Trasferimento di immobili e conguagli tra fratelli

Cass. Civ., Sez. III, Ord., 23 ottobre 2020, n. 23391
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19131/2018 proposto da:
G.C., rappresentata e difesa dall’avvocato Cinzia Falaschi, ed elettivamente domiciliata presso lo studio della medesima in Perugia Corso Cavour n. 20;
– ricorrente –
contro
G.P., rappresentata e difesa dall’avv. Carlo Pacelli, ed elettivamente domiciliata presso lo studio del medesimo in Perugia, via Domenico Scarlatti 37;
– resistente –
avverso la sentenza n. 723/2018della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 28/3/2018;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata dell’8/07/2020 dal relatore Dott.ssa Anna MOSCARINI.
Svolgimento del processo
In data 5 febbraio 2002 la signora P.L. e le figlie C. e G.P. stipularono una serie di atti (compravendita, donazione remuneratoria, scrittura privata) con le quali la P. trasferì alle figlie la piena proprietà o la nuda proprietà di alcuni immobili, mentre le figlie si impegnarono, quale ulteriore corrispettivo dei trasferimenti effettuati dalla madre, ad accudire il fratello W., afflitto da problemi di salute. Sempre nella stessa data le sole figlie stipularono una scrittura privata con la quale C. si riconosceva debitrice nei confronti di P. di Euro 36.152,00, a titolo di conguaglio del maggior valore dei beni ricevuti. Quest’ultima, non avendo ottenuto il pagamento della suddetta somma, ottenne, in data 4/7/2002, un decreto ingiuntivo nei confronti della sorella, la quale con atto di citazione del 20/11/2002 spiegò formale opposizione. Il Tribunale di Perugia, con sentenza depositata in data 7/12/2006, accolse l’opposizione rilevando che la scrittura privata intercorsa tra le sorelle G. fosse nulla perchè integrante la violazione del divieto di patti successori ex art. 458 c.c. La Corte d’Appello di Perugia, adita da G.P., respinse il gravame confermando la nullità dell’accordo per violazione dell’art. 458 c.c. Avverso la sentenza G.P. propose ricorso per cassazione e questa Corte, con sentenza n. 24291/2015, lo accolse assumendo la totale impredicabilità, nella vicenda, della violazione del divieto di patti successori, atteso che le parti si erano limitate a determinare il conguaglio, che l’una assumeva dovuto in favore dell’altra, in relazione al maggior valore dei beni rispettivamente ricevuti ed acquistati dalla madre in vita e non per il tempo della futura successione, non contenendo l’obbligazione assunta con la scrittura alcuna rinuncia di G.P. ai diritti spettanti sulla futura successione della madre quale legittimaria.
La Corte d’Appello di Firenze, adita in riassunzione da G.P., con sentenza n. 723 del 2018 ha ritenuto legittimi gli atti di trasferimento dalla madre alle figlie, ferme restando le azioni a tutela dei diritti successori rimasti impregiudicati, essendo chiara la volontà della madre di garantire alle figlie una identica acquisizione sul piano del valore, sicchè quella che avesse ottenuto il bene di minor valore avrebbe avuto diritto ad un conguaglio in denaro. Ciò posto, la Corte di merito ha ritenuto che, a fronte di un accordo di tipo trilaterale atipico, del tutto legittimo, la ricognizione di debito, contenuta nella scrittura stipulata tra le sorelle, fosse strumentale ad un accordo di tipo contrattuale, con conseguente effetto, ex art. 1988 c.c., di astrazione meramente processuale della causa debendi, comportando soltanto un’inversione dell’onere della prova circa l’esistenza del rapporto fondamentale. La parte appellata, opponente nel grado di opposizione al decreto ingiuntivo, avrebbe dovuto dare debita prova della inesistenza o illiceità del rapporto fondamentale consistente nell’accordo sul trasferimento degli immobili, e non aveva affatto ottemperato a tale prova. Conseguentemente la Corte territoriale, in accoglimento dell’appello, ha rigettato l’opposizione a decreto ingiuntivo con conseguente conferma del provvedimento monitorio opposto ed ha condannato G.C. a pagare, in favore della sorella P., le spese di tutti i gradi del giudizio.
Avverso la sentenza la parte soccombente ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi cui ha resistito G.P. con controricorso.
Motivi della decisione
1.Con il primo motivo la ricorrente lamenta il vizio di violazione degli artt. 101, 102 e 112 c.p.c., con riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Assume che la Corte d’Appello in sede di rinvio avrebbe introdotto un argomento del tutto nuovo, consistente nella volontà della madre di lasciare alle figlie la scelta su quale dei due immobili acquistare, ponendo a carico della figlia che avesse optato per l’immobile di maggior valore l’obbligo di pagare un maggior prezzo. Questo argomento, sostenuto dalla qualificazione di contratto plurilaterale atipico, avrebbe determinato, ad avviso della ricorrente, un effetto “a sorpresa”, con la conseguente nullità della sentenza per non aver consentito sul punto l’articolazione del contraddittorio tra le parti e per essere incorsa nella violazione dell’art. 112 c.p.c. 1.1 Il motivo, certamente di merito, e dunque inammissibile in quanto volto ad un riesame della volontà delle parti quale ricostruita dal giudice del merito, è in ogni caso radicalmente infondato, sia quanto alla pretesa violazione dell’art. 101 c.p.c. per l’inesistente effetto “a sorpresa” della decisione, sia quanto alla pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c., per la piena conformità tra il chiesto ed il pronunciato. La Corte d’Appello non ha introdotto alcun argomento nuovo nel giudizio di rinvio sul quale abbia omesso di consentire l’articolazione del contraddittorio tra le parti, nè ha pronunciato extra petita partium ma si è limitata, sulla base di argomenti facenti parte del thema decidendum fin dal primo grado del giudizio, a pronunciare statuizioni del tutto conseguenziali rispetto al dictum della pronuncia di questa Corte che aveva inquadrato la fattispecie nell’ambito di un rapporto puramente obbligatorio intercorso tra le sorelle G., impregiudicati i diritti nascenti dalla futura successione.
L’impostazione difensiva di G.P., fatta propria dalla Corte d’Appello di Firenze, è stata, fin dal primo grado del giudizio, sempre la stessa: l’intento della P. era quello di cedere alle figlie i propri beni in parti uguali sicchè, avendo i beni trasferiti valori diversi, le sorelle si erano impegnate a compensare detti valori con la scrittura ricognitiva di debito di C. nei confronti di P..
E’ noto che l’effetto della decisione “a sorpresa” può riguardare questioni rilevabili d’ufficio e non anche questioni che facciano già parte del thema decidendum (Cass., 2, n. 29098 del 5/12/2017), sicchè la sentenza si pone in piena continuità con questo indirizzo giurisprudenziale, che va confermato. Infine, del tutto inconferente è la pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto la sentenza è del tutto corrispondente al petitum e alla causa petendi. In base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, rispetto alla quale la impugnata sentenza si pone in piena continuità, la corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato che vincola il giudice ex art. 112 c.p.c. riguarda il petitum, che va determinato con riferimento a quello che viene domandato nel contraddittorio tra le parti in relazione al bene della vita che l’attore intende conseguire e alle eccezioni sollevate dal convenuto, e la causa petendi, cioè le condizioni dell’azione (Cass., 3, n. 11289 del 10/5/2018; Cass., 3 n. 906 del 17/1/2018; Cass. L, n. 6757 del 24/3/2011), senza precludere al giudice una qualificazione giuridica diversa rispetto a quella prospettata dalla parte. Peraltro, nel caso in esame, petitum e causa petendi dell’atto introduttivo del giudizio si riflettono in modo del tutto speculare nella motivazione dell’impugnata sentenza.
2. Con il secondo motivo di ricorso – violazione e falsa applicazione dell’art. 1322 c.c. comma 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente assume che la impugnata sentenza si sarebbe limitata all’accertamento e alla qualificazione del patto intercorso tra le sorelle quale lecito, senza estendere l’indagine, come avrebbe dovuto in base alla giurisprudenza di questa Corte, alla meritevolezza dello scopo concretamente perseguito dalle parti, alla luce dei canoni costituzionali di solidarietà, parità e non prevaricazione.
2.1 Il motivo, non immune da profili di inammissibilità perchè afferente al merito, è in ogni caso privo di alcun fondamento, in quanto la Corte d’Appello non si è affatto limitata ad una formale qualificazione di liceità dell’accordo ma ha esaminato la causa concreta del medesimo, ponendosi peraltro in piena continuità con la giurisprudenza di questa Corte che, in due fattispecie del tutto identiche alla presente, afferenti cioè ad un accordo sul conguaglio volto ad equilibrare l’effetto economico di trasferimenti diseguali, ha ritenuto la causa dell’accordo meritevole di tutela (Cass., 2, n. 26946 dell’11/11/2008; n. 24291 del 22/10/2015).
3. Conclusivamente il ricorso va rigettato e la ricorrente condannata a pagare le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo. Si dà atto dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, del cd. “raddoppio” del contributo unificato, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare, in favore di parte resistente, le spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 4.500 (oltre Euro 200 per esborsi), più accessori di legge e spese generali al 15%. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello pagato per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 8 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2020.

Sottrazione e trattenimento di minore all’estero: incostituzionale sospendere in automatico la responsabilità genitoriale

