Diffusione di riprese o registrazioni fraudolente di incontri privati o conversazioni a contenuto sessuale
Cass. Pen., Sez. V, Sent., 17 gennaio 2025, n. 2112
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
1.Con la sentenza impugnata, la Corte di Appello di Napoli ha confermato la decisione del Tribunale
di Napoli Nord, che aveva dichiarato A.A. colpevole del delitto di cui all’art. 617-septies cod. pen. (in
esso assorbito il reato di diffamazione aggravata contestato al capo B), per avere diffuso, mediante
applicativo whatsapp, una ripresa audio/video, effettuata fraudolentemente con il proprio telefono
cellulare, di un incontro privato avvenuto con B.B., avente a oggetto le fasi immediatamente
successive a un rapporto sessuale tra i due, avvenuto all’interno dell’abitacolo dell’autovettura in uso
alla p.o., in cui la stessa appariva in pose intime.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del difensore di fiducia, avvocato D.
D.I., che svolge tre motivi – enunciati nei limiti richiesti per la motivazione ai sensi dell’art. 173 disp.
att. cod. proc. pen.
2.1. Vizi di motivazione in relazione al primo motivo di appello, laddove ci si doleva della mancata
dimostrazione della diffusione del video incriminato a opera dell’imputato, evidenziando come la
sentenza abbia affidato l’affermazione di responsabilità alla ‘verosimile’ riconducibilità della condotta
diffusiva all’imputato, in spregio al principio del ‘ragionevole dubbio’, senza neppure prendere in
considerazione la possibilità che il video sia stato estrapolato dal telefono della p.o. o l’alternativa
dell’accesso di un hacher all’interno del cellulare. Inoltre, sotto il profilo soggettivo, si lamenta che
non sia stato provato il dolo specifico, incompatibile con il ravvisato dolo eventuale.
2.2. Vizi della motivazione in merito al mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui
all’art. 131-bis cod. pen. Si duole il ricorrente che la Corte di appello abbia valorizzato profili di
negatività del fatto senza procedere a una valutazione complessiva, prendendo in esame aspetti, quali
la incensuratezza e la giovanissima età dell’imputato, l’assenza di abitualità e la rudimentalità della
condotta.
2.3. Vizi di motivazione in relazione all’eccessiva severità del trattamento sanzionatorio, per il diniego
delle circostanze attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale della pena,
riconoscibili in ragione dell’atteggiamento processuale collaborativo tenuto dall’imputato, sia in sede
di interrogatorio che optando per il rito abbreviato.
Motivi della decisione
Il ricorso non è fondato.
1.1.Non ha pregio il primo motivo, laddove ci si duole del vizio di motivazione della sentenza
impugnata nella parte in cui ha affermato la riconducibilità della diffusione dei video incriminato
all’imputato affidandosi a un mero giudizio di verosimiglianza.
1.2.In realtà, dalla lettura della sentenza impugnata, conforme a quella di primo grado, emerge che la
Corte di appello – nel condividere il percorso argomentativo esplicitato dal giudice di primo grado –
ne ha pedissequamente riportato le valutazioni, conformemente a questi ritenendo espressamente
provata “oltre ogni ragionevole dubbio” la responsabilità dell’imputato, alla luce di plurimi indici,
analiticamente indicati in entrambe le sentenze di merito (dichiarazioni analitiche e dettagliate della
p.o., riscontri provenienti dalle altre prove dichiarative, perizia sui cellulari, dichiarazioni
dell’imputato), della riconducibilità al A.A. della diffusione del video fraudolentemente carpito.
1.3.Nel riportare le valutazioni del primo giudice, la Corte di appello ha, effettivamente, inserito
l’avverbio “verosimilmente” (pg.3) con riguardo alla attribuibilità della condotta di diffusione del
video, ma, all’evidenza, si tratta di una improprietà linguistica (da elidere) resa palese dal complessivo
ragionamento probatorio nel quale, impropriamente, essa si inserisce. La sentenza impugnata ha,
invero, dato conto delle ragioni della ritenuta captazione fraudolenta delle immagini, e, cioè
dell’assenza di consenso della p.o., come plasticamente reso evidente – oltre che dalle modalità della
ripresa, fugacemente realizzata subito dopo un rapporto sessuale, – da alcune immagini del video, in
cui la p.o. esprime la propria sorpresa e contrarietà per quell’azione improvvida, invitando l’autore a
mettere da parte il telefono, e delle ragioni del convincimento per cui l’autore della diffusione non
poteva che essere stato il A.A.: i due giovani era soli in auto quando vennero fatte le riprese, e il video
è venuto in possesso della p.o. solo dopo che era stato già diffuso.
