto dell’appello evidenziando che, alla luce delle conclusioni del consulente tecnico
d’ufficio, nessuna responsabilità poteva essere ascritta in capo ai sanitari che avevano avuto in
cura il Omissis. Costui, infatti, non aveva offerto alcuna prova che la patologia da cui era
affetto fosse eziologicamente riconducibile all’azione o all’omissione dei sanitari che lo
avevano seguito in occasione dell’intervento subito nel gennaio 2009, nesso eziologico escluso
dal consulente tecnico d’ufficio.
L’appello è infondato dovendosi condividere la valutazione del giudice di prime cure riguardo
all’insussistenza del nesso causale tra la sindrome lamentata dal Omissis e la condotta dei
sanitari che lo ebbero in cura nei primi mesi del 2009.
Pare in primo luogo opportuno rammentare i principi applicabili in materia di colpa medica con
riguardo all’onere della prova gravante sulle parti, avendo l’appellante affermatone la
violazione. Pare illuminante il seguente passo motivazionale della sentenza della Corte di
Cassazione n. 10050/2022: “Con riguardo alle fattispecie di responsabilità medica non
sottoposte al nuovo regime introdotto dalla legge n. 24 del 2017 (la quale non trova
applicazione in ordine ai fatti verificatisi anteriormente alla sua entrata in vigore: Cass. 8
novembre 2019, n. 28811; Cass. 11 novembre 2019, n. 28994), questa Corte, con orientamento
consolidatosi sin dagli ultimi anni dello scorso millennio, ha chiarito che, nell’ipotesi in cui il
paziente alleghi di aver subìto danni in conseguenza di una attività svolta dal medico
(eventualmente, ma non necessariamente, sulla base di un vincolo di dipendenza con la
struttura sanitaria) in esecuzione della prestazione che forma oggetto del rapporto
obbligatorio tra quest’ultima e il paziente, tanto la responsabilità della struttura quanto quella
del medico vanno qualificate in termini di responsabilità contrattuale: la prima, in quanto
conseguente all’inadempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto atipico di spedalità o
di assistenza sanitaria, che il debitore (la struttura) deve adempiere personalmente
(rispondendone ex art. 1218 c.c.) o mediante il personale sanitario (rispondendone ex art.
1228 c.c.); la seconda, in quanto conseguente alla violazione di un obbligo di comportamento
fondato sulla buona fede e funzionale a tutelare l’affidamento sorto in capo al paziente in
seguito al contatto sociale avuto con il medico, che diviene quindi direttamente responsabile,
ex art. 1218 c.c., della violazione di siffatto obbligo (a partire da Cass. 22 gennaio 1999, n.
589, cfr., tra le tante: Cass. 19 aprile 2006, n. 9085; Cass. 14 giugno 2007, n. 13953; Cass. 31
marzo 2015, n. 6438; Cass. 22 settembre 2015, n. 18610). Ciò premesso, il criterio di riparto
dell’onere della prova in siffatte fattispecie non è pertanto quello che governa la responsabilità
aquiliana (nell’ambito della quale il danneggiato è onerato della dimostrazione di tutti gli
elementi costitutivi dell’illecito ascritto al / danneggiante) ma quello che governa la
responsabilità contrattuale, in base al quale il creditore che abbia provato la fonte del suo
credito ed abbia allegato che esso sia rimasto totalmente o parzialmente insoddisfatto, non è
altresì onerato di dimostrare l’inadempimento o l’inesatto adempimento del debitore, spettando
a quest’ultimo la prova dell’esatto adempimento (Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533;
tra le conformi più recenti, ex multis, Cass. 20 gennaio 2015, n. 826; Cass. 4 gennaio 2019, n.
98; Cass. 11 febbraio 2021, n. 3587). In particolare, con precipuo riferimento alle fattispecie
di inadempimento delle obbligazioni professionali – tra le quali si collocano quelle di
responsabilità medica – questa Corte ha da tempo chiarito che è onere del creditore-attore
dimostrare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), l’esistenza del nesso
causale, provando che la condotta del professionista è stata, secondo il criterio del “più
probabile che non”, la causa del danno lamentato (Cass. 7 dicembre 2017, 29315; Cass. 15
febbraio 2018, n. 3704; Cass. 20 agosto 2018, n. 20812), mentre è onere del debitore
dimostrare, in alternativa all’esatto adempimento, l’impossibilità della prestazione derivante
da causa non imputabile, provando che l’inadempimento (o l’inesatto adempimento) è stato
determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (Cass. 26
luglio 2017, n. 18392; Cass. 23 ottobre 2018, n.26700; Cass. 24 maggio 2019, n. 14335; Cass.
