Cass. Pen., Sez. III, Sent., 19 luglio 2024, n. 29356; Pres. Sarno, Rel. Andronio
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 4 novembre 2015, il Tribunale di Belluno ha condannato l’imputato alla pena
sospesa di anni 2 di reclusione – nonché: alle pene accessorie di cui all’art. 609-nonies, primo comma,
nn. 2) e 5) ed al risarcimento del danno in favore di D.D., costituitasi parte civile – per i reati di cui al
capo 1) – artt. 81, 582, 585, 576, primo comma, n. 5), e 609-bis, ultimo comma, cod. pen. – perché,
con violenza e minaccia, rivolgendole al contempo frasi a sfondo sessuale, la costringeva a compiere
atti sessuali consistiti in toccamenti delle parti intime dell’uomo, causandole altresì lesioni personali,
rappresentate da contusioni lievi agli arti superiori. Con medesima sentenza, il Tribunale di Belluno
ha assolto l’imputato dal delitto di cui all’art. 609-bis cod. pen., contestato al capo 2) dell’imputazione,
commesso ai danni della parte civile B.B. – a lui contestato perché costringeva la donna, con la quale
aveva da pochissimo interrotto una relazione sentimentale, a subire un rapporto sessuale, nonostante
la resistenza opposta da costei, che lo scongiurava ripetutamente di smetterla, e che aveva poi subito
passivamente la violenza, memore di un precedente episodio di aggressione, subita sempre ad opera
dell’imputato – perché il fatto non sussiste ex art. 530, comma 2, cod. proc. pen.
La Corte di appello di Venezia, con sentenza del 5 aprile 2023, ha parzialmente riformato il
provvedimento di primo grado, dichiarando non doversi procedere nei confronti dell’imputato in
ordine al reato di cui agli artt. 582, 585 e 576, primo comma, n. 5), cod. pen., per essere lo stesso
estinto per prescrizione e condannando l’imputato per il reato di cui al capo 2) – riconosciute le
circostanze attenuanti generiche, con la continuazione con il reato di cui all’art. 609-bis, ultimo
comma, cod. pen., di cui al capo 1) – alla pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione, alle pene accessorie
di cui all’art. 609-nonies cod. pen. e a quella dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per la
durata di anni 5, nonché al risarcimento del danno a favore della persona offesa B.B., liquidato in via
definitiva in Euro 10.000,00, ed alla rifusione delle spese legali, in favore delle parti civili costituite,
liquidate in Euro 1.418,00 per D.D. ed in Euro 2.752,00 per B.B.: con conferma, nel resto,
dell’impugnata sentenza di primo grado.
2. Avverso la sentenza, l’imputato, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione,
chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si lamenta la violazione degli artt. 581 e 591 cod. proc. pen.,
6 CEDU, 24 e 111 Cost., per essere gli appelli, proposti dal Pubblico Ministero presso il Tribunale e
dal Procuratore Generale presso la Corte di appello, inammissibili ex art, 581, comma 1, lettere b), c)
e d), cod. proc. pen., in ragione del carattere meramente assertivo delle censure, nonché della
mancanza di enunciazione delle prove delle quali si deduce l’omessa o erronea valutazione e dei
motivi, mancando l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto a sostegno della
richiesta di riforma in peius della decisione assolutoria di primo grado.
In primo luogo, sostiene la prospettazione difensiva che l’atto di gravame proposto dal Pubblico
Ministero presso il Tribunale di Belluno avrebbe omesso qualsivoglia critica alla valutazione del
materiale probatorio posto a fondamento della decisione assolutoria del giudice di primo grado; né
esso avrebbe proposto alcuna diversa, e più plausibile, interpretazione a sostegno dell’ipotesi
accusatoria, limitandosi, non solo ad una mera critica della prima pronuncia, ma anche alla semplice
riproposizione delle tesi già scartate in primo grado. Il Pubblico Ministero, non si sarebbe confrontato
né con il tema della manifestazione del dissenso, né con la valenza persuasiva di quei dettagli fattuali
– afferenti alle consuete modalità sessuali “aggressive” del A.A. e della B.B., nonché alla forte
dipendenza affettiva e al comportamento accomodante della donna per il timore della fine della
relazione con l’imputato – che, a parere del Tribunale di Belluno, avrebbero fondato un ragionevole
dubbio in ordine all’effettiva percezione, da parte dell’odierno ricorrente, di un inedito dissenso della
persona offesa, mancando di identificare con precisione quegli elementi che, all’opposto, nell’ambito
di una generale accondiscendenza della donna rispetto alle attitudini sessuali del ricorrente, avrebbero
potuto provare, oltre ogni ragionevole dubbio, l’effettivo dissenso quel giorno manifestato da costei.
