Risarcimento dei danni e autonomia del danno morale rispetto al danno biologico

Cass. Civ., Sez. III, Ord., 09 novembre 2022, n. 32935; Pres. Scarano, Rel. Cons. Ambrosi
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente –
Dott. CIRILLO Maria Francesco – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –
Dott. AMBROSI Irene – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 36681/2018 R.G. proposto da:
A.A., interdetto, rappresentato dalla madre e tutrice B.B., a ciò autorizzata in forza di provvedimento
del Giudice Tutelare di Viterbo del 18/10/2018, rappresenta e difesa dall’avvocato G. R.G., giusta
procura a margine del ricorso ed elettivamente domiciliata presso lo studio del medesimo in ROMA,
….;
– ricorrente –
contro
U. A. Spa , già UFG Assicurazioni Spa , in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso
dall’avvocato M. R., giusta procura speciale in calce al controricorso, elettivamente domiciliato presso
lo studio del medesimo, in Roma, …;
– controricorrente –
e contro
C.C., e D.D.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 7125/2017 della Corte d’Appello di Roma, depositata il 13/11/2017, non
notificata;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 marzo 2022 dalla Consigliera Irene
Ambrosi.
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Roma, accogliendo l’appello proposto da UFG Assicurazioni Spa avverso la
sentenza del Tribunale di Viterbo, ha rideterminato in misura del 32% il danno biologico permanente
in favore di A.A., da questi patito a seguito di un sinistro stradale, avvenuto in (Omissis) in data
(Omissis) a seguito del quale riportava lesioni gravissime, quale terzo trasportato, sull’autovettura
condotta da E.E., il quale perdeva il controllo del veicolo – che capovolgendosi, finiva contro un
albero fuori della sede stradale – e decedeva a seguito dell’impatto.
Il Tribunale di Viterbo, in parziale accoglimento della domanda risarcitoria proposta da A.A. e B.B.,
esercenti la potestà genitoriale sul minore A.A., nei confronti di C.C. e D.D. e di A.A. Spa,
rispettivamente i primi proprietari dell’autovettura e la seconda come responsabile civile, condannava
quest’ultima al pagamento in favore degli attori della complessiva somma di Euro 375.202,00, oltre
interessi legali e spese di lite.
Avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma, B.B. “nella spiegata qualità” ha proposto ricorso
per cassazione illustrato da undici motivi. Ha resistito con controricorso U.A. Spa, già UFG
Assicurazioni Spa , incorporante A. A. Spa .
La trattazione del ricorso, già fissata per l’adunanza camerale in data 24 settembre 2019, è stata
rinviata a nuovo ruolo in attesa della decisione della Corte Costituzionale, che con sentenza n. 41 del
2021 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quelle disposizioni, contenute nel D.L. n. 69 del
2013 (conv. con modif. nella L. n. 98 del 2013) – le quali conferiscono al giudice ausiliario di appello
lo status di componente dei collegi nelle sezioni delle corti di appello – statuendo che queste ultime
potranno legittimamente continuare ad avvalersi dei giudici ausiliari, fino a quando, entro la data del
31/10/2025, si perverrà ad una riforma complessiva della magistratura onoraria, affermando che fino
a quel momento, infatti, la temporanea tollerabilità costituzionale dell’attuale assetto è volta ad evitare
l’annullamento delle decisioni pronunciate con la partecipazione dei giudici ausiliari, e a non privare
immediatamente le corti di appello dei giudici onorari al fine di ridurre l’arretrato nelle cause civili.
E’ stata poi nuovamente fissata la trattazione del ricorso in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380
bis c.p.c., comma 1.
Il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni.
Parte ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo parte ricorrente denuncia “Violazione degli artt. 196, 194 e 62 c.p.c., con
riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4: sulla illegittimità della declaratoria di nullità della documentazione
sanitaria acquisita dal CTU per il supplemento di perizia”, lamentando che la Corte di appello, in
accoglimento del gravame della compagnia di assicurazioni, erroneamente ha dichiarato irritualmente
acquisiti e valutati dal CTU nonostante l’autorizzazione del giudice di primo grado – la
documentazione proveniente da strutture ospedaliere prodotta dall’esponente dopo il deposito della
CTU, e cioè all’udienza fissata per le osservazioni alla relazione, e confluita nella consulenza
integrativa del CTU in quanto ritenuta indispensabile per quantificare esattamente il danno biologico
sofferto dal A.A..
Lamenta che nella sentenza impugnata la Corte di merito abbia ritenuto la consulenza integrativa
basata su atti tardivamente depositati dalla parte, laddove il giudice di prime cure – ritenendo che il
CTU non avesse risposto esaurientemente ai quesiti posti, con particolare riferimento alla mancata
valutazione della pregressa frattura cervicale (attestata dal referto medico del 2007 già in possesso
del CTU) – aveva disposto un supplemento di perizia volto a stabilire l’effettiva entità dei postumi
invalidanti subiti dal danneggiato a seguito dell’evento dannoso. In particolare, contesta il punto
motivazionale ove la Corte ha ritenuto l’appello fondato, in quanto “errata sotto il profilo processuale
appare l’ammissione della produzione documentale fornita dall’attore oltre i termini processuali e
dopo il deposito della relazione peritale”, erroneamente affermando che alla “espressione contenuta
nel mandato peritale di “…verifica dei documenti sanitari in atti o eventualmente esistenti presso
strutture pubbliche o private…” non può attribuirsi il significato di conferimento di un potere
investigativo demandato al CTU che, pertanto, non poteva ritenersi onerato della ricerca della
documentazione sanitaria inerente l’evento dannoso subito dal danneggiato” (pag. 4 sentenza
impugnata).
2. Con il secondo motivo, denunziando “Violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 104 Cost.,
comma 1, e art. 101 Cost., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4: sulla
contraddittorietà/incomprensibilità nella motivazione con riferimento agli accertamenti della CTU
del 24.4.09 (doc 3 del fascicolo riepilogativo F) in merito al riconoscimento eziologico tra frattura
cervicale e sinistro del 2.12.2001” contesta, in particolare, l’apparenza della motivazione in quanto la
Corte di appello nella sentenza impugnata, dopo aver ritenuto “erronea” la “valutazione della
rilevanza della documentazione prodotta a posteriori dal danneggiato”, ha ritenuto che detta erronea
valutazione “si è traslata nel supplemento disposto per la sua valutazione anche in termini di postumi
invalidanti”. Nello specifico, si duole che, dopo aver sottolineato l’impossibilità per il CTU di
affermare con certezza l’esistenza del nesso di causalità, abbia poi, con “claudicante motivazione (…)
ridotto la percentuale di invalidità riconosciuta in primo grado di entità pari al 40%, al 32%”; si duole
che tale motivazione sia illogica e contraddittoria, al punto da implicare una obiettiva non
comprensibilità della stessa laddove la Corte di appello esclude la riconoscibilità del danno biologico
in questione, sebbene asseritamente riconosciuto dal CTU e, contestualmente, censura questi per aver
sommato algebricamente la appurata frattura cervicale come danno permanente quantificato nella
percentuale dell’8 agli altri postumi invalidanti accertati nella percentuale del 32.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la “Violazione dell’art. 115 c.p.c. commi 1 e 2, art. 116
c.p.c. comma 1, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4: illegittimità della sentenza impugnata per
essersi avvalsa ai fini del convincimento sull’assenza di nesso eziologico tra frattura cervicale e
sinistro del 2.12.2001 di una informazione probatoria tratta dalla CTU suppletiva del 24.4.09 (doc 3
del fascicolo riepilogativo F) utilizzata in modo distorto per fondare la propria decisione e
palesemente contraddetta dalle stesso ridetto elaborato”; si duole che la Corte di appello abbia
“veicolato il contenuto della CTU suppletiva del 20.04.2009 in maniera distorta all’interno della
motivazione della propria sentenza”, utilizzandone il contenuto per fondare una decisione diversa e
inconciliabile con quella contenuta nel predetto elaborato che, invece, ove trascritto in modo
conforme alla realtà contenutistica, avrebbe comportato la conferma della sentenza di primo grado
con il riconoscimento in favore del A.A. del danno biologico dell’8 per postumo permanente
rappresentato dalla frattura cervicale (Soma C5), così violando le regole della logica e della comune
esperienza che costituiscono le basi per il ragionamento valutativo delle prove ex artt. 115 c.p.c.
4. Con il quarto motivo contesta “erronea applicazione delle Tabelle di Milano in vigore nel 2010.
Conseguente violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2056 e 2059 c.c., in relazione all’art.
360 c.p.c., n. 3, ed all’orientamento di codesta Suprema Corte espresso ex multis con sentenza n.
4447/2014”, lamentando che la Corte di merito nella sentenza impugnata, invece delle Tabelle vigenti
all’epoca della statuizione (ottobre 2017), abbia applicato quelle obsolete risalenti all’anno 2010,
laddove la scelta sulle Tabelle vigenti sarebbe dovuta avvenire d’ufficio.
5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la “Violazione degli artt. 112 e 324 c.p.c., ai
sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4: illegittimità della sentenza impugnata per mancato riconoscimento del
danno morale, malgrado il cui an debeatur fosse passato in giudicato”; si duole che nella sentenza
impugnata non sia chiaro se il danno morale sia stato (seppur erroneamente) considerato quale
componente del danno biologico.
6. Con il sesto motivo di impugnazione proposto “con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 3”,
lamenta “la violazione degli artt. 2 e 3 Cost., anche in relazione all’art. 1 della Carta di Nizza,
contenuta nel Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con L. 2 agosto 2008, n. 190, nonchè violazione
dell’art. 2059 c.c., per mancato riconoscimento dell’autonoma rilevanza e risarcibilità del danno
morale rispetto al danno biologico in violazione dei dicta resi sulla specifica questione anche da
Codesta Suprema Corte da ultimo con sentenza n. 901 del 2018”; parte ricorrente osserva che non è
dato sapere come sia stato valutato e liquidato il danno relazionale, nella specie particolarmente grave,
le lesioni riportate in realtà avendogli provocato una invalidità pari al 100%, con l’interdizione e
ricoveri coatti in Centri di Salute mentale e TSO. Si duole non essersi considerata la sofferenza
interiore provata per non poter essere più come gli altri suoi coetanei e per aver dovuto interrompere
l’attività scolastica e sportiva e per non aver potuto estrinsecare i suoi talenti.
7. Con il settimo motivo denuncia la “Violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 104 Cost., comma
1, e art. 101 Cost. nonchè dell’art. 132, comma 2, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, e violazione
dell’art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1, con riferimento al n. 4 dell’art. 360 c.p.c.: carenza di
motivazione circa i criteri applicati per la quantificazione del danno morale”, ribadendo che nella
sentenza impugnata non sia chiaro se il danno morale sia stato effettivamente risarcito, in che misura
e con quali criteri.
8. Con l’ottavo motivo denuncia la “Violazione dell’art. 112 con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4, e
violazione degli artt. 24 e 111 Cost., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3: omessa pronuncia sul
danno da perdita della capacità lavorativa” in quanto la Corte di appello – non soffermandosi sul
contenuto sostanziale della domanda ma sul mero nomen iuris utilizzato dalla difesa del A.A. – ha
ritenuto che nella fattispecie concreta non potesse essere accolta la domanda di risarcimento del danno
patrimoniale da ridotta capacità lavorativa specifica, non avendo il A.A. dato prova di godere di una
fonte di reddito lavorativo nè di aver la probabilità di svolgere nel futuro una determinata attività.
9. Con il nono motivo di impugnazione proposto “con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3”, la menta
“la violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 – 2043 – 2054 – 2056 – 2059 – 2729 c.c., come
sancito da codesta Corte, in ultimo con ordinanza n. 11750/18: illegittimità della sentenza impugnata
per mancato riconoscimento della perdita della capacità lavorativa generica in favore di un minore
gravemente invalidato in forza di macro permanenti per mancata prova circostanziata del lavoro che
con ogni probabilità avrebbe svolto da adulto”.
10. Con il decimo motivo proposto “con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3”, lamenta “la violazione
degli artt. 1226 – 2043 – 2054 – 2056 – 2059 c.c., come sancito da codesta Corte con sentenza n.
15674/11: illegittimità della sentenza per mancato riconoscimento della perdita della capacità di
lavoro specifica”. Si duole non essergli stato riconosciuto il danno da incapacità lavorativa generica
e da perdita di chance, per aver in citazione fatto riferimento alla incapacità lavorativa specifica in
termini solo formalmente erronei, avendo fatto sostanzialmente riferimento all’impossibilità di
svolgere qualsiasi lavoro, atteso che all’epoca del sinistro studiava e tali studi era stato costretto poi
ad abbandonare.
11. I motivi, che per ragioni di reciproca connessione possono essere congiuntamente scrutinati, sono
fondati e meritano accoglimento nei limiti e secondo le seguenti considerazioni.
Con gli stessi viene dall’odierna ricorrente censurata la decisione impugnata sotto tre principali
distinti profili, che possono essere così riassunti:
a) illegittimità della declaratoria di nullità della documentazione sanitaria acquisita dal CTU per il
supplemento peritale e contraddittorietà e incomprensibilità della motivazione con riferimento agli
accertamenti della CTU del 24.4.09 (doc 3 del fascicolo riepilogativo F) in merito al riconoscimento
eziologico tra frattura cervicale refertata nel 2007 e sinistro occorso nel 2001;
b) mancato riconoscimento del danno morale;
c) mancato riconoscimento della capacità lavorativa generica e specifica.
11.1. Quanto al primo profilo, il Collegio osserva che erroneamente la Corte di appello romana, in
accoglimento del gravame della compagnia di assicurazioni, ha dichiarato irritualmente acquisito e
valutato dal CTU un referto medico del 2007, attestante la pregressa frattura cervicale del Soma C5
diagnosticata al danneggiato odierno ricorrente, benchè il Consulente fosse stato autorizzato dal
Tribunale all’acquisizione della documentazione presso strutture pubbliche e private riguardanti il
danneggiato, e nonostante che proprio quel referto, in particolare, fosse stato ritenuto indispensabile
dal giudice di primo grado per la integrale e unitaria valutazione e quantificazione (con un
supplemento peritale) del danno biologico sofferto dal danneggiato.
Atteso che il CTU, già in possesso del referto de quo, attestante la pregressa frattura cervicale, aveva
ritenuto di non valutarlo nel primo elaborato, dato il tempo trascorso dal sinistro (2001-2007), il
Tribunale dispose un supplemento peritale proprio al fine di valutarlo, al fine di procedere ad un
accertamento integrale del danno.
Giova richiamare in proposito il principio espresso, di recente, da questa Corte, nel suo più alto
consesso, secondo cui in materia di consulenza tecnica d’ufficio, il consulente nominato dal giudice,
nei limiti delle Indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può acquisire,
anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti – non applicandosi alle attività del
consulente le preclusioni istruttorie vigenti a loro carico -, tutti i documenti necessari al fine di
rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non siano diretti a provare i fatti principali dedotti
a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e salvo, quanto a queste
ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio (Cass. Sez.
U, 01/02/2022 n. 3086; vedi, altresì, Cass. Sez. 2, 30/07/2021 n. 21926).
Questa Corte, inoltre, ha più volte affermato che la consulenza tecnica di ufficio, non essendo
qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, perchè volta ad aiutare il giudice nella
valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze,
è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito.
Questi può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti
(consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal
caso è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che
il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (Cass. Sez. 3, 08/02
/2019 n. 3717; in senso conforme. Cass. Sez. 3, 13/03/2009 n. 6155).
Tanto richiamato, la motivazione della sentenza impugnata, nel punto ove ha ritenuto “errata sotto il
profilo processuale” (…) “l’ammissione della produzione documentale fornita dall’attore oltre i termini
processuali e dopo il deposito della relazione peritale”, affermando che “non può attribuirsi il
significato di conferimento di un potere investigativo demandato al CTU che, pertanto, non poteva
ritenersi onerato della ricerca della documentazione sanitaria inerente l’evento dannoso subito dal
danneggiato”, non si è posta in linea con quanto da questa Corte affermato nell’enunziare i suindicati
principi.
Sotto altro aspetto, in merito al riconoscimento del nesso eziologico fra frattura cervicale, refertata
nel 2007, e sinistro del 2001, in ordine alla quale la Corte di appello romana ha ravvisato “l’erronea
valutazione della rilevanza della documentazione medica prodotta a posteriori dal danneggiato si è
traslata nel supplemento di perizia disposto per la sua valutazione anche in termini di postumi
invalidanti”, va evidenziato che la stessa Corte non ha tenuto conto del criterio funzionale probatorio
“del più probabile che non” di cui si era avvalso correttamente il giudice di prime cure per delimitare
il perimetro di accertamento del danno-evento in un caso, come quello di specie, di concorrenza di
più cause possibili ed alternative del danno (si cfr. in proposito, Cass. Sez. 3 06/07/2021 n. 19033,
avente ad oggetto un caso di demenza post-traumatica riconducibile a più cause possibili ed
alternative, fra le quali, poteva annoverarsi il trauma cranico provocato dal sinistro).
La sentenza impugnata, infine, ha criticato la quantificazione operata dal CTU che “contrariamente
ai criteri elaborati dalle principali scuole in materia di valutazione e quantificazione dei postumi
invalidanti, erroneamente procedeva a somma algebricamente alla invalidità accertata per il
32% giungendo ad un giudizio conclusivo di un complesso invalidante pari al 40%” (pag.5 della
sentenza impugnata).
In proposito, la decisione gravata non ha tenuto conto dei criteri di liquidazione del danno in tema di
lesione della salute, da effettuarsi con il c.d. “sistema a punto variabile”, fondato sulla misurazione
delle conseguenze invalidanti in punti percentuali in base a “barèmes” medico legali che, se non
imposti dalla legge, costituiscono criteri di giudizio discrezionali la cui scelta spetta esclusivamente
al giudice nel rispetto della regola di liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c., al fine di garantire non
solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio
a fronte di casi analoghi (v. da ultimo, Cass. Sez. 3 05/05/2021 n. 11724). Criteri che, nella specie,
sono stati correttamente valutati dal giudice di prime cure sulla base degli accertamenti peritali
disposti.
Pertanto, la motivazione della sentenza impugnata merita di essere cassata in relazione all’intero
profilo qui considerato perchè obiettivamente incomprensibile e effettivamente viziata dalla nullità
processuale dedotta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 196 c.p.c.
11.2. Sotto il secondo profilo, riguardante la mancata liquidazione del danno morale, va condivisa la
censura proposta dalla parte ricorrente in relazione alla dedotta violazione degli artt. 1226, 2056 e
2059 c.c.
La Corte, in proposito, dapprima ha ritenuto che il danno da sofferenza morale si esaurisca nella
componente tabellare; poi ha affermato la necessità della personalizzazione; infine ha ritenuto
sufficiente quello che è stato liquidato a titolo di danno biologico (cfr. sentenza impugnata pag. 6).
Anche sotto tale profilo la motivazione non appare conforme ai principi in tema di danno non
patrimoniale da lesione della salute affermati da questa Corte, come ripetutamente affermato, il danno
morale consiste in uno stato d’animo di sofferenza interiore del tutto prescindente dalle vicende
dinamico relazionali della vita del danneggiato (che pure può influenzare) ed è insuscettibile di
accertamento medico-legale, sicchè, ove dedotto e provato, deve formare oggetto di separata
valutazione ed autonoma liquidazione rispetto al danno biologico. (cfr. Cass. Sez. 3, 21/03/2022, n.
9006, che, in applicazione del suddetto principio, ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, nel
liquidare il danno non patrimoniale subito dalla vittima di un incidente stradale sulla base delle
Tabelle di Milano del 2018, aveva negato il riconoscimento del danno morale quale autonoma voce
di pregiudizio, ritenendo che la considerazione della sofferenza interiore patita dal danneggiato
potesse incidere unicamente sulla personalizzazione del risarcimento del danno biologico; cfr. altresì,
in senso conforme, Cass. Sez. 6 – 3, 19/02/2019, n. 4878; Cass. Sez. 3, 27/03/2018 n. 7513;).
Va al riguardo ribadito che il positivo riconoscimento e la concreta liquidazione, in forma monetaria,
dei pregiudizi sofferti dalla persona a titolo di danno morale mantengono integralmente la propria
autonomia rispetto ad ogni altra voce del c.d. danno non patrimoniale, non essendone in alcun modo
giustificabile l’incorporazione nel c.d. danno biologico, trattandosi (con riguardo al danno morale) di
sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, meritevole di un compenso aggiuntivo al di
là della personalizzazione prevista per la compromissione degli aspetti puramente dinamico-
relazionali della vita individuale (in tal senso, Cass. Sez. 3, 11/11/2019, n. 28989).
In relazione a quest’ultima forma di personalizzazione (relativa al c.d. danno biologico), va
sottolineato come la stessa abbia trovato una sua specifica disciplina normativa nell’art. 138, comma
3, nuovo testo cod. ass., secondo cui “qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante
su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati,
l’ammontare del risarcimento del danno, calcolato secondo quanto previsto dalla tabella unica
nazionale LI può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni
soggettive del danneggiato, fino al 30%”.
Il comma 2, lett. a), della citata disposizione definisce il danno biologico come “la lesione temporanea
o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale, che
esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita
del danneggiato”, raccordandosi con la successiva lettera e) del medesimo comma 2 secondo cui “al
fine di considerare la componente morale da lesione dell’integrità fisica, la quota corrispondente al
danno biologico (…) è incrementata in via progressiva e per punto, individuando la percentuale di
aumento di tali valori per la personalizzazione complessiva della liquidazione”.
Ha trovato, pertanto, definitiva conferma, sul piano normativo, il principio già in precedenza
affermato da questa Corte dell’autonomia del danno morale rispetto al danno biologico, atteso che il
sintagma “danno morale” allude a una realtà che (diversamente dal danno biologico) rimane in sè
insuscettibile di alcun accertamento medico-legale, e si sostanzia nella rappresentazione di uno stato
d’animo di sofferenza interiore del tutto autonomo e indipendente (pur potendole influenzare) dalle
vicende dinamico-relazionali della vita del danneggiato (v. Cass. Sez.3, 10/11/2020 n. 25164).
Ne consegue che, nel procedere alla liquidazione del complessivo danno non patrimoniale, il giudice
di merito deve:
1) accertare l’esistenza, nel singolo caso, di un eventuale concorso del danno dinamico-relazionale
(c.d. danno biologico) e del danno morale;
2) in caso di positivo accertamento dell’esistenza (anche) di quest’ultimo, determinare il quantum
risarcitorio applicando integralmente le tabelle di Milano, che prevedono la liquidazione di entrambe
le voci di danno, ma pervengono (non correttamente, per quanto si dirà nel successivo punto 3)
all’indicazione di un valore monetario complessivo (costituito dalla somma aritmetica di entrambe le
voci di danno);
3) in caso di negativo accertamento, e di conseguente esclusione della componente morale del danno
(accertamento da condurre caso per caso), considerare la sola voce del danno biologico, depurata
dall’aumento tabellarmente previsto per il danno morale secondo le percentuali ivi indicate,
liquidando, conseguentemente il solo danno dinamico-relazionale (biologico);
4) in caso di positivo accertamento dei presupposti per la c.d. personalizzazione del danno (biologico),
procedere all’aumento fino al 30% del valore del solo danno biologico, depurato, analogamente a
quanto indicato al precedente punto 3, dalla componente morale del danno automaticamente (ma
erroneamente) inserita in tabella, giusta il disposto normativo di cui al già ricordato art. 138, comma
3, del novellato codice delle assicurazioni (Cass. Sez. 3, 17/05/2022 n. 15733).
11.3. Sono fondate anche le censure proposte dai ricorrenti in merito al terzo profilo della omessa
pronuncia sul danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa.
Emerge ex actis evidente che, come dagli odierni ricorrenti sostenuto, nonostante l’erroneo
riferimento formale alla perdita della capacità di lavoro specifica del medesimo (che, all’epoca del
sinistro, era quindicenne e frequentava un istituto tecnico per diventare meccanico riparatore di
vetture da turismo) è stato dai medesimi sostanzialmente lamentato il subito danno da impossibilità
di espletare qualsivoglia tipo di lavoro, e pertanto da perdita della capacità lavorativa generica e di
chance (cfr. Cass. Sez. 3, 12/06/2015, n. 12211; Cass. Sez. 3, 14/07/2015, n. 14645; Cass. Sez. 1,
31/07/2015, n. 16222; Cass. Sez. 3, 15/02/2018, n. 3691).
In proposito, come ripetutamente affermato da questa Corte, il danno da perdita o riduzione della
capacità lavorativa di un soggetto adulto che al momento dell’infortunio non svolgeva alcun lavoro
remunerato va liquidato con equo apprezzamento delle circostanze del caso ai sensi dell’art. 2056
c.c. (cfr. Cass. Sez. 3, 26/05/2020 n. 9682).
Se poi, come nella specie, il danno è patito da persona che al momento del fatto non era in età da
lavoro, la liquidazione deve avvenire sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima
tra il momento in cui ha raggiunto l’età lavorativa e quello della liquidazione e capitalizzando i redditi
futuri in base al coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al tempo della
liquidazione (Cass. Sez. 3, 12/04/2018 n. 9048).
Si è pure affermato che il danno da riduzione della capacità di guadagno subito da un minore in età
scolare, in conseguenza della lesione dell’integrità psico-fisica, può essere valutato attraverso il
ricorso alla prova presuntiva allorchè possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro il
danneggiato percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza
dell’evento lesivo, tenendo conto delle condizioni economico-sociali del danneggiato e della sua
famiglia e di ogni altra circostanza del caso concreto. Ne consegue che, ove l’elevata percentuale di
invalidità permanente renda altamente probabile, se non certa, la menomazione della capacità di
svolgere qualsiasi attività lavorativa il giudice può accertare in via presuntiva la perdita patrimoniale
occorsa alla vittima e procedere alla sua valutazione in via equitativa, pur in assenza di concreti
riscontri dai quali desumere i suddetti elementi (Cass. Sez. 3, 15/05/2018 n. 11750).
Orbene, emerge ex actis che al momento del fatto l’odierno ricorrente, quindicenne, fosse privo di
reddito, che frequentasse un istituto tecnico per diventare meccanico riparatore di vetture da turismo
e che, a seguito dei postumi invalidanti derivanti dall’incidente de quo, dovette interrompere il
percorso di istruzione tecnica intrapreso. Che, ancora, a causa dei gravissimi postumi permanenti è
stato ricoverato ripetutamente in Centri di Salute mentale e sottoposto a trattamento sanitario
obbligatorio tanto da essere, dapprima, sottoposto all’amministrazione di sostegno e poi, dopo il
giudizio di appello, interdetto.
12. Dall’accoglimento, nei suindicati termini e limiti, dei motivi di ricorso dal primo al decimo,
discende l’assorbimento dell’undicesimo con cui denuncia la “Violazione dell’art. 92 c.p.c., con
riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4, e violazione del D.L. n. 223 del 2006. Art. 2 e dell’art. 4 D.M. n.
55 del 2004, e delle relative tabelle professionali con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, come sancito
da Codesta Corte in ultimo con ordinanza n. 29594 dell’11.12.17”. Ne consegue la cassazione della
impugnata sentenza in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di appello di Roma, in diversa
composizione.
In sede di rinvio, la Corte territoriale dovrà rinnovare la statuizione sulla domanda di condanna al
risarcimento del danno morale e su quella al risarcimento per la perdita della capacità lavorativa e di
chance formulate dalla parte ricorrente nei confronti della parte resistente; infine, sulle spese del
giudizio di legittimità (art. 385 c.p.c., comma 3).
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata in relazione
e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche in ordine alle spese del
giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 6 giugno 2022.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2022