1.4. Quanto alle possibilità alternative che non sarebbero state prese in considerazione dalla Corte di
appello – al di là della considerazione che, invece, la Corte di appello, e già il primo giudice, avendo
specificamente argomentato in merito alle ragioni per cui hanno ritenuto che la diffusione del video
fosse attribuibile al A.A., hanno, in tal modo, implicitamente escluso altre possibili ricostruzioni del
fatto – giova anche considerare come, essendo stato dedotto, in proposito, il vizio di motivazione di
cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la predetta censura non concerna né la ricostruzione
dei fatti, né l’apprezzamento del giudice di merito, ma debba essere, invece, circoscritta alla verifica
che il testo dell’atto impugnato contenga l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che
lo sorreggono, che il discorso giustificativo sia effettivo e non meramente apparente (cioè idoneo a
rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata), che nella
motivazione non siano riscontrabili contraddizioni, né illogicità evidenti (cfr. Sez. U, n. 47289 del
24/09/2003, Petrella, Rv. 226074). In particolare, con riguardo al vizio di illogicità della motivazione,
la menzionata disposizione postula che essa sia manifesta, cioè di spessore tale da risultare percepibile
ictu oculi, restando ininfluenti le minime incongruenze e dovendosi considerare disattese le deduzioni
difensive che, anche se non espressamente confutate, appaiano logicamente incompatibili con la
decisione adottata (ex multis Sez. 2, n. 35817 del 10/07/2019, Rv. 276741). La giurisprudenza di
legittimità è, invero, chiara nell’affermare che “non è censurabile, in sede di legittimità, la sentenza
che non motivi espressamente in relazione a una specifica deduzione prospettata con il gravame,
quando il suo ridetto risulti dalla complessiva struttura argomentativa della sentenza” (Sez. 4, n. 5396
del 15/11/2022, dep. 8/2/2023, Rv. 284096). Sotto tale aspetto, la doglianza si risolve in un dissenso
‘decisionale’, inidoneo, come tale, a segnalare in questa sede precarietà logiche della decisione
impugnata o, peggio, vuoti di motivazione sui punti interessati, peraltro dovendo sottolinearsi come
l’imputato non abbia offerto realistiche alternative da confrontare, non potendo aver rilievo, a fini
inibitori della pronunzia di sentenza di condanna, un’ipotesi alternativa del tutto congetturale, pur se
in astratto plausibile (da Sez. 4, n. 22257, del 25/3/2014, Rv. 259204), come quella dell’azione di un
‘hacher’ prospettata dalla difesa. Invero, la selezione dei fatti e delle situazioni rilevanti è propria del
giudice del merito e, quando l’interpretazione di essi è sorretta da una adeguata motivazione, continua
ad essere incensurabile nel giudizio di legittimità, anche dopo la riforma che ha novellato l’art. 606
comma primo lett. e) cod. proc. pen. (art. 8 L. n. 46 del 2006), tenuto anche conto del fatto che la
valutazione della prova non può essere disancorata dal contesto in cui è inserita e che un simile
compito non può spettare al giudice di legittimità, sulla base della lettura necessariamente parziale
suggeritagli dal ricorso per cassazione. (V. in argomento, Sez. 2, 23/03/2006, n. 1399 e Sez. 6,
24/03/2006, n. 14054, Rv. 233454). A ciò deve aggiungersi che neppure l’emersione di una criticità
su una delle molteplici valutazioni contenute nella sentenza impugnata può comportare
l’annullamento della decisione per vizio di motivazione, allorché le restanti offrano ampia
rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M e altri,
Rv. 271227), posto che dà luogo a vizio della motivazione non qualunque omissione valutativa che
riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma solo quello che sia idoneo a disarticolare uno degli
essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione, quale risultante dall’esame del
complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato (Sez. 2, n. 9242 del
08/02/2013, Rv. 254988; Sez. 2, n. 18163 del 22/04/2008; Sez. 1, n. 13528 del 11/11/1998, Rv.
