Diffusione di riprese o registrazioni fraudolente di incontri privati o conversazioni a contenuto sessuale

Cass. Pen., Sez. V, Sent., 17 gennaio 2025, n. 2112
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
1.Con la sentenza impugnata, la Corte di Appello di Napoli ha confermato la decisione del Tribunale
di Napoli Nord, che aveva dichiarato A.A. colpevole del delitto di cui all’art. 617-septies cod. pen. (in
esso assorbito il reato di diffamazione aggravata contestato al capo B), per avere diffuso, mediante
applicativo whatsapp, una ripresa audio/video, effettuata fraudolentemente con il proprio telefono
cellulare, di un incontro privato avvenuto con B.B., avente a oggetto le fasi immediatamente
successive a un rapporto sessuale tra i due, avvenuto all’interno dell’abitacolo dell’autovettura in uso
alla p.o., in cui la stessa appariva in pose intime.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del difensore di fiducia, avvocato D.
D.I., che svolge tre motivi – enunciati nei limiti richiesti per la motivazione ai sensi dell’art. 173 disp.
att. cod. proc. pen.
2.1. Vizi di motivazione in relazione al primo motivo di appello, laddove ci si doleva della mancata
dimostrazione della diffusione del video incriminato a opera dell’imputato, evidenziando come la
sentenza abbia affidato l’affermazione di responsabilità alla ‘verosimile’ riconducibilità della condotta
diffusiva all’imputato, in spregio al principio del ‘ragionevole dubbio’, senza neppure prendere in
considerazione la possibilità che il video sia stato estrapolato dal telefono della p.o. o l’alternativa
dell’accesso di un hacher all’interno del cellulare. Inoltre, sotto il profilo soggettivo, si lamenta che
non sia stato provato il dolo specifico, incompatibile con il ravvisato dolo eventuale.
2.2. Vizi della motivazione in merito al mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui
all’art. 131-bis cod. pen. Si duole il ricorrente che la Corte di appello abbia valorizzato profili di
negatività del fatto senza procedere a una valutazione complessiva, prendendo in esame aspetti, quali
la incensuratezza e la giovanissima età dell’imputato, l’assenza di abitualità e la rudimentalità della
condotta.
2.3. Vizi di motivazione in relazione all’eccessiva severità del trattamento sanzionatorio, per il diniego
delle circostanze attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale della pena,
riconoscibili in ragione dell’atteggiamento processuale collaborativo tenuto dall’imputato, sia in sede
di interrogatorio che optando per il rito abbreviato.
Motivi della decisione
Il ricorso non è fondato.
1.1.Non ha pregio il primo motivo, laddove ci si duole del vizio di motivazione della sentenza
impugnata nella parte in cui ha affermato la riconducibilità della diffusione dei video incriminato
all’imputato affidandosi a un mero giudizio di verosimiglianza.
1.2.In realtà, dalla lettura della sentenza impugnata, conforme a quella di primo grado, emerge che la
Corte di appello – nel condividere il percorso argomentativo esplicitato dal giudice di primo grado –
ne ha pedissequamente riportato le valutazioni, conformemente a questi ritenendo espressamente
provata “oltre ogni ragionevole dubbio” la responsabilità dell’imputato, alla luce di plurimi indici,
analiticamente indicati in entrambe le sentenze di merito (dichiarazioni analitiche e dettagliate della
p.o., riscontri provenienti dalle altre prove dichiarative, perizia sui cellulari, dichiarazioni
dell’imputato), della riconducibilità al A.A. della diffusione del video fraudolentemente carpito.
1.3.Nel riportare le valutazioni del primo giudice, la Corte di appello ha, effettivamente, inserito
l’avverbio “verosimilmente” (pg.3) con riguardo alla attribuibilità della condotta di diffusione del
video, ma, all’evidenza, si tratta di una improprietà linguistica (da elidere) resa palese dal complessivo
ragionamento probatorio nel quale, impropriamente, essa si inserisce. La sentenza impugnata ha,
invero, dato conto delle ragioni della ritenuta captazione fraudolenta delle immagini, e, cioè
dell’assenza di consenso della p.o., come plasticamente reso evidente – oltre che dalle modalità della
ripresa, fugacemente realizzata subito dopo un rapporto sessuale, – da alcune immagini del video, in
cui la p.o. esprime la propria sorpresa e contrarietà per quell’azione improvvida, invitando l’autore a
mettere da parte il telefono, e delle ragioni del convincimento per cui l’autore della diffusione non
poteva che essere stato il A.A.: i due giovani era soli in auto quando vennero fatte le riprese, e il video
è venuto in possesso della p.o. solo dopo che era stato già diffuso.
1.4. Quanto alle possibilità alternative che non sarebbero state prese in considerazione dalla Corte di
appello – al di là della considerazione che, invece, la Corte di appello, e già il primo giudice, avendo
specificamente argomentato in merito alle ragioni per cui hanno ritenuto che la diffusione del video
fosse attribuibile al A.A., hanno, in tal modo, implicitamente escluso altre possibili ricostruzioni del
fatto – giova anche considerare come, essendo stato dedotto, in proposito, il vizio di motivazione di
cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la predetta censura non concerna né la ricostruzione
dei fatti, né l’apprezzamento del giudice di merito, ma debba essere, invece, circoscritta alla verifica
che il testo dell’atto impugnato contenga l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che
lo sorreggono, che il discorso giustificativo sia effettivo e non meramente apparente (cioè idoneo a
rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata), che nella
motivazione non siano riscontrabili contraddizioni, né illogicità evidenti (cfr. Sez. U, n. 47289 del
24/09/2003, Petrella, Rv. 226074). In particolare, con riguardo al vizio di illogicità della motivazione,
la menzionata disposizione postula che essa sia manifesta, cioè di spessore tale da risultare percepibile
ictu oculi, restando ininfluenti le minime incongruenze e dovendosi considerare disattese le deduzioni
difensive che, anche se non espressamente confutate, appaiano logicamente incompatibili con la
decisione adottata (ex multis Sez. 2, n. 35817 del 10/07/2019, Rv. 276741). La giurisprudenza di
legittimità è, invero, chiara nell’affermare che “non è censurabile, in sede di legittimità, la sentenza
che non motivi espressamente in relazione a una specifica deduzione prospettata con il gravame,
quando il suo ridetto risulti dalla complessiva struttura argomentativa della sentenza” (Sez. 4, n. 5396
del 15/11/2022, dep. 8/2/2023, Rv. 284096). Sotto tale aspetto, la doglianza si risolve in un dissenso
‘decisionale’, inidoneo, come tale, a segnalare in questa sede precarietà logiche della decisione
impugnata o, peggio, vuoti di motivazione sui punti interessati, peraltro dovendo sottolinearsi come
l’imputato non abbia offerto realistiche alternative da confrontare, non potendo aver rilievo, a fini
inibitori della pronunzia di sentenza di condanna, un’ipotesi alternativa del tutto congetturale, pur se
in astratto plausibile (da Sez. 4, n. 22257, del 25/3/2014, Rv. 259204), come quella dell’azione di un
‘hacher’ prospettata dalla difesa. Invero, la selezione dei fatti e delle situazioni rilevanti è propria del
giudice del merito e, quando l’interpretazione di essi è sorretta da una adeguata motivazione, continua
ad essere incensurabile nel giudizio di legittimità, anche dopo la riforma che ha novellato l’art. 606
comma primo lett. e) cod. proc. pen. (art. 8 L. n. 46 del 2006), tenuto anche conto del fatto che la
valutazione della prova non può essere disancorata dal contesto in cui è inserita e che un simile
compito non può spettare al giudice di legittimità, sulla base della lettura necessariamente parziale
suggeritagli dal ricorso per cassazione. (V. in argomento, Sez. 2, 23/03/2006, n. 1399 e Sez. 6,
24/03/2006, n. 14054, Rv. 233454). A ciò deve aggiungersi che neppure l’emersione di una criticità
su una delle molteplici valutazioni contenute nella sentenza impugnata può comportare
l’annullamento della decisione per vizio di motivazione, allorché le restanti offrano ampia
rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M e altri,
Rv. 271227), posto che dà luogo a vizio della motivazione non qualunque omissione valutativa che
riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma solo quello che sia idoneo a disarticolare uno degli
essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione, quale risultante dall’esame del
complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato (Sez. 2, n. 9242 del
08/02/2013, Rv. 254988; Sez. 2, n. 18163 del 22/04/2008; Sez. 1, n. 13528 del 11/11/1998, Rv.
212053). 2. Non è fondata neppure la doglianza incentrata sull’elemento soggettivo.
2.1. È opportuno, a tale proposito, ricordare che il delitto di diffusione di riprese e registrazioni
fraudolente, previsto dall’articolo 617-septies del codice penale – in attuazione della legge delega del
23 giugno 2017, n. 103, intervenuta a seguito di un lungo dibattito critico, generato soprattutto della
diffusione da parte dei mass media dei contenuti delle intercettazioni e dalla lesione del diritto alla
riservatezza non solo dei soggetti diretti destinatari dell’ intercettazione, ma anche dei soggetti esterni
e coinvolti in quanto semplici interlocutori del soggetto-bersaglio – è stato inserito dall’art. 1, D.Lgs.
29 dicembre 2017, n. 216, con decorrenza dal 26 gennaio 2018, per reprimere comportamenti che
violano la riservatezza degli individui (e, contestualmente, la loro reputazione e immagine) tramite la
diffusione di materiale raccolto fraudolentemente, ai fine di danneggiare i beni giuridici menzionati;
con tale innesto, si sono volute colmare lacune emerse nel sistema penale riguardo alla tutela della
riservatezza, colpita da aggressioni poste in essere mediante l’impiego di sistemi captativi a carattere
tecnologico.
2.2. L’art. 617-septies cod. pen. punisce “Chiunque, al fine di recare danno all’altrui reputazione o
immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di
incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o
telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione.”
L’inserimento della disposizione nel Libro Secondo (Dei delitti in particolare), Titolo dodicesimo (Dei
delitti contro la persona), Capo Terzo (Dei delitti contro la libertà individuale), Sezione Quinta (Dei
delitti contro l’inviolabilità dei segreti) del codice penale fornisce indicazioni sul bene giuridico che
si intende tutelare: la norma affonda le proprie radici nell’ art. 15 Cost., che tutela la libertà e la
segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione, ma anche nell’art. 21 Cost. posto
a presidio del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro
mezzo di diffusione.