Rilascio C.I.E. del minore valida per l’espatrio: è irrilevante la specificazione della caratterizzazione di genere di ciascun genitore

Trib. di Roma, Sez. XVIII, Ord., 9 settembre 2022
(Sezione specializzata in materia di diritti della persona e immigrazione)
ORDINANZA
Il giudice
nel procedimento civile di primo grado in epigrafe, introdotto da:
M.E.,
M. S.,
in proprio e nella qualità di genitori esercenti la responsabilità genitoriale sulla minore
M. M.G.,
rapp. e dif. dall’avv. M. V. e dall’avv. T. F.,
nei confronti di:
MINISTERO INTERNO,
rapp. e dif. dall’avv. AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO,
ROMA CAPITALE
rapp. e dif. dall’avv. P. L.P. dell’Avvocatura capitolina,
sciogliendo la riserva, osserva quanto segue.
Si premette che, in ragione del carattere personalissimo delle situazioni e dei diritti degli
interessati, ed in aderenza all’espressa richiesta formulata nell’atto introduttivo ai sensi dell’art. 52
D.LGS. n° 196/2003, si omettono nel corpo del provvedimento i nomi delle parti ricorrenti, che
andranno oscurati, unitamente ad ogni altro dato identificativo, nell’intestazione e nel dispositivo in
caso di diffusione dell’ordinanza.
Va ancora premesso, sul piano processuale, che – come già correttamente osservato dal precedente
giudice assegnatario presso altra Sezione del Tribunale – la controversia non riguarda la
rettificazione di atti dello stato civile e non si qualifica ai sensi dell’art. 95 D.P.R. n° 396/2000;
onde la non necessità della pur disposta ed eseguita comunicazione al Pubblico Ministero (che non
ha, del resto, inviato osservazioni) e la corretta trasformazione del rito in sommario di cognizione
(nell’accordo delle parti), ritenuto il più adatto alla trattazione del procedimento, in quanto
meramente documentale e involgente soltanto questioni di diritto.
La MINORE G. Y.X. è figlia della SIG.RA S. Y., SECONDA RICORRENTE, sua madre naturale,
e della SIG.RA E. X., PRIMA RICORRENTE, che l’ha adottata, in forza della sentenza n° 47/19 in
data 08/02/2019, passata in giudicato, ai sensi dell’art. 44, c. 1, lett. d), L. n° 184/1981.
In data 28/05/2019, la PRIMA RICORRENTE e la SECONDA RICORRENTE hanno
congiuntamente richiesto agli uffici di ROMA CAPITALE l’emissione di una carta d’identità
elettronica (C.I.E.), valida per l’espatrio, a nome della figlia minore G. Y.X., con l’indicazione dei
proprî nominativi con la qualifica di «madre» e «madre» o, in alternativa, con la dicitura “neutra” di
«genitore» per entrambe.
Con comunicazione in pari data, i suddetti uffici di ROMA CAPITALE hanno evidenziato
l’impossibilità di accogliere la richiesta in ragione delle specifiche tecniche del programma
informatico di emissione della C.I.E. che, in conformità a quanto disposto dal decreto del Ministro
dell’interno del 31/01/2019, prevede esclusivamente la dicitura «padre» e «madre» per la
compilazione dei campi contenenti i nominativi dei genitori.
Le tre ricorrenti hanno impugnato dinanzi al T.A.R. del Lazio il citato decreto ministeriale
sollevando plurimi motivi di illegittimità. Il giudice amministrativo adito ha tuttavia declinato la
propria giurisdizione sul presupposto che il ricorso avesse ad oggetto la tutela di diritti soggettivi
perfetti, azionabili dinanzi al giudice ordinario, e che quest’ultimo disponesse di idonei strumenti
processuali per emettere una decisione utile a detta tutela, in particolare mediante la disapplicazione
dell’atto amministrativo illegittimo.
Le ricorrenti hanno quindi riassunto nei termini il processo, riproducendo e confermando
argomentazioni e censure già sollevate dinanzi al primo giudice e adattando le domande alle
peculiarità del giudizio civile.
Si sono costituite nel giudizio riassunto entrambe le amministrazioni resistenti.
La difesa di ROMA CAPITALE ha preliminarmente sollevato un’eccezione di difetto di
legittimazione passiva e denunciato un vizio di instaurazione del contraddittorio. Rileva che il
Sindaco agisce, in materia di atti dello stato civile, in qualità di ufficiale di Governo, mentre l’atto
introduttivo pare evocarlo in giudizio nella diversa qualità di capo dell’amministrazione di ROMA
CAPITALE, ed osserva che, qualora fosse stata intenzione delle ricorrenti agire nei suoi confronti
nella sua corretta qualificazione, il ricorso avrebbe dovuto essere notificato presso l’Avvocatura
generale dello Stato. Deduce ancora la difesa capitolina che, comunque, il Sindaco, pur nella sua
qualità di ufficiale di Governo, non dispone di alcun margine di discrezionalità che gli consenta di
disattendere le istruzioni contenute nel già ricordato decreto del Ministro dell’interno (titolare della
funzione di responsabile dei registri dello stato civile e dei poteri ad essa conseguenti, tra cui
l’emissione della C.I.E.) e non potrebbe, d’altro canto, neppure sul piano pratico, discostarsene, dal
momento che il software dedicato all’emissione delle carte d’identità è fornito dallo stesso
Ministero e non consente tecnicamente alcuna modifica delle qualifiche assegnate ai genitori,
quanto meno ad opera degli addetti degli uffici anagrafici. Eccepisce, infine, che la comunicazione
di rifiuto di emissione della C.I.E. con le diciture richieste dalle ricorrenti non assurge ad atto
amministrativo di rigetto della domanda, ma costituisce semplicemente una comunicazione
esplicativa delle ragioni – anche tecniche – dell’impossibilità di accoglierla.
L’Avvocatura generale dello Stato, costituitasi per il Ministero, contesta la sussistenza delle plurime
violazioni di legge e di diritti fondamentali della persona denunciate dalle ricorrenti (e riferite tanto
alle genitrici quanto alla minore) e, facendo leva su un nutrito corredo normativo riguardante la
filiazione, sostiene l’irrilevanza, ai fini che interessano, di molteplici disposizioni invocate dalle
ricorrenti e la piena conformità del decreto ministeriale alle previsioni di legge ed ai principî, anche
fondamentali e di ordine pubblico, che informano la Repubblica ed il suo ordinamento.
Per quanto riguarda l’eccezione (invero, le due eccezioni) riguardante il difetto di legittimazione
passiva di ROMA CAPITALE e la non corretta instaurazione del contraddittorio nei
confronti del Sindaco quale ufficiale di Governo, occorre dare atto che la difesa ricorrente, a verbale
dell’udienza tenutasi il 20/12/2021, ha concordato sul fatto che, in subjecta materia, il Sindaco
agisce in funzione di ufficiale di Governo; ha altresì giustificato la chiamata in causa di ROMA
CAPITALE sul rilievo che questo Tribunale (ed analogamente anche altri) avrebbe spesso ordinato
la notifica anche ad essa in quanto soggetto legittimato ad interloquire sull’istruttoria
amministrativa. Inoltre, nelle note autorizzate depositate in data 11/02/2022, ha sottolineato che
ROMA CAPITALE ha comunque svolto difese anche nel merito del ricorso, in particolare per
sostenere il carattere vincolato del rifiuto di emissione della C.I.E. con le diciture richieste dalle
ricorrenti.
Premesso che è indubitabile – ed ormai anche pacifico tra le parti – che il Sindaco agisce,
nell’esercizio delle funzioni delegate di ufficiale dello stato civile, come ufficiale di Governo,
delegato alla tenuta dei registri dello stato civile, osserva il Tribunale che, in tale qualità, esso
avrebbe dovuto semmai essere chiamato in giudizio personalmente, nella specifica qualità e
funzione che nella specie incarna (sebbene in realtà non fosse affatto necessario chiamarlo in causa,
poiché la responsabilità dello stato civile e la paternità del decreto ministeriale qui contestato
appartengono al Ministro dell’interno, del quale il Sindaco è mero delegato); mentre il (diverso)
soggetto evocato in giudizio è ROMA CAPITALE in persona del Sindaco, cioè una distinta
amministrazione – l’ente locale – di cui, in altra veste, il Sindaco è a capo ed è legale
rappresentante, la quale non esercita, come tale (cioè come ente territoriale), alcuna competenza in
materia di stato civile e di rilascio di documenti di identità. Pertanto, non si può non nutrire
perplessità in ordine a precedenti decisioni che avrebbero affermato la legittimazione di ROMA
CAPITALE in quanto competente ad interloquire nell’istruttoria amministrativa; nella fattispecie,
non viene del resto in considerazione alcun aspetto riguardante l’istruttoria, ma soltanto la dedotta
impossibilità (anche pratica) di emettere un documento conforme ai desiderata delle ricorrenti, in
ragione di una disposizione ministeriale e di uno strumento tecnico informatico predisposto e
fornito dal medesimo Ministero che né il Sindaco, né tanto meno i singoli operatori addetti, sono
autorizzati o anche semplicemente in grado di aggirare.
Deve quindi accogliersi l’eccezione di difetto di legittimazione passiva di ROMA CAPITALE,
restando così assorbita la distinta questione della notificazione dell’atto presso l’indirizzo P.E.C.
della Casa comunale.
Si è detto poc’anzi che all’accoglimento della richiesta delle ricorrenti osterebbe, oltre alle
disposizioni del decreto ministeriale del 31/01/2019 in quanto tali (sul piano giuridico), anche un
problema di natura tecnica afferente alla struttura del programma informatico predisposto per
l’emissione delle carte d’identità elettroniche, siccome elaborato in applicazione del suddetto
decreto.
A questo specifico riguardo – anche nella prospettiva di evitare una lunga e costosa consulenza
tecnica che avrebbe potuto rivelarsi necessaria per risolvere questo aspetto della questione – il
giudice ha chiesto delucidazioni alla difesa erariale, la quale ha fornito risposta con la nota
depositata in data 09/02/2022, allegando una relazione del Ministero dell’interno – Dipartimento
per gli Affari interni e territoriali – Direzione centrale per i Servizi demografici. La relazione
fornisce un esaustivo excursus dell’articolato ed a tratti impervio procedimento che ha condotto
all’emanazione del decreto ministeriale qui contestato, ritracciando le difficoltà manifestatesi nelle
varie fasi del relativo iter, e fa presente che, allo stato attuale, «sono tuttora in corso specifiche
interlocuzioni con l’Ufficio Legislativo del Ministro della Pubblica Amministrazione, volte al
superamento delle suesposte criticità». La relazione ministeriale, le cui conclusioni sono riprese
nella nota dell’Avvocatura, si chiude con l’affermazione che la «modifica dei software e della
configurazione degli impianti di stampa [sarebbe] senz’altro tecnicamente fattibile», ma
«comporterebbe la messa in circolazione di una carta d’identità elettronica non conforme al quadro
normativo vigente, con tutte le possibili conseguenze che potrebbero sorgere in caso di operazioni
di controllo da parte delle Forze dell’ordine».
Alla luce di questa conclusione, si può serenamente affermare, quindi, che l’accoglimento del
ricorso (e di altri analoghi eventualmente proposti) non porrebbe l’amministrazione dell’interno (e,
con essa, il Sindaco di Roma e, più in generale, i Sindaci competenti ad esercitare le funzioni
delegate di ufficiali dello stato civile) di fronte ad insormontabili difficoltà, o addirittura
all’impossibilità tecnica, di attuare la decisione giurisdizionale. L’obiezione che il Ministero
solleva alla (pur tecnicamente possibile) modifica del software, invece, è di natura giuridica, ed
attiene al merito delle censure sollevate dalle ricorrenti e contestate dalla difesa erariale, che ora
occorre passare ad esaminare.
Al fine di fugare ogni equivoco e di ricondurre l’argomentazione entro il perimetro tracciato
dalla questione sollevata nel presente giudizio, è opportuno chiarire sin d’ora che l’impostazione
generale e (per la maggior parte) le singole argomentazioni difensive svolte dalla difesa erariale non
colgono nel segno.
La memoria cita una lunga serie di disposizioni normative (12 articoli del codice civile, l’art.
5 della L. n° 40/2004, l’art. 6, c. 1, L. n° 184/1983, nonché gli artt. 29, 30 e 31 Cost.) che hanno ad
oggetto, in vario modo, il fenomeno della filiazione e le situazioni e vicende che, in tale contesto,
possono verificarsi e che necessitano di una regolamentazione giuridica.
Non desta meraviglia, e non ha alcuna incidenza sull’oggetto del presente litigio, il fatto che
il codice civile faccia riferimento, in più articoli, al «padre» e alla «madre». A parte il fatto che,
all’epoca della sua approvazione, né la società né la scienza potevano suggerire il verificarsi di
situazioni di altro tipo, è del tutto evidente che, ancor oggi, esistono pur sempre famiglie formate da
un padre, una madre e uno o più figli da loro generati (e sembrano essere, per ora, la maggior parte).
Non è dunque sorprendente, né in alcun modo significativo, ai fini che qui interessano, che queste
situazioni siano disciplinate: forse che un dato ordinamento, per il solo fatto di riconoscere altre
morfologie di famiglia (per fare un’ipotesi estrema, ancorché non consentita in Italia, la filiazione
da coppie omosessuali maschili sterili con dono di sperma ed ovuli e per maternità surrogata),
dovrebbe ipso facto rinunciare a disciplinare il caso, non eccezionale, ma anzi ordinario, di una
famiglia formata da una coppia eterosessuale con figli nati all’esito di una procedura, per così dire,
meno tecnologicamente avanzata e più “tradizionale”? E allora, che conclusioni si potrebbe
pretendere di trarre dal mero fatto che esistono leggi che si riferiscono, a fini ben determinati, come
meglio si vedrà, al «padre» e alla «madre»? E come l’esistenza di tali leggi dovrebbe influire sulla
possibilità di garantire determinati diritti a coppie ed a famiglie, già esistenti e riconosciute (il dato
non è trascurabile, come poi si vedrà), altrimenti costituite? E, ancor più specificamente, sul diritto
di ciascuno dei genitori, naturali e giuridici, di un minore nato in una tal famiglia, di essere
identificato/a in termini coerenti con il proprio sesso e genere?
Esaminando più da vicino le disposizioni normative interne citate da parte resistente, si
osserva, innanzitutto che gli articoli del codice civile riguardano, a fini determinati, situazioni ed
evenienze che si presentano nelle famiglie “tradizionali” (ma non, invece, in famiglie altrimenti
composte) e che vanno ovviamente regolamentate indipendentemente dal riconoscimento di altre
morfologie familiari:
– art. 231 (unitamente all’art. 232): stabilisce una presunzione di paternità in caso di coppia
(eterosessuale) sposata; non riguarda (ed evidentemente non potrebbe riguardare) le coppie
omosessuali, ma non contempla neppure le coppie eterosessuali non sposate;
– art. 243 bis: disciplina il disconoscimento di paternità: è evidentemente una disposizione utile
e di possibile applicazione solo per coppie eterosessuali, e solo per il padre, che, certa matre,
è l’unico a poter essere disconosciuto; lo stesso deve dirsi per gli artt. 246 e 247, che
disciplinano aspetti particolari della medesima azione; si consideri, peraltro, che un genitore
adottivo (ancorché “padre” ad ogni effetto) non può, per ovvii motivi, essere disconosciuto,
ma può soltanto promuovere o subire l’azione di revoca nei casi previsti dagli artt. 51 e 52 L.
n° 184/1983 ovvero, in caso di adozione del maggiorenne, dagli artt. 305 e sgg. C.C.: il che
dimostra che la ratio del riferimento al “padre” nell’articolo in commento non risiede nel suo
sesso o genere (che si pretenderebbe essere “obbligatoriamente” maschile), ma
semplicemente nel fatto incontrovertibile che soltanto del padre (maschio), e soltanto nel
contesto di una filiazione “naturale” (nel caso di fecondazione medicalmente assistita
eterologa, il disconoscimento da parte del “padre” è addirittura vietato: art: 9 L. n° 40/2004) è
ipotizzabile e rilevante una discrasia tra la situazione giuridica e quella genetica;
– art. 250: il riconoscimento da parte di un genitore ha senso soltanto in caso di coppia
eterosessuale, poiché consiste nella dichiarazione di aver generato il figlio; trattandosi della
dichiarazione di un fatto, non può avere ad oggetto un fatto biologicamente impossibile, salvo
casi particolari del concepimento e della gestazione (fecondazione medicalmente assistita in
vitro o in utero, uso di gameti propri o altrui, maternità surrogata), in quanto siano consentiti
o comunque disciplinati; ma, in assenza di tali specifiche possibilità alternative di
riproduzione, vi sono altri modi di costituzione del rapporto di filiazione (adozione ex art. 44,
c. 1, lett. d));
– art. 262: la disciplina dell’attribuzione del cognome in caso di riconoscimento si ispira alla
parità tra i genitori ed alla prevalenza cronologica del riconoscimento; solo in caso di
contemporaneità è prevista l’attribuzione automatica del cognome del padre (oggi rimessa in
discussione da una recente, nota sentenza della Corte costituzionale: n° 131/22); si tratta
quindi di rispondere ad un’esigenza specifica di certezza nelle relazioni familiari in casi in
cui, comunque, per le ragioni di cui sopra, vi è per forza di cose una coppia eterosessuale;
– art. 269: prevede la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, necessaria per mettere in
armonia il dato giuridico della filiazione con quello biologico della procreazione, ove i due
aspetti del fenomeno coincidano; valgono considerazioni analoghe a quelle svolte per il
disconoscimento di paternità;
– art. 408: l’indicazione di «padre» e «madre» (unitamente all’elencazione di diversi altri
parenti) serve soltanto ad indicare in modo specifico i diversi soggetti preferiti come
amministratori di sostegno, considerando che, in molti casi, ci saranno un padre e una madre;
ma ciò non esclude che uno dei due membri di una coppia omosessuale venga nominato
amministratore di sostegno e, soprattutto, non impone che, ove ciò si verifichi, tale soggetto
debba essere qualificato con un termine non appropriato al suo genere;
– art. 566: la disposizione regola solo il rapporto successorio dei fratelli figli di una medesima
persona, sia essa il padre o la madre (come il più delle volte avviene), ma non può in alcun
modo essere interpretata nel senso di escludere che, attraverso gli strumenti giuridici
consentiti dall’ordinamento, i fratelli in questione siano giuridicamente figli di due padri o di