212053). 2. Non è fondata neppure la doglianza incentrata sull’elemento soggettivo.
2.1. È opportuno, a tale proposito, ricordare che il delitto di diffusione di riprese e registrazioni
fraudolente, previsto dall’articolo 617-septies del codice penale – in attuazione della legge delega del
23 giugno 2017, n. 103, intervenuta a seguito di un lungo dibattito critico, generato soprattutto della
diffusione da parte dei mass media dei contenuti delle intercettazioni e dalla lesione del diritto alla
riservatezza non solo dei soggetti diretti destinatari dell’ intercettazione, ma anche dei soggetti esterni
e coinvolti in quanto semplici interlocutori del soggetto-bersaglio – è stato inserito dall’art. 1, D.Lgs.
29 dicembre 2017, n. 216, con decorrenza dal 26 gennaio 2018, per reprimere comportamenti che
violano la riservatezza degli individui (e, contestualmente, la loro reputazione e immagine) tramite la
diffusione di materiale raccolto fraudolentemente, ai fine di danneggiare i beni giuridici menzionati;
con tale innesto, si sono volute colmare lacune emerse nel sistema penale riguardo alla tutela della
riservatezza, colpita da aggressioni poste in essere mediante l’impiego di sistemi captativi a carattere
tecnologico.
2.2. L’art. 617-septies cod. pen. punisce “Chiunque, al fine di recare danno all’altrui reputazione o
immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di
incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o
telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione.”
L’inserimento della disposizione nel Libro Secondo (Dei delitti in particolare), Titolo dodicesimo (Dei
delitti contro la persona), Capo Terzo (Dei delitti contro la libertà individuale), Sezione Quinta (Dei
delitti contro l’inviolabilità dei segreti) del codice penale fornisce indicazioni sul bene giuridico che
si intende tutelare: la norma affonda le proprie radici nell’ art. 15 Cost., che tutela la libertà e la
segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione, ma anche nell’art. 21 Cost. posto
a presidio del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro
mezzo di diffusione.
La tutela della libertà e segretezza delle conversazioni e comunicazioni passa naturalmente anche
dalla inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.), dal momento che, con la norma di nuovo conio, non
si può garantire tutela alla libertà di espressione e manifestazione del pensiero (quale che sia la forma
assunta) avvenuta in un contesto ed in luogo pubblico per volontà delle parti o per le specifiche
modalità con cui la comunicazione/conversazione viene concretamente posta in essere.
Si può cogliere, dunque, la ratio della norma incriminatrice, non soltanto nella libertà e segretezza
delle conversazioni o comunicazioni, ma anche nella tutela dell’onore e della reputazione degli
interlocutori della conversazione, di qualsiasi genere, che avvenga in privato, i cui contenuti sono e
devono intendersi destinati a rimanere tra i presenti (i quali hanno diritto a non vedere carpite con
l’inganno parole o esternazioni di qualsivoglia genere, e a vederle diffuse nell’etere), semprechè non
sussista espresso consenso alla divulgazione.
In questo senso, si può affermare che la inviolabilità e la segretezza delle comunicazioni o
conversazioni sono protette dalle ingerenze esterne o dalla arbitraria e non autorizzata diffusione extra
presenti, non soltanto perché viene in tal modo garantita la libera esplicazione e manifestazione del
pensiero, ma anche per evitare che una indebita circolazione dei contenuti di conversazioni o
comunicazioni private possa ledere la reputazione e l’onore del soggetto passivo.
Giova richiamare un passo della Relazione illustrativa trasmessa al Parlamento, la quale chiarisce
che: “La norma punisce colui che diffonde il contenuto di incontri o conversazioni riservate, registrate
con mezzi insidiosi, (microfoni o telecamere nascoste), e quindi fraudolentemente, allo scopo di
recare nocumento all’altrui reputazione. Sul piano empirico, la società della comunicazione di massa
registra il frequente ricorso a simili stratagemmi, posti scientemente in essere con lo scopo della
successiva divulgazione. Si tratta di condotte agevolate dalla diffusione, anche tra privati, di mezzi
tecnologici del tutto idonei all’ampia e immediata divulgazione di contenuti comunicativi carpiti
senza l’altrui consenso (si pensi alle potenzialità dei moderni dispositivi portatili e ali ‘uso dei soci al
media). Ne consegue un grave pregiudizio all’onore e alla dignità della vittima, discendente dalla
divulgazione di immagini e/o parole carpite quando la stessa presumeva di partecipare a una
comunicazione del tutto privata, in un contesto, cioè, riservato e confidenziale, che tale doveva
restare, contro ogni indebita invasione della propria sfera personale.”