Corte cost., 29 maggio 2020, n. 102 – Pres. Cartabia

CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Marta CARTABIA;
Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 34, secondo comma, e 574-bis, terzo comma, del codice penale, promosso dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale, nel procedimento penale a carico di A. F., con ordinanza del 21 giugno 2019, iscritta al n. 209 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2019,
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito il Giudice relatore Francesco Viganò nella camera di consiglio del 6 maggio 2020, svolta ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a);
deliberato nella camera di consiglio del 6 maggio 2020.
1.- Con ordinanza del 29 gennaio 2019, depositata il 21 giugno 2019 e pervenuta a questa Corte il 4 novembre 2019, la Corte di cassazione, sezione sesta penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 34 e 574-bis del codice penale, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 30 e 31 della Costituzione, nonché all’art. 10 Cost., in relazione alla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 27 maggio 1991, n. 176, nella parte in cui, dal loro combinato disposto, impongono che alla condanna per sottrazione e trattenimento di minore all’estero commessa dal genitore in danno del figlio minore consegua automaticamente e per un periodo predeterminato dalla legge la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale.
1.1.- La Sezione rimettente espone che il 30 aprile 2016 il Tribunale ordinario di Grosseto ha condannato la signora A. F. alla pena di due anni e un mese di reclusione, unitamente alla pena accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, per avere eluso, in più occasioni, il provvedimento del Tribunale per i minorenni di Firenze in ordine all’affidamento condiviso dei due figli minorenni (artt. 81, secondo comma, e 388, secondo comma, cod. pen.), e per avere sottratto i medesimi al padre, portandoli in Austria contro la volontà di quest’ultimo (artt. 81, secondo comma, e 574-bis cod. pen.). Il 6 aprile 2018 la Corte d’appello di Firenze ha rigettato l’appello dell’imputata, confermando la sua responsabilità per i reati accertati dal primo giudice, e in accoglimento dell’appello interposto dal pubblico ministero ha rideterminato la pena in quella di due anni e sei mesi di reclusione.
A. F. ha quindi proposto ricorso per cassazione, eccependo tra l’altro l’illegittimità costituzionale degli automatismi previsti dalle disposizioni censurate in relazione all’applicazione della pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale.
1.2.- Ad avviso del giudice a quo, le questioni prospettate sono rilevanti, dal momento che il giudizio di cassazione non potrebbe essere definito indipendentemente dalla loro soluzione, che concernerebbe tanto l’automatismo dell’applicazione della pena accessoria in questione per il delitto di sottrazione di minori all’estero commesso “da un genitore in danno del figlio minore” prevista dall’art. 574-bis, terzo comma, cod. pen., quanto la determinazione automatica della sua misura ai sensi dell’art. 34, secondo comma, cod. pen.
1.3.- Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, la Sezione rimettente osserva che la pena accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale comporta conseguenze che ricadono sui figli dei condannati non già “semplicemente de facto – come può avvenire per qualsiasi provvedimento giudiziario – ma de jure”. Dagli artt. 2 (che, riconoscendo e tutelando i diritti fondamentali dell’individuo, costituisce fondamento anche per la tutela dei diritti dei minorenni), 3, 29 e 30 Cost., nonché dall’art. 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo (che impegna gli Stati parte a rispettare, tra l’altro, il diritto dei minori alle proprie relazioni familiari) si evincerebbe, tuttavia, il “principio secondo cui in tutte le decisioni relative ai minorenni deve considerarsi il preminente interesse degli stessi”; di talché qualsiasi provvedimento che incide sulla responsabilità genitoriale potrebbe giustificarsi solo in quanto non contrasti con l’esigenza di tutela del minore.
Mentre i provvedimenti di sospensione o decadenza dalla responsabilità genitoriale previsti dagli artt. 330 e 333 del codice civile sono adottati di regola da parte di un giudice specializzato (il tribunale per i minorenni) che, all’esito di un vaglio delle concrete circostanze del caso, ne ravvisi l’effettiva opportunità, la pena accessoria prevista dalle disposizioni censurate dovrebbe essere disposta in modo automatico dal giudice penale, al quale sarebbe impedito di “valutare la corrispondenza tra la sospensione della responsabilità genitoriale e gli interessi dei minorenni, così negando la possibilità di effettuare un diverso bilanciamento tra i diritti di quest’ultimi e le esigenze punitive dello Stato verso i genitori”.
Il giudice a quo rammenta come la sentenza n. 31 del 2012 di questa Corte abbia ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 569 cod. pen., nella parte in cui stabiliva che alla condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione di stato conseguisse automaticamente la perdita della potestà genitoriale, dal momento che tale soluzione normativa precludeva al giudice la possibilità di valutare l’interesse del minorenne nel caso concreto, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.; e ciò anche in considerazione dell’impossibilità per il giudice, creata dalla medesima disposizione allora censurata, di assumere una determinazione che gli consentisse di tenere nel debito conto il preminente interesse morale e materiale del minore nel caso concreto.
Simili considerazioni varrebbero, secondo la Sezione rimettente, anche in relazione alla previsione automatica della medesima pena accessoria per il delitto di cui all’art. 574-bis cod. pen., previsione che sarebbe suscettibile di compromettere il diritto del minore “di crescere con i genitori e di essere educati da questi, salvo che ciò comporti un grave pregiudizio”.
Una tale compromissione risulterebbe d’altronde in contrasto anche con gli artt. 2, 30 e 31 Cost., nonché con l’art. 3, comma 1, della menzionata Convenzione sui diritti del fanciullo, a tenore del quale “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente”, e con la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con L. 20 marzo 2003, n. 77, la quale stabilisce che in tutti i procedimenti che riguardano un minorenne l’autorità giudiziaria deve acquisire “informazioni sufficienti al fine di prendere una decisione nell’interesse superiore del fanciullo”.
l giudice a quo dubita dunque della compatibilità degli automatismi censurati con i principi costituzionali e internazionali richiamati (questi ultimi ritenuti rilevanti in relazione all’art. 10 Cost.), anche considerando che il delitto ex art. 574-bis cod. pen. – come già il delitto di alterazione di stato, oggetto della sentenza n. 31 del 2012 – non comporterebbe “una presunzione assoluta di pregiudizio per gli interessi morali e materiali del minorenne, per cui è ragionevole che il giudice debba poter valutare, in relazione al caso concreto, la inidoneità del genitore all’esercizio della responsabilità genitoriale”.
La Sezione rimettente richiama, altresì, la giurisprudenza di questa Corte che considera incompatibili con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. pene accessorie sproporzionate per eccesso rispetto al concreto disvalore del fatto di reato (è citata la sentenza n. 222 del 2018), osservando che l’applicazione automatica di una pena accessoria contrasterebbe con il principio della finalità rieducativa della pena “nei casi in cui il delitto ex art. 574-bis cod. pen. sia stato motivato dalla finalità di preservare il figlio da pregiudizi che potrebbero essergli arrecati dall’altro genitore”, dal momento che il condannato in una tale situazione “non potrebbe ricavare una rieducazione dalla sospensione della sua potestà genitoriale”.
Dopo aver rammentato altre pronunce con cui questa Corte ha dichiarato illegittimi automatismi nella disciplina delle misure alternative alla detenzione (sono citate le sentenze n. 445 del 1997, n. 504 e n. 186 del 1995) ovvero nell’applicazione di pene accessorie (sono citate, oltre alla sentenza n.31 del 2012, le sentenze n. 22 del 2018 e n. 7 del 2013), il giudice a quo si sofferma ancora sulla sentenza n. 222 del 2018, evidenziando che da tale pronuncia si evince il principio secondo cui, “quando una sanzione si rivela manifestamente irragionevole, un intervento correttivo della Corte costituzionale è possibile se essa può essere sostituita ancorandosi a “precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo”, anche se il sistema non offre un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima senza provocare vuoti di tutela degli interessi toccati dalla norma oggetto della pronuncia”.
Il collegio rimettente osserva, infine, che anche “la previsione di una durata fissa della pena accessoria presenta profili di dubbia costituzionalità perché contrasta con il principio di proporzionalità della pena … e con il principio di necessaria individualizzazione delle pene”, che imporrebbero “una adeguata calibrazione della applicazione e della durata” della pena accessoria in questione.
2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dell’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate.
2.1.- Anzitutto, il giudice a quo avrebbe fornito una lacunosa dimostrazione della rilevanza delle questioni prospettate, non consentendo in particolare a questa Corte “di verificare se il motivo di gravame da cui nasce la questione di costituzionalità riproduca effettivamente una doglianza già mossa nell’atto di appello avverso la sentenza del Tribunale di Grosseto, che pure aveva già irrogato all’imputata la suddetta pena accessoria”. Laddove – osserva l’Avvocatura generale dello Stato – l’imputata non avesse già sollevato avanti alla Corte d’appello una doglianza relativa alla sanzione irrogatale, il motivo di gravame svolto avanti alla Corte di cassazione rimettente sarebbe inammissibile, con conseguente irrilevanza nel giudizio a quo delle questioni prospettate.
Il difetto di motivazione sulla rilevanza si apprezzerebbe, inoltre, anche rispetto all’assenza di indicazioni “sulle capacità genitoriali dell’imputata, sulla sua condotta nel rapporto con l’altro coniuge relativamente ai figli, sulla volontà dei figli di interrompere i rapporti col padre, sul rapporto tra i figli e lo stesso padre”; il che comporterebbe l’impossibilità di “far fondatamente presumere la derivazione in danno dei figli di effetti pregiudizievoli dall’applicazione della pena accessoria irrogata alla madre”. Un tale difetto di motivazione sulla rilevanza, osserva l’Avvocatura generale dello Stato, aveva del resto condotto questa Corte a dichiarare inammissibile, con ordinanza n. 150 del 2013, una questione identica a quella oggi proposta dalla sezione rimettente.
Nel giudizio a quo, infine, non assumerebbe alcuna rilevanza concreta “la questione della durata predeterminata della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, alla quale il ricorso presentato nell’interesse dell’imputata, per come riportato dall’ordinanza, neppure accenna”.
2.2.- Nel merito, le questioni sarebbero comunque infondate.
L’automatismo di cui si duole il collegio rimettente sarebbe, infatti, posto a tutela del minore, il quale – in conseguenza della condotta di illecita sottrazione e trattenimento all’estero – subirebbe “una compromissione, spesso definitiva, del proprio diritto di godere degli affetti familiari e di essere educato e assistito dai propri genitori”. La condotta incriminata dall’art. 574-bis cod. pen. sarebbe, in effetti, “di sicuro pregiudizio per l’interesse morale e materiale del minore”, ciò che renderebbe del tutto ragionevole la comminatoria, a carico del genitore che abbia compiuto il reato e che per questo si sia dimostrato inadatto a esercitare la propria responsabilità genitoriale, della pena accessoria in questione.
Una tale considerazione, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, renderebbe inapplicabile a questo caso la ratio delle sentenze n. 31 del 2012 e n. 7 del 2013 di questa Corte, concernenti reati che non necessariamente sono commessi a danno del minore, come invece il delitto di cui all’art. 574-bis cod. pen., che mira a tutelare “i singoli rapporti e gli specifici interessi che fanno capo ai componenti il nucleo familiare”.
D’altra parte, la pena accessoria qui all’esame non è la decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale, ma la semplice sospensione della stessa, che priva solo temporaneamente il genitore dei diritti a essa inerenti, conservandogli peraltro la possibilità di frequentare il figlio e di vigilare sulla sua istruzione, educazione e condizioni di vita, nonché la titolarità dei doveri che discendono dal proprio ruolo genitoriale.
Né sarebbe fondato il dubbio di legittimità costituzionale sollevato in relazione al carattere predeterminato della durata della pena accessoria, dal momento che l’art. 34 cod. pen. si limiterebbe a dettare un criterio di computo per la durata della pena stessa, senza togliere al giudice la discrezionalità nella fissazione della pena principale, la quale poi si rifletterà sull’entità della pena accessoria, assicurandone così la proporzionalità alla gravità del fatto da cui deriva la pena principale.
Motivi della decisione
1.- Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di cassazione, sezione sesta penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 34 e 574-bis del codice penale, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 30 e 31 della Costituzione, nonché all’art. 10 Cost., in relazione alla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 27 maggio 1991, n. 176, nella parte in cui impongono che alla condanna per sottrazione e trattenimento di minore all’estero commessa dal genitore in danno del figlio minore consegua automaticamente e per un periodo predeterminato dalla legge la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale. Secondo la Sezione rimettente, l’automatismo applicativo discendente dalle disposizioni censurate – quanto, anzitutto, all’an della pena accessoria – sarebbe incompatibile con il principio della preminenza degli interessi del minore in ogni decisione pubblica che lo riguarda, principio a sua volta ricavabile da una pluralità di parametri costituzionali, e in particolare dagli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost., nonché dall’art. 10 Cost., in relazione alla Convenzione sui diritti del fanciullo.
L’automatismo nell’an della pena accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale sarebbe, altresì, in contrasto con il principio di proporzionalità della pena desumibile dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. La pena in questione risulterebbe eccessiva specie allorché il reo sia stato motivato dalla finalità di preservare il figlio da pregiudizi che potrebbero essergli arrecati dall’altro genitore; situazione, questa, in cui la pena non potrebbe esplicare alcuna efficacia rieducativa.
Infine, il giudice a quo censura l’automatismo nel quantum della pena accessoria discendente dalle disposizioni censurate, ritenendolo incompatibile – ancora – con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
2.- Preliminare all’esame delle questioni prospettate è un breve inquadramento del contesto normativo nelle quali esse si inseriscono.
2.1.- L’art. 34 cod. pen. – la prima delle disposizioni censurate – disciplina in via generale le pene accessorie della decadenza e della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, stabilendo al primo comma che la decadenza si applica (soltanto) ai delitti per i quali essa sia espressamente prevista, e al secondo comma che la sospensione opera invece come conseguenza automatica della “condanna per delitti commessi con abuso della responsabilità genitoriale … per un periodo di tempo, superiore al doppio della pena inflitta”.
L’art. 34 non specifica, peraltro, quale sia il contenuto delle due pene accessorie in parola, limitandosi a precisare – al terzo comma – che la decadenza dalla responsabilità genitoriale importa “anche” – e, dunque, non esclusivamente – “la privazione di ogni diritto che al genitore spetti sui beni del figlio in forza della responsabilità genitoriale di cui al titolo IX del libro I del codice civile”, nonché – al quarto comma – che la sospensione dal relativo esercizio importa “anche l’incapacità a esercitare, durante la sospensione”, i medesimi diritti.
Il più preciso contenuto delle due pene accessorie in esame si ricava, a contrario, dalle disposizioni del codice civile dedicate alla “responsabilità genitoriale”: espressione con cui è stata sostituita – ad opera dell’art. 93, lettera c), del D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della L. 10 dicembre 2012, n. 219) – la precedente formula “potestà dei genitori”, che a sua volta aveva sostituito – per effetto dell’art. 122 della L. 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – il sintagma originario “patria potestà”.
L’art. 316 cod. civ., come modificato dal citato D.Lgs. n. 154 del 2013, disciplina – pur senza definirne puntualmente il contenuto – la responsabilità genitoriale, attribuendone la titolarità a entrambi i genitori, chiamati a esercitarla “di comune accordo, tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio”.
ome chiarisce la Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 154 del 2013, “la nozione di responsabilità genitoriale, presente da tempo in numerosi strumenti internazionali (tra cui il reg. CE n. 2201/2003 – c.d. Bruxelles II bis – relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale), è quella che meglio definisce i contenuti dell’impegno genitoriale, da considerare non più come una potestà sul figlio minore, ma come un’assunzione di responsabilità da parte dei genitori nei confronti del figlio”. Tale nozione consiste – prosegue la Relazione – in “una situazione giuridica complessa idonea a riassumere i doveri, gli obblighi e i diritti derivanti per il genitore dalla filiazione”, precisandosi che essa è “necessariamente più ampia rispetto alla (vecchia) potestà, in quanto dovrebbe reputarsi in essa ricompresa anche la componente economica rappresentata dall’obbligo di mantenimento dei figli”. Ciò che permette, conclude la Relazione, di attribuire “risalto alla diversa visione prospettica che nel corso degli anni si è sviluppata ed è ormai da considerare patrimonio condiviso: i rapporti genitori-figli non devono più essere considerati avendo riguardo al punto di vista dei genitori, ma occorre porre in risalto il superiore interesse dei figli minori”.
Le due pene accessorie disciplinate dall’art. 34 cod. pen. prevedono dunque la decadenza (definitiva) ovvero la sospensione (temporanea) dal fascio complesso di diritti, potestà, obblighi, che si riassumono nel concetto civilistico di “responsabilità genitoriale” di cui all’art. 316 cod. civ.
L’ultimo comma dell’art. 34 cod. pen. dispone, peraltro, che – in caso di sospensione condizionale della pena relativa a un reato per il quale sia prevista in astratto la pena accessoria della decadenza o della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale – gli atti del procedimento penale debbano essere trasmessi al tribunale per i minorenni, affinché assuma i “provvedimenti più opportuni nell’interesse dei minori”. La ratio della disposizione si collega evidentemente all’art. 166 cod. pen., il quale prevede che la sospensione condizionale della pena si estende di regola anche alle pene accessorie; sicché l’ultimo comma dell’art. 34 cod. pen. si preoccupa di assicurare che anche in tale ipotesi vengano comunque assunti gli opportuni provvedimenti a tutela del minore, ad opera però non direttamente del giudice penale, ma del tribunale per i minorenni, il quale potrà così intervenire – se del caso – adottando le misure previste dagli artt. 330 e 333 cod. civ.
In particolare, l’art. 330 cod. civ. dispone che “il giudice può pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio”, precisando al secondo comma che “in tal caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore”. Il genitore decaduto potrà peraltro essere reintegrato nella responsabilità genitoriale ai sensi dell’art. 332 cod. civ., allorché siano cessate le ragioni per le quali la decadenza è stata pronunciata.
Ai sensi invece del successivo art. 333 cod. civ., “quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall’art. 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze del caso, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore”. Tali provvedimenti, peraltro, sono – ai sensi dell’ultimo comma dello stesso art. 333 cod. civ. – “revocabili in qualsiasi momento”.
Nella specifica ipotesi in cui penda tra i genitori, innanzi al giudice ordinario civile, un giudizio di separazione o di divorzio, ovvero un procedimento sulla responsabilità genitoriale di figli nati da coppia non coniugata ai sensi dell’art. 316 cod. civ., l’art. 38, primo comma, del R.D. 30 marzo 1942, n. 318 (Disposizioni per l’attuazione del Codice civile e disposizioni transitorie) prevede che la competenza per i procedimenti di cui all’art. 333 cod. civ. spetti allo stesso giudice ordinario, con esclusione della competenza del tribunale per i minorenni.
2.2.- La seconda disposizione oggetto di censure da parte del rimettente è l’art. 574-bis cod. pen.
Introdotta a mezzo della L. 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), la norma mira ad apprestare una più energica tutela penale contro l’odioso fenomeno della sottrazione o del trattenimento di minori all’estero contro la volontà di uno o entrambi i genitori esercenti la responsabilità genitoriale ovvero del tutore, con l’effetto di impedire a costoro l’esercizio della responsabilità stessa.
Accanto alle pene principali della reclusione da uno a quattro anni per l’ipotesi prevista dal primo comma, e da sei mesi a tre anni per l’ipotesi – prevista dal secondo comma – caratterizzata dalla sottrazione o trattenimento di minore ultraquattordicenne con il suo consenso, il terzo comma dell’art. 574-bis prevede, come conseguenza automatica della condanna, la pena accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale a carico del genitore che abbia commesso il fatto “in danno del figlio minore”.
Tale terzo comma ribadisce in effetti la previsione di cui all’art. 34, secondo comma, cod. pen., che – come si è poc’anzi sottolineato – prevede in via generale la pena accessoria in questione come conseguenza automatica della condanna per tutti i delitti commessi con abuso della responsabilità genitoriale, come è certamente qualificabile il delitto di sottrazione o trattenimento di minori all’estero. In mancanza poi di specifica indicazione sulla durata della pena accessoria nel medesimo terzo comma dell’art. 574-bis cod. pen., essa dovrà ricavarsi dalla stessa disposizione generale di cui all’art. 34, secondo comma, cod. pen., che ne àncora il quantum al doppio della pena principale in concreto inflitta.
2.3.- Dal tenore complessivo della motivazione dell’ordinanza di rimessione, alla luce del quadro normativo sin qui illustrato, si evince dunque che oggetto delle censure del giudice a quo sono, più precisamente: a) il terzo comma dell’art. 574-bis cod. pen., nella parte in cui prevede come conseguenza automatica della condanna la pena accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale a carico del genitore che abbia commesso il delitto di sottrazione o trattenimento di minore all’estero in danno del figlio minore; e b) il secondo comma dell’art. 34 cod. pen., nella parte in cui dispone che – in tal caso – la durata della pena accessoria in parola è pari al doppio della pena principale inflitta.
3.- In punto di ammissibilità delle questioni prospettate, si osserva quanto segue.
3.1.- Sono anzitutto inammissibili le questioni aventi ad oggetto l’art. 34, secondo comma, cod. pen.
3.1.1.- Quanto ai profili concernenti l’automatismo nell’an della pena accessoria in questione, se l’obiettivo della Sezione rimettente è quello di eliminare tale automatismo con riferimento al solo delitto di cui all’art. 574-bis cod. pen., l’oggetto del presente giudizio di costituzionalità deve essere, per l’appunto, confinato al solo terzo comma dell’art. 574-bis cod. pen., che stabilisce la regola secondo cui la condanna del genitore per il delitto di sottrazione o trattenimento di minore all’estero compiuto in danno del figlio minore “comporta”, con carattere di automaticità, la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale.
Ed invero, l’estensione del sindacato di costituzionalità all’art. 34, secondo comma, cod. pen. sui profili concernenti l’automatismo nell’an della pena accessoria sarebbe, per un verso, inutile rispetto agli scopi perseguiti dalla sezione rimettente, posto che l’art. 574-bis, terzo comma, cod. pen. si atteggia a lex specialis rispetto a quella disposizione, come tale destinata a trovare applicazione in caso di condanna per il delitto di sottrazione o trattenimento di minore all’estero in luogo della lex generalis; per altro verso, detta estensione risulterebbe eccedente rispetto a tali scopi, dal momento che l’art. 34, secondo comma, cod. pen. si applica alla generalità dei delitti commessi con abuso della responsabilità genitoriale, dei quali non si occupa – né potrebbe occuparsi – l’ordinanza di rimessione.
3.1.2.- Relativamente poi alle questioni concernenti il quantum della pena accessoria, oggetto della disciplina di cui all’art. 34, secondo comma, cod. pen., è fondata l’eccezione – per il vero appena accennata dall’Avvocatura generale dello Stato – secondo cui tali questioni non spiegano alcuna rilevanza nel giudizio a quo.
Dall’ordinanza di rimessione si evince che la ricorrente non ha articolato motivi di ricorso sul quantum della pena accessoria irrogatale, concentrando piuttosto le sue censure sull’an della sua applicazione, rispetto alle quali ha sollecitato la Corte di cassazione a sollevare questioni di legittimità costituzionale. In caso di rigetto di tali questioni, la Sezione rimettente dovrebbe dunque disattendere il ricorso dell’imputata, senza poter sindacare la durata della pena accessoria concretamente irrogata; mentre in caso di accoglimento delle questioni aventi ad oggetto l’art. 574-bis cod. pen. in riferimento all’automatismo nell’an della pena accessoria, ben potrebbe annullare il capo della sentenza impugnata relativo all’applicazione della pena accessoria stessa, rinviando gli atti al giudice del merito. Sarebbe poi quest’ultimo a dover valutare se irrogare la pena accessoria e, in caso affermativo, a determinarne la durata, facendo a quel punto applicazione dell’art. 34, secondo comma, cod. pen.
3.2.- Quanto poi ai parametri evocati, inammissibile deve ritenersi la censura formulata in riferimento all’art. 10 Cost., in relazione alla Convenzione sui diritti del fanciullo.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, le “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” cui l’ordinamento italiano si conforma ai sensi dell’art. 10, primo comma, Cost. sono soltanto quelle del cosiddetto diritto internazionale generale, certamente comprensivo delle norme consuetudinarie (sentenze n. 73 del 2001, n. 15 del 1996 e n. 168 del 1994), ma con esclusione del diritto internazionale pattizio (sentenze n. 224 del 2013, n. 113 del 2011, nonché n. 348 e n. 349 del 2007, e precedenti conformi ivi citati).