due madri, e soprattutto non incide minimamente sulla possibilità e necessità che costoro
vengano identificati con una denominazione appropriata al loro genere; lo stesso può dirsi
dell’art. 568;
– art. 599: elenca le figure parentali tradizionali, ma non implica che non vi possano essere
figure parentali particolari di genere diverso dalla tradizionale coppia uomo-donna, alle quali
la norma si applicherebbe comunque;
– art: 643: disciplina una situazione in cui vi è necessariamente un «padre», per le ragioni dette
in materia di riconoscimento.
Come si vede, nessuna di queste disposizioni codicistiche è sufficiente a fornire una base
giuridica sulla quale possa fondarsi un obbligo di nominare espressamente, in ogni circostanza ed a
qualsiasi fine, un «padre» ed una «madre».
Non diversamente deve ragionarsi in relazione agli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione. Che la
«famiglia», della quale l’art. 29 Cost. riconosce i diritti, sia «fondata sul matrimonio» non significa
affatto che la sua esistenza sia comunque “condizionata” dal matrimonio, né tanto meno che uguali
o analoghi diritti non possano essere riconosciuti, in tutto o in parte, anche a “società naturali”
diversamente “fondate” o conformate. E lo dimostra il fatto che proprio l’art. 30 Cost. (che, tra
parentesi, parla proprio di «genitori», e non già di «padre» e «madre», e che laddove evoca il
concetto di «paternità» lo fa in relazione ad uno scopo ben preciso – la sua ricerca – che per forza
di cose, per le ragioni già dette, si riferisce soltanto al padre biologico, e non anche alla madre o al
genitore adottivo, a qualunque sesso o genere esso appartenga) si premuri di garantire il diritto al
mantenimento, all’istruzione e all’educazione anche ai figli nati fuori dal matrimonio: a riprova del
fatto che il matrimonio non è se non il “fondamento” (ed oggi deve aggiungersi: “ordinario”, o
“prevalente”) della famiglia, non certo una sua precondizione indefettibile. Tanto è poi dimostrato
anche da una pluralità di norme ordinarie che hanno via via riconosciuto, negli ultimi decenni,
“nuovi” diritti che si inquadrano nel perimetro logico-giuridico e sociale del concetto di “famiglia”
a coppie diversamente formate (il riconoscimento delle unioni civili ne è un evidente esempio) o a
persone singole (art. 44, c. 3, L. n° 184/1983).
Quanto all’art. 31 Cost., la protezione della «maternità» ivi garantita risponde ad una esigenza
specifica connessa al ruolo biologico della donna nella procreazione, che si declina nella
gravidanza, nel parto e nell’allattamento. Non v’è modo di inferirne che il genitore adottivo, anche
se donna, debba necessariamente essere qualificato «padre» (o viceversa).
Infine, l’art. 5 L. 40/2004 riguarda l’accesso alla procedura procreativa, ma non incide sulla
conformazione della famiglia già costituita mediante idonei atti giuridici (adozione), né tanto meno
sulle qualificazioni di genere da attribuire ai componenti di tale famiglia; l’art. 6 L. 184/1983, che
limita l’adozione «ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni», è controbilanciato dall’art.
44, comma 1, lettera d), norma applicata, nella specie, dal Tribunale per i minorenni al caso della
piccola G. Y.X.; l’art. 1, c. 20, L. 76/2016 si riferisce all’estensione semantica del termine
«coniugi» ed è tale estensione che viene limitata, escludendo che operi in relazione ad articoli del
codice civile non richiamati o nella legge sul «Diritto del minore ad una famiglia»; per l’adozione,
del resto, è espressamente mantenuta la disciplina della legge vigente.
Ma non mette conto dilungarsi oltre su questa linea argomentativa, perché tutta la materia
della filiazione (ed anche, più in generale, della famiglia e del matrimonio) è estranea all’oggetto
del contendere.
Il punto fermo dal quale occorre prendere le mosse è il fatto che il Tribunale per i minorenni
di Roma, con la citata sentenza n° 47/19, ha già disposto farsi luogo all’adozione, da parte della
SIG.RA E. X., della MINORE G. Y.X., con l’attribuzione a quest’ultima del doppio cognome e
con l’ordine (già debitamente eseguito) di procedere alle corrispondenti annotazioni ad opera
dell’ufficiale dello stato civile.
Esiste quindi, ad oggi, una situazione giuridica e di fatto incontrovertibile – perché coperta
dal giudicato – e risultante dagli atti dello stato civile, consistente nel rapporto di filiazione (naturale
e adottiva) della MINORE G. Y.X. con due genitrici, entrambe di sesso e genere femminile e
costitutiva di una famiglia. Di fronte a tale situazione, non ha alcun rilievo il margine di
discrezionalità riconosciuto agli Stati contraenti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in materia
di regolamentazione, più o meno permissiva o restrittiva, di questa o quella tecnica di procreazione
o di questa o quella forma di riconoscimento del rapporto di filiazione prodotto con tali tecniche,
poiché in questa sede non si discute della possibilità di riconoscere la SIG.RA E. X. come genitrice
della minore, cosa che è stata già fatta dal giudice competente e che costituisce ormai un fatto
acquisito.
Di quel margine di discrezionalità riconosciuto dalla CEDU il Tribunale per i minorenni ha già fatto
applicazione, utilizzando appropriatamente gli strumenti disponibili nel diritto italiano (il passo del
parere consultivo reso dalla Grande Chambre il 10/04/2019, citato anche dalla difesa erariale, lo
conferma, laddove indica, a titolo esemplificativo, l’adozione come strumento adeguato a garantire i
diritti riconosciuti al minore dall’art. 8 della Convenzione del 1950), con effetti che non sono, né
potrebbero essere, rimessi in discussione in questa sede.
Qui si discute, invece, dell’esistenza (o no) di un diritto delle due donne giuridicamente
riconosciute come genitrici della bambina (l’una per esserne anche madre naturale, l’altra per averla
adottata) a vedersi identificate, nella carta d’identità della figlia, in modo conforme alla loro identità
sessuale e di genere, o comunque in termini neutri; e del diritto della minore stessa ad una corretta
rappresentazione della sua situazione familiare, come figlia (naturale e giuridica) di due donne,
quindi di due “madri”, o comunque di due “genitori”.
Sull’esistenza di tali diritti, in capo alle ricorrenti, non può nutrirsi alcun serio dubbio.
Per quanto riguarda le prime due ricorrenti, l’indicazione, nel documento d’identità della
figlia, di una di esse (probabilmente la SIG.RA E. X., che non è la madre biologica e naturale) con
una qualifica («padre»), difforme dalla sua identità sessuale e di genere, costituirebbe senz’altro
un’ingerenza nel suo diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 CEDU,
priva dei connotati di necessità e proporzionalità che potrebbero giustificarla. Quanto al requisito
della necessità, esso è declinato in termini esaustivi dal secondo comma della disposizione; esclusi
la sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza, il benessere economico del paese, la difesa dell’ordine
e la prevenzione dei reati, la protezione della salute e la protezione dei diritti e delle libertà altrui,
che non hanno manifestamente nulla a che vedere con la fattispecie, non resterebbe che invocare la
difesa della morale. Ma (ribadito che qui non si tratta di riconoscere diritti procreativi non previsti
dall’ordinamento) non si vede come il fatto di indicare correttamente, su un documento di
riconoscimento, la qualifica di una persona con un termine corrispondente alla sua identità sessuale
e di genere (o almeno con un termine neutro) possa portare pregiudizio alla morale pubblica.
Escluso il requisito della necessità, diviene superfluo indagare quello della proporzionalità (non
potendo, per definizione, un intervento non “necessario” essere “proporzionato” ad uno scopo che si
riconosce inesistente). In ogni caso, stante lo scopo dell’indicazione dei soggetti che esercitano la
responsabilità genitoriale (già in fase di richiesta della C.I.E., e poi) nella compilazione del
documento (scopo che consiste nella formulazione di una richiesta valida in nome e per conto del
soggetto privo della capacità di agire e nell’individuazione delle persone che possono validamente
acconsentire all’espatrio del minore ed accompagnarlo all’estero o indicare i soggetti autorizzati a
farlo), è del tutto irrilevante la specificazione della caratterizzazione sessuale e di genere del ruolo
ricoperto da ciascuno dei genitori: l’ingerenza non sarebbe, dunque, neppure proporzionata allo
scopo legittimo individuabile nell’indicazione nominativa dei genitori (ma non nella connotazione
di genere espressa dalle parole «padre» e «madre»).
Un’indicazione con un termine che indichi un ruolo sociale e parentale incongruo rispetto
all’identità sessuale e di genere di una delle due genitrici costituirebbe quindi un’ingerenza nel suo
diritto al rispetto della vita privata e familiare vietata dall’art. 8 e, pertanto, una violazione di tale
norma.
La Corte di Strasburgo non ha avuto occasione di pronunciarsi sulla questione specifica;
tuttavia, la sua giurisprudenza si muove certamente in tal senso allorché, fin dal 1992 in modo
implicito (B. c. Francia, ric. n° 13343/87, Sessione plenaria, sent. 25/03/1992), e poi, con maggior
vigore, nel 2002 (Christine Goodwin c. Regno Unito, ric. n° 28957/95, G.C., sent. 11/07/2002) ha
affermato – sia pure in contesti di altra natura – che la sfera personale, protetta dall’art. 8, include i
dettagli della propria identità come individuo («Under Article 8 of the Convention in particular,
where the notion of personal autonomy is an important principle underlying the interpretation of its
guarantees, protection is given to the personal sphere of each individual, including the right to
establish details of their identity as individual human beings»). E tra questi dettagli non può non
ricomprendersi anche l’indicazione del ruolo sociale e familiare, che deve essere compatibile con
l’identità sessuale e di genere della persona (il caso Christine Goodwin aveva, del resto, proprio ad
oggetto il diritto della ricorrente a far coincidere la propria identificazione sessuale formale con la
sua identità sessuale – o “di genere” – sostanziale).
Identica violazione si riscontra anche nei confronti della MINORE G. Y.X., la quale ha un
analogo diritto, ai sensi dell’art. 8 CEDU, a vedere correttamente rappresentata, sul documento di
riconoscimento, la propria condizione di figlia di due madri. L’identità familiare è infatti parte
integrante dell’identità personale dell’individuo, e fa parte dei diversi aspetti nei quali si declina il
diritto al rispetto della vita privata e familiare. Questo principio emerge con chiarezza dal parere
consultivo del 10/04/2019 della Corte di Strasburgo (e dalla precedente giurisprudenza ivi
richiamata) che, pur non imponendo agli Stati contraenti uno specifico strumento per il
riconoscimento giuridico di una filiazione avvenuta con metodologie non ammesse dal diritto
interno, sottolinea la ridotta ampiezza del loro margine di apprezzamento discrezionale ed esige
che, in un modo compatibile con il diritto interno, i legami di filiazione del minore con le figure
genitoriali sia ufficialmente riconosciuto. L’affermazione, resa in un contesto in cui la domanda di
parere pregiudiziale era condizionata dalla fattispecie concreta, non può essere correttamente inteso
se non inserendolo in una prospettiva più ampia, che abbracci anche la corretta identificazione del
ruolo di ciascun genitore, che dev’essere conforme alla sua identità sessuale e di genere: altrimenti,
il riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione, in ipotesi attuato con formulazioni lessicali
difformi dalla realtà dei rapporti familiari e non coerenti con l’identità sessuale e di genere dei due
genitori, finirebbe col produrre il paradossale effetto di pregiudicare, anziché di tutelare, il diritto
all’identità del minore nella specifica forma dell’identità relazionale intra-familiare e
dell’identificazione delle sue radici (e sulla rilevanza delle radici familiari per l’identità personale di
un figlio, anche divenuto maggiorenne, basterebbericordare le sentenze in tema di ricerca delle
origini biologiche dell’adottato: Odièvre c. Francia e Godelli c. Italia).
Con riguardo alla TERZA RICORRENTE, peraltro, il diritto alla corretta rappresentazione delle
sue origini familiari trova conferma anche in altri strumenti internazionali ai quali l’Italia ha aderito,
primo fra tutti la Convenzione di New York del 20/11/1989 sui diritti del fanciullo, ratificata e resa
esecutiva con L. n° 176/1991, il cui art. 8, in particolare, impegna le Alte Parti Contraenti a
«rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità», comprendente «le sue relazioni
famigliari», ed il cui art. 3 prescrive che «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia
delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative
o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione
preminente».
La violazione dei diritti sanciti da fonti internazionali come quelle richiamate – ed in
particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – non è certamente consentita ad un atto
amministrativo, per di più di natura non regolamentare (che non integra la nozione di “legge”, pur
ampia e non “tecnica”, adottata dalla Corte di Strasburgo, e perciò non idoneo ad soddisfare il
requisito della “legalità” ai sensi e per gli effetti del comma 2 dell’art. 8 CEDU), ma non sarebbe
legittima neppure ove fosse realizzata mediante lo strumento della legge o dell’atto avente valore di
legge.
Siffatta violazione, infatti, si porrebbe comunque in contrasto (in assenza di ragionevoli
“contro-limiti” di stringente rilevanza costituzionale che possano giustificarlo) con l’art. 117 Cost.,
per il tramite della norma interposta costituita dall’art. 8 CEDU, e solleverebbe più che giustificati
dubbi di legittimità costituzionale anche alla luce del parametro costituito dall’art. 2 Cost.,
dovendosi ritenere che una rappresentazione distorta della figura di uno dei genitori (sotto il profilo
dell’identità sessuale e di genere e del ruolo sociale e parentale rivestito) costituisca una violazione
della dignità personale garantita da tale disposizione.
Discutendosi, nella fattispecie, del rilascio della C.I.E. valida per l’espatrio, la falsa
rappresentazione del ruolo parentale di una delle due genitrici, in evidente contrasto con la sua
identità sessuale e di genere, comporta poi conseguenze (almeno potenziali) rilevanti sia sul piano
del rispetto dei diritti garantiti dalla Costituzione, sia sul piano della necessaria applicazione del
diritto primario e derivato dell’Unione europea.
Non è molto difficile, invero, rappresentarsi mentalmente le manifeste perplessità di un
pubblico ufficiale che, all’uscita dall’Italia o all’ingresso nel territorio di un altro Paese, si trovasse
di fronte una bimba accompagnata da una gentile signora che, al riscontro dei rispettivi documenti,
risulterebbe essere “suo padre”. Né è difficile ipotizzare che il suddetto pubblico ufficiale, posto di
fronte ad una così patente difformità tra la realtà fattuale presente con incontrovertibile evidenza
davanti ai suoi occhi e le risultanze dei documenti di identità dei due soggetti, si veda costretto a
rifiutare loro l’uscita dal, o l’ingresso nel, territorio.
Ove ciò si verificasse in occasione di un viaggio con destinazione verso un Paese non membro
dell’Unione europea (ma che accetta la carta d’identità come documento valido per l’espatrio), la
situazione si porrebbe in insanabile contrasto con l’art. 16, c. 2, Cost., che garantisce la libertà dei
cittadini di «uscire dal territorio della Repubblica e di rientravi, salvo gli obblighi di legge». Stante
l’efficacia “orizzontale” e l’immediata precettività delle norme costituzionali, non può ritenersi
ammissibile che un atto amministrativo faccia ostacolo alla loro applicazione. Ma, come si è detto
dianzi in relazione alle violazioni di norme internazionali, neppure la legge potrebbe farlo senza
esporsi a gravi dubbi di costituzionalità.
Se, poi, la descritta vicenda si verificasse in occasione di un viaggio all’interno dell’Unione
europea, l’impedimento determinato – almeno potenzialmente – dalla falsa rappresentazione della
realtà manifesta, contenuta nel documento d’identità della minore, si tradurrebbe – come
recentissimamente affermato, in un caso ampiamente sovrapponibile a questo, dalla Corte di
giustizia del Lussemburgo, in causa C-490/20, V.M.A. c. Stolichna obshtina, rayon «Pancharevo»,
G.S., sent. 14/12/2021 – in una violazione dell’art. 21, par. 1, TFUE, che garantisce la libertà dei
cittadini dell’Unione di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri;
libertà che il cittadino dell’Unione minore di età deve poter esercitare accompagnato da «ciascuna
delle sue due madri». Sempre secondo la citata sentenza, «Gli Stati membri sono […] liberi di
prevedere o meno, nel loro diritto nazionale, il matrimonio tra persone dello stesso sesso e la
genitorialità di queste ultime. Tuttavia, nell’esercizio di tale competenza, ciascuno Stato membro
deve rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, le disposizioni del Trattato FUE relative alla
libertà riconosciuta a ogni cittadino dell’Unione di circolare e di soggiornare nel territorio degli
Stati membri, riconoscendo, a tal fine, lo status delle persone stabilito in un altro Stato membro
conformemente al diritto di quest’ultimo». D’altra parte – precisa ancora la Corte – «il rapporto del
minore interessato con ciascuna delle due persone con cui ha una vita familiare effettiva nello Stato
membro ospitante e che sono menzionate come suoi genitori nell’atto di nascita emesso dalle
autorità di tale Stato è protetto dall’articolo 7 della Carta». Infine, richiamando gli artt. 7 e 24 della
Carta dei diritti fondamentali dell’UE e gli artt. 2 e 7 della già ricordata Convenzione di New York,
il giudice europeo sottolinea il divieto di far subire al minore discriminazioni, «comprese quelle
basate sull’orientamento sessuale dei suoi genitori». E discriminazione vi sarebbe, se i minori aventi
una relazione parentale (biologico-naturale e/o giuridica) con genitori dello stesso sesso dovessero