29 ottobre 2019, n. 27606). Il concetto di “imprevedibilità”, pur lessicalmente esplicativo di
una soggettività comportamentale che rientra nell’area della colpa, riferito alla causa
impeditiva dell’esatto adempimento, va inteso, precisamente, nel senso oggettivo della “non
imputabilità” (art.1218 c.c.), atteso che la non prevedibilità dell’evento (che si traduce
nell’assenza di negligenza, imprudenza e imperizia nella condotta dell’agen te) è giudizio che
attiene alla sfera dell’elemento soggettivo dell’illecito, in funzione della sua esclusione, e che
prescinde dalla configurabilità, sul piano oggettivo, di una relazione causale tra condotta ed
evento dannoso. Nelle fattispecie di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni
professionali – si è ulteriormente precisato – è configurabile un evento di danno, consistente
nella lesione dell’interesse finale perseguito dal creditore (la vittoria della causa nel contratto
concluso con l’avvocato; la guarigione dalla malattia nel contratto concluso con il medico),
distinto dalla lesione dell’interesse strumentale di cui all’art.1174 c.c. (interesse all’esecuzione
della prestazione professionale secondo le leges artis) e viene dunque in chiara evidenza il
nesso di causalità materiale che rientra nel tema di prova di spettanza del creditore, mentre il
debitore, ove il primo abbia assolto il proprio onere, resta gravato da quello “di dimostrare la
causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione”
(Cass. 11 novembre 2019, n. 28991; Cass. 31 agosto 2020, n. 18102). Il nesso di causalità
materiale si atteggia invece diversamente nelle altre obbligazioni contrattuali, ove l’evento
lesivo coincide astrattamente con la lesione dell’interesse creditorio. Questa coincidenza non
ne esclude, tuttavia, la rilevanza quale elemento costitutivo proprio di tutte le fattispecie di
responsabilità contrattuale, la quale, al contrario, trova una esplicita conferma positiva nella
portata generale della disposizione (art. 1227, comma primo, c.c.) che stabilisce una riduzione
del risarcimento nell’ipotesi in cui il fatto colposo del creditore abbia concorso a “cagionare”
il danno, ritenendosi tradizionalmente (v. già Cass. 9 gennaio 2001, n. 240) che tale
disposizione, a differenza di quella contenuta nel secondo comma del medesimo articolo, si
riferisca al “danno-evento” e non al “danno conseguenza”. Non sembra esatto, pertanto, al di
fuori delle obbligazioni professionali, parlare di “assorbimento” del danno-evento nella lesione
dell’interesse creditorio, secondo un lessico sovente adottato in dottrina, mentre
concettualmente più corretta appare la diversa ricostruzione, pur suggerita in dottrina, in
termini di prova prima facie. Avuto riguardo agli illustrati principi, nell’ipotesi – come quella
in esame – in cui il paziente faccia valere la responsabilità del medico e della struttura
sanitaria per i danni derivatigli da un intervento che si assume svolto in spregio alle l eges
artis, l’attore è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, il nesso di causalità materiale
intercorrente tra la condotta del medico e l’evento dannoso, consistente nella lesione della
salute e nelle altre lesioni ad essa connesse (nella specie, la perdita del concepito); è, invece,
onere dei convenuti, ove il predetto nesso di causalità materiale sia stato dimostrato, provare o
di avere eseguito la prestazione con la diligenza, la prudenza e la perizia richieste nel caso
concreto, o che l’inadempimento (ovvero l’adempimento inesatto) è dipeso dall’impossibilità di
eseguirla esattamente per causa ad essi non imputabile (Cass. 26 novembre 2020, n. 26907).”
Tanto premesso, la vicenda oggetto del presente giudizio può essere ricostruita nei seguenti
termini.