La citata Convenzione, come la generalità del diritto internazionale pattizio, vincola piuttosto il potere legislativo statale e regionale ai sensi e nei limiti di cui all’art. 117, primo comma, Cost., secondo le note scansioni enucleate dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 (nel senso, per l’appunto, del rilievo ex art. 117, primo comma, Cost. della Convenzione sui diritti del fanciullo, sentenza n. 7 del 2013).
Ciò non impedisce, peraltro, alla predetta Convenzione – così come alla Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con L. 20 marzo 2003, n. 77, citata in motivazione nell’ordinanza di rimessione, nonché alla stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), che tra l’altro aspira a sintetizzare le tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri dell’intera Unione – di poter essere utilizzata quale strumento interpretativo delle corrispondenti garanzie costituzionali, tra le quali in particolare gli artt. 2, 30 e 31 Cost., specificamente evocati dalle ordinanze di rimessione (amplius, al riguardo, infra, 4.1. e 4.2.).
3.3.- Non è fondata, invece, l’eccezione formulata dall’Avvocatura generale dello Stato e relativa all’allegato difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni, che deriverebbe dal non avere il giudice a quo chiarito se la ricorrente avesse già formulato una doglianza contro l’applicazione della pena accessoria innanzi alla Corte d’appello; ciò che condizionerebbe, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la stessa ammissibilità del corrispondente motivo di gravame nel giudizio di cassazione.
A prescindere qui dal rilievo che, come risulta dagli atti, la ricorrente aveva in effetti già formulato la doglianza in parola in sede di appello, l’esigenza di una puntuale motivazione sulla rilevanza della questione non può essere dilatata sino a esigere, nell’ordinanza medesima, una specifica confutazione di tutte le eventuali, e meramente ipotetiche, ragioni di inammissibilità della domanda spiegata innanzi al giudice a quo. E ciò in assenza, almeno, di plausibili ragioni – emergenti dalla stessa ordinanza di rimessione – che possano condurre questa Corte a dubitare di tale ammissibilità.
Nel caso di specie, tali ragioni ictu oculi non sussistono: anzi, dal momento che lo stesso giudice a quo dà atto che la pena inflitta all’imputata era stata rideterminata in peius nel giudizio d’appello, all’imputata sarebbe comunque stato consentito formulare motivi di ricorso per cassazione attinenti al trattamento sanzionatorio – e dunque anche alla pena accessoria in questione – pure laddove una tale doglianza non fosse stata in precedenza articolata quale motivo d’appello (art. 609, comma 2, del codice di procedura penale).
3.4.- L’Avvocatura generale dello Stato lamenta infine un difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni anche sotto il profilo dell’omessa illustrazione, da parte dell’ordinanza di rimessione, delle circostanze di fatto dalle quali dovrebbe desumersi il carattere pregiudizievole per i figli dell’applicazione della pena accessoria alla madre.
Anche questa eccezione è infondata.
È vero che questioni analoghe a quelle oggi all’esame, sollevate da un giudice di merito, sono state ritenute inammissibili da questa Corte con ordinanza n. 150 del 2013, proprio in ragione dell’insufficiente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo, non essendo stato neppure precisato – in quell’occasione – se la pena detentiva sarebbe stata sospesa o meno, con conseguente incertezza circa la possibilità stessa – giusta il disposto dell’art. 34, ultimo comma, cod. pen. – di applicare la pena accessoria.
Le questioni odierne, tuttavia, sono state sollevate non già da un giudice di merito, ma dalla Corte di cassazione, investita del ricorso avverso una sentenza di condanna a pena non sospesa, alla quale segue di diritto l’applicazione della pena accessoria in esame. Avendo la Corte medesima già ritenuto infondati gli ulteriori motivi di ricorso contro la sentenza di condanna, anche le doglianze sulla statuizione relativa alla pena accessoria dovrebbero essere rigettate, a meno che non vengano accolte le questioni di legittimità costituzionale prospettate in questa sede: ciò che comporterebbe l’esito obbligato dell’annullamento in parte qua della sentenza di condanna.
Il che basta ai fini della rilevanza delle questioni relative all’automatismo nell’an della pena accessoria all’esame, risultando invece superflua ogni ulteriore descrizione della fattispecie concreta, della quale dovrebbe semmai occuparsi il giudice del rinvio chiamato a valutare se applicare la pena accessoria medesima.
4.- Nel merito, conviene esaminare congiuntamente le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 574-bis, terzo comma, cod. pen. in riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost.
Richiamando tali parametri costituzionali, il giudice a quo in buona sostanza dubita della legittimità della disciplina censurata sotto un triplice concorrente profilo, in quanto: a) imporrebbe al giudice penale di irrogare la sanzione accessoria della sospensione dall’esercizio dalla responsabilità genitoriale anche allorché ciò sia contrario all’interesse preminente del minore, b) violerebbe il diritto del minore di mantenere relazioni con entrambi i genitori, e c) introdurrebbe un automatismo incompatibile con la necessità di una valutazione caso per caso dell’adozione di un provvedimento che riguarda direttamente il minore.
4.1.- Rispetto al primo profilo, sono certamente pertinenti i richiami agli articoli 30 e 31 Cost.
Il principio secondo cui in tutte le decisioni relative ai minori di competenza delle pubbliche autorità, compresi i tribunali, deve essere riconosciuto rilievo primario alla salvaguardia dei “migliori interessi” (best interests) o dell’ “interesse superiore” (intérêt supérieur) del minore, secondo le formule utilizzate nelle rispettive versioni ufficiali in lingua inglese e francese, nasce nell’ambito del diritto internazionale dei diritti umani, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1959, e di qui confluito – tra l’altro – nell’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo e nell’art. 24, comma 2, CDFUE, per essere assunto altresì quale contenuto implicito del diritto alla vita familiare di cui all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) dalla stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Grande Camera, sentenza 6 luglio 2010, N. e Shuruk contro Svizzera, paragrafi da 49 a 56 e 135; Grande Camera, sentenza 26 novembre 2013, X contro Lettonia, paragrafo 96; sezione terza, sentenza 19 settembre 2000, Gnahoré contro Francia, paragrafo 59).
Tale principio – già declinato da questa Corte, con riferimento all’art. 30 Cost., come necessità che nelle decisioni concernenti il minore venga sempre ricercata “la soluzione ottimale “in concreto” per l’interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior “cura della persona”” (sentenza n. 11 del 1981) – è stato, peraltro, già considerato da plurime pronunce di questa Corte come incorporato altresì nell’ambito di applicazione dell’art. 31 Cost. (sentenze n. 272 del 2017, n. 76 del 2017, n. 17 del 2017 e n. 239 del 2014), il cui contenuto appare dunque arricchito e completato da tale indicazione proveniente dal diritto internazionale (sentenza n. 187 del 2019).
4.2.- Quanto poi al diritto del minore di mantenere un rapporto con entrambi i genitori, occorre parimenti rilevare che tale diritto – riconosciuto oggi, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 315-bis, primo e secondo comma, cod. civ., ove si sancisce il diritto del minore a essere “educato, istruito e assistito moralmente” dai genitori, nonché dall’art. 337-ter, primo comma, cod. civ., ove si riconosce il suo diritto di “mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori” e “di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi” – è affermato altresì da una pluralità di strumenti internazionali e dell’Unione europea, al cui rispetto il nostro Paese si è vincolato.
L’art. 8, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo riconosce il diritto del minore alle proprie “relazioni familiari”; il successivo art. 9, comma 1, impone agli Stati parte di vigilare “affinché il fanciullo non sia separato dai suoi genitori contro la loro volontà a meno che le autorità competenti non decidano, sotto riserva di revisione giudiziaria e conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nell’interesse preminente del fanciullo”; e il comma 3 del medesimo art. 9 ulteriormente chiarisce che “gli Stati parte rispettano il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi, di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo”. L’art. 24, comma 3, CDFUE dal canto suo sancisce il diritto del minore di “intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse”. E la stessa Corte EDU, in sede di interpretazione dell’art. 8 CEDU, riconosce parimenti il diritto di ciascun genitore e del minore a godere di una “mutua relazione” (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 10 settembre 2019, Strand Lobben e altri contro Norvegia, paragrafo 202; sezione prima, sentenza 28 aprile 2016, Cincimino contro Italia, paragrafo 62; Grande Camera, sentenza 12 luglio 2001, K. e T. contro Finlandia, paragrafo 151; Grande Camera, sentenza 13 luglio 2000, E. contro Germania, paragrafo 43; sezione terza, sentenza 7 agosto 1996, J. contro Norvegia, paragrafo 52).
Alla luce di tali obblighi internazionali, correttamente la Sezione rimettente evoca, quale base normativa del diritto in questione nell’ordinamento costituzionale italiano, l’art. 30 Cost., il cui primo comma, sancendo il dovere dei genitori di “educare” i figli, non può che presupporre il correlativo diritto del minore a essere educato da entrambi i genitori; ciò che necessariamente implica il suo diritto a vivere con loro una relazione diretta e personale, salvo che essa risulti in concreto pregiudizievole per i suoi interessi.
4.3.- Pertinente è, inoltre, il riferimento all’art. 2 Cost.: e ciò sia perché i due diritti della persona di minore età su cui fa perno l’ordinanza di rimessione devono senz’altro essere ricondotti al novero di quei “diritti inviolabili dell’uomo” che la Repubblica si impegna a riconoscere e garantire; sia perché il principio personalista, che permea tutta la Costituzione italiana e che trova espressione anche e soprattutto in quell’articolo, impone di riconoscere e garantire i diritti della persona non solo come singolo, ma anche nelle relazioni in cui essa concretamente si trova, e nelle quali soltanto essa si può sviluppare.
4.4.- Infine, la censura relativa all’automatismo nell’applicazione della sanzione, che impedirebbe al giudice di ricercare la soluzione ottimale per il minore nella situazione concreta, nonché l’eventuale sussistenza di una violazione del suo diritto alle relazioni personali con entrambi i genitori, appare riconducibile, altresì, all’ambito applicativo dell’art. 3 Cost., che vieta irragionevoli equiparazioni di trattamento di situazioni differenziate, e che non a caso è stato già utilizzato da questa Corte quale (unico) fondamento della pronuncia di illegittimità costituzionale di una disposizione che prevedeva una preclusione automatica all’accesso alla detenzione domiciliare, ritenuta incompatibile con le esigenze preminenti di tutela del figlio minore del condannato (sentenza n. 211 del 2018).
5.- Tali questioni, così precisate quanto all’oggetto e ai parametri, sono fondate.
5.1.- Il genitore che commetta un fatto di sottrazione e trattenimento di minori all’estero compie, invero, un delitto di elevata gravità, che offende tanto il diritto dell’altro genitore, quanto il diritto del minore a vivere la propria relazione con quest’ultimo (supra, 4.2. e 4.3.).
L’eventuale consenso, o comunque la mancata opposizione, del minore alla condotta del genitore autore del reato non esclude, evidentemente, il carattere offensivo del fatto anche nei riguardi dello stesso minore, che ha comunque diritto, pure in contesti di elevata conflittualità familiare o di rapporto problematico con l’altro genitore, di essere mantenuto in una situazione che permetta, in futuro, un’evoluzione più armonica di quel rapporto. E ciò salvo il caso che esso appaia chiaramente pregiudizievole – e debba per questa ragione essere interrotto – in base a una valutazione che, però, spetta unicamente all’autorità giudiziaria competente, in esito a un’accurata istruttoria, e che non può certo essere anticipata in via unilaterale dall’altro genitore, seppur in ipotesi animato dalle migliori intenzioni (e salvo il caso estremo dello stato di necessità).
Proprio l’elevata gravità del delitto in questione segna, come non a torto sottolinea l’Avvocatura generale dello Stato, una netta distinzione tra la questione oggi all’esame di questa Corte e quelle decise con le sentenze n. 31 del 2012 e n. 7 del 2013, con le quali fu dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’automatismo applicativo della pena accessoria della perdita della responsabilità genitoriale in conseguenza della condanna per i delitti, rispettivamente, di alterazione e soppressione di stato, entrambi solo eventualmente lesivi dell’interesse del minore.
5.2.- Tuttavia, il carattere intrinsecamente offensivo del delitto di cui all’art. 574-bis cod. pen. rispetto allo stesso interesse del minore non basta a giustificare – al metro dei parametri costituzionali evocati – l’automatica applicazione della pena accessoria in questione in caso di condanna a pena non sospesa.
Occorre, in effetti, considerare che tale pena accessoria presenta caratteri del tutto peculiari rispetto alle altre pene previste dal codice penale, dal momento che, incidendo su una relazione, colpisce direttamente, accanto al condannato, anche il minore, che di tale relazione è il co-protagonista. Dunque, la sanzione in esame investe necessariamente anche una persona diversa dal colpevole: e ciò accade, come giustamente rileva l’ordinanza di rimessione, de iure, e non solo de facto, come invece rispetto alle altre pene, i cui effetti pure si possono riverberare – ma in via meramente riflessa ed eventuale – sui familiari del condannato (in questo senso già la sentenza n. 7 del 2013: la pena accessoria allora all’esame incideva “su una potestà che coinvolge non soltanto il suo titolare ma anche, necessariamente, il figlio minore”).
L’impatto di tale sanzione sul minore è, d’altra parte, tutt’altro che trascurabile.
Come si è già rilevato (supra, 2.1.), la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale comporta in capo al genitore che ne è colpito non solo la perdita temporanea del potere di rappresentanza legale del figlio nell’ambito dei rapporti patrimoniali, ma – ben più radicalmente – la privazione, per tutto il tempo della sospensione, dell’intero fascio di diritti, poteri e obblighi inerenti al concetto legale di “responsabilità genitoriale”, con conseguente venir meno di ogni potere di assumere decisioni “per” il figlio: comprese quelle che attengono alle sue necessità di vita quotidiana e che l’art. 357 cod. civ., nel disciplinare i poteri del tutore, indica riassuntivamente con l’espressione “cura della persona”.
Per quanto, allora, la pena accessoria in questione non comporti ipso iure il divieto di convivere con, o di frequentare il minore, è evidente che la privazione di ogni potere decisionale nell’interesse del minore impedirà, di fatto, al genitore sospeso dall’esercizio della propria responsabilità di vivere il proprio rapporto con il figlio al di fuori della immediata sfera di sorveglianza dell’altro genitore, o comunque di persona che sia titolare della relativa responsabilità e sia, pertanto, in grado di assumere in ogni momento le necessarie decisioni per il figlio.
Una tale situazione, che rende oggettivamente più difficile la stessa relazione con il minore in conseguenza dell’applicazione della pena accessoria in esame, rischia così di danneggiare in primis proprio quest’ultimo. E ciò in violazione, tra l’altro, dello stesso principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, Cost., il cui contenuto minimale è pur sempre il divieto di prevedere a applicare pene a danno di una persona per un fatto altrui (sentenza n. 364 del 1988).
5.3.- È ben vero che le ragioni di tutela del diritto del minore di intrattenere regolarmente relazioni e contatti personali con il genitore vengono meno, come prevedono all’unisono l’art. 9, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo e l’art. 24, comma 3, CDFUE, allorché la prosecuzione di tale rapporto sia contraria all’interesse preminente del minore. Ma non è ragionevole assumere che la sospensione dalla responsabilità genitoriale di chi si sia in passato reso responsabile del delitto di cui all’art. 574-bis cod. pen. costituisca sempre e necessariamente, come pare presupporre il legislatore, la soluzione ottimale per il minore. 5.3.1.- Al riguardo, occorre anzitutto considerare che i fatti sussumibili nell’art. 574-bis cod. pen. possono presentare caratteristiche assai varie, anche in relazione alla loro concreta dimensione offensiva per l’interesse del minore.
Basti considerare che il terzo comma ora censurato prevede la medesima pena accessoria (automatica) della sospensione della responsabilità genitoriale tanto per le ipotesi di cui al primo comma, più severamente sanzionate (reclusione da uno a quattro anni), quanto per quelle di cui al secondo comma, meno severamente sanzionate (reclusione da sei mesi a tre anni). Queste ultime ipotesi sono caratterizzate dal consenso del minore ultraquattordicenne alla condotta del genitore autore della sottrazione o del trattenimento. Il fatto resta qui gravemente lesivo dei diritti dell’altro genitore; ma la sua concreta dimensione offensiva per il minore, che pure permane in relazione all’esigenza di garantirgli la possibilità di un più armonico sviluppo futuro del proprio rapporto anche con quel genitore, è certamente attenuata, posto che il minore stesso, ormai adolescente, vive oggi evidentemente come problematico quel rapporto.
Ma anche all’interno delle ipotesi abbracciate dal primo comma, non è infrequente che la condotta costitutiva del reato venga compiuta da un genitore straniero in contesti di elevata conflittualità familiare, in cui accade che l’autore conduca all’estero il minore – o semplicemente lo trattenga oltre il termine assentito dall’altro genitore, o comunque autorizzato dal provvedimento del tribunale – ritenendo che la condotta dell’altro genitore sia pregiudizievole per il minore. Ciò non giustifica il fatto, che resta qualificabile come reato, la valutazione di un genitore non potendo ovviamente sostituirsi a quella dell’autorità giudiziaria competente; ma certo non consente di desumere meccanicamente dalla commissione del reato che il mantenimento del rapporto tra il suo autore e il minore sia senz’altro pregiudizievole per gli interessi di quest’ultimo.
Né, ancora, potrebbe argomentarsi che la sospensione della responsabilità genitoriale è destinata a operare soltanto a fronte di fatti che in concreto assumano una elevata gravità, sul rilievo che – ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 34 cod. pen. – tale pena accessoria non trova applicazione nel caso di pena detentiva condizionalmente sospesa. Non sempre, infatti, una pena inferiore a due anni di reclusione può essere sospesa: e ciò per ragioni che nulla hanno a che fare con la gravità del singolo fatto di reato. L’autore potrebbe, ad esempio, avere già fruito in passato della sospensione condizionale per un reato del tutto eterogeneo, e non potere per tale ragione ottenere il beneficio nemmeno a fronte di una pena di pochi mesi di reclusione, inflitta per un ritardo di qualche giorno nel rimpatrio del minore dopo una vacanza nel proprio paese d’origine. Anche in un caso siffatto, la disposizione censurata imporrebbe al giudice di applicargli la pena accessoria in parola.
5.3.2.- Il problema principale determinato dalla previsione della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale come pena accessoria che segue automaticamente alla condanna per il delitto di cui all’art. 574-bis cod. pen. consiste però nella cecità di questa conseguenza – concepita in chiave sanzionatoria dal legislatore – rispetto all’evoluzione, successiva al reato, delle relazioni tra il figlio minore e il genitore autore del reato medesimo.
Se, infatti, una misura che frappone significativi ostacoli alla relazione tra il figlio e il genitore in tanto può legittimarsi in quanto tale relazione risulti in concreto pregiudizievole per il figlio (artt. 8, comma 1, e 9, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo; art. 24, comma 3, CDFUE), in base al principio generale secondo cui ogni decisione che riguarda il minore deve essere guidata dal criterio della ricerca della soluzione ottimale per il suo interesse, la stessa applicazione della pena accessoria ora all’esame potrà giustificarsi solo ove risponda in concreto agli interessi del minore, da apprezzare secondo le circostanze di fatto esistenti al momento della sua applicazione: le quali, naturalmente, comprendono anche tutto ciò che è accaduto dopo il fatto da cui è scaturita la responsabilità penale del genitore. Tali circostanze ben potrebbero, infatti, aver evidenziato come il mantenimento del rapporto con il genitore autore della sottrazione o trattenimento all’estero non risulti pregiudizievole per il minore, e anzi corrisponda a un suo preciso interesse, che lo Stato avrebbe allora il dovere di salvaguardare, in via preminente rispetto alle stesse esigenze punitive nei confronti di chi abbia violato la legge penale.
Ciò tanto più quando – come è in effetti avvenuto nel caso oggetto del giudizio a quo – le stesse autorità giudiziarie italiane competenti nei paralleli procedimenti civili concernenti la salvaguardia degli interessi del minore, successivamente alla sottrazione o al trattenimento illeciti all’estero, abbiano deciso di affidarlo – in via condivisa o addirittura esclusiva – proprio al genitore autore del reato, ritenendolo il più idoneo a farsi carico degli interessi del figlio.
5.3.3.- L’irragionevolezza dell’automatismo previsto dalla disposizione censurata, rispetto all’esigenza primaria di ricerca della soluzione ottimale per il minore, è vieppiù evidenziata dalla circostanza che la pena accessoria in questione è destinata a essere inesorabilmente eseguita soltanto dopo il passaggio in giudicato della sentenza, spesso a molti anni di distanza dal fatto.
Prima di tale momento, l’ordinamento offre alle diverse autorità giurisdizionali che si succedono nel corso del procedimento penale – il giudice per le indagini preliminari, il tribunale in composizione monocratica, e infine la corte d’appello – un ampio margine di valutazione relativamente alla possibile adozione di un provvedimento cautelare di sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale; un provvedimento, peraltro, il cui contenuto può, ai sensi dell’art. 288, comma 1, cod. proc. pen., essere opportunamente calibrato a seconda delle specifiche esigenze del caso concreto, potendo il giudice privare “in tutto” o anche solo “in parte” l’imputato dei poteri inerenti a tale responsabilità.
Tale margine di discrezionalità concesso al giudice penale durante il procedimento penale viene però del tutto meno quando la sentenza di condanna passa in esecuzione: qualunque cosa sia accaduta nel frattempo, e indipendentemente da qualsiasi valutazione circa l’interesse attuale del minore in quel momento. E ciò in frontale ed evidente contrasto con i diritti del minore sin qui rammentati. 5.4.- Da tutto quanto precede discende che l’automatica applicazione della pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale prevista dall’art. 574-bis, terzo comma, cod. pen. è incompatibile con tutti i parametri costituzionali sopra indicati, interpretati anche alla luce degli obblighi internazionali e del diritto dell’Unione europea in materia di tutela di minori che vincolano l’ordinamento italiano.
I limiti del devolutum non consentono a questa Corte di affrontare l’interrogativo – sul quale peraltro ben potrà il legislatore svolgere ogni opportuna riflessione – se il giudice penale sia l’autorità giurisdizionale più idonea a compiere la valutazione di effettiva rispondenza all’interesse del minore di un provvedimento che lo riguarda, quale è l’applicazione di una pena accessoria che incide sul suo diritto a mantenere relazioni personali e contatti diretti con entrambi i genitori, ferma restando comunque la necessità di assicurare un coordinamento con le autorità giurisdizionali – tribunale per i minorenni o, se del caso, tribunale ordinario civile – che siano già investite della situazione del minore. E ciò anche al fine di garantire il rispetto della previsione – sancita espressamente dall’art. 12 della Convenzione sui diritti del fanciullo e dagli artt. 3 e 6 della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, e ripresa in linea di principio a livello di legislazione ordinaria dagli artt. 336-bis e 337-octies cod. civ. – di sentire il minore che abbia un discernimento sufficiente, e di tenere in debito conto la sua opinione, in relazione a tutte le decisioni che lo riguardano.
I vincoli costituzionali sopra menzionati impongono però a questa Corte di porre rimedio al vulnus riscontrato in continuità con lo spirito delle sentenze n. 31 del 2012 e n. 7 del 2013, sostituendo l’attuale automatismo con il dovere di valutazione caso per caso, da parte dello stesso giudice penale, se l’applicazione della pena accessoria in questione costituisca in concreto la soluzione ottimale per il minore, sulla base del criterio secondo cui tale applicazione “in tanto può ritenersi giustificabile … in quanto essa si giustifichi proprio in funzione di tutela degli interessi del minore” (sentenza n. 7 del 2013). Valutazione, quest’ultima, che non potrà che compiersi in relazione alla situazione esistente al momento della pronuncia della sentenza di condanna – e dunque tenendo conto necessariamente anche dell’evoluzione delle circostanze successive al fatto di reato.
5.5.- La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 574-bis, terzo comma, cod. pen., nei termini appena indicati, comporta che esso dovrà trovare applicazione in quanto lex specialis – attribuente al giudice il “potere” di disporre la pena accessoria in questione anziché il “dovere” di irrogarla – nelle ipotesi di condanna per il delitto di sottrazione e trattenimento di minori all’estero; rimanendo così esclusa in queste specifiche ipotesi – limitatamente all’an della pena accessoria – l’applicabilità della regola generale di cui all’art. 34, secondo comma, cod. pen. (che non è interessata dalla presente pronuncia), la quale prevede in caso di “condanna per delitti commessi con abuso della responsabilità genitoriale” l’automatica applicazione di tale pena accessoria.
6.- Resta assorbita la questione di legittimità costituzionale dell’art. 574-bis, terzo comma, cod. pen. formulata in riferimento al principio di proporzionalità della pena di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 574-bis, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede che la condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero ai danni del figlio minore comporta la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporre la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34 cod. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 30 e 31 della Costituzione, nonché all’art. 10 Cost., in relazione alla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 27 maggio 1991, n. 176, dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 574-bis cod. pen., sollevata, in riferimento all’art. 10 Cost., in relazione alla Convenzione sui diritti del fanciullo, dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 maggio 2020.
Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2020.