esibire documenti di identità sui quali i genitori risultano indicati in termini manifestamente falsi e
identici a quelli dei minori aventi genitori di sesso opposto.
In quest’ultima ipotesi, dunque, non si porrebbe neppure un problema di legittimità
costituzionale di un’eventuale disposizione di legge che imponesse, direttamente o indirettamente,
l’indicazione di due donne genitrici (o di due uomini genitori) come «padre» e «madre» del minore:
una simile legge dovrebbe, infatti, essere direttamente disapplicata dal giudice ordinario per
contrasto con la normativa eurounionale. È del tutto evidente che analoga sorte deve toccare, ed a
fortiori, ad un semplice atto amministrativo non regolamentare che – peraltro – trascende anche
(come meglio si dirà in séguito) i limiti della competenza attribuitagli dal legislatore primario.
Prima però di passare a quest’ultimo snodo motivazionale, è opportuno segnalare brevemente
che – come del resto già rilevato, con argomentazioni esaustive che non lasciano spazio a dubbi, dal
Garante per la protezione dei dati personali, nel parere del 31/10/2018, che va pienamente condiviso
– l’indicazione della qualifica di «padre» nel campo corrispondente al nome di una delle due donne
costituisce, in maniera addirittura evidente, una violazione dell’art. 5, par. 1, lettere c) (principio di
«minimizzazione») e d) (principio di «esattezza»), del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento
europeo e del Consiglio del 27/04/2016 (R.G.P.D.).
Il principio di minimizzazione consiste – secondo le parole dello stesso legislatore europeo –
nella corrispondenza dei dati a criteri di adeguatezza, di pertinenza e di limitazione da valutarsi alla
luce delle «finalità per la quale sono stati trattati». Poiché l’indicazione dei nomi dei genitori sulla
carta d’identità del minore persegue chiaramente la finalità di rendere noto a chi di dovere (in
occasione di controlli, in particolare ai valichi di frontiera, ma eventualmente anche all’interno del
territorio nazionale o di un Paese estero, appartenente o no all’Unione europea) chi siano le persone
investite della responsabilità genitoriale ed autorizzate, in caso di espatrio, ad accompagnare il
minore, e non certo di rivelare da chi e come il minore sia stato generato (tanto è vero che è
contemplata l’ipotesi dell’indicazione del tutore), o quale sia il sesso o il genere delle persone di cui
sopra, è di immediata evidenza che l’indicazione di ruoli genitoriali prestabiliti e corrispondenti ad
una specifica identità sessuale e di genere è del tutto superflua e non può considerarsi né adeguata,
né pertinente, né tanto meno limitata allo scopo legittimo perseguito. Un profilo, questo, che sembra
invece essere sfuggito all’attenzione del Garante nel successivo parere (del 25/03/2021), laddove
suggerisce di indicare, unitamente alla qualifica neutra di “genitore”, anche quella di “padre” e
“madre”, così reintroducendo una specificazione di sesso e genere del tutto estranea alla finalità
dell’indicazione dei soggetti che esercitano la responsabilità sul minore, e perciò di dubbia
compatibilità con i principî di limitazione delle finalità e di minimizzazione di cui all’art 5 R.G.P.D.
Il principio di esattezza non abbisogna di particolari spiegazioni: è palese per chiunque che,
se le parole hanno un senso, il principio di esattezza è soddisfatto soltanto se il dato è, appunto,
esatto.
E cioè (per aggirare l’inevitabile tautologia terminologica) se esso corrisponde alla realtà. Ora, non
v’è chi non veda che né una donna che ha partorito un figlio, né un’altra donna che l’ha adottato
possono essere qualificate come «padre» di quel figlio e che, se questo tuttavia avviene, il dato è
ovviamente inesatto e viola la disposizione in commento. Disposizione, peraltro, che trova un
rafforzamento nel diritto di rettifica garantito dal successivo art. 16 R.G.P.D.
Ancora una volta, questo profilo di illegittimità del decreto ministeriale del 2019 non dipende
strettamente dalla sua natura di semplice atto amministrativo non regolamentare (di cui tra breve si
dirà): quand’anche, infatti, fosse la legge stessa a disporre l’obbligo di indicare i genitori come
«padre» e «madre», essa andrebbe a sua volta disapplicata, in applicazione della regola della
prevalenza del diritto eurounionale su quello nazionale (ed in difetto di alcun sacrificio di quei
principî supremi dell’ordinamento costituzionale e di quei diritti inalienabili che potrebbero fungere
da “controlimiti”).
Trasferendoci ora sul piano del diritto interno, si deve innanzitutto contestare l’affermazione
della difesa erariale secondo cui l’art. 3 T.U.L.P.S. non avrebbe attinenza con la materia del
presente giudizio («risponde ad una finalità diversa», ma non meglio specificata) e menzionerebbe
«in maniera atecnica la figura del genitore». Invero, l’oggetto dell’intero articolo è proprio il
rilascio delle carte d’identità, le loro tipologie, i dati che possono o debbono riportare, ecc. La sua
asserita estraneità alla materia (e la sua rispondenza ad un’ignota «finalità diversa») appare quindi
priva di riscontro ed è del resto platealmente smentita proprio dal fatto che tale disposizione è la
prima tra quelle espressamente richiamate nelle premesse del decreto ministeriale qui contestato.
Quanto all’affermazione secondo cui l’uso del termine «genitore» sarebbe, in quel contesto
“atecnico”, la sua apoditticità rende alquanto arduo contestarla mettendo in discussione argomenti
inesistenti o comunque non esplicitati, e non lascia altra via se non quella di adottare un analogo
atteggiamento affermando, semplicemente, che essa non è vera; si può solo aggiungere che, quando
si vuol sostenere che il legislatore ha fatto cattivo uso di un termine, o comunque lo ha adoperato in
modo difforme «dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» (primo criterio
d’interpretazione della legge secondo l’art. 12 DISP. PREL. C.C.) è buona norma diffondersi
alquanto per giustificare una tale eccentrica tesi.
La “motivazione” delle modifiche apportate dal decreto ministeriale del 2019 al D.M. del
23/12/2015 (quart’ultimo paragrafo delle premesse), fa leva sulla necessità di «adeguarlo [il decreto
oggetto delle modifiche] alla normativa dello stato civile, in particolare per quanto attiene alla
qualificazione dei soggetti legittimati a presentare agli ufficiali d’anagrafe la richiesta di emissione
del documento elettronico in favore di minori d’età, in un contesto di complessiva coerenza
nell’esercizio delle funzioni governative delegate».
Tralasciando di tentare una perigliosa interpretazione del «contesto di complessiva coerenza
nell’esercizio delle funzioni governative delegate» (concetto di ardua definizione, in difetto di
qualsiasi indicazione sul perimetro dell’invocata «coerenza» e sulle fonti dalle quali esso sarebbe
tracciato), osserva innanzitutto il Tribunale che la normativa dello stato civile è assai più risalente
del decreto del 2015 e da allora non è radicalmente cambiata: non si comprende, quindi, quale
impellente necessità imponesse di modificare, nel 2019, il decreto esistente.
Comunque, le modifiche al decreto del Ministro dell’interno del 2015, introdotte dal D.M. del
2019:
– non sono coerenti con, ma anzi si discostano dal, dettato del già citato art. 3 T.U.L.P.S.;
– non sono utili ad assicurare una coerenza necessaria con l’art. 17 D.P.R. n° 396/2000, il quale si
riferisce al padre ed alla madre, o agli avi paterni o materni, al solo limitato fine di individuare i
possibili uffici territorialmente competenti a ricevere le comunicazioni dell’autorità diplomatica o
consolare; la disposizione non prende in considerazione l’ipotesi che il soggetto possa avere due
madri o due padri, perché ciò sarebbe ininfluente ai fini della sua applicazione (ci sarà comunque
almeno uno dei due soggetti che corrisponde alla qualifica); anche in questo senso, si deve quindi
escludere, ai fini della deroga al disposto dell’art. 8 CEDU, la necessità e proporzionalità
dell’ingerenza e, sotto il profilo della corretta applicazione dei principî regolatori del trattamento
dei dati personali, il rispetto del principio di minimalizzazione dei dati;
– non sono coerenti con, ma anzi si discostano dal, linguaggio adoperato dall’art. 30 D.P.R. n°
396/2000, che parla ripetutamente dei «genitori» o di «uno dei genitori», o di «uno di essi»;
peraltro, la disposizione riguarda la dichiarazione di nascita, cioè un atto che si forma
nell’immediatezza della nascita, fenomeno che presuppone necessariamente l’esistenza di una
«madre» partoriente: in questo particolare contesto, gli sporadici riferimenti alla «madre», limitati
alla risoluzione di particolari situazioni (residenze separate dei genitori, mancanza di accordo fra
di essi), sono giustificati dalla tirannia della realtà e non implicano affatto che, sui documenti
d’identità del nato, debba poi essere specificato (peraltro in modo difforme dal vero) il ruolo
sessualmente determinato di ciascun genitore;
– non sono coerenti con, ma anzi si discostano dal, linguaggio adoperato dall’art. 33 D.P.R. n°
396/2000, che usa il termine «genitore» o «genitori»;
– non hanno alcuna attinenza con il successivo art. 34, c. 1, che riguarda i divieti di attribuzione di
determinati nomi al figlio; il riferimento al nome del «padre vivente», di cui è vietato imporre il
nome al figlio, può bensì rivelare una differenza di trattamento tra padre e madre, e tra figli maschi
(che non possono chiamarsi come il padre, pena l’irriducibile confusione tra due soggetti aventi lo
stesso nome e lo stesso cognome) e figlie femmine (che invece possono chiamarsi come la madre,
perché quella confusione non può verificarsi: ma anche questa ipotesi andrà, de jure condendo,
riesaminata alla luce della sentenza della Corte costituzionale); di certo, tale riferimento non ha
alcun rapporto con la pretesa necessità di indicare, nei documenti di un minore, una donna come
«padre» (o un uomo come «madre») e, ancora una volta, vengono così travalicati i confini della
necessità e proporzionalità (art. 8 CEDU) e della minimizzazione ed esattezza dei dati (art. 5
R.G.P.D.).
Per quanto riguarda l’art. 1, c. 20, L. n° 76/2016, è agevole osservare:
a) che esso si riferisce all’estensione semantica del termine «coniuge» ai partners registrati dello
stesso sesso: non ha quindi alcuna attinenza con le indicazioni da iscrivere sui documenti
d’identità dei minori;
b) che la sua dichiarata inapplicabilità agli articoli del codice civile non espressamente
menzionati non incide in nulla sulla risoluzione della presente controversia, giacché significa
semplicemente che in tali articoli non opera la predetta estensione semantica; e comunque non
vi sono articoli del codice che impongano l’indicazione di «padre» e «madre» sulla carta
d’identità di un minore;
c) che altrettanto deve dirsi per quanto riguarda la legge n° 184/1983: l’inapplicabilità
dell’estensione semantica di cui sopra non incide per nulla sulla possibilità (ribadita dal
periodo successivo della disposizione legislativa) di applicare all’adottante le norme già
vigenti nella materia (come ha fatto il Tribunale dei minorenni di Roma) e di far conseguire a
tale applicazione la creazione di un legame giuridico di filiazione anche con una persona unita
da un legame omosessuale con il genitore “naturale” del figlio; e soprattutto non implica in
alcun modo che il genitore adottante (o anche, eventualmente, quello “naturale”) debba
assumere, nei documenti d’identità del minore, una qualifica palesemente contrastante con la
sua identità sessuale e di genere e con la manifesta realtà dei fatti.
Non è poi superfluo osservare che neppure la sentenza della Corte di cassazione citata dalla
difesa erariale (Cass. n° 12193/19) giova a sostenere le ragioni della parte resistente. Al netto dello
stupore che si può provare nello scoprire che «l’istituto dell’adozione» si annovera tra i «valori
fondamentali», al pari della «dignità umana della gestante», la condivisibile decisione dei giudici di
legittimità, dopo aver escluso che si possa conferire efficacia nell’ordinamento italiano ad un
provvedimento straniero che accerta un rapporto di filiazione originato da un procedimento di
procreazione assistita espressamente vietato, ha poi subito riconosciuto che tale rapporto può però
essere costituito ex novo, con piena validità ed efficacia nel nostro ordinamento, mediante altri
istituti: per l’appunto, mediante l’adozione ex art. 44, c. 1, lettera d), L. n° 184/1983. Onde si trae il
principio che, con l’adozione, si costituisce una relazione genitoriale che non dev’essere
stigmatizzata e mortificata dall’attribuzione, in ipotesi al genitore adottante (ma evidentemente ciò
varrebbe ugualmente per il genitore “naturale”), di un ruolo parentale in contrasto con la sua
identità sessuale e di genere. E, al tempo stesso, che anche la situazione familiare del minore, così
come costituitasi per effetto dell’adozione, non dev’essere stigmatizzata con l’indicazione, sul suo
documento d’identità, di una “genealogia formale” difforme dalla realtà.
Peraltro, per chiudere un ormai troppo lungo discorso su una questione la cui soluzione
dovrebbe risultare di immediata percezione, gioverà ricordare che la carta d’identità è un
documento con valore certificativo, destinato a provare l’identità personale del titolare, che deve
rappresentare in modo esatto quanto risulta dagli atti dello stato civile di cui certifica il contenuto.
Ora, un documento che, sulla base di un atto di nascita dal quale risulta che una minore è figlia di
una determinata donna ed è stata adottata da un’altra donna ex art. 44, c. 1, lett. d), L. n° 184/1983,
indichi una delle due donne come «padre», contiene una rappresentazione alterata, e perciò falsa,
della realtà ed integra gli estremi materiali del reato di falso ideologico commesso dal pubblico
ufficiale in atto pubblico (artt. 479 e 480 C.P.). Si deve quindi dissentire dalla tesi esposta nella nota
del Ministero dell’interno, citata in precedenza, relativa alla possibilità tecnica di modificare il
programma informatico di emissione delle carte e, però, alle connesse difficoltà di ordine giuridico,
in particolare in caso di controlli da parte delle forze dell’ordine. Invero, è proprio l’attuale
conformazione della C.I.E., che, indicando una donna come «padre» della minore, potrebbe
suscitare dubbi e conseguenti difficoltà, non soltanto ai controlli di frontiera, ma persino ad un
normale controllo di polizia in Italia, nel corso del quale l’agente non potrebbe che costatare una
discrepanza evidente tra la realtà sotto i suoi occhi e le risultanze del documento.
Infine, rileva il Tribunale che al decreto del Ministro dell’interno del 31/01/2019, così come
a quello del 23/12/2015 da esso modificato, la legge assegnava la limitata funzione di definire «le
caratteristiche tecniche, le modalità di produzione, di emissione, di rilascio della carta d’identità
elettronica» (art. 7 vicies-ter, c. 2 bis, D.L. n° 7/2005, convertito in legge, con modificazioni, dalla
L.n° 43/2005, come modificato dall’art. 10, c. 3, D.L. n° 78/2015, convertito in legge, con
modificazioni, dalla L. n° 125/2015). In nessun modo l’attribuzione di una tale limitata funzione
poteva legittimare l’imposizione di modalità di elaborazione del software tali da incidere –
mediante l’escamotage di un’istruzione apparentemente tecnica – su aspetti coperti da norme di
grado costituzionale, primario o sub-primario.
Il decreto del Ministro dell’interno del 31/1/2019 – oltre a violare l’innumerevole elenco di
principî e diritti di fonte costituzionale ed internazionale di cui si è sino a qui discusso – è (last but
not least) viziato da un evidente eccesso di potere.
Esso va quindi disapplicato, ed il ricorso dev’essere accolto.
Le ricorrenti, nelle loro conclusioni, propongono l’alternativa tra l’indicazione, in
corrispondenza dei nomi di E. X. e S. Y., della doppia dicitura “madre” e “madre”, ovvero della
dicitura neutra “genitore”.
Opina il Tribunale che questa seconda opzione sia la più idonea a soddisfare il legittimo
interesse delle ricorrenti bilanciandolo con l’esigenza – ben evidenziata nel già citato parere del
31/10/2018 del Garante per la protezione dei dati personali, di cui si è discorso in precedenza – di
rispettare i criteri di minimizzazione e di necessità del trattamento dei dati personali, imposti dal
R.G.P.D., giacché è la funzione genitoriale esercitata nei confronti della minore che deve emergere
dal documento, e che costituisce il fondamento legittimante il trattamento, e non l’indicazione
specifica del ruolo parentale specifico sessualmente caratterizzato.
In conclusione, il Ministro dell’interno – e per esso il Sindaco di Roma Capitale, quale
ufficiale del Governo – è tenuto ad indicare (apportando al software e/o dell’hardware predisposto
per la richiesta, la compilazione, l’emissione e la stampa delle carte d’identità elettroniche le
modifiche che si rendessero all’uopo necessarie) le qualifiche “neutre” di «genitore» in
corrispondenza dei nomi delle ricorrenti E. X. (PRIMA RICORRENTE) e S. Y. (SECONDA
RICORRENTE ) sulla C.I.E. della minore G. Y.X. (TERZA RICORRENTE).
In considerazione della novità delle questioni trattate, si ritiene equo compensare integralmente le
spese tra tutte le parti.
P.Q.M.
il Tribunale accoglie parzialmente il ricorso e per l’effetto:
– dichiara il difetto di legittimazione passiva di ROMA CAPITALE;
– disapplica il decreto del Ministro dell’interno del 31/01/2019 perché illegittimo;
– ordina al Ministro dell’interno, e per esso al Sindaco di Roma Capitale quale ufficiale del
Governo, di indicare, sulla carta d’identità elettronica della minore M.
M.G., in corrispondenza dei nomi di M.E. e di M. S., la qualifica neutra di «genitore», previa, ove
necessario, ogni opportuna modifica tecnica del software e dell’hardware destinato alla richiesta, la
compilazione, l’emissione e la stampa delle carte d’identità elettroniche;
– compensa le spese;
– ordina l’oscuramento dei dati identificativi delle parti ricorrenti in caso di diffusione
della presente ordinanza, ai sensi dell’art. 52 D.LGS. n° 196/2003.