La previsione della procedibilità a querela conferma come oggetto di tutela dell’art. 617-septies cod.
pen. sia l’interesse del singolo al mantenimento del proprio onore e della reputazione e a evitarne la
compromissione a seguito di indebite e non autorizzate divulgazioni all’esterno delle manifestazioni
del proprio pensiero, espresse in privato.
2.3.Sul piano strutturale, la condotta sanzionata consiste nella diffusione di una captazione
fraudolenta, effettuata mediante riprese audio/video o registrazioni, di conversazioni o incontri di tipo
privato, alle quali l’agente abbia preso parte o sia stato presente.
La fattispecie in questione pone il tema del raffronto con i reati a sfondo sessuale come quello di
“diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, previsto dall’art. 612-ter cod. pen.,
che si sostanzia nella divulgazione non autorizzata online di file multimediali a contenuto
sessualmente esplicito, soprattutto a scopo di vendetta nei confronti dell’ex partner. L’art. 612-ter:
punisce chiunque “invia, consegna, cede, pubblica o diffonda immagini o video a contenuto
sessualmente esplicito destinati a rimanere privati e senza il consenso delle persone rappresentate”.
Peculiarità di questo tipo di immagini e video – oltre alla connotazione del loro contenuto, che deve
essere sessualmente esplicito, laddove nel reato di cui all’art. 617-septies assume rilievo la fraudolenta
captazione delle immagini/registrazioni di dati sensibili – è che gli stessi sono girati con il consenso
della persona ritratta (all’interno di coppie, nell’ambito di momenti intimi consensuali). A essere non
consensuale, dunque, nel reato di cui all’art. 612-ter, non è la realizzazione del materiale pornografico,
ma la sua successiva diffusione.
2.4. Sotto il profilo soggettivo, ai fini della integrazione del delitto di cui all’art. 617-septies cod. pen.,
si richiede che la condotta miri ad arrecare danno alla reputazione e all’immagine altrui, con tale
previsione risultando chiaro, in coerenza con le descritte rationes, come la acquisizione fraudolenta
di conversazioni/incontri privati abbia l’obiettivo di tutelare non solo la segretezza delle conversazioni
e delle comunicazioni, ma anche la reputazione del soggetto passivo in seguito alla lesione della stessa
dovuta alla divulgazione di dati sensibili. In tale contesto normativo, la captazione in quanto tale
costituisce un antefatto penalmente irrilevante, richiedendosi che la condotta miri ad arrecare danno
alla reputazione e all’immagine altrui.
La norma incriminatrice in questione si caratterizza, dunque, per la presenza del dolo specifico nel
soggetto agente, richiedendosi, cioè, quale elemento essenziale della fattispecie, un requisito di natura
psichica, consistente in uno scopo ulteriore verso cui deve tendere la volontà del soggetto agente: la
norma, punendo la fraudolenta ripresa, audio o video, di incontri privati, o la registrazione, anch’essa
fraudolenta, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, a cui l’agente abbia preso parte o abbia
presenziato, richiede, ai fini della configurazione del reato de quo, non la mera diffusione del
materiale, bensì che la diffusione avvenga al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine.
Non sarebbe, ad esempio, sufficiente a integrare il reato la sola diffusione di immagini o registrazioni
carpite senza il consenso della vittima, pur supportata dal dolo generico: non è punibile,
esemplificando, la condotta di chi abbia ‘cliccato’ sul tasto condividi, richiedendosi il quid pluris,
sotto il profilo soggettivo, costituito dall’intenzione di danneggiare l’immagine e la reputazione della
persona offesa, uno scopo ulteriore verso cui deve tendere la volontà del soggetto agente, una
proiezione finalistica, sebbene non se ne richieda, ai fini dell’esistenza della fattispecie, l’effettivo
conseguimento.