Rinuncia all’eredità e debiti tributari

Cass. Civ., Sez. V, Ord., 03 Novembre 2020, n. 24317
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –
Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –
Dott. LO SARDO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
Dott. MELE Maria Elena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3407/2016 R.G., proposto da:
M.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Contento Giancarlo, con studio in Roma, ove elettivamente domiciliato, giusta procura in margine al ricorso introduttivo del presente procedimento;
– ricorrente –
contro
l’Agenzia delle Entrate e del Territorio, con sede in Roma, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con sede in Roma, ove elettivamente domiciliata;
– resistente –
Avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale di Roma il 7 luglio 2015 n. 3894/28/2015, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata (mediante collegamento da remoto, ai sensi del D.L. 17 marzo 2020 n. 18, art. 83, comma 12-quinquies, convertito, con modificazioni, nella L. 24 aprile 2020 n. 27) del 21 luglio 2020 dal Dott. Lo Sardo Giuseppe;
Svolgimento del processo
Che:
M.M. ricorre per la cassazione della sentenza depositata dal Commissione Tributaria Regionale di Roma il 7 luglio 2015 n. 3894/28/2015, non notificata, che, in controversia su impugnazione di cartella di pagamento per il complessivo importo di Euro 18.509,05 in relazione ad avviso di liquidazione per I.N. V.I.M. su beni immobili compresi nell’eredità della defunta madre, nonchè su diniego di definizione agevolata della lite pendente ai sensi del D.L. 6 luglio 2011 n. 98, art. 39, convertito con modificazioni nella L. 15 luglio 2011 n. 111, ha rigettato l’appello proposto dalla medesima nei confronti dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma 23 maggio 2014 n. 14059/60/2014, con condanna alla rifusione delle spese di lite. La Commissione Tributaria Regionale ha confermato la decisione di prime cure sul presupposto che l’inoppugnabilità dell’avviso di liquidazione avesse reso definitiva la pretesa tributaria e che il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, comma 1, lett. c., fosse inapplicabile all’I.N. V.I.M.. L’Agenzia delle Entrate si è costituita tardivamente per la sola partecipazione all’eventuale udienza di discussione. Il ricorrente ha depositato memoria difensiva.
Motivi della decisione
Che:
1. Con il primo motivo, si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 519 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente ritenuto la legittimazione passiva del ricorrente, stante inefficacia della rinunzia all’eredità per la sopravvenuta prescrizione.
2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 25, comma 1, lett. c., del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per l’intervenuta decadenza della pretesa azionata con la cartella di pagamento.
Ritenuto che:
1. Il primo motivo è fondato, derivandone l’assorbimento del secondo motivo.
1.1 Posto che la prescrizione riguarda il solo diritto di accettare l’eredità (art. 480 c.c.), dando continuità all’orientamento già espresso da questa Corte in subiecta materia (Cass., Sez. 5, 30 maggio 2018, n. 13639), si deve rilevare che la mera inerzia del chiamato all’eredità che non impugni il prodromico avviso di liquidazione per far valere la propria estraneità all’obbligazione tributaria, non preclude l’impugnazione della successiva cartella di pagamento per la medesima ragione.
La Commissione Tributaria Regionale non ha considerato che come è stato dedotto in giudizio- l’avviso di liquidazione era stato notificato al ricorrente allorquando egli si trovava nella qualità, non già di erede, bensì di chiamato all’eredità.
Dunque, questa circostanza impediva all’avviso di liquidazione di assumere definitività ed efficacia preclusiva sul punto specifico della riferibilità soggettiva dei debiti tributari della de cuius al ricorrente e, per ciò solo, della sua legittimazione passiva in veste di successore a titolo universale. Riferibilità soggettiva e legittimazione passiva che, appunto, non potevano discendere che dal conseguimento – nella specie non verificatosi – della qualità di erede.
Legittimamente, pertanto, il ricorrente ha successivamente impugnato la cartella notificatagli sulla base di quell’avviso di liquidazione, per far valere l’insussistenza della propria responsabilità tributaria per i debiti della de cuius, in quanto rinunciante all’eredità da questi dismessa.
Va in proposito osservato che, in base all’art. 521 c.c., “chi rinunzia all’eredità è considerato come se non vi fosse mai stato chiamato”; con la conseguenza che, per effetto della rinuncia, viene impedita retroattivamente – cioè a far data dall’apertura della successione – l’assunzione di responsabilità per i debiti facenti parte del compendio ereditario; il che equivale ad affermare che condizione imprescindibile affinchè possa sostenersi l’obbligazione del chiamato a rispondere di tali debiti è che questi abbia accettato (e, quindi, acquistato) l’eredità.
1.2 Non vale obiettare, come è stato incidentalmente sostenuto dalla Commissione Tributaria Regionale, che il ricorrente si sarebbe limitato a rimarcare l’efficacia retroattiva della rinuncia, senza farsi carico della intervenuta definitività dell’avviso di accertamento, in quanto non impugnato.
Va, infatti, considerato che proprio nella deduzione in giudizio da parte del ricorrente della rinuncia all’eredità, e della sua efficacia retroattiva, era insito il fondamentale e dirimente motivo di impugnazione della cartella di pagamento, in quanto basata su avviso di liquidazione notificato allorquando egli assumeva la veste di chiamato all’eredità e non di erede.
E la cui definitività, conseguentemente, non poteva intaccare (e ciò non per ragioni fattuali necessitanti di specifica deduzione, ma nella applicazione del regime giuridico del caso, ex art. 521 c.c.) la sua personale estraneità alla responsabilità tributaria facente capo alla de cuius; nè, pertanto, produrre un titolo esecutivo allo stesso opponibile. 1.3 Una diversa conclusione non potrebbe desumersi dalla regola di determinazione dell’imposta evincibile dal D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, art. 7, comma 4 (ora comma 2), del (secondo cui: “Fino a quando l’eredità non è stata accettata, o non è stata accettata da tutti i chiamati, l’imposta è determinata considerando come eredi i chiamati che non vi hanno rinunziato”), posto che tale norma, comportante un’eccezione ai principi generali in tema di obbligazione, è applicabile non ai tributi posti a carico del de cuius, ma unicamente all’imposta di successione (Cass., Sez. 5, 13 ottobre 2010, n. 21101).
1.4 Va, dunque, riaffermato che – atteso che la responsabilità per il debito tributario della de cuius presuppone l’assunzione della qualità di erede e, inoltre, che la rinuncia all’eredità produce effetto retroattivo ex art. 521 c.c., – il chiamato rinunciante non risponde di tale debito, ancorchè quest’ultimo sia portato da un avviso di liquidazione notificato dopo l’apertura della successione e divenuto definitivo per mancata impugnazione.
In tale evenienza, legittimamente il rinunciante può far valere, in sede di impugnazione della cartella di pagamento, la propria mancata assunzione di responsabilità per il debito suddetto. 1.6 Nè rileva l’opposta tardività della rinunzia all’eredità.
Orbene, questa Corte ritiene che, tenuto conto che l’accettazione dell’eredità è il presupposto perchè si possa rispondere dei debiti ereditari, una eventuale rinuncia, anche se tardivamente proposta, esclude che possa essere chiamato a rispondere dei debiti tributari il rinunciatario, sempre che egli non abbia posto in essere comportamenti dai quali desumere un’accettazione tacita dell’eredità (art. 476 c.c.) ma della relativa prova l’amministrazione finanziaria è parte processualmente onerata (Cass., Sez. 5, 29 marzo 2017, n. 8053).
Nella specie, è pacifico che la rinuncia è stata fatta dopo il decorso del termine di dieci anni per accettare l’eredità (art. 480 c.c.), dovendosi ritenere in concreto del tutto inutile, in quanto riguardava un’eredità rispetto alla quale il diritto ad accettare si era ormai prescritto. Invero, la giustificazione causale dell’atto di rinunzia tardiva si è espressa nell’interesse della rinunziante a stabilizzare e chiarire la sua condizione e volontà di “non essere erede” (Cass., Sez. 5, 29 marzo 2017, n. 8053).
1.6 Altro sarebbe dire che la rinuncia così operata sarebbe stata, in realtà, priva di effetto, per essere il chiamato decaduto dal relativo diritto, in quanto già accettante in dipendenza del possesso dei beni ereditari ex art. 485 c.c. Tuttavia, questo aspetto di causa non ha trovato ingresso nella sentenza impugnata, la cui ratio decidendi poggia sulla definitività dell’avviso di liquidazione non impugnato. E che la circostanza fosse effettivamente inidonea a diversamente fondare la medesima decisione di rigetto del ricorso introduttivo dipende dal fatto che era onere della stessa amministrazione finanziaria provare l’avvenuta accettazione dell’eredità, e la conseguente inoperatività della rinuncia; dimostrando l’effettivo possesso dei beni ereditari da parte del ricorrente o, comunque, deducendo il compimento di altri atti presupponenti la volontà di accettare l’eredità e non altrimenti possibile se non nella qualità di erede (Cass., Sez. 5, 30 maggio 2018, n. 13639; Cass., Sez. 5, 18 aprile 2019, n. 10908).
2. Pertanto, valutandosi la fondatezza del primo motivo e l’assorbimento del secondo motivo, il ricorso può trovare accoglimento e la sentenza impugnata deve essere cassata; non occorrendo ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, u.p., con pronuncia di accoglimento del ricorso originario del contribuente.
3. Possono essere compensate tra le parti le spese del doppio grado del giudizio del merito, tenuto conto dell’andamento del medesimo e della progressiva evoluzione della giurisprudenza di questa Corte sulle questioni trattate, mentre le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura fissata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario del contribuente; compensa le spese dei giudizi di merito; condanna l’amministrazione finanziaria alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore del contribuente, che liquida
nella somma complessiva di Euro 1.500,00 per compensi, oltre spese forfettarie ed altri accessori di legge.
Così deciso a Roma, nell’adunanza camerale effettuata da remoto, il 21 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2020