Insufficiente sarebbe, del resto, il richiamo alle mere dichiarazioni della persona offesa: a) da un lato,
infatti, il verbale di audizione dibattimentale della B.B. rappresenterebbe il medesimo materiale
istruttorio su cui il Tribunale di Belluno avrebbe fondato l’assoluzione dell’imputato, di talché la
pubblica accusa avrebbe dovuto individuare specificamente quei passaggi fattuali che avrebbero
potuto consentire di dimostrare l’effettivo dissenso al rapporto sessuale, manifestato dalla persona
offesa, e di avallare, dunque, la tesi della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in capo al
A.A.; b) dall’altro lato, l’impugnazione avrebbe potuto investire la questione della credibilità oggettiva
e soggettiva della dichiarante, precisando le ragioni per le quali la versione resa dalla donna avrebbe
dovuto essere considerata più veritiera rispetto a quella fornita dall’imputato. Secondo il ricorrente,
la concreta impostazione dell’atto di gravame ha impedito alla Corte di appello di identificare
correttamente i limiti del sindacato ad essa devoluto, così violando l’art. 597 cod. proc. pen.
Quanto invece all’impugnazione proposta dalla Procura Generale presso la Corte di appello, sostiene
l’imputato che, pur non consistendo nella mera riproposizione della tesi accusatoria, essa avrebbe
comunque omesso di confrontarsi con l’apparato motivazionale della decisione di primo grado,
fallacemente derivando l’erroneità delle conclusioni attinte dal primo giudice dall’espressione di un
inaccettabile giudizio etico, anziché da un’inesatta valutazione del materiale probatorio acquisito.
Ne consegue che, a parere del ricorrente, la Corte di appello di Venezia avrebbe dovuto riconoscere
la carenza dei presupposti minimi per ritenersi validamente investita del potere di riesaminare la
decisione di primo grado, così dichiarando l’inammissibilità degli appelli.
2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si censurano i vizi della motivazione, con riguardo alla
violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata in caso di reformatio in peius, relativamente alla
valutazione di credibilità oggettiva e soggettiva della persona offesa e di attendibilità intrinseca ed
estrinseca della deposizione, anche alla luce della contraddittorietà tra le dichiarazioni rese nel corso
dell’istruttoria dibattimentale di primo grado e quelle rese in sede di rinnovazione nel giudizio di
appello.
Dopo avere richiamato le posizioni assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza in ordine al mancato
soddisfacimento dell’obbligo di motivazione rafforzata, sostiene il ricorrente che, nel caso di specie,
la Corte di appello di Venezia, nel disattendere le conclusioni del Tribunale, anziché limitarsi a riferire
il fatto, invero incontestato, della esplicita manifestazione del dissenso della donna nella fase iniziale
dell’approccio, avrebbe dovuto indicare specifica mente gli elementi fattuali sulla base dei quali si
poteva ritenere che il dissenso fosse reiterato per tutta la durata del rapporto. Si sarebbe dovuta
svolgere un’analisi critica delle dichiarazioni della B.B., spiegando altresì come avrebbe potuto
conciliarsi una violenza tanto grave con il fatto che la persona offesa non aveva deciso di denunciare
immediatamente il fatto né allontanato subitaneamente l’uomo, continuando invece a cercarlo con
insistenza – anche tramite l’amica D.D. – al fine di riprendere con lui la relazione sentimentale
precedentemente interrotta. Nello specifico, la sentenza impugnata sarebbe caduta in contraddizione,
nel ritenere sussistente, sin dall’inizio del rapporto, il dissenso della donna, salvo poi riconoscere che,
soltanto dopo la violenza perpetrata dal A.A. ai danni dell’amica, la B.B. si sarebbe effettivamente
resa conto della gravità di quanto accaduto, così confermando, a parere dell’imputato, la tesi della
mancata percezione, da parte di costui, di un dissenso esplicito al rapporto.