Omissis, affetto da carcinoma vescicale dal 2004, a seguito dell’evoluzione negativa della
patologia tumorale, è stato sottoposto all’intervento radicale di asportazione dell’organo
(cistectomia radicale) il 12 marzo 2007. Egli in particolare fu sottoposto a un intervento di
cistectomia radicale con derivazione urinaria secondo Briker ovvero “collegando gli ureteri ad
una piccola porzione dell’intestino tenue, detta conduit, a sua volta collegata alla cute”.
Come esposto dal CTU, si tratta di procedure chirurgiche di elevata complessità, gravate da una
non trascurabile mortalità perioperatoria (2-3%) e da una notevole percentuale di complicazioni
possibili immediate, precoci ed a distanza di tempo. Una delle più frequenti complicanze, che
può interessare oltre il 20% dei pazienti operati, è la stenosi dell’anastomosi ureterale, specie a
sinistra. Effettivamente una TAC eseguita nel novembre 2007 mostrava già una lieve
dilatazione della via escretrice di sinistra.
A partire dal mese di luglio 2008 o dall’ottobre 2008 egli cominciò ad avvertire diversi episodi
di colica renoureterale sinistra che divennero sempre più frequenti. Gli esami eseguiti il 19
dicembre 2008 e allegati in cartella evidenziarono un tasso di creatinina sierica che indicava un
certo deterioramento della funzione di filtrazione renale complessiva, “verosimilmente
secondario all’ostruzione della giunzione tra uretere ed ansa ileale sinistra”. All’osservazione
del consulente di parte secondo cui vi era certezza che tale dato fosse secondario a detta
ostruzione, il CTU ha chiarito che, poiché non vi erano agli atti esami di laboratorio
antecedenti, non poteva escludersi “che i valori di creatinina nel sangue fossero già alterati per
il reflusso urinario, documentato nel novembre 2007, o per il danno renale legato alla
comorbilità (diabete, ipertensione) che il paziente, già anziano, presentava.”
Ricoverato il 7 gennaio 2009, gli accertamenti avevano documentato una idronefrosi sinistra
secondaria a stenosi della giunzione uretero-ileale dello stesso lato e posero anche il sospetto di
calcolosi a monte della stenosi. Peraltro il CTU, ha evidenziato che “un certo grado di
idronefrosi si realizza inevitabilmente, specialmente a sinistra, anche in assenza di stenosi. Ciò
per effetto della mancanza del fisiologico meccanismo antireflusso che l’ansa intestinale, a
differenza della vescica, ovviamente non può avere.”
Per la risoluzione della stenosi fu proposta l’ispezione anterograda della via escretrice di
sinistra eseguendo l’accesso per via percutanea con strumentario endoscopico.
Ottenuto il consenso, l’intervento fu eseguito l’8 gennaio 2009. Il periodo post operatorio si
svolse regolarmente, tanto che due giorni dopo, il 10 gennaio, venne rimosso il drenaggio
nefrostomico. Il paziente fu dimesso l’11 gennaio e visitato il 25, avendo lamentato dolore
lombare ed ematuria, e il 28 gennaio.
Dopo la rimozione del catetere ureterale, in data 23 febbraio 2009 egli veniva ricoverato
d’urgenza nello stesso reparto per il sopraggiungere di una ematuria macroscopica improvvisa.
L’ecografia, immediatamente eseguita, evidenziò la presenza di grossolani coaguli nella pelvi
renale sinistra. Inizialmente egli fu posto in vigile osservazione clinica. Il 26 febbraio
l’ematuria si presentò nuovamente in forma più importante tanto che il paziente venne
sottoposto a emotrasfusione. La TAC, eseguita il 27 febbraio, evidenziò un’emorragia
proveniente da un ramo dell’arteria retropielica, emorragia confermata dall’esame angiografico
chiesto presso il Brotzu ed eseguito il 28 febbraio 2009.
I sanitari procedettero quindi ad un tentativo, non riuscito, di embolizzazione dell’arteria e
quindi alla chiusura della stessa con spirale di Gianturco.
Il 6 marzo 2009 il Omissis venne dimesso.