È chiaro che tale finalizzazione della volontà presuppone il dolo – generico – richiesto per la
realizzazione dell’evento tipico della fattispecie (diffusione delle immagini o della registrazione),
comprensivo quindi, anche del dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che la messa
in circolazione delle riprese o delle registrazioni fraudolentemente carpite possa determinarne la
diffusione.
2.5.Alla luce di tali coordinate, rileva il collegio come, nella sentenza impugnata, l’affermazione della
Corte di appello, circa la ravvisabilità dell’elemento psicologico del dolo eventuale nella fattispecie
in esame, debba essere intesa come riferita all’elemento soggettivo che sorregge la condotta materiale
del reato, da intendersi quale volontaria messa in circolazione del video ritraente un momento intimo
dell’incontro privato tra l’imputato e la p.o. e la sua eventuale diffusione.
Poiché però, ai fini della integrazione della fattispecie criminosa si richiede, sotto il profilo soggettivo,
che la condotta diffusiva (dolo generico, anche eventuale) sia accompagnata dalla finalità di arrecare
danno all’immagine o alla reputazione della vittima (dolo specifico), va ricordato come la prova di
tale elemento possa essere tratta da ogni elemento utile allo scopo, attraverso un ragionamento logico-
inferenziale, secondo le regole generali in tema di valutazione dell’elemento soggettivo del reato,
desumendolo, cioè, dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive dell’azione criminosa,
attraverso le quali, con processo logico-deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva
del soggetto, in modo da evidenziarne, oltre alla cosciente volontà e rappresentazione degli elementi
oggettivi del reato, l’intenzione di danno specificamente richiesto dalla norma.
2.6.Nel caso di specie, i giudici di merito hanno evidenziato come le modalità della condotta fossero
chiaramente fraudolente, e la diffusione del video imputabile all’odierno ricorrente, mentre il fine
specifico perseguito dall’agente può trarsi dalla stessa oggettiva materialità della condotta, ovvero
dalle modalità con le quali il filmato è stato realizzato, immediatamente dopo il rapporto sessuale (ciò
che rende evidente una finalità diversa da quella erotica o comunque collegata al rapporto sessuale
appena consumato) e dal mezzo di diffusione del filmato, che è stato fatto circolare su una chat di
amici, comuni anche alla p.o., elementi che appaiono direttamente esplicativi della precisa volontà di
danneggiare la reputazione della vittima. È, dunque, riscontrabile nella fattispecie in esame, accanto
al dolo generico (anche eventuale) che deve supportare psicologicamente la condotta diffusiva,
l’ulteriore elemento volitivo necessario ai fini dell’integrazione del delitto sotto il profilo soggettivo,
costituito dalla specifica volontà di danneggiare la vittima, integrante il dolo specifico.
2.7. Il principio di diritto che deve essere affermato è, quindi, che, ai fini dell’integrazione del reato
di cui all’art. 617-septies, è richiesta la prova, ritraibile da ogni elemento utile, della sussistenza in
capo all’agente del dolo specifico, costituito dal fine di arrecare danno all’altrui reputazione o
immagine.
3. Non ha pregio il secondo motivo con cui ci si duole del vizio argomentativo che sorregge, nella
sentenza impugnata, il mancato riconoscimento della speciale causa di non punibilità per la lieve
entità del fatto. La Corte di appello ha, infatti, valorizzato plurimi indici della gravità del fatto (pg.4),
con valutazione del tutto coerente con ì principi di diritto affermati da questa Corte, anche nella sua
più autorevole composizione. Invero, le Sezioni Unite Tushaj’ (S.U. n. 13681 del 25/02/2016) hanno
rilevato che l’art. 131-bis cod. pen. fa riferimento testuale alle modalità della condotta, per inferirne
che tale disposizione non si interessa tanto della condotta tipica, bensì ha riguardo alle modalità di
estrinsecazione del comportamento, anche in considerazione delle componenti soggettive della
condotta stessa, al fine di valutarne complessivamente la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla
legge e conseguentemente il bisogno di pena. Occorre, pertanto, avere riguardo – ai fini della
applicabilità della causa di non punibilità – al fatto storico, alla situazione reale e irripetibile costituita
da tutti gli elementi di fatto concretamente realizzati dall’agente, perché non è in questione la
conformità al tipo (la causa di non punibilità presuppone un fatto conforme al tipo e offensivo, ma il
cui grado di offesa sia particolarmente tenue tanto da non richiedere la necessità di pena), bensì l’entità
del suo complessivo disvalore e questo spiega il riferimento alla connotazione storica della condotta
nella sua componente oggettiva e soggettiva. Pertanto, il giudizio finale di particolare tenuità
dell’offesa postula necessariamente la positiva valutazione di tutte le componenti richieste per
l’integrazione della fattispecie, sicché i criteri indicati nel primo comma dell’art. 131 -bis cod. pen.