I giudici dell’appello non avrebbero pertanto rispettato l’obbligo di motivazione rafforzata, non
avendo operato la falsificazione logica dell’ipotesi assolutoria ricostruita dal giudice di primo grado,
ed essendosi limitati a fornire una diversa versione dei fatti in contestazione – priva, tuttavia, di quella
intrinseca credibilità logica e prevalenza rispetto all’iniziale ricostruzione assolutoria, necessarie
dinnanzi a sentenze di condanna pronunciate in riforma di precedenti assoluzioni – ed omettendo
altresì fallacemente di considerare che la motivazione assolutoria del Tribunale riguardava la
possibilità che, per le stesse modalità di esternazione, per il contesto dell’azione e per i rapporti
pregressi tra l’imputato e la persona offesa, il dissenso di questa potesse non essere stato
adeguatamente percepito dall’imputato, sì da porre in dubbio la ricorrenza dell’elemento soggettivo
della fattispecie. Nemmeno in sede di rinnovazione obbligatoria della prova dichiarativa, del resto, si
sarebbero affrontati i temi della effettiva percezione del dissenso e della equivocità dei comportamenti
tenuti dalla B.B. a seguito della presunta violenza sessuale: più precisamente, non si sarebbe
analizzato il contesto circostanziale sulla base del quale il giudice di primo grado era arrivato a
ritenere che l’imputato potesse non aver validamente compreso il diniego della donna, né si sarebbero
chiarite le molteplici contraddizioni emerse tra le dichiarazioni giudiziali di costei e la deposizione
resa nell’imminenza dei fatti.
3. Con memoria datata 2 aprile 2024, la difesa della parte civile B.B. ha chiesto che il ricorso sia
rigettato.
Quanto al primo motivo di doglianza, se ne rileva l’inammissibilità, sulla base della considerazione
che entrambi gli atti di impugnazione delle Procure appellanti sarebbero pienamente conformi agli
standard di specificità intrinseca ed estrinseca richiesti dalla sentenza n. 8825 del 27 ottobre 2016
delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
In relazione al secondo motivo di censura, se ne deduce l’infondatezza. Dopo avere ricordato che, per
la riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado, l’obbligo motivazionale rafforzato va
commisurato al percorso giustificativo seguito dalla sentenza appellata – con la conseguenza che,
laddove il provvedimento assolutorio abbia un contenuto motivazionale generico e meramente
assertivo, non vi sarà neppure la concreta possibilità di confutare argomenti e considerazioni
alternative del primo giudice, essendo il giudizio d’appello l’unico realmente argomentato – la difesa
della parte civile sostiene che, a fronte di una sentenza di primo grado lacunosa, sia dal punto di vista
della ricostruzione del fatto che sotto il profilo dell’esposizione delle ragioni di diritto fondanti
l’assoluzione, la motivazione del provvedimento impugnato sarebbe completa, coerente e puntuale,
laddove: a) riconoscendo la piena capacità della persona offesa di operare tale distinzione, ha spiegato
la differenza intercorrente tra i rapporti violenti e “alternativi” ma consenzienti e quelli violenti ma
non voluti; b) ha chiarito e motivato, con vari richiami alla giurisprudenza di legittimità, quando possa
ritenersi sussistente o meno il consenso della parte alla consumazione del rapporto sessuale; c) ha
valorizzato la deposizione della stessa D.D. confermativa della genuinità del racconto della B.B. e
del dissenso di costei al rapporto sessuale, nonché la consapevolezza che di esso doveva avere
l’imputato, avendo la donna specificato che l’incontro era finalizzato al solo parlare della fine della
loro relazione e chiarito di non volere alcun rapporto, avendo il ciclo mestruale ed essendo presenti,
al piano superiore, i suoi figli; d) ha enfatizzato le scuse rivolte dall’imputato alla persona offesa il
giorno successivo a quanto accaduto; scuse che, a parere di quest’ultima, sarebbero state immotivate
qualora vi fosse stata la pretesa prestazione del consenso da parte di costei alla consumazione del
rapporto sessuale.