I successivi controlli clinici ed ecografici documentavano una progressiva alterazione
morfologica e funzionale del rene sinistro fino allo stadio finale di cosiddetto “rene grinzo”
ossia di un rene di ridotte dimensioni e con assottigliamento della componente funzionale di
filtrazione corticale talché esso è “sostanzialmente non efficiente per quel che concerne la sua
funzione di filtrazione del sangue.”
L’ausiliario ha quindi esposto che la chiusura meccanica del vaso sanguinante aveva
determinato la necrosi della porzione medio inferiore del rene sinistro che aveva perso la sua
funzione, potendosi definire il conseguente deficit di funzione renale di terzo grado su cinque
della scala di funzionalità più comunemente utilizzata dalla comunità scientifica internazionale
(grado moderato). Ha altresì precisato che da allora la funzione renale è stabile e che, grazie
alla funzione vicariante del rene destro, il paziente non necessita di terapia specifica dialitica né
di farmaci sostitutivi.
Contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, il consulente tecnico d’ufficio ha
esaurientemente risposto alle osservazioni mosse dal suo consulente di parte. Il dott. … ha
infatti precisato che:
– il trattamento chirurgico posto in essere per risolvere la stenosi postoperatoria della giunzione
uretero-ileale sinistra era conforme alle metodiche praticate al momento nei centri di alta
specializzazione, essendo la migliore alternativa rispetto ad un indaginoso e problematico
accesso chirurgico tradizionale a cielo aperto. Egli ha esaurientemente risposto alla p rima delle
censure sollevate relativa alla mancanza di tempestività del trattamento chirurgico della stenosi
dell’anastomosi dal momento che era stata diagnosticata praticamente circa un anno prima. Si
riportano le chiare e convincenti affermazioni di cui all’elaborato peritale: “in realtà pensare
che la ricostruzione dell’anastomosi, eseguibile solo con chirurgia a cielo aperto, avrebbe poi
comportato un perfetto drenaggio del rene è puramente illusorio. Reimpiantare l’uretere in
una sede già operata e soggetta a sclerosi cicatriziale dei tessuti, a parte il grande rischio
chirurgico, avrebbe certamente portato a nuova stenosi. D’altra parte la stessa via percutanea,
come i fatti hanno poi dimostrato, presentava elevato rischio vascolare. A questo proposito va
ricordato che il paziente, nel periodo perioperatorio della cistectomia del 2007, era già stato
sottoposto a posizionamento di drenaggio nefrostomico a destra per trattare lo stravaso di
urina, evento che ha certamente avuto parte nel determinismo della stenosi della giunzione. Si
può quindi affermare che la prudenza nell’eseguire un intervento rischioso e dall’esito incerto
era perfettamente giustificata anche a prezzo di una progressiva riduzione della funzione
escretoria del rene sinistro. A porre la perentoria indicazione temporale all’intervento è stata
invece la comparsa delle dolorose coliche (con sospetto radiologico di calcolosi sulla stenosi)
con le quali il paziente non avrebbe potuto a lungo convivere.”
– non poteva condividersi l’osservazione della sussistenza di un ritardo nella gestione
dell’emorragia con inevitabile peggioramento della funzione renale, testimoniata dal fatto che il
paziente era stato posto in semplice osservazione clinica per ben cinque giorni, in quanto “la
perdita ematica, finché gestibile, va trattata in generale con la vigile attesa e questo, a maggior
ragione, nel caso in esame in considerazione delle condizioni di rischio chirurgico già esposte.
Inoltre l’emorragia dell’arteria retropielica non ha, di per sé, peggiorato la funzione renale
sinistra. La definitiva perdita della funzione escretoria dipende sicuramente dall’ischemia
determinata dalla chiusura dell’arteria con la spirale di Gianturco effettuata, in condizioni di
urgenza, presso la radiologia interventistica del O.P. Brotzu il 28 febbraio 2009.”