Quando il “paparazzo” può diventare uno stalker?

Cass. Pen., Sez. V, Sent., 10 dicembre 2022, n. 42856: Pres. Zaza, Rel. Cons. Bifulco
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZAZA Carlo – Presidente –
Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –
Dott. SESSA Renata – Consigliere –
Dott. BIFULCO Daniela – rel. Consigliere –
Dott. FRANCOLINI Giovanni – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.A., nato a (Omissis);
avverso la sentenza del 18/05/2021 della CORTE APPELLO di TORINO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA BIFULCO;
letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale SABRINA PASSAFIUME, che ha concluso
chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Torino ha confermato il provvedimento con
cui Giudice di primo grado aveva affermato la penale responsabilità di A.A. per il reato di cui all’art.
612 bis c.p., comma 1, con condanna alla pena di mesi 4 di reclusione, al pagamento delle spese
processuali e alla rifusione delle spese di assistenza e rappresentanza in favore della parte civile, B.B..
2. Avverso la sentenza, ricorre l’imputato, per il tramite del suo difensore di fiducia, articolando le
proprie censure in un unico motivo, col quale eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione,
per avere la Corte d’appello erroneamente ravvisato la penale responsabilità dell’imputato per il delitto
di atti persecutori. Del tutto genericamente sarebbe descritto, nella parte motiva dell’impugnata
sentenza, l’evento delle alterate abitudini di vita della p.o., così come inesplorato sarebbe rimasto il
profilo dell’impatto emotivo sulla vittima concretamente ingenerato dal comportamento
dell’imputato. I fatti ascritti alla condotta di quest’ultimo, pur se percepiti come “molesti e fastidiosi”
dalla p.o., avrebbero dovuto, al limite, essere ricondotti all’ipotesi contravvenzionale di cui all’art.
660 c.p.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile.
2. L’unico motivo è manifestamente infondato, in quanto reitera i medesimi rilievi prospettati con
l’atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli
argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato, ma limitandosi, in maniera generica, a lamentare
una presunta carenza o illogicità della motivazione (così, tra le altre, Sez. 4, n. 30810 del 10/05/2022,
Ragusa, n. m.; Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv. 276970-01; Sez. 3, n. 44882 del
18/07/2014, Cariolo, Rv. 260608-01; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838- 01). La
motivazione dell’impugnata sentenza è priva di aspetti di illogicità, mostrandosi, al contrario, dotata
di completezza e rigore logico sia per quel che ha riguardo alla puntuale ricostruzione del fatto sia in
relazione alla qualificazione giuridica prescelta dalla Corte d’appello. A tal proposito, va condivisa la
scelta dei giudici di merito di disattendere l’ipotesi contravvenzionale evocata dal ricorrente: invero,
i comportamenti ascritti all’imputato, avendo determinato una alterazione delle quotidiane abitudini
di vita della p.o., non possono essere ricondotti all’alveo dell’art. 660 c.p.
Il giudizio della Corte territoriale, oltre a poggiare su una corretta lettura dei principi posti dalla Corte
di cassazione in ordine ai criteri discretivi tra reato di atti persecutori e fattispecie contravvenzionale
di molestie o disturbo di cui all’art. 660 c.p., si è basata altresì sull’attenta disamina dei comportamenti
contestati. Infatti, i frequenti appostamenti di fronte all’ingresso dell’ufficio del B.B., e in altri luoghi
frequentati dallo stesso per ragioni lavorative, le insistenti telefonate mirate a ottenere notizie sugli
spostamenti dei calciatori, il seguire la vittima in auto, la pretesa, insistita e molesta, che la p.o.
intercedesse a suo favore presso calciatori al fine di ottenere servizi fotografici, gli insulti rivolti alla
p.o., pubblicamente e con aggressività, per non avere ottenuto dette intercessioni, hanno portato la
Corte territoriale a formulare un coerente giudizio di penale responsabilità per atti persecutori, alla
luce, come si è anticipato, di una motivazione priva di censure sia dal punto di vista giuridico sia da
quello del logico argomentare.
A fronte dei comportamenti contestati, a nulla vale il rilievo difensivo teso a giustificare i predetti
comportamenti data l’attività di “paparazzo” svolta dall’imputato. L’impatto della condotta
dell’imputato sulle abitudini -segnatamente, quelle lavorative- della vittima è chiaramente illustrato
dalla Corte territoriale, la quale, nel far riferimento alle ripercussioni negative di quei comportamenti
sulla vita e sulle quotidiane abitudini della vittima, ha evidentemente tenuto in conto l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui l’evento tipico della alterazione o cambiamento delle abitudini di vita
della persona offesa non possa intendersi come puramente occasionale (Sez. 5, n. 17552 del
10/03/2021, B., Rv. 281078 – 01). La p.o. si è infatti vista costretta a ricevere i propri clienti in luoghi
diversi dal proprio ufficio, con detrimento per la propria riservatezza, a non utilizzare la propria
autovettura per non lasciare segni tangibili della propria presenza in ufficio o nei luoghi frequentati
per motivi di lavoro, a bloccare le telefonate in entrata, e così via. I Giudici di merito hanno
chiaramente illustrato la dinamica con cui dette reazioni e escamotages della p.o., indotti dal
comportamento dell’imputato, hanno cagionato un perdurante e grave stato d’ansia e di paura, tale da
ingenerare un giustificato timore per la propria sicurezza personale e da portare a un’alterazione delle
abitudini di vita (cfr., ex plur., Sez. 5, n. 1813 del 17/11/2021, dep. 2022, Biundo Rv. 282527 – 01).
I Giudici d’appello, nell’analizzare i vari comportamenti persecutori ponendoli in relazione agli effetti
provocati sulla p.o., hanno altresì fatto buon governo dei canoni di giudizio elaborati dalla
giurisprudenza, a iniziare da quella costituzionale. Come infatti ricordato da Corte Cost. n. 172 del
2014, il riferimento del legislatore alle abitudini di vita costituisce un chiaro e verificabile rinvio al
complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito familiare, sociale e
lavorativo, e che la vittima è costretta a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata dall’attività
persecutoria, mutamento di cui l’agente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato,
trattandosi di reato per l’appunto punibile solo a titolo di dolo.
3. Il ricorso va dichiarato, pertanto, inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese
processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. In caso di diffusione
del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs.
n.196 del 2003 art. 52 in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. In caso di diffusione del presente
provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n.196 del 2003
art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2022

La mala gestio comporta la radiazione dell’avvocato amministratore di sostegno

Consiglio Nazionale Forense, sent. 5 settembre 2022
CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio Nazionale Forense, riunito in seduta pubblica, nella sua sede presso il
Ministero della Giustizia, in Roma, presenti i Signori:
con l’intervento del rappresentante il P.G. presso la Corte di Cassazione nella persona del
Sostituto Procuratore Generale dott. Pietro Molino ha emesso la seguente
SENTENZA
Su ricorso recante r.g. 7/22, presentato al Consiglio Nazionale Forense in data 8 gennaio
2022, dall’Avv. [RICORRENTE], nata a [OMISSIS] il [OMISSIS], C.F. [OMISSIS], quale
procuratore di sé stessa, e residente in [OMISSIS], avverso la sentenza del Consiglio
Distrettuale di Disciplina Forense di Brescia, emessa il 14 maggio 2021, depositata il 7
dicembre 2021 e notificata all’incolpata il 10 dicembre 2021, con cui veniva irrogata
all’Avv. [RICORRENTE] la sanzione disciplinare della radiazione.
per la ricorrente nessuno è comparso;
Per il Consiglio dell’Ordine regolarmente citato, nessuno è comparso;
Udita la relazione del Consigliere Francesco Caia;
Inteso il P.G., Dott. Pietro Molino, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO
Con segnalazione pervenuta al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Bergamo del 23 aprile 2018, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo
comunicava l’esercizio dell’azione penale nei confronti dell’Avv. [RICORRENTE] “1) per il
reato di cui agli artt. 61 n. 5 e 7, 81 e 314 c.p., poiché con più azioni esecutive del
medesimo disegno criminoso, in qualità di amministratore di sostegno di [AAA] (nominato
con decreto del Tribunale di Bergamo del 21 febbraio 2014) e avendo la disponibilità del
denaro di quest’ultimo, se ne appropriava prelevando dal suo conto corrente denaro
contante allo sportello, il tutto per un importo complessivo di 7.500,00 euro. Con le
circostanze aggravanti di aver commesso il tutto approfittando di circostanze di persona
tali da ostacolarne la privata difesa ([AAA] è affetto da grave atrofia cerebrale esotossica
diffusa e polineuropatia,con seria compromissione delle capacità cognitive e psicofisiche)
e di aver cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante
gravità. In Lallio e Bergamo negli anni 2014 e 2015. 2) per il reato di cui agli artt. 61 n. 5 e
7, 81 e 314 c.p., poiché con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in
qualità di amministratore di sostegno di [BBB] (nominato con decreto del Tribunale di
Bergamo del 3 agosto 2007) e avendo la disponibilità del denaro di quest’ultimo, se ne
appropriava prelevando dal suo conto corrente denaro contante allo sportello, il tutto per
un importo complessivo di 65.310,00 euro. Con le circostanze aggravanti di aver
commesso il fatto approfittando di circostanze di persona tali da ostacolarne la privata
difesa ([BBB] è persona affetta da varie patologie in un quadro di ritardo mentale medio,
con assoluta incapacità di attendere autonomamente alle ordinarie occupazioni) e di aver
cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità. In
Scanzorosciate e Bergamo dall’anno 2008 fino al 31.03.2017. 3) per il reato di cui agli artt.
61 n. 5 e 7, 81 e 314 c.p., poiché con più azioni esecutive del medesimo disegno
criminoso, in qualità di amministratore di sostegno di [CCC] (nominato con decreto del
Tribunale di Bergamo del 10.10.2012) e avendo la disponibilità del denaro di quest’ultima,
se ne appropriava prelevando dal suo conto corrente denaro contante allo sportello, il tutto
per un importo complessivo di 11.390,00 euro. Con le circostanze aggravanti di aver
commesso il fatto approfittando di circostanze di persona tali da ostacolarne la privata
difesa ([CCC] è, tra l’altro, affetta da deficit mnesico/attentivo con riverbero prassico in
esiti di trauma cranico encefidieo, con incapacità di gestire se stessa e il suo patrimonio) e
di aver cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità.
In Bergamo, dal 2013 al 30.09.2015. 4) per il reato di cui agli artt. 61 n. 5 e 7, 81 e 314
c.p., poiché con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in qualità di
curatore dell’inabilitata [DDD] (nominato con decreto del Tribunale di Bergamo del 16
novembre 2007) e avendo la disponibilità del denaro di quest’ultima, se ne appropriava
prelevando dal suo conto corrente denaro contante allo sportello ovvero tramite
bancomat, il tutto per un importo complessivo di 41.825,76 curo. Con le circostanze
aggravanti di aver commesso il fatto approfittando di circostanze di persona tali da
ostacolarne la privata difesa ([DDD] è persona con patologie di cui soffre dalla nascita
nonché affetta da decadimento psicotico generale e morbo di Fahr) e di aver cagionato
alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità. In Bergamo dal
2008 al 27.04.2017”.
Trasmessi gli atti al Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense di Brescia, all’esito
dell’istruttoria preliminare, con delibera del 3 aprile 2019, veniva approvato il seguente
capo di incolpazione: “per avere, in violazione degli artt. 9 comma 2, 10, 30 comma 1, 63
e 64 del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014 nonché, per quanto di
rispettiva ragione ratione temporis, in violazione degli artt. 5, 7, 41 e 56 del previgente
codice deontologico forense, nell’esercizio della sua funzione di amministratore di
sostegno e/o curatore dei soggetti di seguito specificati, in violazione dei doveri ed abuso
dei poteri inerenti a tale funzione, compiuto le seguenti condotte lesive della propria
reputazione professionale nonché della dignità della professione e dell’affidamento dei
terzi, in particolare: A. poiché, in qualità di amministratore di sostegno di [AAA] (nominato
con decreto del Tribunale di Bergamo del 21 febbraio 2014), soggetto affetto da grave
atrofia cerebrale esotossica diffusa e polineuropatia con seria compromissione delle
capacità cognitive e psicofisiche, e avendo in ragione di tale ufficio la disponibilità del
denaro del medesimo, se ne appropriava prelevando dal suo conto corrente denaro
contante allo sportello per un importo complessivo di 7.500,00 euro; in Lallio e Bergamo
negli anni 2014 e 2015; B. poiché, in qualità di amministratore di sostegno di [BBB]
(nominato con decreto del Tribunale di Bergamo del 3 agosto 2007), persona affetta da
varie patologie in un quadro di ritardo mentale medio con assoluta incapacità di attendere
autonomamente alle ordinarie occupazioni, e avendo in ragione di tale ufficio la
disponibilità del denaro del medesimo, se ne appropriava prelevando dal suo conto
corrente denaro contante allo sportello per un importo complessivo di 65.310,00 euro; in
Scanzorosciate e Bergamo dall’anno 2008 fino al 31/3/2017; C. poiché, in qualità di
amministratore di sostegno di [CCC] (nominato con decreto del Tribunale di Bergamo del
10/10/2012), persona affetta da deficit mnesico-attentivo con riverbero prassico in esiti di
trauma cranico encefalico con incapacità di gestire sé stessa e il suo patrimonio, e avendo
in ragione di tale ufficio la disponibilità del denaro della medesima, se ne appropriava
prelevando dal suo conto corrente denaro contante allo sportello per un importo
complessivo di 11.390,00 euro; in Bergamo dal 2013 al 30/9/2015; D. poiché, in qualità di
curatore dell’inabilitata [DDD] (nominato con decreto del Tribunale di Bergamo del 16
novembre 2007), persona affetta da patologie di cui soffre dalla nascita nonché affetta da
decadimento psicotico generale e morbo di Fahr, e avendo in ragione di tale ufficio la
disponibilità del denaro della medesima, se ne appropriava prelevando dal suo conto
corrente denaro contante allo sportello ovvero tramite bancomat per un importo
complessivo di 43.340,00 euro; in Bergamo dal 2008 al 27/4/2017”.
Disposta la citazione a giudizio dell’incolpata, nel corso dell’istruttoria
dibattimentale venivano sentiti testimoni ed acquisita la sentenza n. [OMISSIS] emessa in
data [OMISSIS]/2019 del Tribunale di Bergamo, Sezione Penale del Dibattimento, relativa
al procedimento penale [OMISSIS]/18 Reg. Gen. (n. [OMISSIS]/16 R.G.N.R.), con cui
l’Avv. [RICORRENTE] è stata ritenuta colpevole delle imputazioni e per gli importi risultanti
dalla citata segnalazione del P.M. (ad eccezione di euro 500,00 quanto alla parte offesa
[BBB] ed euro 60,00 quanto alla parte offesa [DDD]), e per l’effetto condannata alla pena
di sei anni di reclusione. Successivamente, all’udienza del 13 maggio 2021 veniva, altresì,
acquisita dalla Corte di appello di Brescia, Sezione Prima Penale, con cui è stata
confermata la sentenza di primo grado.
Il Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense di Brescia, ritenuta accertata la
responsabilità dell’incolpata per le violazioni deontologiche contestate, con sentenza
emessa in data 14 maggio 2021 all’esito del procedimento avente n. 190-BG/2018,
depositata il 7 dicembre 2021 e notificata all’avv. [RICORRENTE] il 10 dicembre 2021,
irrogava nei confronti della medesima la sanzione della radiazione.
Con ricorso pervenuto a mezzo PEC in data 8 gennaio 2022, l’Avv.
[RICORRENTE] propone impugnativa avverso la predetta decisione innanzi a Codesto
Consiglio, affidando le proprie difese a due motivi di doglianza. Con il primo, la ricorrente
eccepisce il difetto di motivazione della sentenza impugnata per mancanza di prova in
ordine alla circostanza che i prelevamenti dalla stessa eseguiti fossero estranei alle
necessità dei soggetti amministrati. Con il secondo motivo, la ricorrente eccepisce, invece,
l’incongruità della sanzione irrogata alla luce della condotta complessivamente tenuta,
della “sostanziale “incensuratezza disciplinare”” della incolpata e del tentativo di
“ravvedimento operoso” della stessa, non conclusosi a causa del sequestro conservativo
subito a seguito della condanna penale.
Chiede, pertanto, la riforma della sentenza impugnata con conseguente
mitigazione della sanzione irrogata.
All’udienza del 28 aprile 2022, le parti presenti rassegnavano le conclusioni
come da separato verbale
DIRITTO
Con il primo motivo di ricorso, l’Avv. [RICORRENTE] eccepisce il vizio di motivazione della
sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto provata la responsabilità dell’incolpata. Il
Collegio ritiene che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, alcun dubbio può
sussistere in ordine alla prova della responsabilità della incolpata, non ravvisando alcun
difetto di motivazione della sentenza impugnata, che, sul punto, appare immune da vizi
logici e giuridici, avendo diffusamente analizzato le risultanze istruttorie, da cui emerge
chiaramente la responsabilità dell’Avv. [RICORRENTE] per i fatti ascritti. Invero, gli
elementi che fanno protendere per la colpevolezza dell’Avv. [RICORRENTE] sono plurimi
e concordanti. Come correttamente osservato dal Consiglio di Disciplina di Brescia la
ricorrente deteneva la carta associata al conto corrente dei soggetti amministrati ed i testi
escussi hanno riconosciuto che era l’incolpata ad eseguire materialmente le operazioni di
prelievo allo sportello, come peraltro si evince dalle ricevute contabili dalla stessa
sottoscritte. Peraltro, la paternità dei prelievi in capo alla medesima ricorrente, oltre ad
essere stata provata dai testi escussi, non risulta neppure contestata dalla incolpata, che
si è limitata, piuttosto, a riferire, senza invero fornire alcuna prova al riguardo, che tali
operazioni erano effettuate nell’interesse dei soggetti beneficiari. Ancora, risulta
ripetutamente violato il dovere di presentare i rendiconti e/o i bilanci annuali al Giudice
Tutelare, non risultando seriamente sostenibile, né provato che tale omissione sia stata
determinata da un atto di pirateria informatica del 2014, in quanto la ricorrente ha omesso
di depositare i bilanci anche per le annualità successive a tale data. Le risultanze
istruttorie del procedimento disciplinare risultano peraltro confermate dalle risultanze del
giudizio penale innanzi al Tribunale di Bergamo, conclusosi con sentenza di condanna n.
[OMISSIS] del 14 novembre 2019, confermata dalla Corte di appello di Brescia, Sezione
Prima Penale con sentenza emessa il 13 maggio 2021. Il CDD di Brescia, con motivazione
del tutto congrua ha correttamente riconosciuto non solo la violazione delle infrazioni
tipiche di cui agli articoli del Codice Deontologico richiamati nel capo di incolpazione, ma
anche dell’illecito deontologico atipico.
La condotta posta in essere dall’Avv. [RICORRENTE] integra gli estremi di un
comportamento certamente lesivo dei canoni di cui all’art e 9, co. 2 del Codice vigente,
non avendo tenuto una condotta ispirata ai canoni di lealtà e correttezza nell’esercizio
della professione e danneggiando, in tal guisa, l’immagine dell’intera categoria e
l’affidamento che la collettività ripone nell’Avvocato stesso quale professionista leale e
corretto in ogni ambito della propria attività.
A tal riguardo preme ribadire che “Il principio di stretta tipicità dell’illecito,
proprio del diritto penale, non trova applicazione nella materia disciplinare forense,
nell’ambito della quale non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti vietati,
giacché il nuovo sistema deontologico forense -governato dall’insieme delle norme,
primarie (artt. 3 c.3 – 17 c.1, e 51 c.1 della L. 247/2012) e secondarie (artt. 4 c.2, 20 e 21
del C.D.)- è informato al principio della tipizzazione della condotta disciplinarmente
rilevante e delle relative sanzioni “per quanto possibile” (art. 3, co. 3, cit.), poiché la
variegata e potenzialmente illimitata casistica di tutti i comportamenti (anche della vita
privata) costituenti illecito disciplinare non ne consente una individuazione dettagliata,
tassativa e non meramente esemplificativa. Conseguentemente, l’eventuale mancata
“descrizione” di uno o più comportamenti e della relativa sanzione non genera l’immunità,
giacché è comunque possibile contestare l’illecito anche sulla base della citata norma di
chiusura, secondo cui “la professione forense deve essere esercitata con indipendenza,
lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale e
della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza” (Consiglio Nazionale
Forense, sentenza del 22 novembre 2018, n. 141).
Non vi è dubbio alcuno che la valutazione disciplinare, avvenuta non solo sulla
base delle dichiarazioni testimoniali, ma anche sulla base dell’analisi delle risultanze
documentali acquisite agli atti del procedimento, risulti compiutamente motivata, nella
parte in cui ha rilevato la gravità della condotta tenuta dall’Avv. [RICORRENTE],
riconoscendo a carico della stessa la violazione dell’illecito deontologico atipico, anche in
ragione della funzione pubblica rivestita.
Il primo motivo di ricorso va dunque disatteso.
Venendo al secondo motivo di gravame, questo Collegio ritiene che, contrariamente a
quanto ritenuto dall’Avv. [RICORRENTE], la sanzione comminata dal C.D.D. risulta
congrua in relazione alla gravità e alla natura del comportamento deontologicamente non
corretto tenuto dalla stessa anche alla luce della rilevanza penale della condotta, dovendo
la mala gestio essere valutata con particolare severità, stante il ruolo di garante
riconosciuto alla ricorrente quale amministratore di sostegno e/o curatore dei soggetti
danneggiati dalla sua condotta. A tal riguardo è ormai pacifico che “la determinazione
della sanzione disciplinare non è frutto di un mero calcolo matematico, ma è conseguenza
della complessiva valutazione dei fatti, della gravità dei comportamenti contestati, violativi
dei doveri di probità, dignità e decoro sia nell’espletamento dell’attività professionale che
nella dimensione privata” (ex plurimis, Consiglio Nazionale Forense sentenza n. 9 del 15
aprile 2019); “conseguentemente, in forza del criterio di proporzionalità, qualora da siffatto
giudizio emerga la strutturale incapacità dell’incolpato a ravvedersi, ovvero la sua
irrecuperabilità, tanto che la sua permanenza nel Ceto Forense sarebbe altrimenti fonte di
irreparabile vulnus per la reputazione del ceto stesso, la sanzione disciplinare da irrogarsi
in concreto ben può consistere nella radiazione, quand’anche per nessuno dei
comportamenti contestati, singolarmente considerati, fosse prevista una sanzione tanto
grave” (così Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 2 del 23 gennaio 2016). Nel caso
in esame, alcun dubbio può sussistere in ordine al fatto che l’appropriazione di somme di
danaro appartenenti ai propri assistiti, mediante abuso della disponibilità ottenuta,
approfittando della funzione pubblica rivestita quale amministratore di sostegno o curatore
dello stesso, costituisce un comportamento certamente rilevante, non solo dal punto di
vista deontologico, e tale da giustificare la sanzione della radiazione (cfr. Consiglio
Nazionale Forense, sentenza n. 225 del 20 novembre 2020).
Pertanto, appare pienamente condivisibile la sentenza del CDD di Brescia nella
parte in cui ha sanzionato con il provvedimento espulsivo la ricorrente, che con il proprio
comportamento ha arrecato un grave pregiudizio non solo ai propri assistiti ma anche
all’immagine della avvocatura. Come giustamente rilevato nella sentenza impugnata, è
stato accertato che le condotte erano in atto quantomeno fin dal 2008; l’Avv.
[RICORRENTE], una volta scoperta, lungi dal desistere dalla sua condotta, ha tentato di
nascondere i propri illeciti; ancora, nel corso del giudizio disciplinare, non ha mai
ammesso la propria responsabilità, tentando di riparare i danni derivanti dalla propria
condotta. Orbene, il vigente codice deontologico forense tipizza la determinazione della
sanzione disciplinare “nei casi più gravi” e per quanto possibile (art. 22), tuttavia, al fine di
individuare la sanzione disciplinare più adeguata, “il potere di irrogare una sanzione
disciplinare adeguata alla gravità ed alla natura dell’offesa arrecata al prestigio dell’ordine
professionale è riservato agli organi disciplinari che in mancanza di una previsione di
legge contraria si avvalgono, in via di applicazione analogica, dei principi desumibili dagli
art. 132 e 133 del codice penale” (Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 77 del 24
giugno 2020). Nel caso di specie, la gravità e la pluralità dei comportamenti
deontologicamente rilevanti accertati a carico della ricorrente, il contesto in cui è avvenuta
la violazione ed il grave pregiudizio subito dai beneficiari consentono di ritenere congrua la
sanzione espulsiva inflitta all’Avv. [RICORRENTE].
Alla luce di tutto quanto innanzi considerato, anche il secondo motivo di gravame non può
trovare accoglimento.
Il ricorso va dunque rigettato.
P.Q.M.
visti gli artt. 36 e 37 L. n. 247/2012 e gli artt. 59 e segg. del R.D. 22.1.1934, n. 37;
il Consiglio Nazionale Forense rigetta il ricorso, confermando l’impugnato provvedimento.
Dispone che in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma per finalità
di informazione su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione
elettronica sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli
interessati riportati nella sentenza.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del 28 aprile 2022