Precisazioni sul congedo parentale

Cass. Civ., Sez. lavoro, Ord., 02 Novembre 2020, n. 24206
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3469/2015 proposto da:
D.T.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TIRSO 90, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI PATRIZI, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO DI STASI;
– ricorrente –
contro
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MACERATA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 552/2014 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 07/08/2014, R.G.N. 279/2014;
Il P.M. ha depositato conclusioni scritte.
Svolgimento del processo
Che:
1. D.T.B., avendo fruito nell’anno 2006 di un periodo di congedo ai sensi dell’art. 42, comma 5, per necessità di assistere il figlio minore malato di leucemia, ha agito giudizialmente per ottenere il riconoscimento delle quote di tredicesima maturate nel medesimo periodo e degli interessi e rivalutazione su altri importi retributivi pagati in ritardo e relativi sempre a tale periodo, oltre al risarcimento del danno, quantificato in Euro 100 mila, in ragione di tali ritardi e per non averle la P.A. dato notizia, durante la sua assenza, della data della prova orale di un concorso interno e del fatto che il datore di lavoro stava contattando i soggetti utilmente collocati in graduatoria per la firma del contratto, notizie da essa avuto soltanto da alcuni colleghi;
la Corte d’Appello, riformando parzialmente la sentenza di totale di rigetto emessa in primo grado dal Tribunale di Macerata, ha riconosciuto il diritto alla maggior somma tra interessi e rivalutazione per i pregressi tardivi pagamenti ed ha invece disatteso la pretesa inerente alle quote di tredicesima, sul presupposto che il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 43, comma 2 pur prima delle modifiche alla disciplina apportate dal D.Lgs. n. 119 del 2011, richiamando le disposizioni di cui all’art. 34, comma 5, escludeva dal computo della mensilità aggiuntiva i periodi di congedo parentale.
2. la D.T. ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, cui l’Università di Macerata ha resistito con controricorso;
il Pubblico Ministero ha depositato nota scritta con la quale ha insistito per il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
Che:
1. con il primo motivo (punto 1 lett. a) la ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 42, comma 5 nella versione previgente rispetto alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 119 del 2011, art. 4, comma 1, lett. b), sottolineando come la norma non rinviasse all’art. 34, comma 5, ma alle regole sulla corresponsione dell’indennità di maternità e quindi all’art. 22, che a propria volta riconosceva il diritto alla considerazione del periodo di congedo per il calcolo della tredicesima, anche perchè altrimenti (secondo motivo: punto 1 lett. b) si sarebbe realizzato un trattamento discriminatorio, in pregiudizio della situazione di disabilità, oltre che una disparità di trattamento, suscettibile di rilievo sotto il profilo del diritto di eguaglianza, rispetto al caso del congedo (c.d. obbligatorio) per maternità;
1.1 i motivi sono infondati;
1.2 iniziando dai profili letterali, è intanto pacifico che, ratione temporis, non trovi applicazione il comma 5-quinquies aggiunto nel 2011 all’art. 42 e secondo il quale “il periodo di cui al comma 5 (e dunque il periodo di congedo parentale per assistenza a congiunti disabili, n.d.r.) non rileva ai fini della maturazione delle ferie, della tredicesima mensilità e del trattamento di fine rapporto”;
tuttavia, il ragionamento della Corte territoriale è testualmente corretto rispetto alla precedente formulazione delle norme, in quanto il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 43, comma 2 nel regolare (così la rubrica) il “trattamento economico e normativo” degli istituti di cui al capo V, ovverosia (così l’intestazione del Capo) dei “riposi, permessi e congedi”, mentre dedicava il comma 1 espressamente a riposi e permessi, non poneva delimitazioni quanto alla disciplina di rinvio all’art. 34, comma 5 (ovverosia al trattamento dei congedi parentali) contenuta nel comma 2, la quale andava dunque riferita anche ai congedi regolati nell’art. 42, comma 5, in quanto norma facente appunto parte di quello stesso Capo;
anche perchè la previsione dell’art. 42, comma 5, come in allora vigente, secondo cui “l’indennità è corrisposta dal datore di lavoro secondo le modalità previste per la corresponsione dei trattamenti economici di maternità” non può riferirsi alla portata giuridica ed economica complessiva dell’istituto ed alle ricadute sulla tredicesima, che è cosa in sè diversa dalla disciplina della corresponsione, cui soltanto la norma andava riferita nel senso che essa sarebbe stata a carico del datore di lavoro, tra l’altro senza il recupero previdenziale di seguito parimenti regolato solo con riferimento al datore di lavoro privato;
1.3 si deve d’altra parte anche considerare che, secondo l’interpretazione invalsa, permessi e riposi riconnessi alle situazioni di disabilità dei congiunti, per quanto si sottraggano in generale alle regole di non computabilità per ferie e tredicesima quando fruiti autonomamente (Cass. 7 giugno 2017, n. 14187; Cass. 7 luglio 2014, n. 15435), in ragione essenzialmente della loro limitata durata, ricadono invece nella disciplina di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 43, comma 2 e art. 34, comma 5, allorquando essi si cumulino con i congedi e contribuiscano a determinare assenze di lunga durata (in senso analogo il parere n. 3389 del 9/11/2005 del Consiglio di Stato richiamato anche da Cass. 14187/2017 cit.); tale interpretazione si salda ed è coerente con quanto qui ritenuto rispetto ai congedi per assistenza a congiunti disabili, anch’essi suscettibili di lunga durata e quindi di una regolazione meno favorevole sotto il profilo degli istituti accessori;
1.4 neppure è condivisibile la prospettazione di una possibile illegittimità costituzionale della previsione, per disparità di trattamento rispetto al caso delle assenze per maternità c.d. obbligatorie, le quali, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 22, comma 3 non producono effetti riduttivi sulle ferie e la tredicesima;
infatti, l’astensione obbligatoria per maternità (o, quando prevista in sostituzione di essa, per paternità) si associa ad un evento del tutto unico, quale la sopravvenienza di un figlio ed i corrispondenti diritti vengono fruiti anche se si tratti di figlio disabile, sicchè è palese la diversità di condizioni rispetto al caso del congedo parentale per la mera presenza di figli minori o di quello per assistenza ai disabili;
diversità di situazioni che non consente una censura dell’assetto di sistema quale discrezionalmente impostato dal legislatore, nel cui ambito peraltro i congedi parentali per presenza di figli minori e quelli per assistenza a congiunti disabili, tra loro muniti di più forti elementi di similitudine, sono trattati allo stesso modo;
non vi è pertanto a sollevare alcuna questione di legittimità per contrasto della normativa con l’art. 3 Cost.;
1.5 analogamente non può dirsi fondatamente invocato il verificarsi di una discriminazione;
è indubbio, come dice la Corte territoriale, che la discriminazione possa rivolgersi anche verso persone diverse da quella interessata dal fattore di protezione e che essa ciononostante rilevi se finisca per comportare un trattamento sfavorevole quale effetto della situazione differenziale da proteggere: v. Corte di Giustizia 17 luglio 2008, n. 3030, Coleman, proprio in tema di discriminazione di genitori a causa della disabilità del figlio;
non può poi essere condivisa l’affermazione della Corte territoriale in ordine alla mancanza nel caso di specie di un termine di paragone, ove da intendere nel senso che per ravvisare la discriminazione, debba necessariamente svilupparsi un raffronto rispetto a persone in concreto favorite dall’accaduto;
infatti, quello che conta nel diritto antidiscriminatorio è l’esistenza di un trattamento di sfavore per il discriminato, da misurarsi attraverso una comparazione in astratto rispetto a categorie di persone non interessate dal fattore di protezione che si assume pregiudicato;
la motivazione della sentenza impugnata va dunque corretta in tal senso, aggiungendosi poi, per meglio specificare le ragioni dell’infondatezza del motivo con cui si ripropone la questione, che il termine di paragone, nel caso di specie, non può essere dato da chi, non avendo necessità di congedo, prosegue normalmente nel proprio lavoro; infatti, in tale prospettiva, il genitore del disabile riceve una protezione, potendosi assentare dal lavoro e continuare a ricevere un’indennità pari alla retribuzione mensile, e non una discriminazione;
neppure può essere utilmente invocato il paragone con chi fruisca dei congedi (facoltativi) per altre ragioni parentali diverse dalla disabilità, in quanto come si è visto il trattamento rispetto a questi casi non è disomogeneo, ma identico e quindi non può esservi discriminazione; infine, non può dirsi corretto il raffronto con coloro (madri o, in casi eccezionali, padri) che fruiscono del diritto all’astensione (c.d. obbligatoria) per nascita del figlio e il cui trattamento, come si è detto, consente di considerare il periodo di assenza come utile anche ai fini della tredicesima e delle ferie;
tale situazione, come si disse nel valutare il problema sotto il profilo del diritto di eguaglianza, non è infatti paragonabile a quella di chi fruisca del congedo per disabilità del figlio, perchè nell’astensione obbligatoria opera la specifica salvaguardia di una diversa situazione, data dalla nascita o adozione di un figlio, la quale peraltro trova applicazione anche quando a sopravvenire sia un figlio disabile, a ben vedere quindi destinato anch’esso a restare ricompreso e non escluso da tale tutela;
2. il terzo e quarto motivo (punto 2 lettere a e b) censurano la sentenza impugnata per non avere pronunciato sull’eccezione, proposta con l’atto di appello, di omessa pronuncia da parte del Tribunale rispetto alla domanda risarcitoria e per avere omesso l’esame di un fatto controverso e rilevante ai fini della decisione (art. 360 c.p.c., n. 5), consistente nel complesso di condotte illegittime a cui è conseguito il danno rivendicato; i motivi sono inammissibili;
anche i motivi processuali, quale l’omessa pronuncia, devono rispettare i canoni di specificità propri del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2012, n. 8077);
pertanto, nel denunciare il fatto che il Tribunale non avesse pronunciato sulla domanda risarcitoria, la ricorrente avrebbe dovuto trascrivere e non meramente narrare i contenuti di essa quali espressi nel giudizio di primo grado e trascrivere altresì, almeno per estratto dei passaggi necessari, la motivazione della sentenza del Tribunale, onde far constare sia le deduzioni ed allegazioni tempestivamente svolte a fondamento della pretesa, sia la ricorrenza del vizio denunciato in appello rispetto alla pronuncia di primo grado;
analogo limite inficia anche il motivo formulato sub art. 360 c.p.c., n. 5, che avrebbe parimenti dovuto trovare sostegno nella trascrizione dell’avvenuta allegazione, fin dal primo grado, delle circostanze inerenti ai fatti asseritamente non valutati;
si determina quindi contrasto con le rigorose regole di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., (Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, ai nn. 3, 4 e 6 della stessa disposizione, da cui si desume la necessità che la narrativa e l’argomentazione siano idonee a manifestare piena pregnanza, pertinenza e decisività delle ragioni di critica prospettate, senza necessità per la S.C. di ricercare autonomamente negli atti i corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti (v. ora, sul punto, Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34469);
3. il ricorso va dunque disatteso, ma la novità e complessità delle questioni di diritto inerenti al regime dei congedi per disabilità giustifica la compensazione delle spese anche del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 22 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 2 novembre 2020

Pornografia minorile e ricezione di selfie erotici durante una conversazione di tipo sessuale

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 09 novembre 2020, n. 31192; Pres. Sarno, Rel. Cons. Noviello
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SARNO Giulio – Presidente –
Dott. DI STASI Antonella – Consigliere –
Dott. SEMERARO Luca – Consigliere –
Dott. NOVIELLO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. ANDRONIO Alessandro Maria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
D.M., nato a (OMISSIS);
avverso la ordinanza del 10/12/2019 del tribunale di Bologna;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOVIELLO Giuseppe;
udito il difensore dell’imputato, avv. Cimadomo Donatello, che ha concluso riportandosi ai motivi di ricorso;
udita la richiesta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale FILIPPI Paola, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Il tribunale di Bologna adito ai sensi dell’art. 310 c.p. dal P.M. del medesimo tribunale, con ordinanza del 13 dicembre 2019 in parziale accoglimento dell’appello applicava a D.M. la misura cautelare dell’obbligo giornaliero di presentazione alla p.g. in relazione ai reati di cui agli artt. 81 e 600 ter c.p. (capo a).
2. Avverso la pronuncia del tribunale sopra indicata, propone ricorso per cassazione D.M. mediante il proprio difensore, che solleva due motivi di impugnazione.
3. Con il primo motivo deduce il vizio ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), rilevando come siano prive di rilevanza penale le condotte di chi riceva auto – scatti erotici della presunta vittima nel contesto di conversazioni digitali di tipo sessuale, posto che l’autoscatto generalmente sarebbe espressione di libera autodeterminazione, così da escludere rapporti di strumentalizzazione e degrado della personalità del minore. Richiesti invece per la sussistenza del reato ex art. 600 ter c.p., comma 1. Con l’ulteriore considerazione per cui la condotta configurata in ordinanza integrerebbe la diversa ipotesi di cui all’art. 600 quater c.p., che punisce il soggetto diverso dal produttore del materiale, posto che per le due foto detenute dal ricorrente e ritraenti le parti intime di una minore, di anni 14, lo stesso non risulta produttore, trattandosi di autoscatti spontaneamente realizzati, e considerata l’assenza di una posizione di abuso dell’agente rispetto alla ritenuta vittima, stante l’esistenza piuttosto di una relazione paritaria tra i soggetti coinvolti.
4. Con il secondo motivo prospetta il vizio ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), posto che il tribunale non avrebbe valutato la probabilità di commissione di altri reati alla luce della personalità dell’indagato o della sua condizione psicologica, così omettendo ogni verifica sulle occasioni di possibile ricaduta. Nè avrebbe verificato la idoneità e proporzionalità della misura disposta, in realtà inadeguata a fronteggiare il pericolo di reiterazione, posto che le condotte sono state realizzate mediante comunicazioni a distanza. Così assolvendo la misura ad una funzione di diffida che non le è propria.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo è manifestamente infondato. Il tribunale ha fatto corretta applicazione del principio per cui risponde del delitto di pornografia minorile, punito dall’art. 600-ter c.p., comma 1, n. 1, anche colui che, pur non realizzando materialmente la produzione di materiale pedopornografico, abbia istigato o indotto il minore a farlo, facendo sorgere in questi il relativo proposito, prima assente, ovvero rafforzando l’intenzione già esistente, ma non ancora consolidata, in quanto tali condotte costituiscono una forma di manifestazione dell’utilizzazione del minore, che implica una strumentalizzazione del minore stesso, sebbene l’azione sia posta in essere solo da quest’ultimo (cfr. Sez. 3 – n. 26862 del 18/04/2019 Rv. 276231 – 01 P.). In tale cornice giuridica si pongono le considerazioni del collegio, laddove accertando l’influenza causale dell’istigazione operata dall’indagato, secondo un giudizio di fatto immune da vizi e quindi non censurabile in questa sede, ha posto in evidenza la stretta correlazione tra gli autoscatti e il relativo invio da parte della vittima da una parte, e i messaggi, dal corrispondente contenuto, inoltrati dal ricorrente, e diretti nella medesima direzione; così sottolineando la strumentalizzazione e utilizzo della minore e confutando la tesi, del tutto unilaterale quanto assertiva, della spontaneità delle condotte della medesima.
2. Anche il secondo motivo è infondato. Il pericolo di reiterazione è stato congruamente motivato alla luce della sintomaticità delle condotte, per nulla occasionali, rispetto ad impulsi sessuali dell’indagato recenti e in alcun modo controllati ed a fronte dell’assenza di iniziative volte a governare la rilevata deviazione sessuale. Così delineando ragionevolmente – ancora una volta smentendo la tesi difensiva circa la mancata valutazione dei presupposti del pericolo di recidivanza, invero elaborata trascurando le argomentazioni dei giudici sopra riassunte e così incorrendo in difetti di specificità estrinseca (cfr. per tutte Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568) -, una personalità incline alla ripetizione dei reati ipotizzati. Congrua e puntuale è altresì la motivazione della misura applicata, coerente rispetto alle esigenze cautelari ravvisate, di reiterazione di reati analoghi, cosicchè risulta ragionevolmente funzionale a fronteggiare il pericolo di commissione dei medesimi. A tale ultimo riguardo occorre sottolineare che con particolare riguardo all’obbligo di presentazione alla p.g., la funzione deterrente della misura prescelta rispetto al pericolo di reiterazione di reati non va identificata solo nella specifica capacità di incidenza materiale, della misura, sulle probabili condotte criminali, bensì anche sul piano della idoneità della misura, nel contesto della valutazione complessiva, oltre che delle condotte, anche della personalità dell’interessato, di fronteggiare il pericolo di reiterazione anche agendo sul piano della riflessione psicologica dell’agente, nel senso di dispiegare, per la sua sussistenza e modalità di applicazione, un’efficacia dissuasiva rispetto a nuove iniziative criminali.
3. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 28 reg. esec. c.p.p..
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 10 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2020

Per genitore e figlio stare insieme costituisce elemento fondamentale della vita familiare