– doveva condividersi la scelta del tipo di intervento effettuato: “il trattamento della stenosi
dell’anastomosi presenta sempre profili di notevole difficoltà qualunque sia la tecnica
chirurgica utilizzata. La chirurgia a cielo aperto espone a severo rischio legato
all’esplorazione di un sito anatomico modificato nella sua anatomia. Esiste la possibilità
concreta di determinare lesioni intestinali, del condotto, della parete addominale e di non
potere più disporre di un uretere lungo e vitale per una ulteriore anastomosi. L’età del paziente
e le patologie concomitanti rappresentano inoltre ulteriori fattori di rischio operatorio per la
vita stessa del paziente. La via percutanea ed endoscopica combinate disponendo, come nel
caso in oggetto, di tecniche e strumenti idonei rappresentano la scelta più appropriata pur in
presenza dei potenziali rischi emorragici menzionati.”. Al riguardo si evidenzia che all’epoca
dell’intervento il Omissis aveva 75 anni ed era affetto da diverse patologie sistemiche: diabete
mellito, ipertensione arteriosa, arteriosclerosi con occlusione dei tronchi arteriosi sovraortici.
– “in termini di responsabilità professionale si può certamente affermare che la metodica in sé
è gravata da un elevato rischio di lesione vascolare che, specialmente in riferimento agli eventi
che si verificano tardivamente (in questo caso a distanza di oltre un mese) non è prevedibile né
prevenibile. La lesione verificatasi nel caso specifico pertanto non può essere attribuita a colpa
professionale medica. D’altra parte, come si evince dal modulo del consenso informato, la
difficoltà tecnica a trattare in maniera conservativa tali imprevedibili lesioni è dimostrata dal
fatto che l’emorragia, e l’eventuale perdita del rene sono assolutamente tenute in
considerazione.”
Tali osservazioni del CTU non sono state scalfite dei motivi di appello essendosi il Omissis
limitato a riproporre le criticità rilevate a carico dei sanitari che, in estrema sintesi, possono
essere individuate:
a) nel ritardo nella risoluzione della stenosi;
b) nel ritardo nella gestione della emorragia;
c) nella scelta della tecnica operatoria;
senza in alcun modo confutare e confrontarsi con le esaurienti e convincenti argomentazioni,
sopra sinteticamente riportate, che hanno condotto l’ausiliare a ritenere insussistenti dette
criticità, già prospettate nel corso del percorso peritale dal suo consulente di parte.
Letti gli atti difensivi dell’appellante, si osserva che il mancato rispetto delle tempistiche e delle
prescrizioni procedurali da parte dell’ausiliario del giudice, seppure da lui evidenziate e
stigmatizzate nel corso del procedimento peraltro esclusivamente sotto il profilo della durata
del giudizio, non possono assumere alcun rilievo sulla utilizzabilità dell’elaborato peritale ai
fini della decisione, come inopinatamente egli sembrerebbe adombrare, considerato che è stato
pienamente garantito il contraddittorio tra le parti e che le conclusioni a cui è pervenuto
l’ausiliario sono sorrette da approfondite e condivisibili argomentazioni e hanno consentito di
dare convincente risposta alle osservazioni sollevate dal suo consulente di parte. Non avendo il
Omissis contrapposto precise e specifiche deduzioni volte ad incrinare le risposte elaborate in
sede di percorso peritale a fronte delle deduzioni del suo consulente di parte, risposte poste dal
Tribunale a fondamento della decisione, deve essere rigettata la richiesta di un rinnovo della
consulenza tecnica d’ufficio, apparendo la stessa del tutto immotivata.
Gli esaurienti accertamenti peritali sopra sintetizzati, impongono di ritenere che Omissis non
abbia offerto alcuna prova, della quale era onerato per i principi pacifici della giurisprudenza di
legittimità sopra richiamati, dell’esistenza del nesso causale dovendosi escludere che la
condotta dei sanitari che lo hanno avuto in cura in occasione dell’intervento del gennaio 2009,
sia stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno lamentato.
Rimane assorbito il motivo di appello relativo al profilo del quantum, avendo il Omissis
contestato la quantificazione dei danni operata dal CTU, contestazione peraltro sostanzialmente
abbandonata negli atti difensivi finali.
Con riguardo al motivo di appello relativo al consenso informato, si evidenzia che nell’atto di
citazione in primo grado l’attore si era limitato ad affermare che egli non era stato
effettivamente informato di possibili rischi delle complicanze che poi si sono verificate e che
egli pertanto non aveva potuto prestare un valido consenso all’intervento. Tale assunto è
smentito dal tenore letterale del consenso informato, essendo in esso specificato che tra le
complicanze previste vi era emorragia nonché “nefrectomia in caso di lesioni vascolari o
parenchimali renali non trattabili conservativamente”.