La tutela della libertà e segretezza delle conversazioni e comunicazioni passa naturalmente anche
dalla inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.), dal momento che, con la norma di nuovo conio, non
si può garantire tutela alla libertà di espressione e manifestazione del pensiero (quale che sia la forma
assunta) avvenuta in un contesto ed in luogo pubblico per volontà delle parti o per le specifiche
modalità con cui la comunicazione/conversazione viene concretamente posta in essere.
Si può cogliere, dunque, la ratio della norma incriminatrice, non soltanto nella libertà e segretezza
delle conversazioni o comunicazioni, ma anche nella tutela dell’onore e della reputazione degli
interlocutori della conversazione, di qualsiasi genere, che avvenga in privato, i cui contenuti sono e
devono intendersi destinati a rimanere tra i presenti (i quali hanno diritto a non vedere carpite con
l’inganno parole o esternazioni di qualsivoglia genere, e a vederle diffuse nell’etere), semprechè non
sussista espresso consenso alla divulgazione.
In questo senso, si può affermare che la inviolabilità e la segretezza delle comunicazioni o
conversazioni sono protette dalle ingerenze esterne o dalla arbitraria e non autorizzata diffusione extra
presenti, non soltanto perché viene in tal modo garantita la libera esplicazione e manifestazione del
pensiero, ma anche per evitare che una indebita circolazione dei contenuti di conversazioni o
comunicazioni private possa ledere la reputazione e l’onore del soggetto passivo.
Giova richiamare un passo della Relazione illustrativa trasmessa al Parlamento, la quale chiarisce
che: “La norma punisce colui che diffonde il contenuto di incontri o conversazioni riservate, registrate
con mezzi insidiosi, (microfoni o telecamere nascoste), e quindi fraudolentemente, allo scopo di
recare nocumento all’altrui reputazione. Sul piano empirico, la società della comunicazione di massa
registra il frequente ricorso a simili stratagemmi, posti scientemente in essere con lo scopo della
successiva divulgazione. Si tratta di condotte agevolate dalla diffusione, anche tra privati, di mezzi
tecnologici del tutto idonei all’ampia e immediata divulgazione di contenuti comunicativi carpiti
senza l’altrui consenso (si pensi alle potenzialità dei moderni dispositivi portatili e ali ‘uso dei soci al
media). Ne consegue un grave pregiudizio all’onore e alla dignità della vittima, discendente dalla
divulgazione di immagini e/o parole carpite quando la stessa presumeva di partecipare a una
comunicazione del tutto privata, in un contesto, cioè, riservato e confidenziale, che tale doveva
restare, contro ogni indebita invasione della propria sfera personale.”
La previsione della procedibilità a querela conferma come oggetto di tutela dell’art. 617-septies cod.
pen. sia l’interesse del singolo al mantenimento del proprio onore e della reputazione e a evitarne la
compromissione a seguito di indebite e non autorizzate divulgazioni all’esterno delle manifestazioni
del proprio pensiero, espresse in privato.
2.3.Sul piano strutturale, la condotta sanzionata consiste nella diffusione di una captazione
fraudolenta, effettuata mediante riprese audio/video o registrazioni, di conversazioni o incontri di tipo
privato, alle quali l’agente abbia preso parte o sia stato presente.
La fattispecie in questione pone il tema del raffronto con i reati a sfondo sessuale come quello di
“diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, previsto dall’art. 612-ter cod. pen.,
che si sostanzia nella divulgazione non autorizzata online di file multimediali a contenuto
sessualmente esplicito, soprattutto a scopo di vendetta nei confronti dell’ex partner. L’art. 612-ter:
punisce chiunque “invia, consegna, cede, pubblica o diffonda immagini o video a contenuto
sessualmente esplicito destinati a rimanere privati e senza il consenso delle persone rappresentate”.
Peculiarità di questo tipo di immagini e video – oltre alla connotazione del loro contenuto, che deve
essere sessualmente esplicito, laddove nel reato di cui all’art. 617-septies assume rilievo la fraudolenta
captazione delle immagini/registrazioni di dati sensibili – è che gli stessi sono girati con il consenso
della persona ritratta (all’interno di coppie, nell’ambito di momenti intimi consensuali). A essere non
consensuale, dunque, nel reato di cui all’art. 612-ter, non è la realizzazione del materiale pornografico,
ma la sua successiva diffusione.
2.4. Sotto il profilo soggettivo, ai fini della integrazione del delitto di cui all’art. 617-septies cod. pen.,
si richiede che la condotta miri ad arrecare danno alla reputazione e all’immagine altrui, con tale
previsione risultando chiaro, in coerenza con le descritte rationes, come la acquisizione fraudolenta
di conversazioni/incontri privati abbia l’obiettivo di tutelare non solo la segretezza delle conversazioni
e delle comunicazioni, ma anche la reputazione del soggetto passivo in seguito alla lesione della stessa
dovuta alla divulgazione di dati sensibili. In tale contesto normativo, la captazione in quanto tale
costituisce un antefatto penalmente irrilevante, richiedendosi che la condotta miri ad arrecare danno
alla reputazione e all’immagine altrui.
La norma incriminatrice in questione si caratterizza, dunque, per la presenza del dolo specifico nel
soggetto agente, richiedendosi, cioè, quale elemento essenziale della fattispecie, un requisito di natura
psichica, consistente in uno scopo ulteriore verso cui deve tendere la volontà del soggetto agente: la
norma, punendo la fraudolenta ripresa, audio o video, di incontri privati, o la registrazione, anch’essa
fraudolenta, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, a cui l’agente abbia preso parte o abbia
presenziato, richiede, ai fini della configurazione del reato de quo, non la mera diffusione del
materiale, bensì che la diffusione avvenga al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine.
Non sarebbe, ad esempio, sufficiente a integrare il reato la sola diffusione di immagini o registrazioni
carpite senza il consenso della vittima, pur supportata dal dolo generico: non è punibile,
esemplificando, la condotta di chi abbia ‘cliccato’ sul tasto condividi, richiedendosi il quid pluris,
sotto il profilo soggettivo, costituito dall’intenzione di danneggiare l’immagine e la reputazione della
persona offesa, uno scopo ulteriore verso cui deve tendere la volontà del soggetto agente, una
proiezione finalistica, sebbene non se ne richieda, ai fini dell’esistenza della fattispecie, l’effettivo
conseguimento.
È chiaro che tale finalizzazione della volontà presuppone il dolo – generico – richiesto per la
realizzazione dell’evento tipico della fattispecie (diffusione delle immagini o della registrazione),
comprensivo quindi, anche del dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che la messa
in circolazione delle riprese o delle registrazioni fraudolentemente carpite possa determinarne la
diffusione.
2.5.Alla luce di tali coordinate, rileva il collegio come, nella sentenza impugnata, l’affermazione della
Corte di appello, circa la ravvisabilità dell’elemento psicologico del dolo eventuale nella fattispecie
in esame, debba essere intesa come riferita all’elemento soggettivo che sorregge la condotta materiale
del reato, da intendersi quale volontaria messa in circolazione del video ritraente un momento intimo
dell’incontro privato tra l’imputato e la p.o. e la sua eventuale diffusione.
Poiché però, ai fini della integrazione della fattispecie criminosa si richiede, sotto il profilo soggettivo,
che la condotta diffusiva (dolo generico, anche eventuale) sia accompagnata dalla finalità di arrecare
danno all’immagine o alla reputazione della vittima (dolo specifico), va ricordato come la prova di
tale elemento possa essere tratta da ogni elemento utile allo scopo, attraverso un ragionamento logico-
inferenziale, secondo le regole generali in tema di valutazione dell’elemento soggettivo del reato,
desumendolo, cioè, dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive dell’azione criminosa,
attraverso le quali, con processo logico-deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva
del soggetto, in modo da evidenziarne, oltre alla cosciente volontà e rappresentazione degli elementi
oggettivi del reato, l’intenzione di danno specificamente richiesto dalla norma.
2.6.Nel caso di specie, i giudici di merito hanno evidenziato come le modalità della condotta fossero
chiaramente fraudolente, e la diffusione del video imputabile all’odierno ricorrente, mentre il fine
specifico perseguito dall’agente può trarsi dalla stessa oggettiva materialità della condotta, ovvero
dalle modalità con le quali il filmato è stato realizzato, immediatamente dopo il rapporto sessuale (ciò
che rende evidente una finalità diversa da quella erotica o comunque collegata al rapporto sessuale
appena consumato) e dal mezzo di diffusione del filmato, che è stato fatto circolare su una chat di
amici, comuni anche alla p.o., elementi che appaiono direttamente esplicativi della precisa volontà di
danneggiare la reputazione della vittima. È, dunque, riscontrabile nella fattispecie in esame, accanto
al dolo generico (anche eventuale) che deve supportare psicologicamente la condotta diffusiva,
l’ulteriore elemento volitivo necessario ai fini dell’integrazione del delitto sotto il profilo soggettivo,
costituito dalla specifica volontà di danneggiare la vittima, integrante il dolo specifico.
2.7. Il principio di diritto che deve essere affermato è, quindi, che, ai fini dell’integrazione del reato
di cui all’art. 617-septies, è richiesta la prova, ritraibile da ogni elemento utile, della sussistenza in
capo all’agente del dolo specifico, costituito dal fine di arrecare danno all’altrui reputazione o
immagine.
3. Non ha pregio il secondo motivo con cui ci si duole del vizio argomentativo che sorregge, nella
sentenza impugnata, il mancato riconoscimento della speciale causa di non punibilità per la lieve
entità del fatto. La Corte di appello ha, infatti, valorizzato plurimi indici della gravità del fatto (pg.4),
con valutazione del tutto coerente con ì principi di diritto affermati da questa Corte, anche nella sua
più autorevole composizione. Invero, le Sezioni Unite Tushaj’ (S.U. n. 13681 del 25/02/2016) hanno
rilevato che l’art. 131-bis cod. pen. fa riferimento testuale alle modalità della condotta, per inferirne
che tale disposizione non si interessa tanto della condotta tipica, bensì ha riguardo alle modalità di
estrinsecazione del comportamento, anche in considerazione delle componenti soggettive della
condotta stessa, al fine di valutarne complessivamente la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla
legge e conseguentemente il bisogno di pena. Occorre, pertanto, avere riguardo – ai fini della
applicabilità della causa di non punibilità – al fatto storico, alla situazione reale e irripetibile costituita
da tutti gli elementi di fatto concretamente realizzati dall’agente, perché non è in questione la
conformità al tipo (la causa di non punibilità presuppone un fatto conforme al tipo e offensivo, ma il
cui grado di offesa sia particolarmente tenue tanto da non richiedere la necessità di pena), bensì l’entità
del suo complessivo disvalore e questo spiega il riferimento alla connotazione storica della condotta
nella sua componente oggettiva e soggettiva. Pertanto, il giudizio finale di particolare tenuità
dell’offesa postula necessariamente la positiva valutazione di tutte le componenti richieste per
l’integrazione della fattispecie, sicché i criteri indicati nel primo comma dell’art. 131 -bis cod. pen.
sono cumulativi quanto al giudizio finale circa la particolare tenuità dell’offesa ai fini del
riconoscimento della causa di non punibilità, e alternativi quanto al diniego, nel senso che
l’applicazione della causa di non punibilità in questione è preclusa dalla valutazione negativa anche
di uno solo di essi (infatti, secondo il tenore letterale dell’art. 131-bis cod. pen. nella parte del primo
comma qui rilevante, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del
danno o del pericolo, l’offesa è di particolare tenuità. (Sez. 3 n. 893 del 28/06/2017, Rv. 272249; Sez.