Frequentazione paritaria in regime di affidamento del minore ai Servizi Sociali.

Corte di Appello di Firenze, Sentenza 15 ottobre 2021
Sezione Prima Civile
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Nella causa iscritta a ruolo al n. R.G. 304 2021
AVENTE AD OGGETTO: Regolamentazione visite
Giurisprudenza di merito Ondif
Promossa da
TIZIO, elettivamente domiciliato in VIA__________ FIRENZE presso lo studio dell’avv. _________,come da
mandato a margine dell’atto di citazione in appello.
APPELLANTE
Contro
MEVIA, elettivamente domiciliata in VIALE ________FIRENZE presso lo studio dell’avv. ___________ come
da mandato in calce alla costituzione in appello
APPELLATO – APPELLANTE INCIDENTALE
SERVIZI SOCIALI COMUNE DI LUCCA
PG presso la Corte di Appello di Firenze
FATTO E DIRITTO
Il Tribunale di Lucca con provvedimento ____/2021, decideva come segue in relazione al ricorso proposto
da TIZIO contro MEVIA per la regolamentazione dei rapporti con il figlio della coppia CAIO, sia relativi
all’affidamento al collocamento e alle visite che agli aspetti economici:
• ha disposto l’affidamento ai servizi sociali di Lucca con attribuzione allo stesso servizio del potere
genitoriale esclusivo con riguardo alle scelte di natura sanitaria, educativa e scolastica, quanto al
minore.
• ha disposto una frequentazione sostanzialmente paritaria con i genitori e altresì disponendo per il
periodo estivo e per il periodo natalizio.
• Ha disposto che I genitori eserciteranno i poteri genitoriali solo per gli affari di ordinaria
amministrazione nel rispetto della delega dei servizi sociali.
• La casa familiare viene assegnata alla madre poiché residenza anche formale del minore e anche
alla luce delle sue disponibilità economiche.
• È legittima la concessione di un assegno perequativo a carico del padre per consentire che il
minore possa godere del medesimo tenore di vita presso ciascun genitore. L’assegno viene
valutato in 1800 € oltre al 50% delle spese straordinarie.
Ha altresì disposto la presa in carico del nucleo familiare da parte dei servizi sociali del Comune di Lucca, la
presa in carico del minore ad opera della Ufsmia competente delegando al servizio sanitario anche il
compito ed anche eventualmente con Ufsma di intervenire nel rapporto genitori figlio, il monitoraggio
attraverso accessi domiciliari per valutare la situazione del minore eventualmente disponendo un servizio
di educativa domiciliare, la trasmissione della relazione al Gt entro il 30 luglio 2021 ed in ogni caso di
condotta distonica.
TIZIO ha proposto istanza di sospensione della efficacia esecutiva del provvedimento, in ordine a:
l’affidamento e il calendario di frequentazione paritario, assegnazione al padre della casa familiare di
proprietà dello stesso e comunque rigetto della domanda di assegnazione della casa alla MEVIA, il
mantenimento diretto del figlio con il 50% delle spese straordinarie. La MEVIA si è opposta e la corte ha
deciso, parzialmente accogliendo il ricorso, disponendo un calendario di visite del seguente tenore: un fine
settimana alternato dal venerdì dall’uscita della scuola sino al lunedì mattina; il mercoledì dalla uscita della
scuola sino alla mattina successiva nelle settimane in cui il weekend successivo è con il padre; nelle altre
settimane dal mercoledì all’uscita della scuola sino al venerdì con rientro a scuola, ed altresì diminuendo ad
euro 1000 il contributo al mantenimento per il figlio a carico del padre.
Nel merito TIZIO ha concluso reiterando la richiesta di modifiche al calendario di frequentazione con
disciplina dei periodi di vacanza come indicati dal consulente, per il monitoraggio suggerito dalla
consulenza con conferma del mandato ai servizi sociali per la assegnazione al padre della casa familiare con
termine per il rilascio e con previsione di mantenimento diretto del figlio con spese straordinarie al 50%. Ha
chiesto le indagini della Guardia di Finanza sulla situazione reddituale della ex compagna.
MEVIA costituendosi insta per il rigetto del reclamo, chiede l’accoglimento delle istanze istruttorie di CTU e
in via incidentale chiede la apposizione delle spese al 100% o in subordine al 70% a carico del padre,
l’affidamento esclusivo di CAIO alla madre con collocazione prevalente presso la stessa, con percorso di
sostegno alla genitorialità per entrambi con disposizione di diverso calendario di frequentazione con il
padre. Chiede altresì di rinnovo della CTU sulle capacità genitoriali del nucleo.
Le parti, dopo repliche autorizzate, hanno concluso alla udienza del 24 settembre 2021 come in atti.
Per giurisprudenza costante il provvedimento reso ai sensi dell’articolo 337 ter e seguenti c.c. ha natura di
sentenza e la impugnazione deve essere qualificata come appello.
• Regime di affidamento. L’appellante non chiede la modifica delle condizioni di affidamento mentre la
MEVIA chiede l’affidamento esclusivo a sè del figlio. La CTU ha concluso all’esito di una articolata analisi
delle parti e della situazione, verificando una relazione tra genitori disfunzionale e altamente conflittuale;
ha valutato la necessità di un supporto alle funzioni genitoriali, ha rilevato criticità a carico della figura
materna nel momento della valutazione dello spazio di frequentazione del figlio con entrambi i genitori
ovverosia nel criterio dell’accesso; ha concluso per un compromesso equilibrio di competenze genitoriali
con necessità di un percorso di superamento delle vicende giudiziarie legali e di coppia. Ha ritenuto regime
di affidamento adeguato l’affidamento al servizio sociale poiché i genitori non riescono a mantenere una
dinamica fra loro di collaborazione, condivisione e confronto. La esaustività della analisi, il breve tempo
trascorso dall’esaurimento della stessa, la mancanza di prova di sostanziali mutamenti nelle circostanze di
fatto che hanno portato alle conclusioni fatte proprie dal tribunale, induce a ritenere infondata la domanda
della MEVIA. D’altra parte, sono depositate in atti un profluvio di Mail, messaggi WhatsApp e quant’altro
che testimoniano la assoluta carenza di dialogo tra le parti, i quali discutono su qualsiasi minimo dettaglio
della vita del figlio. Non è dato più capire se le comunicazioni tra le parti hanno ad oggetto le parti stesse o
sono effettuate a meri fini di deposito in giudizio.
• Modalità di visita. La corte non può che riportarsi a quanto già disposto in sede di parziale accoglimento
della sospensiva, atteso che la stessa consulente, indica come necessario un rapporto tendenzialmente
paritario di CAIO con entrambi i genitori. Si richiama inoltre quanto già concordato dalle parti alla udienza
del 24 settembre del 2021, mentre per il resto il dispositivo rimane identico; s’intende che nei giorni in cui il
padre tiene con sé il figlio periodo non scolastico, la permanenza presso di sé corre dalle e fino alle
9:00/9:30 della mattina. Si richiamano pertanto le disposizioni sopra indicate. Il TIZIO chiede la modifica
delle condizioni di permanenza del figlio presso di sé nei periodi festivi. Il tribunale ha disposto sul punto,
due settimane non consecutive col figlio, l’alternanza dei giorni del 24 del 25 dicembre, una settimana
durante il periodo natalizio con ciascun genitore, l’alternanza della permanenza nel giorno di Pasqua.
L’unica discrasia rispetto alle valutazioni espresse dal CTU riguarda il periodo pasquale avendo il CTU
previsto “i giorni della sospensione scolastica saranno suddivisi a metà fra i genitori che quindi si
alterneranno nel trascorrere con il figlio ad anni alterni i giorni della Pasqua ed il giorno successivo.” Nel
senso indicato dal CTU, ragionevole e condivisibile, può pertanto modificarsi il provvedimento del tribunale
ferme rimanendo le altre statuizioni.
• Assegnazione della casa familiare. Atteso che il figlio è sempre vissuto nella casa familiare e dal tempo
della separazione di fatto, ivi con la madre, la casa deve essere assegnata alla MEVIA ed anche tenuto conto
delle differenti condizioni economiche delle parti. Le spese del mutuo verranno sostenute dal TIZIO che ne
è il proprietario e che si è dichiarato disposto all’esborso, avendovi sempre provveduto sino ad oggi.
• Mantenimento a favore del figlio CAIO. Deve darsi atto che il TIZIO si è dichiarato disposto e provvede alle
spese scolastiche (dovendosi intendere quelle relative alla retta scolastica), si è dichiarato disposto al
sostenimento delle spese sanitarie. Appare irrilevante disporre CTU o indagini attraverso la Guardia di
Finanza che sono esorbitanti rispetto alla decisione relativa al mantenimento di un bambino di tre anni.
Entrambe le parti sono confuse nelle loro allegazioni, l’uno tendendo a dimostrare un reddito minore di
quello indicato dall’altra, la seconda una incapacità reddituale. Entrambe le allegazioni appaiono prima
facie, infondate. Il TIZIO è socio di una società di famiglia che ha utili elevatissimi (vedi bilanci in atti e
destinazione degli utili) e nella quale è stato deciso egli non rivestisse più la qualità di consigliere di
amministrazione. A titolo di esempio, nel 2015 gli importi per il consiglio di amministrazione era stabilito in
410.000 €, il compenso del TIZIO pari ad euro 230.000 lordi sino al 2017. Non consta che la S.p.A. sia stata
toccata dalla crisi. Trattasi quindi di scelta familiare, che nulla indica sul depotenziamento delle capacità
lavorative del TIZIO, il quale tra l’altro non sostiene spese di abitazione, convivendo con i genitori, i quali
hanno capacità reddituale assai elevata e della quale deve presumersi il figlio goda. La MEVIA ha prodotto
un reddito negli anni passati in ragione della sua attività che potrà ricominciare a produrre all’esaurirsi della
pandemia. Trattasi di giovane donna con una sua specifica capacità lavorativa che le ha consentito nel
passato (anno di imposta 2019), ricavi pari ad euro 125.000 circa. Sono documentati diversi rapporti
bancari ed altresì un tenore di vita di non indigenza. D’altra parte, si ripete che l’oggetto è il mantenimento
del minore e non della madre dello stesso. Tutto ciò considerato e richiamata la giurisprudenza della
suprema corte a tenore della quale il figlio deve mantenere presso le due abitazioni il medesimo tenore di
vita (Cass. civ. Sez. I Ord., 06/08/2020, n. 16739 L’obbligo di mantenimento del minore da parte del
genitore non collocatario deve far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo
alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e
materiale, alla opportuna predisposizione di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a
tutte le necessità di cura e di educazione, secondo uno standard di soddisfacimento correlato a quello
economico e sociale della famiglia di modo che si possa valutare il tenore di vita corrispondente a quello
goduto in precedenza.”), tenuto conto delle spese che comunque il TIZIO sostiene in solitudine, appare
congrua la cifra già indicata in sede di sospensiva (euro 1000 mensili) quale mantenimento a suo carico per
il figlio CAIO, per garantirgli uno standard qualitativo simile presso le due case. Tenuto conto delle spese
che gravano solo sul TIZIO e delle esigenze prevedibili di un minore di poco più di tre anni la ripartizione
delle spese straordinarie deve essere mantenuta nel 50% a carico di ciascuno dei genitori.
Attesa la reciproca soccombenza le spese di causa sono compensate.
P. Q. M.
Decidendo sulle impugnazioni di TIZIO e MEVIA avverso il provvedimento del tribunale di Lucca ___/2021,
in parziale riforma dello stesso,
dispone che il minore permanga con il padre: un fine settimana alternato dal venerdì dall’uscita della scuola
sino al lunedì mattina; il martedì dalla uscita della scuola sino alla mattina successiva nelle settimane in cui
il weekend successivo è con il padre; nelle altre settimane dal mercoledì all’uscita della scuola sino al
venerdì con rientro a scuola, nel periodo non scolastico i giorni di permanenza col padre inizieranno e
termineranno alle norme 9:00/9 : 30 della mattina; nei giorni della sospensione scolastica Pasquale essi
saranno suddivisi a metà fra i genitori che quindi si alterneranno nel trascorrere con il figlio ad anni alterni i
giorni della Pasqua ed il giorno successivo; dispone che TIZIO versi per il mantenimento del figlio CAIO alla
madre MEVIA la somma di euro 1000 mensili oltre a sostenere la integralità del mutuo per la casa familiare,
la retta scolastica, le spese sanitarie al 100%.
Conferma nel resto il provvedimento impugnato

Costituisce indebita diffusione dei dati personali l’affissione nella bacheca dell’androne condominiale dell’ordine del giorno indicante posizioni debitorie di un condomino