Le ulteriori considerazioni inerenti il contenuto del consenso informato sviluppate nella
comparsa conclusionale, anche in relazione ad una problematica di natura diagnostica relativa
alla presenza di calcoli, sospettata dai sanitari prima dell’intervento, problematica mai
prospettata in primo grado, sono allegazioni nuove e pertanto inammissibili.
In ogni caso si osserva che Omissis non ha puntualmente allegato né nell’atto introduttivo né
nella prima memoria ex art. 183 c.p.c., danni non patrimoniali o patrimoniali, ontologicamente
distinti dalle voci di danno lamentate come conseguenze pregiudizievoli derivate dalla lesione
del diritto alla salute; al riguardo il Collegio ritiene di dare continuità all’orientamento più
recente della Suprema Corte secondo cui “In ogni caso vale osservare che, in materia di
responsabilità sanitaria, l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del
paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto
all’autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute posto che, se nel primo caso l’omessa
o insufficiente informazione preventiva evidenzia “ex se” una relazione causale diretta con la
compromissione dell’interesse all’autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del
trattamento sanitario, nel secondo l’incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato
pregiudizievole dell’atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall’opzione che il
paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto
in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l’allegazione dei fatti dimostrativi di tale
scelta costituisce parte integrante dell’onere della prova – che, in applicazione del criterio
generale di cui all’art. 2697 c.c., grava sul danneggiato – del nesso eziologico tra
inadempimento ed evento dannoso. Ciò non esclude evidentemente che, anche nel caso in cui
venga allegata la violazione del diritto alla autodeterminazione, l’onere allegatorio del
danneggiato non può ritenersi esaurito, in quanto escluso qualsiasi esonero fondato sul danno
“in re ipsa” (non essendo dato confondere la lesione del diritto, con le conseguenze
pregiudizievoli che in concreto da esso derivano), è indispensabile allegare specificamente
quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato
abbia subito. Diversamente, sebbene la condotta violativa dell’obbligo di acquisire il consenso
informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico
(comportando la violazione dei distinti diritti alla libertà di autodeterminazione e alla salute),
in ragione dell’unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente – che si articola in
plurime obbligazioni tra loro connesse e strumentali al perseguimento della cura o del
risanamento del soggetto – non potendo affermarsi una assoluta autonomia dei due illeciti tale
da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno, è bene
possibile che l’inadempimento dell’obbligazione relativa alla corretta informazione sui rischi e
benefici della terapia esaurisca la propria funzione lesiva, inserendosi tra i fattori
“concorrenti” della serie causale determinativa del pregiudizio alla salute.
Può e deve, invece, riconoscersi all’omissione del medico una astratta capacità plurioffensiva,
potenzialmente idonea a ledere due diversi interessi sostanziali, entrambi suscettibili di
risarcimento, qualora sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di essi siano derivate
specifiche e distinte conseguenze dannose (cfr. Corte Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 28985 del
11/11/2019).” (Cass., n. 24471/2020).
Alla luce delle esposte argomentazioni, l’appello deve essere rigettato e deve trovare piena
conferma l’impugnata sentenza.
Le spese di lite seguono la soccombenza.
Esse sono liquidate secondo i valori minimi relativi allo scaglione euro 52.001,00 – euro
260.000,00 per le fasi di studio, introduttiva e decisionale stante l’assenza di profili di
complessità in fatto ed in diritto della controversia e le caratteristiche dell’attività prestata. Non
si riconosce alcun compenso per la fase di trattazione/istruttoria stante l’assenza di attività
difensionale (Cass., n. 10206/2021).
PER QUESTI MOTIVI
La Corte d’Appello definitivamente pronunciando, disattesa ogni altra istanza, eccezione e
deduzione:
1. Rigetta l’appello e per l’effetto conferma l’impugnata sentenza;
2. Condanna Omissis alla rifusione delle spese di lite in favore della parte appellata che liquida
in euro 4997,00 oltre spese generali Iva e cpa, disponendo la distrazione in favore del difensore
dichiaratosi antistatario;
3. Da atto della sussistenza dei presupposti processuali, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater
DPR n.115/2002, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13.