6 n. 55107 del 08/11/2018, Rv. 274647; Sez. 3 n. 34151 del 18/06/2018, Rv. 273678), Sez. 7
Ordinanza n. 10481 del 19/01/2022, Rv. 283044). Risulta, pertanto, del tutto decontestualizzata,
rispetto a tale canone ermeneutico, la doglianza difensiva incentrata sulla mancata valorizzazione di
alcuni indici favorevoli al ricorrente, giacché, come detto, la Corte di appello ha enucleato una
pluralità di fattori di segno opposto.
4. Il terzo motivo, incentrato sul trattamento sanzionatorio, è manifestamente infondato. La Corte di
appello ha dato conto delle ragioni del diniego delle circostanze attenuanti generiche e del beneficio
della sospensione condizionale della pena (pg. 5). Invero, l’art. 62-bis cod. pen. attribuisce al giudice
la facoltà di cogliere, sulla base di numerosi e diversificati dati sintomatici (motivi che hanno
determinato il reato, circostanze che lo hanno accompagnato, danno cagionato, condotta tenuta “post
delictum”, ecc.), quegli elementi che possono suggerire l’opportunità di attenuare la pena edittale.
Trattandosi di valutazione di merito, essa si sottrae alle censure di legittimità, potendo il giudice di
merito escludere la sussistenza delle circostanze attenuanti generiche con motivazione fondata sulle
sole ragioni preponderanti della propria decisione, purché non contraddittoria e congruamente
motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori
attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24.09.2008, Rv. 242419; conf.
sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269), essendosi limitato a prendere in esame, tra gli elementi
indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente, e atto a determinare o meno il
riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole
o all’entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (Sez. 2,
n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163; Sez. 2 – , n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 27954902).
4.1. In tema di sospensione condizionale della pena, vige il medesimo principio di diritto già sopra
richiamato, secondo cui il Giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha
l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell’art. 133 cod. pen., potendo limitarsi
ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti (Sez.4, n.34380 del 14/07/2011, Rv.251509; Sez.3, n.35731
del 26/06/2007, Rv.237542; Sez.l, n.560 del 22/11/1994, dep20/01/1995, Rv.20002).
5. Al rigetto del ricorso segue, ex lege, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
5.1. L’imputato deve altresì essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e di difesa
sostenute nel presente giudizio dalla parte civile. Poiché la parte civile è ammessa al patrocinio a
spese dello Stato, compete alla Corte di cassazione, ai sensi degli artt. 541 cod. proc. pen. e 110 del
D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, pronunciare condanna generica dell’imputato al pagamento di tali
spese in favore dell’Erario, mentre è rimessa al giudice che ha pronunciato la sentenza passata in
giudicato, la liquidazione delle stesse mediante l’emissione del decreto di pagamento ai sensi degli
artt. 82 e 83 del citato D.P.R. (Sez. U, Ordinanza n.5464 del 26/09/2019. (dep. 2020), De Falco, Rv.
277760).
5.2. In caso di diffusione del presente provvedimento, devono essere omesse le generalità e gli altri
dati identificativi, a norma del D.Lgs. N. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre,
l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla
parte civile ammessa al patrocinio a spese dello stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di
appello di Napoli con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. 115/2002,
disponendo il pagamento in favore dello Stato.
Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2024.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2025.

Rito famiglia ante- Cartabia. I provvedimenti del G.I. non sono reclamabili

Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 31 gennaio 2025 n. 2299
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso …/2023 proposto da
A.A.; B.B.; rappresentate e difese dall’avv. …per procura speciale in atti;
-ricorrente –
-contro-
C.C., rappres. e difeso dagli avv.ti…, per procura speciale in atti;
-controricorrente-
-nonché-
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI VENEZIA;
-intimato-
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Venezia, n. …/2023, depositata in data 5.10.2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 3.12.2024 dal Cons. rel., dott.
Rosario Caiazzo.
Svolgimento del processo
Con la sentenza n. …/19, in data 28/02/19, il Tribunale di Verona, dichiarava la cessazione degli effetti
civili del matrimonio contratto tra C.C. e A.A. ai sensi dell’art. 4, comma 12, L. 898/70, disponendo,
con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio per la decisione sulle condizioni economiche
del divorzio.
Con sentenza definitiva dello stesso Tribunale, emessa nel 2023, veniva rigettata la domanda della
A.A. di assegnazione della casa coniugale, ponendo a carico di C.C. l’obbligo di versare a titolo di
contributo al mantenimento della figlia maggiorenne B.B. la somma di Euro 550,00 mensili,
rivalutabile annualmente secondo l’indice ISTAT, con versamento diretto alla figlia e decorrenza dal
mese di gennaio 2022, oltre alla forfettizzazione delle spese straordinarie nella misura di Euro250,00
mensili e conguaglio alla fine di ogni semestre.
Al riguardo, il Tribunale osservava che la domanda materna di assegnazione della casa coniugale
era palesemente infondata, tenuto conto che la revoca di tale assegnazione alla ex moglie era stata
disposta con la sentenza non definitiva sullo status n. …/19 resa in data 28/02/19 che, in difetto di
impugnazione delle parti – le quali non avevano fatto riserva di appello – era ormai passata in
giudicato ed era, quindi, divenuta definitiva, restando del tutto irrilevanti sul tema le deduzioni
della ex moglie in ordine sia alla pretesa natura fittizia del trasferimento di residenza della figlia, sia
alle condizioni economico/reddituali delle parti, sia alle condizioni di salute della stessa B.B.;
nell’accordo siglato dai coniugi il 25/07/14, la pretesa natura fittizia del trasferimento di residenza
della figlia non emergeva in alcun modo, poiché in esso si faceva espresso riferimento alla frequenza
da parte della stessa dell’Istituto paritario sito in P, che necessariamente presupponeva la presenza
nella città siciliana per tutta la durata del corso; doveva pertanto escludersi che da tale documento
risultasse un accordo tra le parti volto a mantenere la residenza effettiva della figlia presso la casa di
Legnago, emergendo per contro documentalmente l’avvenuto trasferimento di B.B. a P, necessario
per motivi di studio; a fronte di tale compendio probatorio, madre e figlia non avevano fornito in
causa alcuna prova concreta del fatto che nel periodo in esame (2014/2015) la figlia fosse, invece,
effettivamente rimasta ad abitare stabilmente a L; in caso di separazione o divorzio, il
provvedimento di assegnazione della casa coniugale o di revoca dell’assegnazione è pronunciato nei
confronti del coniuge, non dei figli, sicché non aveva pregio la tesi dell’ex moglie per cui la sentenza
non definitiva del Tribunale di Verona sarebbe nulla perché emessa senza la partecipazione al
procedimento della stessa figlia (chiamata in causa dopo la pronuncia della sentenza non definitiva,
per l’integrazione del contraddittorio sulla domanda paterna attinente alla elisione/modifica del
contributo paterno al mantenimento della figlia maggiorenne), tenuto conto che, nel giudizio
relativo alla domanda della moglie di assegnazione della casa coniugale, la figlia non era
litisconsorte necessaria (senza considerare che sia la moglie che la figlia, costituite in giudizio dopo
la sentenza non definitiva che aveva revocato l’assegnazione della casa, non avevano impugnato nei
termini la sentenza stessa, né fatto espressa riserva d’appello ai sensi dell’art. 340 c.p.c.); non era
parimenti meritevole di accoglimento neanche la domanda di figlia e moglie diretta all’aumento del
contributo paterno al mantenimento della figlia B.B., tenuto conto delle risultanze dell’istruttoria sia
in ordine alle condizioni reddituali/patrimoniali dei due genitori, sia in ordine alle condizioni di
salute della figlia; richiamato integralmente per relationem, a tale riguardo, il contenuto
dell’ordinanza depositata il 22/01/22, con la quale il giudice, all’esito di puntuale disamina sia della
documentazione reddituale/patrimoniale prodotta in causa dalle parti, sia delle condizioni di salute
della figlia, e valutata la circostanza dedotta da madre e figlia che quest’ultima, pur avendo ottenuto
un cambio di residenza per esigenze di studio, non aveva mai, di fatto, cessato la coabitazione con
la madre, né acquisito l’indipendenza economica, aveva rideterminato in Euro550,00 mensili il
contributo paterno al mantenimento di B.B. (originariamente stabilito, in sede di separazione
consensuale nel 2010, nella misura di Euro350,00 mensili, rivalutato alla data dell’ordinanza a circa
Euro390,00), con versamento diretto alla figlia stessa e decorrenza dal mese di gennaio 2022,
stabilendo la forfettizzazione delle spese straordinarie nella misura di Euro250,00 mensili, con
conguaglio alla fine di ogni semestre; madre e figlia hanno, invece, chiesto l’aumento a Euro1.200,00
mensili (in via principale) e a Euro700,00 mensili (in via subordinata) della contribuzione a carico
del padre e la forfettizzazione delle spese straordinarie, avendo entrambe allegato la natura
invalidante delle patologie che affliggevano la ragazza e la difficoltà di ottenere il pagamento della
quota paterna delle spese sanitarie, per avere il padre da sempre disconosciuto e sminuito l’esistenza
e la gravità dei problemi di salute della figlia; il contributo al mantenimento di quest’ultima poteva
essere confermato nella misura già stabilita dall’ordinanza depositata 22/01/22, pari a Euro550,00
mensili, con versamento diretto alla figlia e decorrenza dal mese di gennaio 2022, oltre alla
forfettizzazione delle spese straordinarie nella misura di Euro250,00 mensili, con conguaglio alla fine
di ogni semestre, non avendo le parti allegato alcun significativo mutamento delle rispettive
condizioni reddituali; nella detta ordinanza, il giudice aveva evidenziato che “…sulle entrate del
ricorrente grava la metà della rata di mutuo della casa familiare (in comproprietà con la ex moglie
A.A.) pari ad Euro 258,50 e da quanto risulta in atti il ricorrente sta pagando anche gli arretrati delle
rate di mutuo, anche per la quota parte della ex moglie resistente (cfr. doc. 26C; doc. 26B)”, ed aveva
altresì precisato che “…il ricorrente sta quindi anticipando la quota della rata di mutuo anche per la
parte della resistente”; la madre resistente e la figlia chiamata in causa avevano documentato che ad
B.B., a seguito di riconoscimento da parte della Commissione medica INPS di una invalidità del 75%
della ragazza, in conseguenza della diagnosi di “soggetto con diatesi allergica e diagnosi di malattia
rara (sindrome di Elhers Danlos tipo ipermobile in terapia con cannabis e fans. e ambliopia
occasionale. Intolleranza a fruttosio e lattosio istamina. Aneurisma del setto interatriale”) era stato
riconosciuto un assegno di invalidità di importo mensile pari a Euro 297,42, categoria INVCIV, con
decorrenza dal 01/06/21; madre e figlia non avevano specificamente allegato, né documentato in
causa, l’effettiva incidenza della patologia che affliggeva B.B. sulla sua concreta capacità lavorativa,
tant’è che la madre, nella comparsa conclusionale di replica, aveva definito detta patologia in termini
di “…handicap grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 104/1992 con inevitabile diminuzione
della capacità lavorativa o comunque del tempo dedicabile allo svolgimento di attività lavorativa”,
senza chiarire né l’entità di detta diminuzione, né la residua misura del tempo che la ragazza era in
grado di dedicare al lavoro; lo stesso certificato medico, a firma Dr. D.D., prodotto descriveva un
quadro sintomatologico caratterizzato da persistenza di sindrome dolorosa prevalentemente
incidente sulla capacità motoria della paziente e, in particolare, sulla capacità di fare spostamenti
tramite mezzi di trasporto pubblici, che nulla diceva rispetto alla capacità lavorativa della ragazza
per attività che potrebbero astrattamente essere svolte in smart working o, comunque, senza
spostamenti dalla propria residenza.