Corte di Cassazione, 16 dicembre 2020 n. 28723
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio P. – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 6235/2019 proposto da:
M.E., rappresentato e difeso dall’Avv. Castigli Gian Luca, del Foro di Arezzo, giusta procura allegata
in
calce al ricorso per cassazione.
– ricorrente –
contro
D.C.A.A., M.S.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Paola Gallesi; Procura Generale presso la Corte di
appello di Firenze;
– intimati –
avverso il decreto della Corte di appello di FIRENZE n. 6492/2014 pubblicato il 7 agosto 2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25 novembre 2020 dal Consigliere
Dott. Lunella Caradonna.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Che:
1. Con decreto del 7 agosto 2018, la Corte di appello di Firenze ha rigettato il reclamo proposto da
M.E.
avverso il decreto del Tribunale peri Minorenni di Firenze dell’11 ottobre 2016 che non aveva accolto
la richiesta di decadenza di D.C.A.A. dalla potestà genitoriale sul figlio minore M.S.A., nato il
(OMISSIS),
con l’allontanamento del minore dall’abitazione materna, dando mandato ai servizi Sociali di
(OMISSIS)
di predisporre, a seguito di una espressa richiesta in tal senso rivolta loro dal M. e previa
un’adeguata
preparazione del minore del padre stesso, incontri osservati una volta al mese, ferme le altre
disposizioni vigenti.
2. A sostegno del decreto impugnato, la Corte di appello di Firenze, all’esito della disposta CTU al
fine di
valutare la capacità genitoriale della madre e la possibilità di ripresa dei rapporti padre-figlio, ha
affermato che non era necessario, nè opportuno disporre l’affidamento del minore ai servizi Sociali e
che, al fine di consentire di ipotizzare una ripresa dei rapporti padre-figlio, appariva sufficiente dare
mandato ai Servizi Sociali di (OMISSIS). 3. M.E., avverso il suddetto decreto, ha proposto ricorso
per
cassazione con atto affidato a sei motivi.
4. D.C.A.A. e M.S.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Paola Gallesi, non hanno svolto difese.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Che:
1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la
violazione e falsa applicazione degli artt. 330 e 336 c.c. e dell’art. 354 c.p.c., comma 1, posto che
non era mai stato nominato un curatore speciale per il minore e che, verificata la mancata
integrazione del contraddittorio in primo grado nei confronti del minore, la Corte di appello si era
limitata a nominare difensore l’Avv. Paola Gallesi, mentre avrebbe dovuto rimettere la causa al
primo giudice.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la
violazione e falsa applicazione degli artt. 330 e 337 ter c.c., per non avere interpretato la norma
individuando gli elementi della fattispecie nella violazione o trascuratezza dei doveri inerenti alla
potestà genitoriale o nell’abuso dei relativi poteri con grave pregiudizio per il figlio sostituendoli con
l’adeguatezza della capacità genitoriale della madre e il pregiudizio per il minore dall’eventuale
allontanamento da questa.
3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la
censura dell’affermazione con la quale si conclude per l’adeguatezza della capacità della madre, in
quanto la Corte aveva messo a fondamento della propria decisione unicamente una parte
ampiamente contestata della CTU, omettendo l’esame dei comportamenti posti in essere dalla
madre che avevano alienato la figura paterna.
4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la
violazione e falsa applicazione dell’art. 337 ter c.c., in ordine ai comportamenti posti in essere dalla
madre che avevano alienato la figura paterna nella parte in cui aderendo alla giurisprudenza di
Cassazione che ritiene che in tema di Pas occorra accertare se sussistono i denunciati
comportamenti volti all’allontanamento del figlio dall’altro genitore, aveva invece ritenuto decisa
l’incapacità del padre a relazionarsi con il figlio.
5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione
dell’art. 116 c.p.c., in relazione alla valutazione effettuata dalla CTU sulla capacità genitoriale della
madre.
6. Con il sesto motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa e in
ogni caso contraddittorietà, insufficienza della motivazione, illogicità e palese erroneità della stessa
in ordine ai comportamenti posti in essere dal padre per recuperare il rapporto con il figlio.
7. Deve in via preliminare affermarsi l’ammissibilità del ricorso.
Ed invero, questa Corte, rimeditando il proprio precedente contrario orientamento, ha più
recentemente statuito, con affermazione cui il Collegio intende assicurare continuità, che i
provvedimenti cosiddetti de potestate, che attengono alla compressione della titolarità della
responsabilità genitoriale, ovvero i provvedimenti di decadenza limitativi di cui agli artt. 330 e 333
c.c., hanno l’attitudine al giudicato rebus sic stantibus, in quanto non revocabili o modificabili salva
la sopravvenienza di fatti nuovi, sicchè il decreto della corte di appello che, in sede di reclamo,
conferma, revoca o modifica il predetto provvedimento, è impugnabile con ricorso per cassazione ex
art. 111 Cost., comma 7 (Cass., 6 marzo 2018, n. 5256; Cass., 21 novembre 2016, n. 23633; Cass.
29 gennaio 2016, n. 1743).
Specificamente questa Corte ha affermato “essendo indubitabile che il decreto adottato dal tribunale
per i minorenni, con il quale si dispone la decadenza o la limitazione della responsabilità genitoriale,
incide su diritti di natura personalissima, di primario rango costituzionale, deve – per converso –
ritenersi che tale provvedimento, emanato peraltro all’esito di un procedimento che si svolge con la
presenza di parti processuali in conflitto tra loro, abbia attitudine al cd. giudicato rebus sic
stantibus.
Tale provvedimento non è, invero, nè revocabile, nè modificabile, se non per la sopravvenienza di
fatti nuovi e non per la mera rivalutazione delle circostanze preesistenti già esaminate. Pertanto,
dopo che la Corte d’appello lo abbia confermato, revocato o modificato in sede di reclamo ex art.
739 c.p.c., il decreto camerale – secondo l’orientamento innovativo in esame – acquista una sua
definitività, ed è senz’altro impugnabile con il ricorso per cassazione che va, di conseguenza,
ritenuto pienamente ammissibile” (Cass., 25 luglio 2018, n. 19780).
7.1 Si tratta di un indirizzo che trova applicazione anche nella presente controversia, con la
necessaria premessa che si tratta di una rivisitazione dell’indirizzo tradizionale che ha avuto origine
dalla modifica dell’art. 38 disp. att., introdotta dalla L. 10 dicembre 2002, n. 219, art. 3, comma 1,
che ha attribuito al giudice ordinario anche i procedimenti ex artt. 330 e 333 c.c., nell’ipotesi in cui
sia in corso tra le stesse parti un giudizio di separazione o divorzio, e alla nuova veste assunta dal
minore nei procedimenti giurisdizionali che lo riguardano.
Di recente, questa Corte ha ulteriormente precisato che in materia di provvedimenti de potestate ex
artt. 330, 333 e 336 c.c., il decreto pronunciato dalla Corte d’appello sul reclamo avverso quello del
Tribunale per i minorenni è impugnabile con il ricorso per cassazione, avendo, al pari del decreto
reclamato, carattere decisorio e definitivo, in quanto incidente su diritti di natura personalissima e di
primario rango costituzionale, ed essendo modificabile e revocabile soltanto per la sopravvenienza
di nuove circostanze di fatto e quindi idoneo ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic
stantibus, anche quando non sia stato emesso a conclusione del procedimento per essere stato,
anzi, espressamente pronunciato “in via non definitiva”, trattandosi di provvedimento che riveste
comunque carattere decisorio, quando non sia stato adottato a titolo provvisorio ed urgente, idoneo
ad incidere in modo tendenzialmente stabile sull’esercizio della responsabilità genitoriale (Cass., 24
gennaio 2020, n. 1668).
7.2 Tale principio, che il Collegio condivide, deve considerarsi applicabile anche alla fattispecie in
esame, in quanto avente ad oggetto la domanda di decadenza di D.C.A.A. dalla potestà genitoriale
sul figlio minore M.S.A., nato il (OMISSIS).
8. Tanto premesso in punto di ammissibilità del ricorso per cassazione, l’esame delle censure porta
al rigetto del primo motivo e, all’accoglimento del terzo e quarto motivo che vanno trattati
unitariamente in quanto hanno ad oggetto la medesima questione giuridica della tutela del principio
della bigenitorialità.
8.1 Questa Corte ha già avuto modo di affermare che il procedimento ex art. 336 c.c., benchè non
prettamente contenzioso, non ha ad oggetto preminente, o addirittura esclusivo, un’attività di
controllo del giudice sull’esercizio della responsabilità genitoriale, che escluda la presenza di parti
processuali fra di loro in conflitto (Cass., 21 novembre 2016, n. 23633; Cass. 29 gennaio 2016, n.
1743).
L’articolo in esame stabilisce, infatti, quali sono i soggetti legittimati a promuovere il ricorso,
prevede che i genitori e i minori siano assistiti da un difensore, sancisce l’obbligo di audizione dei
genitori, nonchè, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 154 del 2013, l’obbligo di ascolto del minore
dodicenne, od anche di età inferiore ove dotato di discernimento e il decreto che dispone la
limitazione o la decadenza della responsabilità genitoriale incide su diritti di natura personalissima di
primario rango costituzionale (Cass., 6 marzo 2018, n. 5256).
8.2 Anche la Corte Costituzionale, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 1 del 30 gennaio 2002,
ha chiarito che dalla novità introdotta dalla L. n. 149 del 2001, art. 37, comma 3 (che ha aggiunto
all’art. 336 c.c., il comma 4, che stabilisce che per i provvedimenti di cui ai commi precedenti,
ovvero adottati ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., i genitori ed il minore sono assistiti da un
difensore) si evince l’attribuzione della qualità di parti del procedimento che, in quanto tali, hanno
diritto ad averne notizia ed a parteciparvi, non solo dei genitori ma anche del minore ed ha, altresì,
precisato che la necessità che il contraddittorio sia assicurato anche nei confronti del minore, previa
eventuale nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c., può trarsi pure dall’art. 12,
comma 2, della Convenzione sui diritti del fanciullo, resa esecutiva in Italia con la L. n. 176 del 1991
e perciò dotata di efficacia imperativa nell’ordinamento interno, che prevede che al fanciullo sia data
la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia
direttamente sia tramite un rappresentante o un organo appropriato.
8.3 Tanto premesso in punto di principi applicabili al caso in esame, si legge nel ricorso per
cassazione che la Corte di appello di Firenze, verificata la mancata integrazione del contraddittorio
in primo grado nei confronti del minore, aveva nominato, all’udienza del 22 febbraio 2017, il
difensore l’Avv. Paola Gallesi e, nel provvedimento impugnato, che il legale del minore aveva
concluso per l’affidamento ai servizi Sociali con monitoraggio di almeno un anno.
Nel caso in esame, quindi, la rappresentanza nel procedimento del figlio minore S.A. è stata affidata
aldifensore specificamente nominato, a cui spettava esaminare l’istanza e gli atti processuali e
formulare le conclusioni ritenute opportune nell’interesse esclusivo del minore, così come in effetti è
accaduto.
La Corte di appello di Firenze, nominando difensore del minore l’Avv. Paola Gallesi, ha in tal modo
sanato il vizio procedurale verificatosi per effetto della mancata partecipazione del minore pure in
primo grado.
9. Le censure sollevate con il terzo e il quarto motivo sono fondate. 9.1 Il ricorrente deduce, in
particolare, che sia il Tribunale, che la Corte di appello non avevano in alcun modo valutato alcuni
fattidecisivi – ben doc umentati, quali i comportamenti posti in essere dalla madre finalizzati ad
emarginare la figura paterna (così i tabulati telefonici, le registrazioni audio di telefonate intercorse
tra padre efiglio, le relazioni dell’educatore C., le sentenze di rigetto della Corte di appello di
Catania e del Tribunale di Firenze, la relazione depositata il 30 marzo 2018, la relazione del
consulente diparte depositat a unitamente alla consulenza d’ufficio il 30 marzo 2018), nè avevano
considerato l’interesse del minore al recupero della figura paterna e all’accettazione della diversità
delle due figure genitoriali, la cui compresenza e la cui co-referenzialità costituivano elementi
imprescindibili per un sereno sviluppo della sfera emozionale ed affettiva del minore stesso.
Nella sostanza il ricorrente censura la violazione del principio della bigenitorialità, cioè del diritto del
bambino di avere un rapporto tendenzialmente equilibrato ed armonioso con entrambi i genitori e,
quindi, anche con il padre, ai fini dell’esercizio condiviso della responsabilità genitoriale.
La Corte territoriale, secondo l’assunto del ricorrente, avrebbe omesso del tutto di considerare i
documenti che dimostravano come la D.C. aveva ostacolato in ogni modo il suo rapporto con il figlio
e che l’attuale convivenza del figlio con la madre costituiva un insuperabile impedimento al suo
riavvicinamento al figlio; che era stato omesso l’espletamento di indagini specifiche volte ad
individuare l’esistenza di una Parental Alienation Syndrome e che ciò aveva precluso la tutela dei
suoi diritti di padre e dei diritti del figlio.
9.2 Ciò posto, questa Corte di legittimità ha più volte affermato che, nell’interesse superiore del
minore, va assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza
comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde
relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione ed
istruzione (Cass., 8 aprile 2019, n. 9764; Cass., 23 settembre 2015, n. 18817; Cass., 22 maggio
2014, n. 11412).
Tale orientamento trova riscontro nella giurisprudenza della Corte Edu, che, chiamata a pronunciarsi
sul rispetto della vita familiare di cui all’art. 8 CEDU, pur riconoscendo all’autorità giudiziaria ampia
libertà in materia di diritto di affidamento di un figlio di età minore, ha precisato che è comunque
necessario un rigoroso controllo sulle “restrizioni supplementari”, ovvero quelle apportate dalle
autorità al diritto di visita dei genitori, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la
protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare, di cui all’art.
8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, onde scongiurare il rischio di troncare le relazioni
familiari tra un figlio in tenera età ed uno dei genitori (Corte EDU, 9 febbraio 2017, Solarino c.
Italia).
La Corte EDU, quindi, invita le Autorità nazionali ad adottare tutte le misure atte a mantenere i
legami tra il genitore e i figli, affermando che “per un genitore e suo figlio, stare insieme costituisce
un elemento fondamentale della vita familiare” (Kutzner c. Germania, n. 46544/99, CEDU 2002) e
che “le misure interne che lo impediscono costituiscono una ingerenza nel diritto protetto dall’art. 8
della Convenzione” (K. E T. c. Finlandia, n. 25702/94, CEDU 2001).
I giudici di Strasburgo, inoltre, hanno precisato che, in un quadro di osservanza della frequentazione
tra genitore e figlio, gli obblighi positivi da adottarsi dalle autorità degli Stati nazionali, per garantire
effettività della vita privata o familiare nei termini di cui all’art. 8 della Convenzione EDU, non si
limitano al controllo che il bambino possa incontrare il proprio genitore o avere contatti con lui, ma
includono l’insieme delle misure preparatorie che, non automatiche e stereotipate, permettono di
raggiungere questo risultato, nella preliminare esigenza che le misure deputate a ravvicinare il
genitore al figlio rispondano a rapida attuazione, perchè il trascorrere del tempo può avere delle
conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui
(Corte EDU, 29 gennaio 2013, Lombardo c. Italia).
In particolare, nella pronuncia da ultimo richiamata, la Corte EDU ha affermato che era stato violato
l’art. 8 della Convenzione da parte dello Stato italiano, in un caso in cui le autorità giudiziarie, a
fronte degli ostacoli opposti dalla madre affidataria, ma anche dalla stessa figlia minorenne, a che il
padre esercitasse effettivamente e con continuità il diritto di visita, non si erano impegnate a
mettere in atto tutte le misure necessarie a mantenere il legale familiare tra padre e figlia minore,
attraverso un concreto ed effettivo esercizio del diritto di visita nel contesto di una separazione
legale tra i genitori.
Nello specifico, i giudici Europei hanno messo in evidenza che quelle autorità si erano limitate
reiteratamente e con formule stereotipate a confermare i propri provvedimenti, nonchè a
prescrivere l’intervento dei servizi sociali, cui erano richieste di volta in volta informazioni e delegata
una generica funzione di controllo, così determinandosi il consolidamento di una situazione di fatto
pregiudizievole per il padre, mentre avrebbero potuto rapidamente adottare misure specifiche per il
ripristino della collaborazione tra i genitori e dei rapporti tra il padre e la figlia, anche avvalendosi
della mediazione dei servizi sociali.
9.3 Tanto premesso in punto di principi giurisprudenziali applicabili nel caso in esame, la Corte di
appello di Firenze, all’esito della consulenza tecnica d’ufficio disposta al fine di valutare la capacità
genitoriale della madre e la possibilità di ripresa dei rapporti del padre con il figlio, con motivazione
praticamente assente, dando acritica conferma alla motivazione del giudice di primo grado e senza
tenere in alcun conto le critiche mosse dal padre con l’atto di impugnazione, ha ritenuto
l’adeguatezza della capacità genitoriale della madre e ha affermato che non era necessario, nè
opportuno disporre l’affidamento del minore ai servizi Sociali e che, al fine di consentire di ipotizzare
una ripresa dei rapporti padre-figlio, appariva sufficiente dare mandato ai Servizi Sociali di
(OMISSIS). Rileva questo Collegio, tenendo anche conto della evidente conflittualità esistente tra i
genitori, che non consentiva di effettuare una prognosi positiva in relazione alla possibilità di
soluzioni diverse concordate, che manca del tutto una specifica motivazione in ordine alle eventuali
ragioni che hanno indotto la Corte di merito ad escludere una frequentazione più assidua con il
padre, che ha piuttosto disposto, peraltro a seguito di una espressa richiesta del M. e previa
un’adeguata preparazione del minore e del padre stesso, incontri osservati una volta al mese con
l’ausilio dei servizi sociali, ossia ad escludere una effettiva realizzazione del principio di
bigenitorialità del minore, in funzione dei suoi bisogni di crescita equilibrata.
La Corte, inoltre, omette del tutto di prendere in esame quale fatto decisivo della controversia la
condotta “oppositiva” della madre, quale risulterebbe dai fatti documentali introdotti nel giudizio dal
padre del minore, su cui non svolge alcuna considerazione, pur trattandosi di una condotta
gravemente lesiva del diritto del minore alla bigenitorialità, nè evidenzia le ragioni di incapacità del
padre di prendersi cura del figlio, mancando nel contempo di apprezzare, avuto riguardo alla
posizione del genitore collocatario, che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità
di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore a tutela del diritto del figlio
alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e sana. Ancora, i giudici di merito non hanno motivato
sulle ragioni del rifiuto del padre da parte del figlio e sono venuti meno all’obbligo di verificare, in
concreto, l’esistenza dei denunciati comportamenti volti all’allontanamento fisico e affettivo del figlio
minore dall’altro genitore, potendo il giudice di merito, a tal fine, utilizzare i comuni mezzi di prova
tipici e specifici della materia, ivi compreso l’ascolto del minore, e anche le presunzioni (desumendo
eventualmente elementi anche dalla presenza, ove esistente, di legame “peculiari” tra il figlio e uno
dei genitori).
Tali comportamenti, infatti, ove accertati, sicuramente pregiudicherebbero il diritto del figlio alla
bigenitorialità e ad una sua crescita equilibrata e serena.
Questa Corte, al riguardo, ha avuto occasione di osservare che, in tema di affidamento dei figli
minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole,
deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione
determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenuto conto, in base ad elementi
concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive
capacità di relazione affettiva, nonchè della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e
dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore (Cass., 23 settembre 2015, n.
18817, citata).
10. I restanti motivi sono assorbiti dall’accoglimento dei predetti.
11. In conclusione la decisione impugnata va cassata, in relazione al terzo e quarto motivo, con
rinvio alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, per il riesame e la liquidazione delle
spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo e quarto motivo di ricorso; dichiara infondato il primo motivo, assorbiti gli
altri; cassa il decreto impugnato, in relazione ai motivi accolti, e rinvia la causa alla Corte di appello
di Firenze, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati
identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, il 25 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2020.

Non è possibile l’annullamento dell’ordine di pagamento a titolo di assegno di divorzio alla moglie

Cass. Civ., Sez. VI -1, ord. 9 dicembre 2020 n. 28102 – Pres. Scaldaferri, Rel. Cons. Meloni

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. MELONI Marina – rel. Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 29466-2018 proposto da:
B.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato EDY GUERRINI;
– ricorrente –
contro
INPS – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA, 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati GIUSEPPINA GIANNICO, SERGIO PREDEN, ANTONELLA PATTERI, LUIGI CALIULO;
– controricorrente –
contro
S.B.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 601/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 28/02/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 06/10/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MELONI MARINA.
Svolgimento del processo
B.R. chiese al Tribunale di Ravenna l’annullamento o la dichiarazione di nullità dell’ordine di pagamento intimato, L. n. 898 del 1970 ex art. 8, comma 3 (come modificato dalla L. n. 74 del 1987), dalla ex coniuge S.B. all’INPS sede di Ravenna relativamente alla somma di Euro 250,00 pari all’assegno divorzile posto a suo carico in sede di dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
A tal riguardo rappresentava che l’obbligo di pagamento dell’assegno di 250,00 Euro era divenuto insostenibile stante il reddito (Euro 6.699,42 annuale) di esso ricorrente, ultraottantenne affetto da plurime patologie, mentre la ex moglie guadagnava Euro 835,73 mensili ed era proprietaria, in nota località turistica, di un immobile di pregio derivante da successione ereditaria.
Il Tribunale di Ravenna rigettò la domanda e la Corte di Appello di Bologna, con sentenza in data 28/2/2018, pronunciando su gravame proposto dal B., confermò la sentenza di primo grado. Avverso tale sentenza B.R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
L’INPS si è costituito con controricorso. S.B. è rimasta intimata.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto il giudice territoriale non ha tenuto conto delle situazioni economiche delle parti e precisamente del reddito della moglie maggiore di quello del ricorrente ormai ultraottantenne affetto da glaucoma bilaterale ed altre patologie.
Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di imprecisate norme di diritto in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Il ricorso è infondato.
L’azione esecutiva di pagamento L. n. 898 del 1970 ex art. 8, contro la quale il ricorrente è insorto, si fonda su un titolo giudiziale esistente e valido di cui il B. non ha ottenuto la modifica nella sede prevista dalla legge, e pertanto non può essere annullato per le ragioni dedotte dal ricorrente, da farsi valere piuttosto con domanda di modifica delle statuizioni patrimoniali della sentenza di divorzio.
Il ricorso deve pertanto essere respinto con condanna del ricorrente al rimborso in favore della parte costituita delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso in favore dell’INPS delle spese del giudizio di legittimità in Euro 1.400,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta sezione della Corte di Cassazione, il 6 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2020

No al reato se il marito usa in tribunale le email della moglie intercettate con un keylogger