4. In data 2 aprile 2024, anche la difesa dell’imputato ha depositato memoria, con la quale insiste in
quanto già dedotto.
In primo luogo, ribadisce il ricorrente la denunciata inammissibilità degli appelli proposti dalla
Procura della Repubblica di Belluno e dalla Procura Generale di Venezia, i quali, non soddisfacendo
i requisiti minimi di specificità estrinseca dei motivi di impugnazione – come individuati dalle Sezioni
Unite Galtelli e poi positivizzati nel nuovo comma 1 -bis dell’art. 581 cod. proc. pen., introdotto
dall’art. 33, comma 1, lettera d), del D.Lgs. n. 150 del 2022 – non avrebbero legittimamente investito
la Corte di appello del potere di riesaminare la decisione del Tribunale.
In secondo luogo, si ribadisce la censura circa l’inadempimento dell’obbligo di motivazione rafforzata
in caso di reformatio in peius: a parere del ricorrente, infatti, la Corte di appello di Venezia, lungi
dall’identificare, con precisione, quegli elementi di fatto o di diritto non valorizzati dal giudice di
primo grado che, sul piano logico probatorio, avrebbero invece reso certa, ogni oltre ragionevole
dubbio, l’effettiva percezione di un dissenso inequivoco al rapporto sessuale, da parte dell’imputato,
si sarebbe limitata a proporre una propria soggettiva lettura dei fatti, travisando la portata
dell’attitudine della coppia a rapporti improntati ad una certa violenza e della conseguente
accettazione degli stessi da parte della B.B., a partire dal precedente specifico risalente al 2012.
Motivi della decisione
1. Il ricorso – limitato al reato contestato come commesso in danno di B.B.- è infondato.
1.1. Il primo motivo di censura, relativo alla violazione degli artt. 581 e 591 cod. proc. pen., 6 CEDU,
24 e 111 Cost. – per essere gli appelli, proposti dal Pubblico Ministero presso il Tribunale e dalla
Procura Generale presso la Corte di appello, inammissibili ex art. 581, comma 1, lettere b), c) e d),
cod. proc. pen., in ragione del carattere meramente assertivo delle censure nonché della mancanza di
enunciazione delle prove pretermesse o erroneamente valutate – è manifestamente infondato.
Secondo quanto chiaramente espresso dall’art. 591, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.,
l’impugnazione è inammissibile quando non sono osservate le disposizioni dell’art. 581 cod. proc.
pen. Tale ultima norma, a sua volta, nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della legge n. 103
del 23 giugno 2017, prevedeva, nella lettera c), che l’impugnazione dovesse contenere l’enunciazione
“dei motivi, con l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni
richiesta”. Sull’interpretazione di tale testo è intervenuta la sentenza Gattelli delle Sezioni Unite (n.
8825 del 27/10/2016, dep. 2017) che, risolvendo un contrasto relativo all’applicabilità della sanzione
dell’inammissibilità per “genericità estrinseca” anche all’appello, ha precisato che i motivi di
impugnazione in genere – e dunque anche di appello – sono affetti da “genericità estrinseca” quando
difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento
impugnato. Sono invece affetti da “genericità intrinseca” quando risultano intrinsecamente
indeterminati, risolvendosi sostanzialmente in formule di stile (fermo restando che, in tal caso, non
vi era dubbio sulla possibilità di dichiararne l’inammissibilità, anche prima della citata sentenza).
La ricordata legge n. 103/2017 ha modificato il testo dell’art. 581, introducendo nella lettera b) un
requisito prima non previsto – l’indicazione, cioè, “delle prove delle quali si deduce l’inesistenza,
l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione” – e precisando che ciascuno dei requisiti
indicati nella norma doveva essere oggetto di “enunciazione specifica”. Il testo della lettera c) è stato
spostato nella lettera d).