Con sentenza del 21.2.23, la Corte territoriale rigettava l’appello proposto da A.A. e B.B., osservando
che la domanda di assegnazione della casa di abitazione familiare proposta dalla madre era stata
rigettata con la sentenza parziale n. …/2019, sul punto passata in giudicato, che copriva il dedotto ed
il deducibile; il primo giudice, sebbene per relationem, aveva richiamato i contenuti della precedente
ordinanza del 22 gennaio 2022, precisando che nella stessa erano stati indicati gli assetti reddituali e
patrimoniali delle parti atti a giustificare il contributo in Euro. 550,00 mensili; tale statuizione non
era stata impugnata; al riguardo, la mera richiesta di aumento non si poteva giustificare assumendo
che l’invalidità del 75% risulterebbe per ciò sola sufficiente, in quanto non erra stato specificato e
criticato il decisum, ove si è dato conto che la residua capacità lavorativa (anche in regime di smart
working) sarebbe rimasta con la possibile incidenza sul reddito; il motivo di impugnazione per il
riconoscimento dell’assegno divorzile, se così inteso il petitum, non poteva essere accolto in quanto
genericamente formulato; il motivo sulle spese non si rapportava alla ratio decidendi ed era
parimenti infondato in diritto; non era fondato l’appello circa la compensazione delle spese di lite
nella misura del 50%,-con condanna delle resistenti in solido tra loro a rifondere al ricorrente il
residuo 50%- in considerazione sia della soccombenza di madre e figlia sul tema dell’assegnazione
della casa coniugale, sia del biasimevole comportamento processuale di entrambe rispetto al doc. 6
prodotto dall’ex marito all’utilizzazione del quale la A.A., dopo le fondate rimostranze del ricorrente,
aveva dichiarato di voler rinunciare; le appellanti non erano vincitrici in quanto la domanda per
l’assegnazione della casa familiare era stata rigettata, mentre la domanda per l’assegno della figlia
aveva trovato solo in parte accoglimento, tanto che il primo giudice aveva operato la compensazione
ex art. 92, c.2, c.p.c.
A.A. e B.B. ricorrono per cassazione avverso la suddetta sentenza di secondo grado, con otto motivi,
illustrati da memoria. C.C. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Il primo motivo deduce nullità della sentenza impugnata e dell’intero procedimento, per violazione
e falsa applicazione degli artt. 101 c. 1-2, 112, 156, 163 c. 3 n. 2, 164 e 331 c.p.c., in relazione agli artt.
111, c. 1 e 2, Cost. e 6 par. 1 CEDU e al mancato contraddittorio nei confronti di B.B. nel giudizio
conclusosi con la sentenza (non definitiva) n. …/2019.
Al riguardo, le ricorrenti lamentano che la revoca dell’assegnazione della casa coniugale è avvenuta
in difetto di partecipazione al procedimento da parte della figlia B.B. e nonostante il fatto che,
secondo consolidato orientamento del giudice di legittimità, il giudice debba comunque verificare
che il provvedimento richiesto non contrasti con i preminenti interessi della prole, per cui la sentenza
impugnata, in relazione agli altri, è nulla e come tale improduttiva di effetti giuridici nei confronti
di B.B., la quale, pertanto, aveva pieno diritto di ottenere l’assegnazione della casa familiare, che
viene disposta nel preminente interesse dei figli
A tal proposito, si evidenzia come correttamente il primo giudice avesse ribadito con l’ordinanza
17.01.2022, l’assoluta tempestività delle domande ed eccezioni di B.B., la quale era dunque
legittimata a svolgere tutte le difese e richieste, in quanto il giudizio si era svolto, nella prima fase,
senza la sua necessaria partecipazione e la previa instaurazione del contradditorio nei suoi confronti
che, ai sensi dell’art. 383 c. 3 c.p.c. data la ricorrenza di una nullità del giudizio di primo grado,
avrebbe dovuto indurre il giudice d’appello a rimettere le parti a quest’ultimo.
Le ricorrenti lamentano, in definitiva, che il preteso trasferimento della figlia a Palermo non era mai
avvenuto, per cui la revoca dell’assegnazione della casa familiare non avrebbe potuto essere disposta
in quanto la stessa non aveva mai perso la funzione di abitazione principale per B.B.
Il secondo motivo deduce nullità della sentenza impugnata e dell’intero procedimento “ab origine”,
per violazione e falsa applicazione degli artt. 70, n. 1, 72, 101, c. 1 e 2, 156, 163, c. 3, n. 2, 164 e 331
c.p.c., nonché dell’art. 5, c. 5, della legge n. 898 del 1970, in relazione agli artt. 111, c. 1 e 2, Cost. e 6
par. 1 CEDU, in ragione della violazione del contraddittorio nei confronti del Pubblico Ministero,
nell’ambito del giudizio conclusosi con sentenza definitiva n. 334/2023.
Sul punto, le ricorrenti eccepiscono la nullità della sentenza e dell’intero procedimento di primo e
secondo grado, per avere la Corte d’Appello confermato la decisione del Tribunale di Verona che
aveva rigettato la domanda di assegnazione della casa familiare ed ogni altra richiesta di A.A. e della
figlia chiamata in causa, senza che risulti alcuna notifica al Pubblico Ministero, quale litisconsorte
necessario, né il successivo avviso dell’udienza di precisazione delle conclusioni, né il deposito di
conclusioni scritte da parte di quest’ultimo, come rilevabile anche dallo storico del fascicolo (doc. 25
– fasc. Cass.).
Il terzo motivo denunzia nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa
applicazione degli artt. 4, c. 12, L. 898/1970 e 340 c.p.c., nonché degli artt. 112, 115, 116, 132, 324 c.p.c.,
in relazione all’asserito passaggio in giudicato della sentenza non definitiva, in ordine
all’assegnazione della casa coniugale e all’omesso esame della riserva di appello, proposta in sede di
costituzione.
Sul punto, si evidenzia che tale domanda era stata oggetto di apposita riserva di appello, ex art. 340
c. 1, c.p.c., nell’interesse della A.A., nella comparsa di costituzione in data 30/7/2019 nel giudizio di
primo grado; il pactum dolens riguardante tale doglianza si incentra sugli effetti della sentenza non
definitiva pronunciata in materia di divorzio.
Al riguardo, le ricorrenti assumono che la pronuncia della sentenza non definitiva è relativa solo allo
scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, ed il relativo giudicato potrà
formarsi solo sullo status; la riserva di appello era stata correttamente espressa anteriormente alla
prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza, in conformità con quanto stabilito
dall’art. 340 c.p.c., e la domanda era stata oggetto di impugnazione nell’atto di appello; pertanto il
dictum codicistico della riserva di impugnazione contenuta nell’art. 340 c.p.c. risulta ampiamente
rispettato, a nulla rilevando l’attestazione di preteso “passaggio in giudicato”, citata in sentenza, in
quanto erroneamente rilasciata – e, tutt’al più riferibile allo scioglimento o alla cessazione degli effetti
civili del matrimonio; la Corte di Appello, pertanto, nel valutare la richiesta di assegnazione della
casa coniugale, ha errato nel ritenere tale domanda passata in giudicato, soprattutto laddove non ha
valutato la richiesta di riserva di appello formulata nella comparsa e costituzione avvenuta prima
dell’udienza successiva alla comunicazione della sentenza, ex art. 340 comma 1 c.p.c.
Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 132 c. 2 n. 4 e 156 u.c. c.c., in
relazione all’omessa motivazione sulla domanda avente ad oggetto l’assegnazione della casa
familiare, svolta anche dalla figlia in proprio, quale soggetto non autosufficiente e invalida nella
misura del 75%, in quanto la Corte territoriale, ritenendo erroneamente la formazione del giudicato,
è venuta meno all’onere motivazionale sulle domande proposte da entrambe le ricorrenti, negando
la facoltà di modifica e riesame anche dei provvedimenti qualificabili come definitivi.
Sussisteva, pertanto, in merito a questa specifica censura, una palese violazione di legge, nonché una
manifesta illogicità e carenza della motivazione, ciò comportando la nullità della sentenza
impugnata.