Cassazione civile, sez. I, 07 Ottobre 2022, n. 29323. Pres. Genovese. Est. Caprioli.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 30839/2020 proposto da:
C.G., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA
della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato * in forza di
procura speciale a margine del ricorso per cassazione;
– ricorrente –
contro
S.G., CONDOMINIO IN (*), elettivamente domiciliati in ROMA *, presso lo studio
dell’avvocato * rappresentati e difesi dall’avvocato * come da procure speciali allegate
al controricorso;
– controricorrenti –
avverso SENTENZA di TRIBUNALE di BARI n. 3453/2020 depositata il 11/11/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27/09/2022 dal Consigliere
FRANCESCO TERRUSI.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza pronunciata l’11-11-2020 il Tribunale di Bari ha respinto la domanda di
risarcimento dei danni proposta ai sensi dell’art. 15 del D.Lgs. n. 196 del 2003 da C.G.
nei confronti del Condominio di (*) e dell’amministratore S.G..
Secondo la postulazione, tali danni erano conseguiti all’illegittimo trattamento dei dati
personali determinato (i) dalla divulgazione, per mezzo di affissione in una bacheca
condominiale esposta alla possibile visione di terzi, di un avviso di convocazione
assembleare con relativo ordine del giorno indicante una richiesta di conciliazione a
riguardo di un decreto ingiuntivo, (ii) dalla successiva consegna ai condomini, per il
tramite di un’addetta alle pulizie, di un ulteriore documento, aperto e liberamente
leggibile, teso a chiarire il motivo della convocazione suddetta con specifico riguardo
alla posizione di C..
Il tribunale ha respinto la domanda ritenendo che l’attore non avesse adempiuto
all’onere della prova in ordine ai danni patiti e al nesso causale col trattamento dei dati.
Tale trattamento ha anche ritenuto che fosse stato improntato al rispetto dei principi di
pertinenza e non eccedenza rispetto ai fini, volta che il dato inserito nell’ordine del
giorno era comunque utile per far conoscere all’assemblea il motivo della
convocazione.
Ha soggiunto che non era stato provato il fatto che terzi soggetti, al di fuori dei
condomini, avessero preso visione del documento, né che l’addetta alle pulizie avesse
potuto leggerlo sui fogli aperti.
Ha infine escluso che la lesione arrecata fosse grave e che il danno lamentato fosse
serio.
C. ha proposto ricorso per cassazione in quattro mezzi.
Gli intimati hanno replicato con controricorso.
Le parti hanno infine depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
I. – Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione degli artt. 72, 83, 182 c.p.c.,
D.Lgs. n. 196 del 2003 art. 152, artt. 420 e 421 c.p.c. nella parte in cui il tribunale ha
consentito al condominio di sanare il vizio di costituzione nonostante codesto fosse
stato tempestivamente eccepito.
Il motivo è fondato.
II. – Dalla stessa sentenza emerge che l’attore aveva eccepito la nullità della procura ad
litem del condominio “sin dall’udienza dell’8-10-2014”.
Il tribunale ne ha disposto la sanatoria ai sensi dell’art. 182 c.p.c. con ordinanza del 28-
11-2018, dopo diverse udienze, e ha dato atto che infine il condominio aveva sanato il
vizio in conseguenza della detta ordinanza, a distanza di quattro anni dall’eccezione.
III. – Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale in tema di rappresentanza
nel processo, qualora una parte sollevi tempestivamente l’eccezione di difetto di
rappresentanza, sostanziale o processuale, ovvero un vizio della procura ad litem, è
onere della controparte interessata produrre immediatamente, con la prima difesa utile,
la documentazione necessaria a sanare il difetto o il vizio, senza che operi il
meccanismo di assegnazione del termine ai sensi dell’art. 182 c.p.c., prescritto solo per
il caso di rilievo officioso (v. Cass. Sez. 1 n. 29244-21, Cass. Sez. 2 n. 22564-20, Cass.
Sez. 2 n. 24212-18).
A questo orientamento si è in effetti contrapposta la tesi alla quale hanno alluso i
controricorrenti nel dire che non devesi distinguere a seconda che il vizio sia rilevato
d’ufficio o eccepito dalla parte.
Ma la tesi è minoritaria.
Essa in definitiva assume che, pur a fronte della proposizione di specifica eccezione a
opera della controparte di difetto o di nullità della procura ad litem, la parte destinataria
non sia necessariamente tenuta a produrre immediatamente una procura che possa
ritenersi valida, spettando il rilievo dell’effettività della sussistenza di un vizio
invalidante, ai fini della conseguente necessità della sua regolarizzazione, solo al
giudice, che ha il compito, appunto, di rilevarlo e di assegnare alla parte, da ritenersi
onerata, il relativo termine, come prescrive l’art. 182, comma 2, del codice di rito (v. in
motivazione Cass. Sez. 2 n. 23958-20).
IV. – Questa tesi non merita adesione.
E’ in vero chiara la differenza che corre tra le due situazioni processuali, poiché ai sensi
dell’art. 182 deve promuovere la sanatoria il giudice che rilevi d’ufficio il difetto di
rappresentanza, assistenza o autorizzazione, ovvero il vizio che determina la nullità
della procura, proprio perché il vizio, sebbene esistente, non è stato eccepito; e tanto
deve fare assegnando alla parte un termine di carattere perentorio senza il limite delle
preclusioni derivanti da decadenze di carattere processuale.
A detta situazione non è minimamente equiparabile quella in cui, viceversa, il vizio sia
stato tempestivamente eccepito dalla controparte.
In questo caso l’opportuna documentazione in funzione sanante va prodotta
immediatamente, e non v’e’ necessità di assegnare un termine, salvo che questo non sia
motivatamente richiesto, proprio perché sul rilievo di parte l’avversario è comunque
chiamato a contraddire di per sé, in forza della stessa dinamica del processo e del
principio di eventualità che la sorregge.
Il principio di eventualità si fonda – come esattamente è stato sostenuto in dottrina –
sulla dialettica tra le parti informata al criterio di dipendenza. È in pratica ispirato
dall’oralità della trattazione, dietro la quale si cela l’esigenza di far valere prontamente
e congiuntamente tutti i mezzi difensivi che si richiedono rispetto alle eventualità date
dalle prospettazioni avversarie.
D’altronde anche le Sezioni unite hanno reso il senso della differenziazione sopra detta
rispetto all’art. 182 c.p.c., allorché hanno affermato che il difetto di rappresentanza
processuale della parte può essere sanato in fase di impugnazione senza che operino le
ordinarie preclusioni istruttorie, e, qualora la contestazione avvenga in sede di
legittimità, la prova della sussistenza del potere rappresentativo può essere data ai sensi
dell’art. 372 c.p.c.
Per l’appunto a corredo di tale principio, le Sezioni unite hanno precisato che, tuttavia,
“qualora il rilievo del vizio in sede di legittimità non sia officioso, ma provenga dalla
controparte, l’onere di sanatoria del rappresentato sorge immediatamente, non
essendovi necessità di assegnare un termine che non sia motivatamente richiesto,
giacché sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire” (Cass. Sez. U n. 4248-
16).
Sulla scorta dei citati principi il primo motivo deve trovare accoglimento, in quanto il
vizio della procura ad litem del condominio, a differenza di ciò che il tribunale di Bari
ha ritenuto, non poteva essere sanato sulla base della disciplina dettata dall’art. 182
c.p.c.
V. – I restanti motivi possono essere esaminati congiuntamente.
Col secondo si deduce la violazione degli artt. 2727, 2729 c.c., 115 e 116 c.p.c., 11, 15
e 152 D.Lgs. n. 196 del 2003, 2697 c.c., nella parte in cui il tribunale ha ritenuto non
provato il danno senza considerare la rilevanza degli elementi presuntivi sottesi.
La prima affermazione è intrinsecamente in contrasto con la ritenuta non eccedenza del
trattamento.
La seconda è in apicibus giuridicamente errata.
La terza è lapidaria e non correttamente argomentata, non foss’altro perché non tiene
conto dell’allegazione che era stata fatta così come emergente dal ricorso e dal
controricorso.
VIII. – Questa Corte ha già avuto modo di stabilire che la disciplina del codice in
materia di protezione dei dati personali, di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, prescrivendo
che il trattamento dei dati personali avvenga nell’osservanza dei principi di
proporzionalità, di pertinenza e di non eccedenza rispetto agli scopi per i quali i dati
stessi sono raccolti (v. Cass. Sez. 1 n. 18443-13), non consente che gli spazi
condominiali, aperti all’accesso di terzi estranei rispetto al condominio, possano essere
utilizzati per la comunicazione di dati personali riferibili al singolo condomino; ne
consegue che – fermo restando il diritto di ciascun condomino di conoscere, anche di
propria iniziativa, gli inadempimenti altrui rispetto agli obblighi condominiali
l’affissione nella bacheca dell’androne condominiale, da parte dell’amministratore,
dell’informazione concernente le posizioni di debito del singolo condomino costituisce
un’indebita diffusione di dati personali, come tale fonte di responsabilità civile ai sensi
degli artt. 11 e 15 del citato codice (v. Cass. Sez. 2 n. 186-11).
Il principio si coniuga con la precisazione che, ai sensi di legge, “dato personale”,
oggetto di tutela, è “qualunque informazione” relativa a persona fisica, giuridica, ente
o associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente (Cass. Sez. 2 n. 17665-
18, Cass. Sez. 1 n. 15161-21).
È perfino ovvio, quindi, che in tale nozione debbano essere ricondotti i dati dei singoli
partecipanti a un condominio, seppur raccolti e utilizzati per le finalità di cui agli artt.
1117 e seg. c.c.
IX. – Certamente ragioni di buon andamento e di trasparenza giustificano una
comunicazione di questi dati ai condomini, su iniziativa dell’amministratore in sede di
rendiconto annuale di assemblea, o nell’ambito delle informazioni periodiche trasmesse
nell’assolvimento degli obblighi scaturenti dal mandato ricevuto, e anche su richiesta
di ciascun condomino, investito di un potere di vigilanza e di controllo sull’attività di
gestione delle cose, dei servizi e degli impianti comuni, che lo facoltizza a richiedere
in ogni tempo all’amministratore informazioni sulla situazione contabile del
condominio, comprese quelle che riguardano eventuali posizioni debitorie degli altri
partecipanti (v. in proposito Cass. Sez. 3 n. 159313).
Tuttavia non può sostenersi che sia giustificata e non eccedente l’affissione in una
bacheca – esposta al pubblico e soggetta a possibile visione da parte di un numero
indefinito di soggetti – di un avviso di convocazione del tenore di quello indicato dallo
stesso tribunale (“richiesta di conciliazione del sig. C. a riguardo di decreto ingiuntivo
subito per consuntivo anno 2010 (decisioni sulla causa in corso)”), in particolar modo
quando – come pure contraddittoriamente il tribunale dice avvenuto – l’avviso risulti
esser stato già comunicato a tutti i condomini.
Proprio l’avvenuta previa comunicazione indurrebbe ad affermare semmai l’ultroneità
dell’affissione in bacheca, e dunque l’eccedenza del trattamento rispetto al fine, sicché
da tal punto di vista l’impugnata sentenza non soddisfa minimamente la conclusione
infine ritenuta.
X. – Ne’ si può sostenere, nei termini così genericamente affermati dal giudice a quo,
che, palesata la situazione illecita e forniti gli elementi dai quali potersi presumere
l’effettività di un danno, vi fosse altro da dimostrare a onere del danneggiato.
Nell’art. 15 del codice in materia di dati personali il legislatore ha ritenuto opportuno
estendere la tutela anche ai danni non patrimoniali, a mezzo di uno strumento
risarcitorio di grande ampiezza teso a garantire l’effettiva operatività della
corrispondente sanzione a carico del responsabile dell’illecito e la conseguente
maggiore incisività alla norma afferente.
In tema di danno non patrimoniale il danneggiato può ricorrere e anzi normalmente
ricorre – alla prova presuntiva, tenuto conto ella natura immateriale del bene della vita
concretamente leso (v. la fondamentale Cass. Sez. U n. 26972-08). Donde una volta
stabilita la lesione degli interessi protetti, salvo che non sia appurata in modo plausibile
e congruente la natura bagatellare del pregiudizio allegato, il danno va liquidato su base
equitativa, mediante un modello di stima prudenziale che è connaturato alla natura del
diritto leso.
XI. – Ora l’attore aveva allegato, per quanto si comprende, un danno non patrimoniale
correlato all’incidenza del trattamento illecito sul piano reputazionale, essendo egli un
avvocato con studio nel medesimo condominio ed essendo stata l’affissione esposta per
oltre un mese in una bacheca ben visibile anche da parte dei suoi potenziali clienti.
L’allegazione era (ed è) più che sufficiente a soddisfare il relativo onere, cosicché al
tribunale competeva di accertare se l’illecito fosse stato effettivamente commesso nei
termini detti, onde provvedere, di conseguenza, alla determinazione equitativa del
danno in proporzione alla lesione dell’interesse protetto.
Da questo punto di vista è apodittico, ai fini dell’art. 132 c.p.c., il rilievo secondo cui
sarebbero stati da escludere “recisamente” i connotati di gravità e di serietà della
lesione allegata.
Il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 15 del D.Lgs. n. 196 del 2003
(codice della privacy) è determinato da una lesione del diritto fondamentale alla
protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU.
Esso non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno”,
in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex
art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato (v.
Cass. Sez. 6-1- n. 17383-20, Cass. Sez. 3 n. 16133-14).
Ma è di tutta evidenza che una verifica in tal senso, per quanto rimessa al giudice del
merito, implica che sia pur sempre soddisfatto l’onere di una motivazione aderente alla
specificità dei fatti, e funzionale a render conto della conclusione sostenuta in rapporto
alla lesione concretata dal comportamento illecito specificamente individuato.
Questo è mancato del tutto, nella decisione impugnata, la quale dunque va cassata con
rinvio al medesimo tribunale, in diversa composizione, per nuovo esame.
Il tribunale si uniformerà ai principi sopra evidenziati e provvederà anche sulle spese
del giudizio svoltosi in questa sede di legittimità.
p.q.m.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia al tribunale di Bari
anche per le spese del giudizio di cassazione.
Dispone che, in caso di diffusione della presente ordinanza, siano omesse le generalità
e gli altri dati significativi.
Così deciso in Roma, il 27 settembre 2022

Cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni. Il padre deve fornire la prova del suo adempimento

Cass. Civ., Sez. VI – 1, ord., 7 novembre 2022, n. 32727 – Pres. Scotti, Cons. Rel. Casadonte
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso …/2022 proposto da:
A.A., B.B., elettivamente domiciliati in Roma, Via…, presso lo studio dell’avvocato…, che li
rappresenta e difende unitamente all’avvocato …;
– ricorrenti –
contro
C.C.;
– intimato –
avverso il decreto della Corte d’appello di Bari, depositata il 07/10/2021;
udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 11/10/2022 dalla consigliera
Annamaria Casadonte.
Svolgimento del processo
Che:
1. Con ricorso ex art. 710 c.p.c., e L. n. 898 del 1970, art. 9, depositato il 18/02/2020, C.C. ha chiesto al
tribunale di Bari la modifica delle condizioni di divorzio vigenti tra lui e l’ex moglie, A.A., instando
in particolare per la revoca degli assegni di mantenimento e di ogni altro onere a qualsiasi titolo
gravante in capo al ricorrente in favore dei due figli D.D. e B.B. (n. il (Omissis)) ed in subordine per
la riduzione di quello a favore di B.B. in Euro 300,00. Quanto alla figlia D.D., la revoca era chiesta
per avere quest’ultima contratto matrimonio a giugno 2019; quanto al figlio B.B., per non aver
portato a compimento gli studi universitari, nonostante l’avanzata età adulta ormai raggiunta.
2. Si sono costituiti in giudizio A.A. e i figli, deducendo che B.B. non aveva potuto portare a
compimento gli studi universitari proprio per l’inadempimento del padre C.C. al suo obbligo di
contribuire, nella misura del settanta percento, al pagamento delle tasse universitarie. La figlia
maggiore D.D., avendo contratto matrimonio nel 2019, aderiva alla richiesta di revoca, pur non
rinunciando a tutti i crediti maturati e maturandi in corso di accertamento nei giudizi pendenti
contro il padre. Chiedevano pertanto la conferma dell’assegno di mantenimento nella misura di Euro
1.200,00, con adeguamento Istat, o di altra somma riconosciuta di giustizia in favore di B.B..
3. Con decreto pubblicato in data 21 dicembre 2020, il tribunale di Bari ha accolto la domanda del
padre, revocando ogni onere economico di quest’ultimo nei confronti di entrambi i figli, prendendo
atto, da un lato, dell’adesione della figlia maggiore D.D. alla richiesta di revoca, dall’altro,
dell’avanzata età di E.E. (29 anni) e della mancata conclusione del percorso universitario intrapreso
dallo stesso, nonostante il padre avesse garantito per un lungo lasso di tempo le condizioni
economiche atte a portare a termine gli studi intrapresi.
4. Con decreto n. 937/2021, reso pubblico mediante deposito in cancelleria il 7 ottobre 2021, la corte
d’appello di Bari ha rigettato il reclamo proposto da A.A. e B.B. avverso il citato provvedimento.
4.1. La corte distrettuale, invero, ha ritenuto non provata l’assoluta impossibilità economica della
A.A. ad anticipare il pagamento delle tasse universitarie, salvo rimborso da parte dell’altro genitore
obbligato. Al contrario, la corte territoriale ha affermato sussistere la prova che l’altra figlia della
coppia, pur scontando il medesimo inadempimento all’obbligo di versamento da parte del padre,
era comunque riuscita a concludere il percorso universitario, impegnandosi a perseguire l’obiettivo.
4.2. Dette evidenze, unitamente all’età raggiunta dal figlio più giovane B.B., alla mancata conclusione
del percorso scolastico triennale in giurisprudenza dallo stesso prescelto senza essersi determinato,
tenuto conto del lungo lasso di tempo intercorso, a raggiungere una propria autonomia e
indipendenza economica, costituivano, a giudizio della corte d’appello, elementi idonei a far venire
meno in capo allo stesso il diritto al mantenimento prescindendo da ogni valutazione in merito alle
capacità reddituali del padre C.C.. 5. A.A. e B.B. hanno proposto ricorso per la cassazione della
predetta sentenza, con atto notificato in data 14 gennaio 2022, sulla base di due motivi, mentre C.C.
è rimasto intimato.
Motivi della decisione
Che:
6. Il primo motivo (violazione o falsa applicazione degli artt. 147, 316 bis e 2967 c.c., in relazione
all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) denuncia l’erroneità della decisione impugnata per aver ritenuto il
genitore istante per la revoca del contributo di mantenimento non gravato dell’onere di provare che
il figlio a carico non avesse compiuto il percorso formativo, pur avendone avuto la possibilità.
6.1. I ricorrenti sostengono, in particolare, che la corte distrettuale avrebbe errato nel limitarsi a
prendere atto del comportamento inadempiente del genitore onerato del mantenimento, facendo
addirittura assurgere tale condotta a dato di fatto idoneo ad escludere l’impossibilità, dedotta dalla
madre e dal figlio B.B., di portare a compimento gli studi universitari.
6.2. Secondo la tesi dei ricorrenti, il genitore che agisca per la revoca del contributo economico per il
mantenimento dei figli, deve in primo luogo provare di aver effettivamente fornito tale contributo,
non risultando ammissibile ogni ulteriore indagine sulla pretesa responsabilità del figlio per il
fallimento del percorso formativo, là dove il presupposto minimo di fatto di tale percorso – id est il
pagamento degli studi – non sia stato rispettato.
7. Il secondo motivo (omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), deduce l’erroneità della
decisione impugnata per non aver tenuto conto del fatto che E.E. non è riuscito a concludere il
percorso scolastico non per sua inerzia ma per impossibilità di sostenere gli esami a causa del
mancato pagamento di numerose tasse universitarie da parte del padre, il quale ha cessato di
contribuire a dette spese a partire dal 2017, anno in cui si è laureata la figlia maggiore D.D..
7. 1. Ad avviso dei ricorrenti, ove la corte territoriale avesse esaminato dette circostanze decisive,
sarebbe giunta all’indefettibile conclusione per cui se il padre non avesse interrotto, a far data
proprio dalla laurea della sorella maggiore D.D., ogni pagamento al figlio B.B., quest’ultimo ben
avrebbe potuto essere già laureato.
8. I due motivi si possono trattare congiuntamente perchè strettamente connessi e sono fondati.
8.1. In base al consolidato orientamento di legittità, la cessazione dell’obbligo di mantenimento dei
figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia
riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica,
all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa nonchè, in particolare, alla
complessiva condotta personale tenuta, dal raggiungimento della maggiore età, da parte dell’avente
diritto (Cass., n. 12952/2016, Cass., n. 5088/2018; Cass., n. 17183/2020).
8.2. Orbene, detta valutazione, pur dovendo riguardare senz’altro la complessiva condotta tenuta da
parte dell’avente diritto dal momento del raggiungimento della maggiore età in poi, non può
prescindere dal pregiudiziale accertamento circa l’assolvimento, da parte del genitore gravato,
dell’obbligo di mantenimento. Ciò in quando l’adempimento di tale dovere costituisce la condizione
imprescindibile per lo sviluppo personale e professionale del figlio maggiorenne.
8.3. Invero, l’obbligo del genitore separato o divorziato di concorrere al mantenimento del figlio non
cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte di quest’ultimo, ma
perdura finchè il genitore interessato non dia prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza
economica, ovvero è stato posto nelle concrete condizioni per potere essere economicamente
autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta (cfr. Cass.,
1830/2011; id., 1773/2012; id., 38366/2021).
8. 4. Nella specie, la corte d’appello, di fronte alla deduzione della madre e del figlio circa il
comportamento inadempiente del padre, che aveva reso impossibile al figlio di sostenere gli esami
stante il mancato pagamento delle tasse universitarie fin dai primi anni di studio, ha ritenuto che
fosse onere della madre e del figlio provare che fosse per loro impossibile pagare autonomamente
gli studi universitari in luogo del padre tenuto all’obbligo del mantenimento e che non aveva fornito
la prova del suo adempimento.
8.4. Così operando, tuttavia, la corte d’appello è incorsa nella dedotta violazione di legge, finendo
per accollare all’altro genitore l’onere di provare l’assoluta impossibilità di anticipare il pagamento
delle tasse universitarie del figlio ed al contempo omettendo la corretta valutazione di fatti decisivi
per il giudizio.
9. Il ricorso è pertanto fondato ed il decreto impugnato deve essere cassato con rinvio alla corte
d’appello di Bari, in diversa composizione, affinchè provveda alla luce dei principi di diritto sopra
richiamati e, altresì, alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa il provvedimento impugnato e rinvia alla Corte di appello di Bari,
in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati
identificativi, a norma del D. Lgs. n. 196 del 2003 art. 52.
Conclusione
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale della Sezione Sesta-1 Civile, il 11 ottobre 2022.