La recente novella introdotta con il D.Lgs. n. 150 del 2022 ha ulteriormente recepito l’esigenza di
specificità, introducendo un nuovo comma 1 -bis nel testo dell’art. 581, con espresso riferimento
all’atto di appello.
Ebbene, quando il ricorrente sostiene che entrambe le Procure appellanti avrebbero omesso
qualsivoglia critica alla valutazione del materiale probatorio posto a fondamento della decisione
assolutoria del giudice di primo grado, sta in realtà rivolgendo la sua critica al merito degli appelli,
cioè alla fondatezza o meno delle argomentazioni spese in ciascun atto, attestandone implicitamente
l’ammissibilità.
Del resto, come è chiaramente evincibile da tali atti e dal loro resoconto rinvenibile nella sentenza
impugnata, tanto il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Belluno, quanto il Procuratore Generale
presso la Corte di appello si sono adeguatamente confrontati con le conclusioni assolutorie attinte dal
giudice di primo grado in relazione al secondo capo dell’imputazione e, dunque, con il tema della
manifestazione del dissenso, opponendovi logicamente le proprie argomentazioni contrarie, mediante
l’indicazione specifica e puntuale sia dei punti e/o capi della sentenza da censurare sia delle ragioni
poste a fondamento di ciascuna doglianza, nonché delle prove erroneamente valutate.
1.2. Il secondo motivo di doglianza – con il quale si censurano i vizi della motivazione, con riguardo
alla violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata in caso di reformatio in peius, relativamente
alla valutazione di credibilità oggettiva e soggettiva della persona offesa e di attendibilità intrinseca
ed estrinseca della deposizione, anche alla luce della contraddittorietà tra le dichiarazioni rese nel
corso dell’istruttoria dibattimentale di primo grado e quelle rese in sede di rinnovazione nel giudizio
di appello – è, invece, infondato.
Secondo quanto sancito dalla giurisprudenza di questa Corte, in tema di motivazione della decisione,
la sentenza di appello di riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado deve confutare
specificamente, pena altrimenti il difetto motivazionale, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno
della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico
degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi
eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione
che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate
e della maggiore considerazione accordata da elementi di prova diversi o diversamente valutati (ex
plurimis, Sez. 4, n. 24439 del 16/06/2021, Rv. 281404; Sez. 6, n. 10130 del 20/01/2015, Rv. 262907;
Sez. 6, n. 6221 del 20/04/2005, dep. 2006, Rv. 233083)
Conformemente a ciò, nel caso di specie, la Corte di appello di Venezia, a pag. 22 del provvedimento
impugnato, ha espressamente censurato la decisione assolutoria assunta dal Tribunale di Belluno –
nella parte in cui, non essendo in contestazione la materialità del fatto di reato, essa fonda il proprio
convincimento in ordine alla mancata percezione del dissenso da parte dell’odierno ricorrente sulla
base della natura violenta dei rapporti precedentemente intercorsi tra costui e la persona offesa e del
comportamento di quest’ultima, continuamente teso a riallacciare i rapporti con l’uomo –
evidenziandone puntualmente l’insostenibilità sul piano logico, oltre che giuridico, analizzata anche
in considerazione della rinnovazione istruttoria espletata nel giudizio di secondo grado.
In primo luogo, la Corte di appello ha opportunamente chiarito l’impossibilità di ricondurre un
episodio di violenza sessuale alla normale vita di coppia dell’imputato con la persona offesa sul rilievo
della presunta natura violenta dei rapporti sessuali solitamente intercorsi tra i due, valorizzando, nello
specifico, in maniera del tutto logica e coerente, la capacità della stessa persona offesa di distinguere
un atto di violenza sessuale dai rapporti, ancorché non convenzionali, consumati, in maniera
consenziente, con l’imputato.