Il quinto motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 337 sexies c.c., con riguardo alla
revoca dell’assegnazione della casa coniugale, per aver la Corte d’Appello redatto una motivazione
apparente circa le condizioni di salute di B.B. (affetta da una sindrome fibromialgica secondaria a
lassità legamentosa, altresì chiamata “Sindrome di Ehlers-Damlos EDS di tipo ipermobile”) e non
coerente con i fini di tutela della prole, per i quali l’istituto è sorto, stante che, come affermato dalla
Consulta, salvo che l’assegnazione non venga meno di diritto al verificarsi di una nuova convivenza
di fatto o nuovo matrimonio, “la decadenza dalla stessa deve essere subordinata ad un giudizio di
conformità all’interesse del minore” (C. Cost., sent. n. 308/2008).
Difatti, le ricorrenti assumono altresì che, terminato l’anno scolastico, la figlia aveva spostato
nuovamente la propria residenza in Legnago (VR), nel pieno rispetto degli accordi sottoscritti con la
scrittura privata del 25.07.2014, che i giudici del merito non hanno in alcun modo esaminato.
Il sesto motivo denunzia violazione e falsa applicazione artt. 156 u.c. c.c. e 709 c. 4 c.p.c. circa la
misura dell’assegno di mantenimento in favore della figlia, che non è stata congruamente motivata,
in ordine alla mancata rivalutazione in termini inferiori rispetto alla domanda, in virtù della
invalidità civile riconosciuta ad B.B. nella misura del 75%, e alla riconosciuta riduzione permanente
della capacità lavorativa dal 74% al 99% (artt. 2 e 13 L. 118/71 e 9/D.L. 509/88), senza tener conto che
già il Tribunale aveva evidenziato, nell’ordinanza del 17.01.2022, la graduale diminuzione del
reddito netto della A.A., la quale, per accudire la figlia si era gravata di tutte le ulteriori spese
mediche, essendo sottoposta alla cessione del 1/5 dello stipendio per fare fronte a tali oneri.
Il settimo motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., per aver la Corte
d’Appello condannato le ricorrenti al pagamento delle spese, omettendo di esaminare la riserva di
appello e affermando, erroneamente, la formazione del giudicato sulla domanda proposta dalle
appellanti.
L’ottavo motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 54, D.L. n. 83/2012 e ss.mm., ex L.
n. 134/2012, con riferimento al principio del minimo costituzionale in relazione all’omessa
motivazione e al mancato esame di più documenti decisivi per il giudizio, in particolare con riguardo
alla scrittura privata del 25/7/2014 (doc. 20), ai certificati di residenza di B.B., da cui si evinceva che
si era verificato uno spostamento provvisorio della residenza per ragioni di studio (doc. 21).
In particolare, le ricorrenti lamentano che la Corte territoriale aveva del tutto omesso di motivare la
propria decisione riguardante il rigetto della domanda di assegnazione della casa coniugale da loro
proposta nell’atto di appello in virtù della riserva formulata ex ante, fondando la relativa statuizione
su elementi, quali il passaggio in giudicato della domanda, non conformi alla realtà processuale.
Il ricorso va accolto nei limiti di cui si dirà.
Anzitutto, non è fondata l’istanza di rinvio a nuovo ruolo contenuta nella memoria illustrativa
presentata dalle ricorrenti, imperniata su una censura d’incostituzionalità dell’art. 380 bis per
asserita violazione del diritto di difesa nella fissazione delle udienze camerali.
Tale critica d’incostituzionalità, del tutto generica, non ha pregio poiché nel procedimento delle
decisioni camerali sui ricorsi per cassazione il diritto di difesa è del tutto garantito; né le istanti
specificano quale sarebbe la violazione paventata.
Il primo motivo è inammissibile. La Corte d’Appello, con la sentenza parziale n. …/2019, ha
dichiarato inammissibile il capo d’impugnazione riguardante la revoca dell’assegnazione della casa
familiare a favore delle ricorrenti, in quanto tale domanda era stata espressamente esaminata per
essere rigettata nel merito e, in difetto di impugnazione, tale questione non è più riesaminabile
essendosi su essa formato il giudicato che copre il dedotto ed il deducibile.
Al riguardo, la statuizione impugnata è conforme all’orientamento di questa Corte a tenore del
quale, il giudice che abbia pronunciato con sentenza non definitiva su alcuni capi di domanda,
continuando l’esame della causa per la decisione su altri, non può riesaminare le questioni già decise
con la sentenza non definitiva, neppure al fine di applicare nuove norme sopravvenute in corso del
procedimento, in quanto la nuova regolamentazione giuridica del rapporto va applicata dal giudice
dell’impugnazione avverso la sentenza non definitiva (Cass., n. 29321/21).
Le statuizioni contenute nella sentenza non definitiva possono essere riformate o annullate solo in
sede d’impugnazione, non con la sentenza definitiva successivamente resa (Cass., n. 10067/20).
Nella specie, la doglianza, nella sua prolissità, non coglie la ratio della sentenza impugnata, che ha
evidenziato la preclusione formatasi sulla questione della revoca dell’assegnazione della casa
familiare, senza la partecipazione al giudizio della figlia, con il formarsi del giudicato derivante dalla
mancata impugnazione della sentenza non definitiva, a nulla rilevando la prosecuzione del giudizio
per le altre questioni.
Il secondo motivo è parimenti inammissibile. Nel procedimento di divorzio fra coniugi con figli
minori o incapaci, a norma degli artt. 4 e 5 legge n. 898 del 1970 (come novellati dalla legge n. 74 del
1987), il Pubblico ministero è litisconsorte necessario in concorrenza con le parti private ed è titolare
di un autonomo potere di impugnazione in relazione agli interessi dei suddetti figli, con la
conseguenza che, ove uno dei coniugi abbia proposto appello avverso un capo della sentenza di
primo grado riguardante i predetti interessi, il relativo atto d’appello deve essere notificato anche al
P.M. presso il Tribunale e, in difetto di notifica, il giudice di secondo grado deve disporre
l’integrazione del contraddittorio nei suoi confronti a norma dell’art. 331 cod. proc. civ (Cass., n.
23379/2007).
Nella specie, il Pubblico Ministero è intervenuto nella prima fase del giudizio, conclusosi con la
sentenza parziale, mentre B.B. nelle more della prosecuzione del giudizio è divenuta maggiorenne.
Terzo, quarto e quinto motivo, esaminabili congiuntamente poiché tra loro connessi, sono invece
fondati.
Nelle conclusioni relative alla comparsa di risposta successiva alla sentenza parziale di primo grado
sul vincolo e sulla revoca dell’assegnazione della casa coniugale, la A.A. si “riservava” l’appello,
formulando un’istanza urgente ex art. 709, u.c., c.p.c. previgente- applicabile ratione temporis- sulla
modifica della statuizione della suddetta revoca adducendo circostanze nuove.
Invero, nel terzo motivo, nell’ultima parte, le ricorrenti allegano questo profilo assumendo che il
giudicato è modificabile rebus sic stantibus e che all’interno del giudizio possono essere dedotte
modifiche. L’art. 709, u.c., c.p.c., prevede infatti, che i provvedimenti temporanei ed urgenti assunti
dal presidente con l’ordinanza di cui all’art. 708 c. 3 c.p.c. possono essere modificati e revocati dal
giudice istruttore.
Su questa istanza la sentenza impugnata tace, limitandosi a dar conto del giudicato formatosi sulla
mancata formulazione della riserva d’appello, fatto che dunque, di per sé, nella fattispecie, non
precludeva la suddetta istanza a norma dell’art. 709, u.c., sulla quale la Corte d’Appello avrebbe
dovuto pronunciarsi.
Al riguardo, nell’ambito del procedimento di separazione personale dei coniugi, i provvedimenti
adottati dal giudice istruttore, ex art. 709, ultimo comma, cod. proc. civ., di modifica o di revoca di
quelli presidenziali, non sono reclamabili poiché è garantita l’effettività della tutela delle posizioni
soggettive mediante la modificabilità e la revisione, a richiesta di parte, dell’assetto delle condizioni
separative e divorzili, anche all’esito di una decisione definitiva, piuttosto che dalla moltiplicazione
di momenti di riesame e controllo da parte di altro organo giurisdizionale nello svolgimento del
giudizio a cognizione piena (Cass., n. 15416/2014).
Va altresì rilevato che anche la figlia ha formulato la domanda di assegnazione della casa coniugale
per la quale non è intervenuta la decisione della Corte territoriale.
Gli altri motivi sono da considerare assorbiti.
Per quanto esposto, in accoglimento dei motivi terzo, quarto e quinto, la sentenza impugnata va
cassata, con rinvio alla Corte d’Appello, anche in ordine alle spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo, quarto e quinto motivo del ricorso, nei limiti di cui in motivazione; dichiara
inammissibili il primo e il secondo motivo, assorbiti gli altri motivi.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Venezia, in diversa
composizione, anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
Dispone che ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196/03, in caso di diffusione della presente ordinanza
si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
Conclusione
Così deciso in Roma il 3 dicembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2025.

Incolpevole la non autosufficienza economica del figlio con patologia psichiatrica diagnosticata

Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 2 gennaio 2025 n. 32
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n…. /2024 R.G. proposto da:
A.A., rappresentato dall’avvocato …(Omissis) per procura speciale allegata al ricorso
– ricorrente-
contro
B.B.
– intimata –
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI – sezione distaccata di SASSARI –
n. 334/2023 depositata il 12/10/2023;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/12/2024 dal Consigliere CLOTILDE PARISE.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 54/2023, emessa in data 17.1.2023, il Tribunale di Sassari, dato atto che con
sentenza del 25.03.2022 aveva pronunciato lo scioglimento del matrimonio celebrato tra B.B. e A.A.,
rigettava, per quanto ora di interesse, la domanda della B.B. diretta alla condanna del resistente al
pagamento di un contributo al mantenimento del figlio C.C., nato il (Omissis), e rigettava la
domanda della ricorrente di assegnazione della casa coniugale sita in U alla Via (Omissis).
2. La Corte d’Appello di Cagliari, sez. distaccata di Sassari, con la sentenza n. 334/2023 pubblicata il
12-10-2023, accoglieva l’appello proposto dalla B.B. avverso la citata sentenza, poneva a carico del
padre, A.A., un contributo al mantenimento del figlio C.C. di Euro 250,00 mensili, da rivalutarsi
annualmente secondo indici ISTAT, ed assegnava la casa coniugale alla madre, dichiarando
interamente compensate tra le parti le spese di lite del procedimento.
3. Avverso la suddetta sentenza, A.A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei
confronti di B.B., che è rimasta intimata.