sono cumulativi quanto al giudizio finale circa la particolare tenuità dell’offesa ai fini del
riconoscimento della causa di non punibilità, e alternativi quanto al diniego, nel senso che
l’applicazione della causa di non punibilità in questione è preclusa dalla valutazione negativa anche
di uno solo di essi (infatti, secondo il tenore letterale dell’art. 131-bis cod. pen. nella parte del primo
comma qui rilevante, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del
danno o del pericolo, l’offesa è di particolare tenuità. (Sez. 3 n. 893 del 28/06/2017, Rv. 272249; Sez.
6 n. 55107 del 08/11/2018, Rv. 274647; Sez. 3 n. 34151 del 18/06/2018, Rv. 273678), Sez. 7
Ordinanza n. 10481 del 19/01/2022, Rv. 283044). Risulta, pertanto, del tutto decontestualizzata,
rispetto a tale canone ermeneutico, la doglianza difensiva incentrata sulla mancata valorizzazione di
alcuni indici favorevoli al ricorrente, giacché, come detto, la Corte di appello ha enucleato una
pluralità di fattori di segno opposto.
4. Il terzo motivo, incentrato sul trattamento sanzionatorio, è manifestamente infondato. La Corte di
appello ha dato conto delle ragioni del diniego delle circostanze attenuanti generiche e del beneficio
della sospensione condizionale della pena (pg. 5). Invero, l’art. 62-bis cod. pen. attribuisce al giudice
la facoltà di cogliere, sulla base di numerosi e diversificati dati sintomatici (motivi che hanno
determinato il reato, circostanze che lo hanno accompagnato, danno cagionato, condotta tenuta “post
delictum”, ecc.), quegli elementi che possono suggerire l’opportunità di attenuare la pena edittale.
Trattandosi di valutazione di merito, essa si sottrae alle censure di legittimità, potendo il giudice di
merito escludere la sussistenza delle circostanze attenuanti generiche con motivazione fondata sulle
sole ragioni preponderanti della propria decisione, purché non contraddittoria e congruamente
motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori
attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24.09.2008, Rv. 242419; conf.
sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269), essendosi limitato a prendere in esame, tra gli elementi
indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente, e atto a determinare o meno il
riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole
o all’entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (Sez. 2,
n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163; Sez. 2 – , n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 27954902).
4.1. In tema di sospensione condizionale della pena, vige il medesimo principio di diritto già sopra
richiamato, secondo cui il Giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha
l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell’art. 133 cod. pen., potendo limitarsi
ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti (Sez.4, n.34380 del 14/07/2011, Rv.251509; Sez.3, n.35731
del 26/06/2007, Rv.237542; Sez.l, n.560 del 22/11/1994, dep20/01/1995, Rv.20002).
5. Al rigetto del ricorso segue, ex lege, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
5.1. L’imputato deve altresì essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e di difesa
sostenute nel presente giudizio dalla parte civile. Poiché la parte civile è ammessa al patrocinio a
spese dello Stato, compete alla Corte di cassazione, ai sensi degli artt. 541 cod. proc. pen. e 110 del
D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, pronunciare condanna generica dell’imputato al pagamento di tali
spese in favore dell’Erario, mentre è rimessa al giudice che ha pronunciato la sentenza passata in
giudicato, la liquidazione delle stesse mediante l’emissione del decreto di pagamento ai sensi degli
artt. 82 e 83 del citato D.P.R. (Sez. U, Ordinanza n.5464 del 26/09/2019. (dep. 2020), De Falco, Rv.
277760).
5.2. In caso di diffusione del presente provvedimento, devono essere omesse le generalità e gli altri
dati identificativi, a norma del D.Lgs. N. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre,
l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla
parte civile ammessa al patrocinio a spese dello stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di
appello di Napoli con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. 115/2002,
disponendo il pagamento in favore dello Stato.
Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2024.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2025.