Adottabile il minore se la madre è incostante ed immatura

Cass. Civ., Sez. I, ord., 10 novembre 2022, n. 33148 – Pres. Acierno, Cons. Rel. Casadone
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACIERNO Maria – Presidente –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –
Dott. CASADONE Annamaria – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso …/2021 proposto da:
A.A., (Omissis), elettivamente domiciliata in Torino, Via…, presso lo studio dell’avv…., che la
rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
B.B., (Omissis), quale curatrice speciale della minore C.C., rappresentata e difesa dall’avv….;
– controricorrente –
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI
TORINO;
TUTORE PROVVISORIO IN PERSONA DEL COMUNE DI (Omissis);
– intimati –
avverso la sentenza n. ../2021 della Corte d’appello di Torino, depositata il 08/06/2021;
udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 13/10/2022 dalla Consigliera Dott.
Annamaria Casadonte.
Svolgimento del processo
Che:
1. A.A. impugna per cassazione la sentenza della corte d’appello di Torino che ha confermato quella
assunta dal tribunale per i minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta che aveva dichiarato lo stato
di adottabilità della figlia minore C.C. (nata il (Omissis)). 2. La cassazione della sentenza d’appello è
chiesta con ricorso affidato a quattro motivi, illustrati da memoria, cui resiste nell’interesse della
minore C.C. il curatore speciale della stessa.
Motivi della decisione
Che:
3. Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, artt. 1, 8 e 9 e segg. e
art. 30 Cost.) si censura, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la pronuncia impugnata per
avere dichiarato lo stato di adottabilità della minore C.C. in mancanza dei presupposti legali per
ravvisare l’esistenza di uno stato di abbandono, in senso materiale e morale, non determinato da
forza maggiore e non transitorio, violando il diritto della minore ad essere cresciuta ed educata
nell’ambito della propria famiglia naturale, nonchè dell’art. 30 Cost., che prevede il dovere e diritto
dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli.
4. Ad avviso della ricorrente la storia familiare problematica di cui è portatrice non sarebbe di per
sè sufficiente a fondare il giudizio di inidoneità nello svolgere il ruolo genitoriale.
5. Assume la ricorrente che la corte d’appello avrebbe omesso di considerare il positivo precedente
percorso comunitario di madre e figlia così come avrebbe omesso un’attività istruttoria finalizzata
ad accertare quali fatti concreti di pregiudizio erano stati posti in essere dalla madre e tali da
costituire sul piano morale e materiale indiscutibili prove di abbandono, definitivo non temporaneo
o transeunte da giustificare la soluzione estrema dell’interruzione del legame naturale mediante la
dichiarazione dello stato di adottabilità della minore.
6. Assume ancora la ricorrente di essere vittima di un pregiudizio, per essere la valutazione circa la
sua inidoneità genitoriale fondato sulla ctu svolta nel corso del giudizio riguardante la figlia
primogenita D.D. (nata il (Omissis)) figlia della A.A. e di E.E., nonostante che la decisione assunta
sulla base di quella ctu sia stato cassata dalla Suprema corte in quanto ritenuta inidonea a dimostrare
l’abbandono della figlia primogenita e l’assunzione del provvedimento dichiarativo dell’adottabilità.
7. Nella sentenza di primo grado, confermata dalla sentenza d’appello impugnata si fa frequente
rimando alle valutazioni ricavate dalla ctu svolta nel diverso procedimento riguardante la verifica
dei presupposti della dichiarazione di adottabilità di D.D. e riguardante le capacità genitoriali con
particolare riferimento alla sua inidoneità ed il suo disturbo borderline.
8. Così argomentando, secondo la ricorrente, non veniva considerato che, come aveva allegato,
l’allontanamento dalla comunità cui era stata inserita dopo la nascita di C.C. era non voluto ma
necessitato da esigenze di tutela la figlia minore dai possibili pregiudizi derivanti dal padre
biologico.
9. La censura è inammissibile perchè non si confronta con la ratio decidendi.
10. La sentenza dopo avere dato atto del seguito dell’annullamento da parte della cassazione della
prima sentenza della corte d’appello che dichiarava adottabile la minore D.D., ha ricostruito il
giudizio di rinvio nell’ambito del quale era stata disposta nuova CTU da parte della Dottoressa F.F.,
giudizio conclusosi con la sentenza della 2018, impugnata in cassazione e conclusa con la sentenza
della corte numero 27.206 del 2019 che aveva respinto l’impugnazione evidenziando l’insussistenza
di alcun favorevole segnale prognostico circa la possibilità di costruzione o di recupero delle
competenze genitoriali della A.A., la cui storia personale di deprivazione materiale ed affettiva le ha
impedito di accedere proficuamente ad un percorso terapeutico di sostegno alla genitoriali.
11. Su tale premessa la corte territoriale ha evidenziato “l’insussistenza di alcun pregiudizio non
potendosi che prendere atto della circostanza che la A.A. non ha mai posto rimedio alla propria
incostanza, immaturità, incapacità di reggere – in un periodo sufficientemente lungo –
nell’osservanza di un serio tentativo di recupero nel inidoneità genitoriale”. A fronte di tale ratio
decidendi nessun elemento oggettivo valutabile quale indice di segno contrario risulta essere stato
indicato dalla ricorrente.
12. Con riguardo poi all’asserito necessitato allontanamento della A.A. dalla comunità ove era
ospitata insieme alla figlia C.C. la sentenza ha dettagliatamente spiegato le ragioni per le quali detto
allontanamento, nel corso del quale le era stato manifestato sostegno e soccorso da servizi sociali che
lei aveva rifiutato (cfr. pag. 11 della sentenza), non poteva essere ricondotto a causa di forza
maggiore ma confermava, ancora una volta, i limiti dell’incapacità della madre di prendersi cura
della minore.
13. Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il mancato esame
di punti decisivi ovvero la mancata valutazione delle condizioni soggettive ed oggettive della
ricorrente all’epoca dell’apertura della procedura di adottabilità della minore C.C., nonchè
nell’omessa valutazione della positiva evoluzione del percorso personale intrapreso dalla ricorrente
rispetto alla capacità genitoriale e alla sua condizione pregressa e comunque per non aver indagato
in concreto in ordine alle conseguenze negative sulla relazione con la figlia C.C., derivanti dalla
rescissione del vincolo madre figlia nonchè il buon rapporto con il figlio minore G.G. (nato il
(Omissis)) terzogenito, e per il quale pende giudizio di appello in relazione alla sentenza di primo
grado anch’essa dichiarativa dello stato di adottabilità del minore.
14. La censura è inammissibile perchè anche in tal caso non si confronta con la ratio decidendi
individuata dalla corte d’appello.
15. La corte territoriale, infatti, ha dato atto delle iniziative poste in essere dopo che nel (Omissis) si
erano verificati gli allontanamenti della madre dalla struttura dove era ospitata insieme alla figlia
C.C., utilizzando a tal fine le relazioni sociali dell'(Omissis), di quella datata (Omissis), iniziative che
miravano a sostenere la A.A. nel periodo in cui era impegnata al primo accudimento del terzogenito
G.G..
16. Sulla scorta di tali relazioni la corte territoriale ha evidenziato la refrattarietà della A.A. ai
supporti sociali e psicologici dagli operatori puntualizzando che “nel caso in esame tutti i servizi
coinvolti hanno profuso ogni risorsa ed ogni energia nel tentativo di recuperare le capacità
genitoriali senza alcun successo; occorre quindi considerare esclusivamente l’interesse prioritario
della minore che ha già operato un totale disinvestimento della relazione con la madre avendo
trovato altre diverse figure di riferimento”.
17. Tale ratio decidendi, coerente ai principi giurisprudenziali della Corte (cfr. Cass. 1837/2011; id.
881/2015, id. 6137/2015) non è attinta dalla censura in esame.
18. Con il terzo motivo (violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 10) si censura la
sentenza della corte di merito per non avere accolto le istanze istruttorie della ricorrente e,
segnatamente, per non aver disposto CTU sulle capacità genitoriali attuali della A.A. e la relazione
madre-figlia, per non aver disposto l’acquisizione di documenti richiesti e per non avere disposto
l’audizione degli operatori sociali e della psicologa Dottoressa H.H. e I.I.. 19. La censura è
inammissibile per difetto di specificità e perchè non attinge la ratio decidendi della sentenza
impugnata.
20. La corte di merito, come già sopra specificato, non ha deciso sulla base della CTU del (Omissis)
svolta nel procedimento riguardante la primogenita D.D. prima dell’annullamento da parte della
Corte di Cassazione della sentenza emessa nel 2016 dalla corte d’appello, ma ha valutato l’inidoneità
genitoriale della A.A. sulla scorta della ctu della Dott.ssa F.F. e delle relazioni successive, tutte
dettagliatamente indicate nella sentenza impugnata nella parte ricostruttiva della vicenda e
contenenti precisi riferimenti a fatti accertati nel corso del tempo e non smentiti da dati concreti di
segno diverso. Pertanto, la decisione assunta dalla corte di merito non si fonda sulla patologia
psichiatrica della A.A., ma sulla rilevata incapacità genitoriale pur a fronte dei numerosi sostegni
offertile in vista di un possibile recupero compatibile con le esigenze morali e materiali necessarie
alla sana crescita della figlia minore C.C..
21. Con il quarto motivo (violazione della L. n. 184 del 1983, art. 44, lett. d)) si censura la sentenza
impugnata per la mancata valutazione della possibilità di applicare i principi di diritto in materia di
adozione cd. mite.
22. La doglianza è inammissibile perchè censura il giudizio di fatto argomentato e motivato reso
dalla corte di merito sul punto (cfr. pag. 19 e 20 della sentenza impugnata) alla luce dei principi
interpretativi tratteggiati nei citati precedenti di legittimità (Cass., n. 3643/2020; id., n. 1476/2021) ed
ha concluso per l’esclusione di alcun interesse di C.C. a un legame con la madre biologica; ha ritenuto
che non possa affermarsi una solo parziale compromissione dell’inidoneità genitoriale ovvero la
sussistenza di una condizione di semi abbandono; ad avviso della corte di merito il percorso degli
incontri in luogo neutro è stato protratto sin troppo a lungo e non ha portato ad un miglioramento
delle capacità genitoriale nè ad un approfondimento del legame. La ripresa dei contatti con la
genitrice attiverebbe in C.C., secondo la corte distrettuale, sentimenti di precarietà e di provvisorietà,
pregiudizievoli alla creazione di un sano e rassicurante legame di appartenenza alle figure
genitoriali adottive, che impedirebbero anche il superamento delle difficoltà già affrontate per i
trasferimenti di collocazione e per il mutamento delle figure di accudimento.
23. Si tratta di un apprezzamento del giudice del merito che viene attinto come violazione di legge
senza tuttavia esaminarne il contenuto precettivo della norma asseritamente violata e senza
raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, non potendosi
demandare alla Corte il compito di individuare i punti della sentenza che si pongono in contrasto
con esso (cfr. Cass., 26/1/2004, n. 1317; id., 8/11/2005, n. 21659; id., 19/10/2006, n. 22499; id., 16/1/2007,
n. 828; id.,15/01/2015, n. 635; id., Sez. Un., n. 23745/2020).
24. Il ricorso è dunque inammissibile.
25. Attesa la natura dei rapporti fra le parti sussistono giusti motivi per la compensazione integrale
delle spese di lite.
25. Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n.
115, art. 13, comma 1-quater, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile e compensa le spese di lite.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati
identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003 art. 52.
Conclusione
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale della Sezione Prima Civile, il 13 ottobre 2022.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2022

Tentata violenza sessuale alla luce della esplicita richiesta di prestazioni sessuali

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 07 novembre 2022, n. 41818; Pres. Ramacci, Rel. Cons. Amoroso
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAMACCI Luca – Presidente –
Dott. CORBO Antonio – Consigliere –
Dott. NOVIELLO Giuseppe – Consigliere –
Dott. MAGRO Maria Beatrice – Consigliere –
Dott. AMOROSO Maria C. – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.A., nato in (Omissis);
Avverso l’ordinanza del Tribunale di Venezia del 01/04/2022.
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Maria Cristina Amoroso;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Manuali
Valentina, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1.Con ordinanza del 1/04/2022, il Tribunale di Venezia rigettava l’istanza di riesame avverso
l’ordinanza di custodia cautelare emessa il 18/03/2022 dal Gip del Tribunale di Treviso nei confronti
di A.A. per i reati di cui agli artt. 582 e 56, 609-bis c.p.
2.Avverso tale provvedimento il ricorrente propone ricorso in cassazione articolato in un unico
motivo in cui lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla riconosciuta fattispecie
di tentata violenza sessuale.
In particolare, si deduce che la condotta dell’indagato non ha raggiunto il grado di idoneità ed
univocità richiesto dell’art. 56 c.p., ma ha integrato, contrariamente a quanto sostenuto dal gip, atti
meramente preparatori e pertanto non rilevanti penalmente.
A supporto della deduzione ripercorre le fasi salienti dell’azione evidenziando che l’indagato si era
limitato a tenere bloccata la vittima con entrambe le mani, stringendole un braccio al collo e
tappandole con l’altra mano la bocca e pertanto, più correttamente, il giudice avrebbe dovuto ritenere
non integrata la fattispecie del tentativo.
Motivi della decisione
1. il motivo fondante del ricorso afferente alla violazione di legge e al vizio di motivazione in ordine
alla qualificazione dei fatti è privo di pregio.
In realtà in esso non si contesta l’illogicità della motivazione ma si prospetta una ricostruzione dei
fatti differente da quella effettuata nel provvedimento impugnato, con profili relativi al merito non
ammissibili in sede di legittimità.
Il ricorrente contesta che quanto affermato dal giudice corrisponda alla realtà dell’accaduto,
affermando che “l’imputato non era affatto intento a sbottonarsi i pantaloni ma viceversa teneva
bloccata la donna stando da dietro di lei ed impegnando entrambe le mani”.
I giudici del riesame hanno provveduto ad una coerente e puntuale ricostruzione degli eventi sulla
base delle dichiarazioni della persona offesa, reputate precise e concordanti, e della narrazione dei
vigili del fuoco intervenuti contestualmente agli accadimenti delittuosi; hanno altresì valorizzato il
repentino dileguarsi dell’indagato alla vista dei vigili del fuoco e da tale condotta, con ragionamento
logico, hanno desunto l’inverosimiglianza della versione difensiva alternativa fornita dalla difesa
secondo la quale il A.A. cingeva la vittima per impedirle di collocarsi nel mezzo della carreggiata in
stato di ubriachezza.
2.Ricostruita la vicenda in maniera esente dai vizi lamentati, correttamente, quindi, il Tribunale ha
qualificato la condotta del A.A. quale tentata violenza sessuale alla luce della esplicita richiesta di
prestazioni sessuali e della costrizione fisica della donna e della spinta del capo di quest’ultima verso
il basso ventre dell’imputato che aveva già aperto la cerniera dei pantaloni, giacchè la dinamica posta
in essere può correttamente ritenersi condotta idonea.
Va ricordato, infatti, che secondo la consolidata giurisprudenza di Questa Corte è configurabile il
tentativo del reato di cui all’art. 609-bis c.p., in tutte le ipotesi in cui la condotta violenta o minacciosa
non abbia determinato una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della medesima
ovvero non ha provocato un contatto di quest’ultima con le proprie parti intime (Sez. 3, n. 17414 del
18/02/2016, F., Rv. 266900), mentre non rilevano le ipotetiche spinte soggettive (estranee al desiderio
di soddisfacimento sessuale), che avrebbero determinato l’imputato a tenere tale comportamento.
3.Per queste considerazioni il ricorso va dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al
pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle
Ammende.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.
Così deciso in Roma, il 15 luglio 2022.
Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2022

Se il bambino cade, la colpa è del nonno

Cass. Civ., Sez. VI – 3, ord., 11 novembre 2022, n. 33390 – Pres. Scoditti, Cons. Rel. Cirillo
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. ../2020 R.G. proposto da:
A.A., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di
CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato…;
– ricorrente –
contro
COMUNE (Omissis), in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA
CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso
dall’avvocato …
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di LECCE n. 1036/2019 depositata il 30/09/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio 19/10/2022 dal Consigliere FRANCESCO MARIA
CIRILLO.
Svolgimento del processo
1. B.B. e C.C. convennero in giudizio il Comune di (Omissis), davanti al Tribunale di Lecce,
chiedendo che fosse condannato al risarcimento dei danni patiti dal loro figlio minore A.A. a seguito
di una caduta avvenuta a causa delle cattive condizioni di manutenzione del marciapiede di una via
cittadina.
Si costituì in giudizio il Comune convenuto, chiedendo il rigetto della domanda.
Espletata prova per testi e fatta svolgere una c.t.u. medico-legale, il Tribunale rigettò la domanda e
compensò le spese di giudizio.
2. La pronuncia è stata impugnata dagli attori soccombenti e la Corte d’appello di Lecce, con
sentenza del 30 settembre 2019, ha rigettato l’appello, condannando gli appellanti al pagamento delle
spese del grado.
3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Lecce ricorre A.A., nel frattempo divenuto
maggiorenne, con atto affidato a cinque motivi.
Resiste il Comune di (Omissis) con controricorso.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, sussistendo le condizioni di cui agli
artt. 375, 376 e 380-bis c.p.c., e non sono state depositate memorie.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3),
violazione dell’art. 2051 c.c., rilevando che dalle deposizioni testimoniali risulterebbe che l’allora
minore cadde per le sconnessioni del marciapiede, non potendo tale causa considerarsi come
abnorme e tale da escludere la responsabilità del custode.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3),
violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., per avere la Corte d’appello
posto a base della decisione circostanze non allegate dal Comune di (Omissis) e per aver anche
violato le regole sulle presunzioni.
La censura osserva che la circostanza, riportata in sentenza, secondo cui il bambino stava correndo
sul marciapiede quando si verificò la caduta non sarebbe stata mai dedotta dal Comune.
3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione
e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., per avere la sentenza erroneamente dedotto dal fatto che la
caduta si era verificata presso la casa del nonno del A.A. la conseguenza che il bambino fosse anche
a conoscenza dello stato di dissesto del marciapiede.
4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5),
violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., per non avere il giudice tenuto conto dei fatti
decisivi provati dall’attore danneggiato (cioè che il marciapiede fosse coperto da fogliame e che
l’evento si fosse verificato di sera, quindi in condizioni di scarsa visibilità).
5. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3),
violazione e falsa applicazione degli artt. 1227 e 2051 c.c., perchè il comportamento anche
imprudente della vittima non poteva costituire esimente per il Comune tenuto alla manutenzione
del marciapiede.
6. I motivi, da trattare congiuntamente in considerazione dell’evidente connessione tra loro esistenti,
sono, quando non inammissibili, comunque privi di fondamento.
6.1. Giova premettere che questa Corte, sottoponendo a revisione i principi sull’obbligo di obbligo
di custodia, ha stabilito, con le ordinanze 1 febbraio 2018, nn. 2480, 2481, 2482 e 2483, che in tema di
responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in
interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento
dannoso, in applicazione, anche ufficiosa, dell’art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione
che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà
espresso dall’art. 2 della Costituzione. Ne consegue che, quanto più la situazione di possibile danno
è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle
cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve
considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo
causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico
tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca
un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale,
connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.
Questi principi, ai quali la giurisprudenza successiva si è più volte uniformata (v., tra le altre, le
ordinanze 29 gennaio 2019, n. 2345, e 3 aprile 2019, n. 9315), sono da ribadire ulteriormente nel
giudizio odierno.
6.2. Tanto premesso, il Collegio rileva che la Corte d’appello, con un accertamento in fatto non
rivisitabile in questa sede, è pervenuta alla conclusione di dover attribuire l’intera responsabilità
dell’accaduto al minore ed al nonno che in quel momento era tenuto alla sua sorveglianza. Tale
convincimento è stato raggiunto sulla base di una serie di considerazioni. La sentenza impugnata
ha infatti osservato che la caduta era avvenuta in un luogo ben noto al bambino, posto che si era nei
pressi della casa del nonno; che lo stato di sconnessione del marciapiede era noto sia ai genitori che
al minore; che gli effetti della caduta deponevano nel senso che il bambino stesse correndo, il che
avrebbe obbligato il nonno ad un’adeguata sorveglianza; che il comportamento colposo di chi era
tenuto alla sorveglianza era tale da interrompere il nesso di causalità tra la cosa e il danno,
escludendo in questo modo la responsabilità del Comune ai sensi sia dell’art. 2051 che dell’art. 2043
del codice civile.
6.3. A fronte di tale ricostruzione, il ricorrente oppone la propria (diversa) valutazione dei fatti di
causa, sostenendo che la sentenza avrebbe fatto un uso errato delle presunzioni, non considerando
l’ora buia in cui la caduta era avvenuta e la mancanza di pubblica illuminazione.
Rileva la Corte, innanzitutto, che lo stesso ricorrente riferisce che la caduta avvenne intorno alle ore
20.30 del 12 luglio 2010 e che può ritenersi nozione di comune esperienza che nel mese di luglio vi
sia a quell’ora una piena visibilità, tanto più rilevante in considerazione della notorietà dei luoghi.
La circostanza, evidenziata dalla Corte d’appello, secondo cui il bambino stava correndo è solo di
contorno, nel senso che la sentenza, correttamente applicando la giurisprudenza di questa Corte, ha
affermato che la caduta era da ricondurre ad un’omessa vigilanza da parte di chi era tenuto alla
custodia del minore, interrompendosi in tal modo il nesso di causalità.
Le censure, in sostanza, da un lato ipotizzano violazioni di legge che non sussistono e dall’altro
finiscono col tradursi nella riproposizione del vizio di motivazione secondo il precedente testo
dell’art. 360, comma 1, n. 5), cit., sollecitando in questa sede un nuovo e non consentito esame del
merito.
6.4. Da ultimo, laddove si afferma nel secondo motivo che la circostanza rilevata dal giudice non
sarebbe mai stata dedotta dalla parte, va osservato che trattandosi del profilo del nesso di causalità,
e dunque di un fatto costitutivo, ricorre il potere/dovere di accertamento del giudice sulla base delle
circostanze acquisite al processo.
7. Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale esito segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione,
liquidate ai sensi del D.M. n. 55 del 10 marzo 2014.
Sussistono inoltre le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002, art. 13, comma 1-quater,
per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello versato per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle
spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 2.000 per compensi, di cui Euro 200
per spese, oltre spese generali e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza delle
condizioni per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 19 ottobre 2022.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2022