4. Il ricorso è stato fissato per la trattazione in camera di consiglio. Il ricorrente ha depositato
memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1. Il ricorrente denuncia: i) con il primo motivo la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 337
septies c.c., 2697 c.c. e 115 c.p.c., nonché la contraddittorietà della motivazione ex art. 360, comma 1
n. 5, c.p.c., per avere la Corte d’Appello ritenuto che la persistente condizione di non autosufficienza
economica del figlio (ultra)maggiorenne fosse dipesa esclusivamente dalle peculiari e specifiche
ragioni individuali di salute, omettendo ogni e qualsiasi valutazione circa l’effettivo carattere
invalidante delle patologie sofferte dal ragazzo e circa il suo comportamento inerziale nel ricercare
una occupazione; ii) con il secondo motivo la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 315 bis c.c.,
337 septies, comma 1, c.c., nonché il difetto di motivazione ex art. 360, comma 1 n. 5, c.p.c., per avere
la Corte di appello omesso ogni e qualsiasi valutazione in ordine alla raggiunta età matura del figlio
maggiorenne ed all’assoluta inerzia dello stesso nella ricerca di una occupazione; iii) con il terzo
motivo la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 337 ter, comma 4 c.c. e 337 septies, comma 2, c.c.,
nonché il difetto di motivazione ex art. 360, comma 1 n. 5, c.p.c. per avere la Corte di merito
quantificato l’importo dell’assegno di mantenimento dovuto dall’odierno ricorrente al figlio
maggiorenne senza tenere conto delle mutate – in peius, rispetto alla data di separazione – condizioni
economiche del padre.
2. I motivi primo e secondo, da esaminarsi congiuntamente per la loro stretta connessione, sono
infondati e in parte inammissibili.
2.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte che il Collegio condivide, in materia di
mantenimento del figlio maggiorenne e non autosufficiente, i presupposti su cui si fonda l’esclusione
del relativo diritto, oggetto di accertamento da parte del giudice del merito e della cui prova è
gravato il genitore che si oppone alla domanda di esclusione, sono integrati: dall’età del figlio,
destinata a rilevare in un rapporto di proporzionalità inversa per il quale, all’età progressivamente
più elevata dell’avente diritto si accompagna, tendenzialmente e nel concorso degli altri presupposti,
il venir meno del diritto al conseguimento del mantenimento; dall’effettivo raggiungimento di un
livello di competenza professionale e tecnica del figlio e dal suo impegno rivolto al reperimento di
una occupazione nel mercato del lavoro (Cass. n. 38366/2021); inoltre, l’onere della prova delle
condizioni che fondano il diritto al mantenimento – che è a carico del richiedente il mantenimento –
vertendo esso sulla circostanza di avere il figlio curato, con ogni possibile impegno, la propria
preparazione professionale o tecnica o di essersi, con pari impegno, attivato nella ricerca di un
lavoro, richiede una prova particolarmente rigorosa per il caso del “figlio adulto” in ragione del
principio dell’autoresponsabilità delle circostanze, oggettive ed esterne, che rendano giustificato il
mancato conseguimento di una autonoma collocazione lavorativa (Cass. n. 26875/2023; Cass.
12123/2024).
2.2. La Corte d’Appello si è attenuta ai suesposti principi, scrutinando tutti i profili di rilevanza,
contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, ed ha accertato, con motivazione congrua, sulla base
delle risultanze istruttorie, che la condizione di persistente mancanza di autosufficienza economico
reddituale del figlio maggiorenne fosse dipesa, in via diretta ed in modo incolpevole, da peculiari e
specifiche ragioni individuali di salute, che avevano, di fatto, impedito al ragazzo, fino al momento
della decisione, di reperire una attività lavorativa. In particolare, la Corte di merito ha rimarcato che
C.C. (nato nel (Omissis)) era affetto da depressione maggiore cronicizzata, disturbo post traumatico
da stress e insonnia reattiva, causate dagli episodi di aggressività fisica e verbale posti in essere dal
padre nei confronti della madre, che avevano profondamente turbato il ragazzo. A quest’ultimo era
stata riconosciuta nel 2021 una provvidenza in base alla legge regionale n. 15/1992 proprio in
relazione alla suddetta infermità, in quanto rientrante tra quelle indicate nell’allegato A della citata
legge come invalidante.
Infine, la Corte territoriale ha rilevato che la patologia psichiatrica era stata diagnosticata nel febbraio
2020, ossia pochi mesi dopo la sentenza di separazione, pronunciata tra le parti nel settembre 2019,
quando C.C. aveva già compiuto 20 anni, e che con la suddetta sentenza era stato riconosciuto per il
figlio il contributo di mantenimento a carico del padre, per l’importo mensile di Euro 250,00, pari a
quello riconosciuto con la sentenza ora impugnata. La Corte d’Appello ha, quindi, ritenuto che fosse
incolpevole la persistente mancanza di autosufficienza economica del figlio, “allo stato, anche tenuto
conto dell’età del ragazzo e del breve tempo intercorso dalla sentenza di separazione e dalla diagnosi
medica”, così facendo corretta applicazione dei principi suesposti.
Neppure coglie nel segno il rilievo del ricorrente circa l’asserita contraddittorietà della motivazione
in quanto resa “allo stato”, poiché all’evidenza si tratta di una decisione emessa rebus sic stantibus,
per essere la situazione del figlio rivalutabile nel futuro, ad esempio anche in ipotesi di
miglioramento della sua infermità psichica.
2.3. Le censure sono inammissibili nella parte in cui si risolvono in una critica alla valutazione delle
risultanze probatorie, in ordine alla natura invalidante della patologia, che la Corte di merito ha
accertato in fatto con motivazione adeguata, mediante richiamo delle certificazioni mediche e di
quanto risultante per effetto della concessione al ragazzo di provvidenze spettanti in base alla legge
regionale citata.
3. Il terzo motivo è inammissibile.
La doglianza è generica e difetta di autosufficienza, poiché nel ricorso non si indica compiutamente
quando, come e dove sia stato allegato nei giudizi di merito il peggioramento, non menzionato nella
sentenza impugnata, delle condizioni economiche dell’odierno ricorrente. Inoltre neppure è
precisato in che termini ed in quale entità il suddetto peggioramento si sarebbe concretizzato, atteso
che il ricorrente si limita a richiamare le dichiarazioni dei redditi “in atti” (pag. 14 ricorso). Altrettanto
vaghe sono le deduzioni critiche circa l’assegnazione della casa familiare alla madre, che
correttamente è stata disposta dalla Corte d’Appello, in quanto la casa familiare deve essere
assegnata tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli minorenni e dei figli maggiorenni
non autosufficienti a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti, per garantire il
mantenimento delle loro consuetudini di vita e delle relazioni sociali che in tale ambiente si sono
radicate (Cass. 25604/2018).
4. In conclusione, il ricorso va complessivamente rigettato.
Nulla va disposto in ordine alle spese di lite del presente giudizio, stante il mancato svolgimento di
attività difensiva della parte intimata.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis
dello stesso art. 13, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti
e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso
art. 13, ove dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 2 gennaio 2025.

Riconoscimento del diritto agli alimenti alla figlia per riduzione parziale della capacità lavorativa

Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 9 dicembre 2024 n. 31555
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. …/2023 R.G. proposto da
A.A., rappresentato e difeso dall’avvocato …(OMISSIS) per procura speciale allegata al ricorso
-ricorrente-
contro
B.B., rappresentata e difesa dall’avvocato …(OMISSIS) per procura speciale allegata al controricorso
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di TORINO n. 437/2023 depositata il 04/05/2023;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10/10/2024 dal Consigliere CLOTILDE PARISE.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 135/2022 il Tribunale di Torino rigettava la domanda di mantenimento proposta
da B.B., e dichiarava in capo alla stessa, il diritto alla percezione di un assegno alimentare posto a
carico del padre, A.A., nella misura di Euro 350,00 mensili; condannava il convenuto al pagamento
delle spese del giudizio in favore della figlia in misura di 2/3; compensava le spese di lite tra le parti
per la restante quota; poneva altresì le spese di CTU, per la quota di 2/3 a carico del convenuto e per
la restante parte a carico dell’attrice.
2. Con sentenza n.437/2023 pubblicata il 4-5-2023 la Corte d’Appello di Torino, per quanto ora di
interesse, ha rigettato l’appello principale proposto da A.A. avverso la citata sentenza del Tribunale.
3. Avverso questa sentenza A.A. propone ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, resistito con
controricorso da B.B.
4. All’esito di istanza di sollecita trattazione presentata da parte ricorrente, il ricorso è stato fissato
per la trattazione in camera di consiglio. Le parti hanno depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
1. Il ricorrente denuncia a) con il primo motivo la violazione e falsa applicazione degli artt. 438,
comma 1 e 2697, comma 1, c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per
avere la Corte d’Appello ritenuto che il riconoscimento del diritto agli alimenti fosse subordinato
alla “incolpevole incapacità di provvedere al proprio sostentamento” (elemento soggettivo) e non,
come previsto dall’art. 438 c.c., alla “impossibilità di provvedere al proprio sostentamento” (elemento
oggettivo); b) con il secondo motivo la violazione e falsa applicazione degli art. 438, comma 1 c.c.,
artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte di merito ritenuto
che l’art. 438 citato potesse consentire il riconoscimento del diritto agli alimenti anche solo per la
sussistenza di una riduzione parziale della capacità lavorativa generica, e non richiedesse al
contrario la prova della impossibilità oggettiva di provvedere al proprio sostentamento; c) con il
terzo motivo la violazione e falsa applicazione degli art. 438, comma 1 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., in
relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte d’Appello ritenuto che la disponibilità
di ingenti somme da parte della figlia non comportasse l’insussistenza dello stato di bisogno e la
possibilità di provvedere al proprio mantenimento; d) con il quarto motivo la violazione e falsa
applicazione degli art. 438, comma 1 e 2697, comma 1, c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art.
360 c.p.c., co. 1, n. 3, per avere la Corte di merito ritenuto che una CTU meramente “referente” su
alcuni degli elementi costitutivi della fattispecie del diritto agli alimenti potesse costituire fonte di
prova sulla quale fondare il riconoscimento del diritto agli alimenti alla figlia; e) con il quinto motivo
la violazione e falsa applicazione degli art. 438, comma 1 e 2697, comma 1, c.c., artt. 115 e 116 c.p.c.,
in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici d’appello fondato il giudizio su mere
“deduzioni” circa l’impossibilità da parte della B.B. di mantenersi economicamente; f) con il sesto
motivo la violazione e falsa applicazione degli art. 438, comma 1 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione
all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la Corte di merito svolto alcuna valutazione circa
l’esistenza dell’altro elemento della capacità economica dell’obbligato, tale da poter sopportare
l’onere degli alimenti.