In punto di diritto, pare dunque opportuno precisare che, secondo la costante giurisprudenza di
legittimità, in tema di reati sessuali, gli atti sessuali “non convenzionali”, possono essere ritenuti leciti
nella misura in cui si svolgano in base ad un consenso dei partecipanti che deve protrarsi per tutta la
durata degli stessi (Sez. 3, n. 43611 del 19/10/2021, Rv. 282099; Sez. 3, n. 31513 del 04/10/2019,
dep. 2020, Rv. 278250); né alcun rilievo può conferirsi ai costumi sessuali della persona offesa, i
quali sono ininfluenti sulla sua credibilità e non possono costituire argomento di prova per l’esistenza,
reale o putativa, del suo consenso (Sez. 3, n. 46464 del 09/06/2017, Rv. 271124).
Ebbene, nel caso di specie, le dichiarazioni rese dalla donna, nel momento subito antecedente la
violenza, appaiono certamente univoche nel senso della mancata volontà di acconsentire al rapporto,
risultando ella ferma nel sottolineare, non solo il fine esclusivamente chiarificatore dell’incontro, ma
anche la propria indisposizione dovuta al ciclo mestruale e alla presenza dei figli al piano superiore
dell’abitazione, non potendosi in alcun modo valorizzare le contraddizioni in cui, secondo la
prospettazione difensiva, sarebbe incorso il narrato della persona offesa, invero irrilevanti giacché
non attinenti al nucleo essenziale del fatto di reato per il quale si procede. Del resto, è manifestamente
erronea la tesi difensiva secondo cui, per escludere il reato di violenza sessuale, il dissenso della
persona offesa deve essere manifestato per tutta la durata del rapporto. Ciò vale certamente per il
consenso, il quale, in quanto elemento negativo della fattispecie, la cui esistenza si pone come
impeditiva ai fini della completa integrazione del reato, deve perdurare pacificamente nel corso
dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all’art.
609-bis cod. pen. la prosecuzione del rapporto nel caso in cui, successivamente ad un consenso
originariamente prestato, intervenga in itinere una manifestazione di dissenso, anche non esplicita,
ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà (ex multis, Sez. 3, n. 15010 del
11/12/2018). Ma lo stesso non può dirsi in relazione al dissenso, il quale, non richiedendo, in linea
generale, una necessaria manifestazione – avendo la giurisprudenza di legittimità più volte affermato
l’insussistenza di un indice normativo dal quale possa effettivamente ricavarsi un onere, ancorché
implicito, di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella propria sfera di intimità
sessuale, dovendosi piuttosto ritenere che tale dissenso sia da presumersi, laddove non sussistano
indici chiari ed univoci volti a dimostrare l’esistenza di un, sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco,
consenso – a maggior ragione non deve essere espresso nell’arco dell’intera durata del rapporto
sessuale, essendo sufficiente anche la sua manifestazione soltanto iniziale. La manifestazione
esplicita del dissenso, in altri termini, non può mai ritenersi superata da comportamenti concludenti
ed impliciti contrari, ovvero non può mai ritenersi consentito fare affidamento sulla mancata veridicità
di un dissenso esplicito.
In applicazione di tali principi, lungi dal limitarsi a fornire una diversa versione dei fatti in
contestazione, priva di intrinseca credibilità logica e sub-valente rispetto all’iniziale ricostruzione
assolutoria, i giudici di merito hanno affrontato, in modo logico e coerente, sia il tema della effettiva
percezione del dissenso che quello della equivocità dei comportamenti tenuti dalla B.B., a seguito
della presunta violenza sessuale, invero comprensibili alla luce della dinamica complessiva della
vicenda, così adempiendo adeguatamente all’obbligo di motivazione rafforzata incombente sul
giudice in caso di reformatio in peius.
2. Tenuto conto delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
L’imputato deve essere anche condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa
sostenute nel presente giudizio dalla parte civile B.B., ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella
misura che sarà liquidata dalla Corte d’Appello di Venezia con separato di decreto di pagamento ai
sensi degli artt. 82 e 83 del D.P.R. n. 115 del 2002, con pagamento in favore dello Stato. Nulla è
dovuto per le spese sostenute dalla parte civile D.D., non essendovi stata impugnazione dell’imputato
nei suoi confronti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel
presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà
liquidata dalla Corte d’Appello di Venezia con separato di decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82
e 83 del D.P.R. n. 115 del 2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Nulla per le spese
sostenute dalla parte civile D.D.
Cosà deciso il 18 aprile 2024.
Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2024.