Cass. Pen., Sez. V, Sent., 04 novembre 2020, n. 30735; Pres. Zaza, Rel. Cons. Romano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZAZA Carlo – Presidente –
Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –
Dott. ROMANO Michele – rel. Consigliere –
Dott. SESSA Renata – Consigliere –
Dott. MOROSINI Elisabetta – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
P.G., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 07/05/2019 della Corte di appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Michele Romano;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Tassone Kate, che ha chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perchè i reati sono estinti per prescrizione e che i motivi di ricorso siano dichiarati inammissibili;
sentite le conclusioni del difensore del ricorrente, avv. Pietro Pomanti, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza del 31 maggio 2017 del Tribunale di Roma che ha affermato la penale responsabilità di P.G. per i delitti di cui all’art. 616 c.p., commi 1 e 4, artt. 617-bis e 617-quater c.p. tutti unificati dal vincolo della continuazione, e, applicate le attenuanti generiche, lo ha condannato alla pena di mesi otto e giorni venti di reclusione, nonchè al risarcimento del danno in favore della moglie F.F., costituitasi parte civile.
In particolare, al P. si contesta di avere installato e configurato un programma informatico tramite il quale egli fraudolentemente aveva intercettato e preso cognizione di messaggi, fotografie e e-mail indirizzate alla moglie (capo a), nonchè di avere preso cognizione di comunicazioni pervenute alla moglie tramite posta elettronica per poi utilizzarne il contenuto nella causa civile intentata innanzi al Tribunale di Roma (capo b).
2. Avverso detta sentenza ricorre P.G., a mezzo dei suoi difensori, chiedendone l’annullamento ed affidandosi a cinque motivi.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 51 c.p. in relazione all’art. 616 c.p., commi 1 e 4, dell’art. 192 c.p.p., e dell’art. 9, par. 2, lett. f), regolamento U.E. n. 679 del 2016, nonchè la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
Con il primo motivo di appello il P. aveva dedotto che erroneamente il Tribunale non aveva applicato la causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p. in relazione al delitto di cui all’art. 616 c.p., commi 1 e 4, per la violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza, in quanto l’imputato aveva commesso il fatto allo scopo di difendersi innanzi all’autorità giudiziaria.
Sul punto la Corte territoriale ha affermato che l’imputato non si è limitato a produrre in giudizio una corrispondenza privata di cui aveva occasionalmente preso conoscenza, ma ha fraudolentemente carpito la corrispondenza attraverso l’installazione di uno specifico programma e tale comportamento, in quanto violava uno dei diritti fondamentali della persona, non poteva trovare giustificazione nell’esercizio del diritto di difesa.
Tuttavia, tale motivazione appare in contrasto con quanto asserito nei due precedenti paragrafi della motivazione. In essi si afferma che la captazione fraudolenta della corrispondenza, avvenuta attraverso la installazione del programma informatico a ciò diretto, non lascia dubbi sulla sussistenza materiale dei reati e sul dolo, emergendo evidente la volontà dell’imputato di venire a conoscenza della corrispondenza elettronica della moglie, poichè altrimenti non si sarebbe spiegata la installazione del server che consentiva la captazione. La captazione non può trovare giustificazione nell’esigenza di controllare la figlia minore, poichè detta esigenza non giustifica la sottoposizione a controllo anche della corrispondenza della moglie in un periodo in cui era in corso la separazione giudiziale. La Corte, tuttavia, ha affermato pure che la consulenza tecnica del Pubblico ministero non era stata in grado di stabilire a quanto tempo prima risalisse la installazione e da quanto tempo venisse attuata l’illecita captazione. Questo rilievo contrasta con la intenzione dell’imputato di carpire fraudolentemente la corrispondenza della moglie e rende la motivazione carente ed illogica, perchè se non è possibile stabilire a quando risalisse l’istallazione del programma informatico, neppure può ritenersi smentita la tesi difensiva e quindi non può ritenersi provata oltre ogni ragionevole dubbio la natura fraudolenta della captazione.
Nella stessa sentenza impugnata si afferma che la istallazione del programma informatico rispondeva ad un’esigenza di tutela della figlia minore che era comune ad entrambi i genitori.
Nè poteva in contrario obiettarsi che l’esigenza di tutelare la minore non giustificasse che anche la corrispondenza della moglie fosse oggetto di intercettazione, in quanto il programma informatico non consentiva di distinguere tra i diversi utilizzatori del computer sul quale era stato installato.
Inoltre, l’art. 9, par. 2, lett. f), regolamento U.E. n. 679 del 2016 prevede che il divieto di trattamento dei dati personali stabilito dell’art. 9, par. 1, dello stesso regolamento non si applichi ove il trattamento sia necessario per accertare, esercitare, difendere un diritto in sede giudiziaria.
Del resto, evidenzia il ricorrente, questa Suprema Corte ha già affermato che la nozione di giusta causa, ai sensi dell’art. 616 c.p., comma 2, non è fissata dalla legge e la sua identificazione è rimessa al giudice, che deve valutare la liceità, sotto il profilo etico e sociale, dei motivi che hanno indotto il soggetto a tenere un certo comportamento (Sez. 5, n. 52075 del 29/10/2014, Lazzarinetti, Rv. 263226; Sez. 5, n. 8838 del 10/07/1997, Reali, Rv. 208613).
In particolare, secondo il ricorrente, il giudice deve operare un bilanciamento tra contrapposti interessi ed assolvere se la rivelazione risulti necessaria.
In tal senso si è già espressa questa Corte di cassazione laddove ha affermato che la produzione di documenti ottenuti illecitamente, tramite la lesione di un diritto fondamentale, può essere scriminata per giusta causa, ai sensi dell’art. 616 c.p., comma 2, laddove costituisca l’unico mezzo per contestare le pretese della controparte e l’imputato riesca a dar prova della circostanza (Sez. 5, n. 35383 del 29/03/2011, Solla, Rv. 250925). 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione all’art. 616 c.p.p., commi 1 e 4, artt. 617-bis e 617-quater c.p., nonchè carenza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza dei reati previsti dalle disposizioni appena citate.
A fronte del secondo motivo di appello, diretto a contestare la sussistenza dei reati ascritti al ricorrente, la Corte territoriale aveva sostenuto che era irrilevante che l’imputato avesse acquistato i computer installati nell’abitazione coniugale e che sempre egli avesse creati gli account della figlia e della moglie, in quanto era comunque stato accertato che il computer sul quale era avvenuta l’intercettazione era usato dalla moglie che esclusivamente tramite esso apriva, leggeva ed inviava la sua corrispondenza elettronica.
Tale assunto era illogico a fronte dell’affermazione, anch’essa contenuta in motivazione, che la consulenza tecnica del Pubblico ministero non era stata in grado di stabilire a quanto tempo prima risalisse la installazione e da quanto tempo venisse attuata l’illecita captazione e che al momento della denuncia era già pendente il giudizio per la separazione personale dei coniugi e tale circostanza dimostrava il dolo.
Se il giudice non era in grado di stabilire l’epoca di installazione del programma informatico, questa poteva essere avvenuta anche prima della crisi coniugale ed esclusivamente allo scopo di tutelare la figlia minorenne.
Risultava, quindi, violato l’art. 192 c.p.p., e la Corte di appello aveva omesso di motivare la propria decisione, nonostante lo specifico motivo di appello.
2.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 15, art. 616 c.p., commi 1 e 4, artt. 617-bis e 617-quater c.p. e la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato assorbimento dei reati di cui agli artt. 616 e 617-bis c.p. nel delitto previsto dall’art. 617 quater c.p.
Con l’atto di appello era stato invocato detto assorbimento, ma la Corte territoriale aveva risposto che quest’ultimo delitto non presentava elementi di specialità rispetto agli altri che quindi concorrono con esso e non ne sono assorbiti. In particolare, i giudici di secondo grado avevano affermato che andava disattesa la tesi secondo la quale i tre reati sarebbero in rapporto di continenza perchè la realizzazione dell’uno sarebbe stata impossibile senza la realizzazione dell’altro.
Il ricorrente sostiene che poichè la corrispondenza informatica è tale se viene inoltrata e ricevuta per mezzo di un sistema informatico, la Corte di appello ha violato l’art. 15 c.p. poichè il bene giuridico tutelato dagli artt. 616, 617-bis e 617-quater c.p. era il medesimo ed identico era l’oggetto delle varie norme, che regolavano la stessa materia.
Sostiene il P. che la Corte di cassazione ha affermato che il reato progressivo è un reato complesso in senso lato e il rapporto di continenza deve essere stabilito in via interpretativa dal giudice e l’assorbimento del reato minore in quello maggiore ha luogo solo laddove sia impossibile realizzare il reato maggiore senza realizzare quello minore e, nel caso di specie, non avrebbero potuto essere contestate al P. le violazioni di cui agli artt. 616 e 617-quater c.p. se non fosse stato installato il software riferibile al delitto di cui dell’art. 617 bis c.p.
Le Sezioni Unite hanno affermato che in caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità (art. 15 c.p.) richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica si deve procedere mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010 – dep. 2011, Giordano, Rv. 248864).
Conseguentemente, in applicazione dei principi sopra esposti, doveva ritenersi operante l’assorbimento.
2.4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p. comma 1, lett. b), la violazione degli artt. 157, 159 e 160 c.p. e dell’art. 192 c.p.p.
I reati erano ormai estinti per prescrizione già nel momento in cui era stata pronunciata la sentenza di appello. I reati erano stati contestati come commessi in data 12 agosto 2011 e conseguentemente il termine massimo di prescrizione, essendo pari ad anni sette e mesi sei, era maturato in data 12 febbraio 2019. La sentenza di appello era stata emessa il 7 maggio 2019.
Inoltre, non essendo stato possibile collocare nel tempo l’installazione del software che consentiva l’intercettazione dei messaggi, andava applicato il principio in dubio pro reo anche al termine iniziale della prescrizione.
2.5. Con il quinto motivo il ricorrente si duole della violazione dell’art. 539 c.p.p. e della mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla condanna generica al risarcimento del danno ed al riconoscimento della provvisionale in favore della parte civile.
Per la condanna generica al risarcimento del danno era necessario che fosse accertata la potenzialità lesiva del fatto ed il nesso causale tra il reato ed il pregiudizio lamentato dalla parte civile, mentre nel caso di specie la sentenza non motivava su detti presupposti.
Inoltre era la stessa persona offesa che aveva voluto la installazione del software allo scopo di controllare la figlia minore.
Motivi della decisione
1. Il ricorso appare fondato per le ragioni di seguito esposte.
2. Deve preliminarmente rilevarsi l’insussistenza, nel caso di specie, del delitto di divulgazione di corrispondenza di cui all’art. 616 c.p., commi 1 e 4.
Nel processo di legittimità, dalla disposizione di cui all’art. 609 c.p.p., comma 2, deriva che la Corte possa rilevare la sussistenza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 192 c.p.p., solo se dalla sentenza impugnata emergano elementi che depongano in maniera evidente in tal senso, costituendo tale condizione necessaria espressione dei limiti di cognizione propri di tale giudizio (Sez. 3, n. 394 del 25/09/2018 – dep. 2019, Gilardi, Rv. 27456701). (Conforme n. 109 del 1968, Rv. 108484).
La questione sulla qualificazione giuridica del fatto rientra tra quelle su cui la Corte di cassazione può decidere ex art. 609 c.p.p. e, pertanto, può essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità, purchè l’impugnazione non sia inammissibile e per la sua soluzione non siano necessari accertamenti di fatto (Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272651; Sez. 1, n. 13387 del 16/05/2013 – dep. 2014, Rossi, Rv. 259730; Sez. 2, n. 45583 del 15/11/2005, De Juli, Rv. 232773).
In particolare, è necessario che la diversa qualificazione giuridica del fatto sia possibile sulla base della stessa motivazione della sentenza impugnata.
Peraltro, quando, come nel caso di specie, ricorre una doppia conforme, avendo la Corte di appello richiamato la motivazione della sentenza di primo grado e adottato gli stessi criteri di valutazione delle prove e di ricostruzione del fatto, le due sentenze possono essere lette congiuntamente, integrandosi reciprocamente e dando vita ad risultato organico ed inscindibili.
Pertanto, ai fini della qualificazione giuridica del fatto e dell’art. 192 c.p.p., questa Corte di cassazione può fondarsi anche sulla motivazione della sentenza di primo grado e sull’accertamento del fatto in essa contenuto.
Secondo quanto accertato dal giudice di primo grado e confermato dalla Corte di appello, l’odierno ricorrente ha utilizzato un programma informatico che gli consentiva di intercettare quanto veniva inviato alla casella di posta elettronica della moglie. Il programma entrava in funzione quando la moglie si connetteva ad internet riprendendo e filmando i contenuti dei messaggi di posta elettronica che venivano inviati al computer dell’imputato, che poteva visionarli in diretta. In sostanza, il P., tramite detto programma, era in grado di intercettare le e-mail inviate dalla o alla moglie durante la loro trasmissione.
Deve allora osservarsi che le fattispecie punite dagli artt. 616 e 617-quater c.p. hanno ambiti operativi ben definiti dalla diversa configurazione dell’oggetto materiale della condotta, anche indipendentemente dalle specifiche connotazioni modali che la caratterizzano nell’art. 617-quater e che invece non sono previste nell’art. 616.
Mentre nell’ambito dell’art. 617-quater c.p., il termine corrispondenza non comprende ogni forma di comunicazione, ma assume un significato più ristretto, riferibile alla comunicazione nel suo momento “dinamico” ossia in fase di trasmissione – come si ricava anche dai termini impiegati per definire la condotte alternative a quella di intercettazione, ossia “impedisce” e “interrompe” -, nell’art. 616 c.p., il termine “corrispondenza” risulta invece funzionale ad individuare la comunicazione umana nel suo profilo “statico” e cioè il pensiero già comunicato o da comunicare fissato su supporto fisico o altrimenti rappresentato in forma materiale, come si ricava anche in questo caso dai termini impiegati per descrivere le altre condotte tipizzate alternativamente a quella di illecita cognizione (sottrarre, distrarre, sopprimere e distruggere) (vedi in proposito Sez. 5, n. 12603 del 02/02/2017, Segagni, Rv. 26951701 che pone a raffronto l’art. 616 c.p. e l’art. 617 c.p.).
Nel caso di specie, secondo la ricostruzione del fatto operata dai giudici del merito, il P. ha intercettato le e-mail che venivano inviate alla moglie e che a questa venivano inviate nel momento in cui la loro trasmissione era in corso, cosicchè, in applicazione del principio sopra esposto, non risulta applicabile l’art. 616 c.p., comma 1, c.p., nè il comma 4 della medesima disposizione, che si riferisce alla divulgazione della corrispondenza di cui al comma 1, ossia di quella “statica”.
Nè può ritenersi sussistente il reato di cui all’art. 617-quater c.p., comma 2 che punisce la divulgazione del contenuto della comunicazione intercettata, poichè a tal fine è necessario che la divulgazione del contenuto della comunicazione intercettata avvenga mediante “qualsiasi mezzo d’informazione al pubblico”, mentre nel caso di specie la divulgazione è avvenuta mediante la produzione delle e-mail in un giudizio di separazione personale dei coniugi pendente tra l’imputato e la persona offesa, modalità che è inidonea a rivelare il contenuto della comunicazione alla generalità dei terzi (vedi Sez. 5, n. 11965 del 30/01/2018, C, Rv. 272669, che per lo stesso motivo ha escluso l’applicabilità del comma 2 dell’art. 617 c.p.).
Deve, quindi, concludersi per la penale irrilevanza, nel caso di specie, della successiva divulgazione delle comunicazioni già oggetto di intercettazione.
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio relativamente al reato di cui al capo b) perchè il fatto non sussiste. Il primo motivo di ricorso resta assorbito.
3. Il secondo motivo di ricorso, con il quale si lamenta la illogicità della motivazione, è fondato.
Gli artt. 617-bis e 617-quater c.p. richiedono entrambi che le condotte in essi descritte siano attuate “fraudolentemente”, ossia con modalità tali da rendere non percettibile o riconoscibili le condotte stesse, che avvengono all’insaputa del soggetto che è parte della comunicazione; se l’agente ha reso manifesta la volontà di installare lo strumento che consente di intercettare la comunicazione e quindi di procedere all’intercettazione delle comunicazioni, prima che l’azione sia posta in essere, il reato è escluso.
L’odierno ricorrente ha sostenuto con il suo appello (vedi 3 e 4 dell’atto di appello) che l’installazione del programma che consentiva l’intercettazione delle attività di navigazione in internet era conosciuta alla moglie, in quanto attuata di comune accordo molti anni prima allo scopo di controllare la navigazione su internet della figlia minore per impedire che la stessa potesse utilizzare il computer per accedere a contenuti inappropriati, considerata la sua età; il programma informatico installato non consentiva di distinguere tra i vari utenti del sistema.
La Corte di appello, nel rigettare la tesi difensiva, afferma che la natura fraudolenta dell’installazione del programma keylogger e della successiva attività di intercettazione emerge dall’intento dell’imputato di venire a conoscenza della corrispondenza elettronica privata della moglie, non potendo la intercettazione della corrispondenza informatica della moglie, peraltro attuata in un periodo in cui tra i due coniugi pendeva il giudizio di separazione personale, trovare giustificazione nell’intento di controllare l’attività informatica della figlia minore.
Tuttavia, la stessa Corte di appello afferma contraddittoriamente che non è possibile stabilire quando sia stato installato detto programma e quando sia iniziata l’attività di intercettazione, circostanza, questa, che confligge con le ragioni addotte dalla stessa Corte di appello per affermare che le condotte di cui agli artt. 617-bis e 617-quater c.p. sono state attuate fraudolentemente e che sussiste il dolo dei delitti contemplati dalle disposizioni appena citate, non risultando esclusa la finalità indicata dal ricorrente. 4. Stante la fondatezza del ricorso in ordine ai delitti contestati al capo a), deve rilevarsi, ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 1, che i reati sono ormai estinti per prescrizione.
Non ricorrendo la evidenza di alcuna delle ipotesi di cui all’art. 192 c.p.p., comma 2, in relazione a tali delitti, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali.
Quanto agli effetti civili, in relazione ai reati di cui al capo a), la sentenza deve essere annullata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, che provvederà alla regolamentazione tra le parti delle spese processuali del grado di legittimità.
Il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso restano assorbiti.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al reato di cui all’art. 616 c.p. perchè il fatto non sussiste. Annulla la stessa sentenza senza rinvio agli effetti penali relativamente agli altri reati per essere gli stessi estinti per prescrizione e con rinvio agli effetti civili al giudice civile competente per valore in grado di appello. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 29 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2020