2. I motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro stretta connessione, sono in parte infondati e
in parte inammissibili.
2.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte che il Collegio condivide, il diritto agli
alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche della impossibilità di
provvedere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di un’attività
lavorativa, sicché, ove l’alimentando non provi la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica o
l’impossibilità, per circostanze a lui non imputabile, di trovarsi un’occupazione confacente alle
proprie attitudini e alle proprie condizioni sociali, la relativa domanda deve essere rigettata
(Cass.21572/2006). È stato altresì precisato (Cass. 11889/2015; Cass. 33789/2022) che lo stato di
bisogno deve essere connotato da una oggettiva impossibilità di soddisfare i bisogni primari con
proprie fonti o attingendo anche da una rete solidale, per quanto non giuridicamente vincolante e
però sostanzialmente fruibile e continuativa e deve essere valutato in relazione alle effettive
condizioni dell’alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo
disponga, compresi i redditi ricavabili dal godimento di beni immobili in proprietà o in usufrutto, e
della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie (così anche Cass.25248/2013).
2.2. Nel caso di specie la Corte di merito, sulla scorta dell’accertamento peritale effettuato in primo
grado e degli elementi probatori acquisiti, ha fatto corretta applicazione dei suesposti principi, e,
dopo aver dato conto delle complesse patologie fisiche da cui era affetta la controricorrente e della
situazione anche psicologica in cui si trovava, ha affermato che la B.B. non era, allo stato,
“concretamente in grado di attivarsi per reperire (e per mantenere) una occupazione lavorativa,
seppur astrattamente compatibile con la propria formazione universitaria e con le proprie condizioni
e limitazioni fisiche (ad esempio riprendendo le traduzioni a domicilio)”. In particolare la Corte di
merito ha condiviso la valutazione effettuata dal Tribunale, secondo cui la malattia rara (“displasia
neuronale viscerale, interessante il tubo digerente, con sintomatologia insorta nell’infanzia, con
stipsi ostinata”) da cui è affetta la figlia del ricorrente aveva comportato, a partire dal 2013, interventi
chirurgici e cure costanti. Era inoltre emersa “, pur a fronte di una pregressa istruzione universitaria
ed attività lavorativa come traduttrice per alcune case editrici e privati, una attuale (dal 2013 ad oggi)
situazione di ritiro sociale, assenza di occupazione, continua necessità di dedicarsi a specifiche
manovre fisiologiche derivanti dalla patologia, con impossibilità di uscire di casa se non per poco
tempo ed in dipendenza dalle condizioni fisiche del momento; la signora è risultata di umore
deflesso, con note ansiose, affetta da “attendibile disturbo alimentare in magrezza grave”. Il
consulente ha riconosciuto alla stessa una riduzione della capacità lavorativa generica, in rapporto
ai quadri morbosi coesistenti, del 67%”.
Sulla base di tali risultanze, la Corte di merito ha quindi concluso ritenendo “sussistente,
quantomeno ad oggi, di fatto, uno stato di bisogno dovuto ad una incolpevole capacità di
provvedere al proprio sostentamento”.
A fronte di tale congruo percorso motivazionale, la censura espressa con il primo motivo non coglie
nel segno, poiché con la locuzione “incolpevole incapacità di provvedere al proprio sostentamento”
la Corte di merito non ha affatto inteso, contrariamente a quanto si sostiene in ricorso, valorizzare
un elemento soggettivo, ma proprio, invece, l’impossibilità concreta dell’alimentanda, allo stato, “di
attivarsi per reperire (e per mantenere) una occupazione lavorativa” , così come previsto dall’art. 438
c.c.
2.3. Le doglianze espresse con gli altri motivi sono inammissibili perché non si confrontano
compiutamente con la motivazione della sentenza impugnata o sollecitano impropriamente il
riesame del merito.
Nello specifico, la Corte d’Appello ha dato atto che la controricorrente non ha più lavorato, come
traduttrice a domicilio, solo da quando le sue condizioni di salute sono peggiorate e ha subito una
serie ravvicinata di interventi chirurgici (e non da venti anni come si assume in ricorso) e non ha
affatto basato il proprio convincimento sulla sola sussistenza di una riduzione parziale della capacità
lavorativa generica (secondo motivo), ma sulla complessiva situazione fisica e psichica riscontrata
dal C.T.U. e valutata all’attualità, ed anzi ha auspicato che l’alimentanda trovi un supporto “in quelle
difficoltà collaterali (ad esempio nell’alimentazione, che la stessa ha riferito essere attualmente solo
liquida), anche di natura verosimilmente psicologica, che le hanno reso sino ad oggi concretamente
non spendibile neppure quella residua capacità lavorativa alla stessa riconosciuta dal consulente”.
I motivi terzo (ingenti disponibilità economiche della controricorrente), quarto (CTU “referente”) e
quinto (convincimento basato su mere deduzioni) denunciano la violazione degli artt. 428 c.c. e 115
e 116 c.p.c., ma in realtà si tratta di doglianze impropriamente dirette al riesame dei fatti. La Corte
d’Appello ha preso in considerazione la situazione economica della controricorrente, in particolare
l’aiuto anche economico consistente datole negli anni dallo zio materno, ma ne ha escluso
motivatamente la rilevanza ai fini che qui interessano, così affermando “Il lodevole aiuto, di carattere
materiale e non solo, fornito alla sig.ra B.B., da circa 20 anni (sostanzialmente dal decesso della
madre) dallo zio materno non può essere utilizzato né per escludere lo stato di bisogno dell’appellata
(atteso che le somme erogate sono ovviamente soggette ad inevitabile erosione in assenza di redditi
periodici) né per esonerare il padre dal proprio onere di solidarietà familiare”.
Le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio hanno consentito di accertare la reale condizione
fisica e psichica dell’alimentanda e le conclusioni peritali sono state condivise dalla Corte d’Appello
e, prima, dal Tribunale in quanto basate su riscontri oggettivi e documentati. La motivazione della
sentenza impugnata è congrua e pienamente comprensibile, nonché ancorata a dati di riscontro e
sorretta da un ragionamento logicamente argomentato.
2.4. Il sesto motivo è parimenti inammissibile, perché anche le condizioni dell’obbligato sono state
esaminate. Nello specifico la Corte d’Appello ha riconosciuto l’assegno di Euro350 mensili, a fronte
dei redditi pensionistici -circa Euro 2.000,00 mensili- del padre, non gravato da oneri abitativi, in
quanto titolare di due immobili. La censura è, in realtà, impropriamente diretta a sollecitare il
riesame dei fatti.
3. In conclusione, il ricorso va complessivamente rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo in favore della
controricorrente, parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato con provvedimento del 28-11-2023,
disponendo, ai sensi dell’art.133 del D.P.R. n. 115 del 2002, il pagamento in favore dell’Erario.
Ai sensi dell’art.13 D.P.R. 30/05/2002, n. 115, ART. 13 (L) – (Importi) , comma 1-quater del D.P.R. 115
del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte
del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il
ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso art.13, ove dovuto (Cass. S.U.
n.5314/2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione in favore della controricorrente delle
spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 3.500,00, oltre spese prenotate a debito,
disponendo il pagamento in favore dell’Erario.
Ai sensi dell’art.13, comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso
art.13, ove dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma il 10 ottobre 2024.
Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2024.

Il reato di maltrattamenti in famiglia non è escluso per effetto della maggiore capacità di resistenza dimostrata dalla persona offesa

Cass. Pen., Sez. VI, Sent., 31 dicembre 2024, n. 47648
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza sopra indicata, la Corte di appello di Roma confermava la sentenza emessa il 21
aprile 2023 con la quale il Tribunale di Cassino aveva condannato A.A. alla pena ritenuta di giustizia
in quanto ritenuto responsabile dei reati di maltrattamenti in famiglia e di lesioni personali commessi
ai danni della ex compagna B.B.
2. Ha proposto ricorso A.A., con atto sottoscritto dal suo difensore, affidato ad un unico articolato
motivo, con cui ha dedotto:
– violazione di legge, in relazione agli artt. 572 cod. pen., 125 e 192 cod. proc. pen., e vizio di
motivazione per omissione, illogicità e manifesta contraddittorietà, per avere la Corte di appello
sussunto la fattispecie concreta nel paradigma normativo dell’art. 572 cod. pen. nonostante la breve
durata della convivenza e la omessa indicazione da parte della presunta persona offesa di precisi e
dettagliati episodi di vessazione, collocabili nel ristretto periodo di convivenza.
Gli episodi – descritti nella imputazione e/o riferiti dalla persona offesa – si collocavano in un periodo
o antecedente o immediatamente successivo alla convivenza (iniziata a febbraio del 2021 e cessata
all’incirca un anno dopo, il 22 febbraio 2022), di guisa che non era configurabile il reato di
maltrattamenti in famiglia: reato che – in assenza di prole – presuppone l’abitualità delle condotte
vessatorie e di prevaricazione nell’ambito di un effettivo e stabile rapporto di convivenza.
Né il Tribunale né la Corte di appello avevano indicato il quantum e il quomodo degli episodi di
aggressione fisica e/o di vessazioni che la B.B. avrebbe subito nel ristretto periodo di convivenza: il
narrato era generico, inconsistente e privo di riscontri, anzi smentito dai testi a discarico, alcuni dei
quali avevano esplicitamente riferito in ordine ad atteggiamenti “reattivi” da parte della donna nei
confronti del A.A.
Motivi della decisione
1. Ritiene la Corte che il ricorso non superi il preliminare vaglio di ammissibilità perché generico,
declinato in fatto e manifestamente infondato.
2. Non è consentito il motivo di ricorso con cui è stata dedotta la violazione dell’art. 192 cod. proc.
pen. in relazione all’art. 125 cod. proc. pen. per censurare l’omessa od erronea valutazione della prova
dichiarativa (rectius dichiarazioni della persona offesa): i limiti all’ammissibilità delle doglianze
connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. non
possono essere superati ricorrendo al motivo dì cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella
parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità,
inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza (Sez. 1, n. 1088 del 26/11/1998, dep. 1999, Condello,
Rv. 212248; Sez. 6, n. 45249 del 08/11/2012, Cimini, Rv. 254274; Sez.2, n. 38676 del 24/05/2019,
Onofri, Rv. 77518).