Niente contribuzione mensile alla ex moglie che ha una nuova relazione stabile

Cass. Civ., Sez. VI – 1, Ord., 16 ottobre 2020, n. 22604; Pres. Scaldaferri, Rel. Cons. Parise
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 34232-2018 proposto da:
S.D., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO QUATTRONE;
– ricorrente –
contro
I.G., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIA G. LASCALA;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 269/2018 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 26/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott. PARISE CLOTILDE.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. La Corte d’appello di Reggio Calabria, con sentenza n. 269/2018 depositata il 26-4-2018, in parziale accoglimento dell’appello principale proposto da I.G. e in parziale riforma della sentenza impugnata, ha posto a carico di S.D. l’obbligo di corrispondere alla I., ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, un assegno mensile di Euro 400, da corrispondersi entro i primi cinque giorni di ogni mese e annualmente rivalutabile secondo gli indici Istat. La Corte territoriale ha inoltre dichiarato inammissibile l’appello incidentale di S.D., diretto ad ottenere la revoca dell’assegnazione della casa coniugale alla I., ed ha compensato integralmente tra le parti le spese di lite del doppio grado. 2. Avverso detta sentenza S.D. propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, a cui resiste con controricorso la I., proponendo ricorso incidentale affidato ad un solo motivo. La controricorrente ha depositato memoria illustrativa.
3. Con il primo motivo di ricorso principale il ricorrente lamenta la “Violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”. Denuncia l’assenza o apparenza, nonchè l’illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte territoriale, pur esaminando lo stesso materiale probatorio del Tribunale, espresso un convincimento opposto, in ordine alla sussistenza dei connotati di stabilità e continuità della convivenza more uxorio tra l’ex moglie e il sig. M., senza spiegarne le ragioni fattuali e giuridiche e operando mero e apodittico richiamo alla giurisprudenza di questa Corte in tema di rilevanza della cd. famiglia di fatto.
3.1. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la “Violazione o falsa applicazione dell’art. 2 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Lamenta che la Corte territoriale abbia errato nel qualificare la fattispecie giuridica della famiglia di fatto, richiama la giurisprudenza di questa Corte sul tema e deduce che i presupposti fattuali accertati dai Giudici di merito erano da ritenersi sufficienti ad integrare le connotazioni di stabilità e continuità caratterizzanti la famiglia di fatto. Richiama le risultanze probatorie e soprattutto la testimonianza del sig. M., con cui la I. aveva instaurato la relazione sentimentale, dalla quale era emersa l’assunzione, da parte di questi ultimi, di impegni reciproci di assistenza morale e materiale.
4. Con unico articolato motivo di ricorso incidentale la controricorrente censura la sentenza impugnata per errore di diritto, avendo la Corte d’appello ritenuto di ripristinare l’assegno di mantenimento in suo favore nell’importo di Euro400, in luogo di quello di Euro 700 stabilito nella sentenza di separazione. Deduce la controricorrente di non avere alcun reddito ed inoltre non era stata dimostrata dall’ex marito la stabilità e continuità della sua relazione con l’altro uomo, nè la condivisione delle spese con quest’ultimo. L’esiguità del suddetto importo, ad avviso della controricorrente, non le consente di far fronte neppure all’acquisto di beni di prima necessità.
5. Il primo motivo di ricorso principale è fondato.
5.1. Ricorre, nella specie, il vizio di motivazione denunciato con riferimento all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, ed all’art. 111 Cost., che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento.
La Corte d’appello, dopo aver richiamato la giurisprudenza di questa Corte in tema di famiglia di fatto, ha dato atto che era stato provato il rapporto sentimentale pluriennale e consolidato tra la I. e il sig. M., pure caratterizzato da ufficialità, nonchè fondato sulla quotidiana frequentazione con periodi più o meno lunghi di piena ed effettiva convivenza, così ricostruendo la vicenda fattuale di rilevanza in modo conforme a quanto accertato dal Tribunale, secondo cui i suddetti fatti integravano in concreto la fattispecie della cd. famiglia di fatto. La Corte territoriale ha, invece, ritenuto che quella relazione non potesse “per ciò solo dirsi connotata da quei caratteri di continuità e stabilità che probabilmente rappresenterebbero il primo stadio necessario, ma- come detto- nemmeno sufficiente, per ipotizzare la creazione tra gli stessi di quella nuova famiglia di fatto secondo il valore ed il significato attribuiti al concetto dalla migliore giurisprudenza sopra detta” (pag. n. 6 della sentenza impugnata).
Il suddetto percorso argomentativo, che è l’unico esplicitato nella sentenza impugnata a fondamento della mancata condivisione dell’opposta conclusione a cui era pervenuto il Giudice di primo grado, non consente di individuare in che modo e su quali basi si sia formato il convincimento della Corte d’appello, in assenza di richiami ad elementi fattuali idonei a giustificare le ragioni della ritenuta assenza di continuità e stabilità della relazione sentimentale, pur ricostruita dalla stessa Corte territoriale, in base all’istruttoria espletata in primo grado, come pluriennale, consolidata, ufficializzata, di quotidiana frequentazione e caratterizzata da periodi più o meno lunghi di piena ed effettiva convivenza. Neppure consente di rendere percepibile il ragionamento seguito l’apodittico riferimento al concetto di famiglia di fatto in base alla giurisprudenza di questa Corte, in mancanza di ulteriori adeguate indicazioni fattuali rispetto a quelle di cui si è detto.
A ciò si aggiunga il profilo di contraddittorietà che si rinviene nel successivo passaggio motivazionale della sentenza impugnata, concernente la quantificazione del contributo di mantenimento (pag. n. 8 sentenza), nella parte in cui è affermato che “la I. ha pure dato vita ad una nuova stabile e consolidata relazione affettiva con un nuovo compagno”. All’evidenza detto ultimo assunto si pone in irriducibile contrasto con quello precedente di cui si è detto, con il quale era stata, invece, esclusa la sussistenza, nel caso concreto, delle connotazioni di stabilità e continuità di quella relazione. Ricorre, pertanto, nella specie l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, il vizio risulta dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, e la motivazione non raggiunge il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. S.U. n. 8053/2014 e successive conformi).
6. In conclusione, va accolto il primo motivo di ricorso principale, restando assorbiti sia il secondo motivo di ricorso principale, sia il motivo di ricorso incidentale, la sentenza impugnata va cassata nei limiti del motivo accolto e la causa è rinviata alla Corte d’appello di Reggio Calabria, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese di lite del giudizio di legittimità.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso principale, dichiarati assorbiti il secondo motivo di ricorso principale e il motivo di ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Reggio Calabria, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, il 15 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2020

Le pattuizioni convenute fra i coniugi e non omologate sono prive di efficacia giuridica

Cass. Civ., Sez. I, sent. 15 dicembre 2020, n. 28649 – Pres. Genovese, Rel. Cons. Tricomi
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare – Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26049/2019 proposto da:
A.E., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dagli avvocati Cornelio Claudia, Cornelio Enrico, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
nonchè contro
V.F., elettivamente domiciliato in Roma, Via Properzio n. 27, presso lo studio dell’avvocato Ranni Marco, rappresentato e difeso dall’avvocato Scantamburlo Massimo, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 2970/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, pubblicata il 16/07/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 11/11/2020 dal cons. Dott. TRICOMI LAURA.
Svolgimento del processo
CHE:
Il Tribunale di Venezia aveva pronunciato la separazione personale dei coniugi V. – A., con addebito a carico di V.F., gravando quest’ultimo di un assegno di mantenimento in favore della moglie di Euro 1.500,00= mensili, oltre rivalutazione ISTAT. La Corte di appello ha respinto sia l’appello principale proposto da A., che l’appello incidentale proposto da V., confermando la prima decisione.
In particolare la Corte di appello, chiamata a pronunciarsi in merito alla scrittura privata datata (OMISSIS), prodotta da entrambe le parti, sulla premessa che entrambe avevano tentato di farne uso in maniera diversa, funzionale alle rispettive difese, ha ritenuto che l’atto non costituiva in nessun modo un accordo idoneo a regolamentare una separazione consensuale e tanto meno il corrispondente procedimento contenzioso, in quanto si trattava di una mera puntuazione in vista di un possibile accordo di separazione consensuale, mai perfezionato dalle parti che avevano poi intrapreso la separazione giudiziale. Ha, quindi, confermato la congruità dell’assegno di mantenimento disposto a favore di A., previo raffronto delle condizioni economiche delle parti.
A.E. ricorre per cassazione con quattro motivi. V.F. ha replicato con controricorso, con ricorso incidentale con due mezzi e con ricorso incidentale condizionato con un mezzo. Entrambi hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
CHE:
1.1. Il ricorso principale proposto da A. è articolato nei seguenti quattro motivi:
I- Con il primo mezzo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. per contrasto logico della motivazione con la comune intenzione delle parti esplicitata con la seguente clausola, testualmente citata dalla sentenza, tratta dall’accordo trasfuso nella scrittura privata del (OMISSIS) “i coniugi si impegnano a rispettare quanto sopra convenuto sino a quando non concorderanno tra loro una modifica a tale accordo, che può essere fatta solo in forma scritta, a pena di nullità, o sino a quando non sarà convenuto l’eventuale testo del ricorso per separazione consensuale”.
La ricorrente sostiene che l’atto costituiva un accordo sul contenuto sostanziale dei rapporti tra i coniugi dal contenuto obbligatorio e giuridicamente vincolate, rispetto al quale la separazione si qualificava solo come “eventuale”; che l’accordo era immediatamente vincolante e che la modifica poteva avvenire in forma scritta concordata, che l’atto costituiva una transazione che conteneva un “contratto atipico di mantenimento” senza prefissazione del termine di durata e senza che il dato dell’entità del mantenimento fosse stato espresso in termini monetari. Rimarca da ultimo che l’accordo aveva avuto attuazione immediata ed era proseguito anche durante il giudizio di separazione fino alla sentenza di primo grado.
II- Con il secondo mezzo denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (in vista dell’applicazione dell’art. 1362 c.c., comma 2, in relazione al comportamento delle parti dopo il contratto) che è stato oggetto di discussione tra le parti; la mancata applicazione degli artt. 167 e 359 c.p.c. Segnatamente, la ricorrente si duole che non sia stato dato rilievo alla non contestazione del pregresso adempimento dell’accordo da parte di V..
III – Con il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 1367 e 1965 c.c. da parte della Corte di appello per aver negato valore giuridico all’accordo di cui è causa rispetto alla separazione giudiziale introdotta. Secondo la ricorrente l’accordo intervenuto tra i coniugi non li vincolava alla forma della proposizione della domanda di separazione, ma “al contenuto dei provvedimenti che avrebbe dovuto prendere il Giudice comunque investito” (fol. 13 del ricorso) trattandosi di una transazione già intervenuta e già eseguita. Ha, quindi, affermato che la causa del contratto era evitare un futuro contenzioso e quindi si trattava della causa tipica di un atto transattivo.
IV- Con il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 1372 e 1965 c.c. per aver negato al contratto “valore di legge” tra le parti, prevalente sull’art. 156 c.c., trattandosi di diritti disponibili.
Sostiene che le parti si erano obbligate validamente tra di loro ed il loro accordo precludeva al giudice un diverso regolamento ex art. 156 c.c. 1.2. Il ricorso principale è inammissibile perchè prospetta questioni che appaiono come nuove alla stregua del ricorso e della sentenza impugnata.
1.3. I motivi del ricorso principale, tutti incentrati sulla statuizione concernente l’accordo tra le parti datato (OMISSIS), vanno trattati congiuntamente per connessione.
1.4. Secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata l’accordo in questione – che viene ivi parzialmente riportato, anche se non è stato interamente riprodotto dalla ricorrente in ricorso – era stato definito dai sottoscrittori “accordo programmatico” e recava le seguenti frasi; “che il presente atto illustra il punto in cui sono giunte le loro trattative volte a raggiungere un soddisfacente accordo per una possibile separazione consensuale, e costituisce il frutto dell’impegno personale che i due coniugi sono stati in grado di dare per la soluzione dei loro problemi familiari in attuazione dell’obbligo di collaborazione… 10) i coniugi si impegnano a rispettare quanto sopra convenuto sino a quando non concorderanno tra loro una modifica di tale accordo, che può essere fatta solo in forma scritta a pena di nullità o sino a quando non sarà convenuto l’eventuale testo del ricorso per separazione consensuale”.
La Corte territoriale, esaminando i motivi di appello proposti da A., ha disatteso la tesi di quest’ultima secondo la quale l’atto integrava un accordo di separazione consensuale perfezionato e valido ed in quanto tale inadempiuto dalla controparte (come riportato in sentenza, fol. 4, e non smentito nel ricorso) perchè ha accertato che l’atto in questione non costituiva un accordo idoneo a regolamentare nè una separazione consensuale, nè la separazione giudiziale intrapresa.
In particolare ha accertato, alla stregua dei passaggi riportati in sentenza, che l’atto costituiva una mera puntuazione in vista di un futuro accordo mai perfezionato per una futura separazione consensuale mai perfezionata.
Ha, quindi, affermato che tale atto non poteva significare la rinuncia delle parti ad esercitare l’azione di separazione giudiziale, nè obbligarli a stipulare una separazione consensuale: da ciò ha desunto “l’assenza di valore giuridico vincolante rispetto alla fattispecie dedotta nel presente giudizio che origina invece da un ricorso per separazione giudiziale” (fol. 5 della sent. imp.), rimarcando in proposito sia la diversità natura della separazione giudiziale rispetto a quella consensuale, ipotizzata nell’atto in questione, sia la considerazione che le “puntuazioni” ivi contenute in vista di un componimento bonario della vicenda non potevano essere “decontestualizzate”, e cioè utilizzate per un fine diverso da quello perseguito, e cioè nell’ambito di un procedimento contenzioso.
Per la medesima ragione ha escluso che le rinunce reciproche alla contestazione dell’addebito potessero ritenersi valide ed efficaci in assoluto, ma che dovevano essere considerate entro l’ambito delineato dagli scopi perseguiti dalle parti in quel momento e con quell’atto, volto proprio alla predisposizione delle migliori condizioni per il futuro ottenimento dell’omologa della separazione consensuale.
1.5. Orbene, ricorda la Corte che “In tema di separazione consensuale, il regolamento concordato fra i coniugi ed avente ad oggetto la definizione dei loro rapporti patrimoniali, pur trovando la sua fonte nell’accordo delle parti, acquista efficacia giuridica solo in seguito al provvedimento di omologazione, al quale compete l’essenziale funzione di controllare che i patti intervenuti siano conformi ai superiori interessi della famiglia; ne consegue che, potendo le predette pattuizioni divenire parte costitutiva della separazione solo se questa è omologata, secondo la fattispecie complessa cui dà vita il procedimento di cui all’art. 711 c.p.c. in relazione all’art. 158 c.c., comma 1, in difetto di tale omologazione le pattuizioni convenute antecedentemente sono prive di efficacia giuridica, a meno che non si collochino in una posizione di autonomia in quanto non collegate al regime di separazione consensuale.” (Cass. n. 9174 del 09/04/2008); ne consegue che la Corte di appello poichè aveva accertato che l’atto era una “puntuazione” in vista di un futuro accordo di separazione consensuale non realizzato – e non già la ricorrenza di pattuizioni autonome non preordinate al regime di separazione consensuale – esattamente ha ritenuto l'”accordo programmatico” privo dell’invocata efficacia giuridica nel giudizio de quo.
1.6. Il primo motivo di ricorso non vale a inficiare tale statuizione e risulta per di più inammissibile perchè è articolato sulla prospettazione – del tutto nuova – del carattere autonomo dell’accordo stesso rispetto alla separazione tra i coniugi e della sua natura di “transazione che conteneva un “contratto atipico di mantenimento” senza prefissazione del termine di durata e senza che il dato dell’entità del mantenimento fosse stato espresso in termini monetari” (fol. 9 del ricorso): invero, tale prospettazione non trova riscontro alla stregua della sentenza impugnata, ove è detto che la ricorrente con i motivi di appello aveva chiesto la rivalutazione dell’atto in termini di “accordo di separazione perfezionato e valido”, quindi ponendolo in diretta e funzionale connessione con la vicenda separativa; a ciò va aggiunto che in ricorso non è affatto precisato, in osservanza all’onere di specificità, se ed in che termini la questione sia stata così prospettata anche al giudice di merito.
1.7. I motivi secondo, terzo e quarto sono assorbiti, perchè presuppongono la fondatezza di quanto prospettato nel primo motivo circa la autonoma natura dell’accordo, quale transazione che conteneva un “contratto atipico di mantenimento”.
2.1. Il ricorso incidentale proposto da V. è articolato nei seguenti due motivi:
I – Violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c. a causa della apparente motivazione contenuta nella sentenza impugnata in merito alla domanda di riduzione dell’assegno di mantenimento proposta con l’appello incidentale. Il ricorrente sostiene che la Corte di appello si sia limitata ad esaminare le ragioni addotte dalla moglie per sostenere la domanda – disattesa – di incremento dell’assegno di mantenimento, senza esaminare le ragioni dedotte dal V. per fondare la richiesta di riduzione dell’assegno.
II- Violazione o falsa applicazione degli artt. 2730, 2735, 2727, 2712 c.c. ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio a causa del mancato riconoscimento della natura confessoria delle dichiarazioni fatte da A. nel documento datato (OMISSIS), rilevante per la valutazione e l’esclusione dei presupposti per la pronuncia di addebito a suo carico. Il ricorrente sostiene che la contestualizzazione dell’accordo programmatico – funzionale ad una separazione consensuale poi non realizzata, è rilevante sotto l’aspetto negoziale, ma non sotto l’aspetto dei fatti confessati o ammessi, tra cui – a suo dire – vanno ricondotte le dichiarazioni in merito alla reciproca assenza di colpa ed al venir meno dell’affectio coniugalis indipendentemente dalla volontà dei coniugi.
2.2. Il primo motivo è infondato.
La Corte di appello, nell’esaminare le contrapposte domande concernenti la quantificazione dell’assegno di mantenimento, ha considerato le condizioni economiche e patrimoniali delle stesse ed ha motivato, contrariamente a quanto lamenta il ricorrente in maniera sufficiente.
In particolare ha tenuto conto, quanto alla posizione di V., sia delle possidenze immobiliari che della sua capacità reddituale, dando atto che il Tribunale – che richiama per relationem – si era già fatto carico di considerare il futuro decremento della sua capacità reddituale, avendo tenuto conto sia dell’età che della cessione delle quote della sua attività imprenditoriale ai figli, nella misura che era stata indicata, ritenuta comprovata in assenza di prova contraria.
2.3. Il secondo motivo è inammissibile.
Osserva la Corte che la confessione deve avere ad oggetto fatti obiettivi – la cui qualificazione giuridica spetta al giudice del merito – e risponde alla regola per la quale ove la parte riferisca fatti a sè sfavorevoli le sue dichiarazioni hanno valore confessorio (Cass. n. 5725 del 27/02/2019); inoltre nel giudizio di cassazione non è consentito sindacare l’accertamento della natura confessoria delle dichiarazioni delle parti compiuto dal giudice di merito, non essendo soggetto a vaglio di legittimità il prodotto della sua attività interpretativa, se non nei limiti in cui è contestabile il vizio di motivazione (Cass. n. 2048 del 24/01/2019; Cass. n. 3698 del 14/02/2020).
Nel caso in esame, come si evince dal punto 8) dell’accordo programmatico trascritto in sentenza, la dichiarazione venne formulata in maniera congiunta da entrambe le parti, non aveva ad oggetto condotte e fatti specifici, ma la generica valutazione delle ragioni della crisi coniugale ed è stato convincentemente ritenuto dalla Corte territoriale parte del complessivo accordo volto a risolvere i contrasti tra le parti in vista di una separazione consensuale poi non realizzata, secondo una ricostruzione logica e coerente dell’intero atto. Tale valutazione non risulta puntualmente contestata posto che non vengono nemmeno indicati i fatti decisivi di cui sia stato omesso l’esame, sollecitando invece una lettura atomistica ed autonoma del punto 8.
3.1. Il ricorso incidentale condizionato proposto da V. è articolato con un unico mezzo con cui si denuncia: violazione o falsa applicazione degli artt. 2730 e 2735 c.c. – omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio a causa del mancato riconoscimento della natura confessoria delle dichiarazioni fatte da A.E. nel documento datata (OMISSIS).
3.2. Il ricorso incidentale condizionato è assorbito dal rigetto del ricorso principale.
4. In conclusione, il ricorso principale va rigettato e così il ricorso incidentale autonomo, assorbito il ricorso incidentale condizionato.
Va disposta l’integrale compensazione delle spese di lite in ragione della reciproca soccombenza.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
Va dato atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
P.Q.M.
– Rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale, assorbito il ricorso incidentale condizionato;
– Compensa le spese del giudizio di legittimità tra le parti;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52;
– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, il 11 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2020