Al riguardo la Corte di cassazione ha chiarito che la riconduzione dei vizi di motivazione di cui alla
lett. e) alla categoria di cui alla lettera c) stravolgerebbe l’assetto normativo delle modalità di
deduzione dei predetti vizi, che limita la deduzione ai vizi risultanti “dal testo del provvedimento
impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” (lett. e)),
laddove, ove se fossero deducibili quali vizi processuali ai sensi della lettera c), in relazione ad essi
questa Corte di legittimità sarebbe gravata da un onere non selettivo di accesso agli atti (così Sez. U,
n 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027-02).
3. Oltre il perimetro normativo si pone anche la doglianza formulata in termini di violazione di legge,
in relazione all’art. 572 cod. pen., perché la difesa non ha introdotto questioni relative alla errata
soluzione di una questione di diritto, attinenti propriamente ad una erronea interpretazione della
norma incriminatrice oggetto di addebito ovvero ad una sua erronea applicazione, ma piuttosto – nel
contestare l’abitualità delle condotte vessatorie e lo stato di soggezione della persona offesa, anche
per la particolare reattività manifestata dalla B.B. – ha sostanzialmente sollecitato, come si avrà modo
di sottolineare, una ridefinizione di questioni di fatto già decise dai giudizi di merito, operazione che
non è consentita in sede di legittimità, in assenza di uno dei vizi della motivazione codificati dalla
disciplina del codice del processo penale.
4. Il motivo – con cui è stato dedotto il vizio di motivazione- è inammissibile perché generico e
presentato per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.
4.1. Il ricorrente – nel contestare la mancata individuazione di condotte vessatorie nel periodo di
effettiva convivenza e la mancata valutazione della reattività della donna – rimanda a questioni di
fatto sollecitando una diversa ricostruzione della vicenda sub iudice, nella sua oggettiva materialità e
storicità, alternativa rispetto a quella privilegiata dalla Corte territoriale e senza realmente “dialogare”
con gli argomenti che i giudici di merito avevano posto a fondamento delle proprie decisioni.
4.2. La Corte distrettuale- anche attraverso il richiamo recettizio alla trama motivazionale della
decisione impugnata (operazione, questa, pacificamente consentita in presenza di una “doppia
conforme”) -ha fornito una valutazione esaustiva e analitica della res iudicanda.
È stata congruamente scrutinata la credibilità e l’attendibilità della persona offesa, il cui racconto
rinveniva oggettivo riscontro anche nelle concordi dichiarazioni di alcuni amici della coppia,
destinatari delle confidenza della giovane ma anche testimoni oculari dei segni e dei lividi che le
percosse avevano lasciato sul corpo della donna : A.A., spesso in preda ai fumi dell’alcol sin dalle
prime ore del mattino, aveva assunto nei confronti della compagna convivente, atteggiamenti sempre
più aggressivi, verbali e fisici, tanto da ingenerare un clima di tensione e uno stato di crescente ansia
nella B.B. che – a seguito dell’ennesimo allarmante episodio di violenza occorso il 22 febbraio 2022-
aveva deciso di interrompere definitivamente la relazione e la convivenza (cfr sentenza del Tribunale
pagg. 3 e ss.; sentenza della Corte di appello pagg. 2).
4.3. Analogamente i Giudici di merito non sottraevano al compito di valutare anche la prova a
discarico, rilevandone la scarsa significanza probatoria per essere la maggioranza degli episodi di
vessazione accaduti tra le mura domestiche e quindi in assenza di testimoni.
4.4. Né la prospettata “reattività” della B.B. è argomentazione in grado di destrutturare e minare la
tenuta logica della sentenza impugnata.
L’argomentazione difensiva non coglie nel segno dal momento che il reato di maltrattamenti in
famiglia è, comunque, configurabile nel caso in cui le condotte violente o sopraffattrici non integrino
l’unico registro di comunicazione con il familiare vessato, potendo anche accadere che le abituali
vessazioni, capaci di cagionare sofferenze, privazioni ed umiliazioni, siano intervallate da condotte
“normali” e persino dallo svolgimento di attività anche gratificanti per la parte lesa: ciò tenuto conto
che il reato non è escluso per effetto della maggiore capacità di resistenza dimostrata dalla persona
offesa o da momenti di reattività della stessa, non essendo elemento costitutivo della fattispecie
incriminatrice la riduzione della vittima a stabile succube dell’agente ovvero una totale soggezione
della persona offesa (in questo senso, tra le diverse, Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, B., Rv. 285273;
Sez. 6, n. 809 del 17/10/2022, dep. 2023, P., Rv. 284107-01; Sez. 6, n. 4015 del 04/03/1996, G., Rv.
204653).
Ed invero, in considerazione della natura abituale del reato (Sez.6, n. 4935 del 23/01/2019, Moreschi
Rv. 274617; Sez. 6, n. 37019 del 27/05/2003, Caruso, Rv. 226794), non è necessario che le condotte
vengano realizzate per un tempo prolungato; non rileva che durante lo stesso periodo la condotta
dell’imputato sia stata, in alcune fasi e momenti, “corretta”; non è significativo che si riscontrino
periodi di normalità o di accordo con il soggetto passivo; non è necessaria l’intenzione di sottoporre
la vittima, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la
consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria(così, tra le tante, Sez. 6, n. 15146 del
19/03/2014, Rv. 259677; Sez. 6, n. 25183 del 19/06/2012, Rv. 253042)
4.5. In una tale prospettiva, il provvedimento impugnato sfugge a censure di illogicità e rimane
indenne da vulnus motivazionali, vieppiù al cospetto di doglianze che o rifuggono da un compiuto
confronto critico con le argomentazioni spese dai giudici di merito o enunciano, in modo assertivo,
la mancata individuazione di episodi specifici e/o di un numero minimo di condotte maltrattanti, o
evocano apoditticamente un concetto di parità tra le parti nel tentativo di ridimensionare la gravità
della vicenda per cui è processo.
5. Alla inammissibilità del ricorso consegue – ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. – la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della Cassa delle
ammende, che si stima equo fissare in tremila euro, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità (vedi Corte Cost., sent. n 186 del 13 giugno 2000).
Il ricorrente, in quanto soccombente, va altresì condannato al pagamento delle spese di costituzione
e di difesa sostenute dalla parte civile anche nel presente grado di giudizio, nella misura che sarà
liquidata dalla Corte di appello di Roma con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82
e 83 D.P.R. n. 115/2002 essendo stata la parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla
rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile
ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di
Roma con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. n 115/2002
disponendo il pagamento in favore dello Stato.
Così deciso in Roma il 3 dicembre 2024.
Depositata in Cancelleria il 31 dicembre 2024.

Allontanamento dalla casa familiare in relazione al reato di maltrattamenti

Cass. Pen., Sez. VI, sentenza 13 dicembre 2024 n. 45846
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.A., nato il (omissis) a R;
avverso la ordinanza del 6/05/2024 del Tribunale del riesame di Roma;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Maria Sabina Vigna;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Tomaso
Epidendio, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con l’ordinanza impugnata il Tribunale del riesame di Roma ha confermato l’ordinanza emessa il
23 aprile 2024 dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Roma, che applicava a A.A. la
misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare in relazione al reato di maltrattamenti nei
confronti della compagna e dei figli della stessa.
Il compendio indiziario è costituito dalla denuncia querela della persona offesa e dal verbale dei
carabinieri della stazione di O – testimoni di uno degli episodi di maltrattamento – in data 22 aprile
2024.
La donna riferiva che, sin dall’inizio della convivenza risalente al 2020, l’indagato si era dimostrato
particolarmente aggressivo verbalmente, offendendola, denigrandola e minacciandola fino
all’attualità.
2. Avverso l’ordinanza ricorre per cassazione l’indagato deducendo i vizi di annullamento di seguito
sintetizzati ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Violazione di legge, anche processuale, e vizio di motivazione in relazione agli artt. 572 cod. pen.
273 e 282-bis e ter cod. proc. pen.
Avrebbe errato il Tribunale nel ritenere attendibile intrinsecamente la persona offesa. A parte l’unico
episodio di quasi flagranza del 22 aprile 2024, sul quale si basa il verbale dei carabinieri, le pregresse
condotte vessatorie che l’indagato avrebbe posto in essere si fondano esclusivamente sul racconto
della vittima senza riscontro alcuno. Nell’aprile 2024, inoltre, l’indagato aveva avuto un alterco con
la sua convivente perché aveva ricevuto fotografie che la ritraevano con un altro uomo. La persona
offesa avrebbe reso le dichiarazioni accusatorie nei confronti di A.A. solo per sminuire le ragioni per
le quali l’indagato aveva reagito alla sua presunta infedeltà.
2.2. Violazione di legge, anche processuale, e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza delle
esigenze cautelari.
Il Tribunale del riesame ha ritenuto l’indagato una persona dalla scarsa capacità di autocontrollo,
verosimilmente riconducibile all’abuso di cocaina. In realtà non sussiste alcun indizio atto a
desumere tale circostanza.
Non è ravvisabile il pericolo di reiterazione della condotta: l’indagato non avrebbe avuto alcuna
ragione di minacciare l’ex convivente di cambiare la serratura per impedire a lei e ai suoi figli di
entrare nell’abitazione familiare, posto che di quell’abitazione egli era mero conduttore e destinatario
di intimazione di sfratto.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile poiché il ricorrente, per un verso, propone censure costituenti mera
replica delle deduzioni già mosse col ricorso per riesame e non si confronta con le – adeguate –
risposte date dal Tribunale, con ciò omettendo di assolvere la tipica funzione di una critica
argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e altri,
Rv. 243838); per altro verso, sollecita una rivalutazione di puro merito delle emergenze processuali,
non consentita a questa Corte di legittimità (ex plurimis Sez. U., n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv.
226074).
2. Deve preliminarmente sottolinearsi che l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273
cod. proc. pen. e delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 stesso codice è rilevabile in cassazione
soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme dì legge od in mancanza o manifesta
illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato, con la conseguenza
che il controllo di legittimità non concerne né la ricostruzione dei fatti, né l’apprezzamento del
giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e concludenza dei dati probatori, onde
sono inammissibili quelle censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono
nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito
(Sez. F., n. 47748 del 11/08/2014, Contarini, Rv. 261400).
3. Nel caso in esame, la censura sollecita rivalutazioni di merito in ordine all’attendibilità della
persona offesa a fronte dell’applicazione di corretti criteri valutativi da parte del Tribunale e di
logiche e specifiche indicazioni (cfr. p. 3 dell’ordinanza) idonee a sostenere le conclusioni del
medesimo Tribunale in termini di attendibilità (per tutte, tra le tante, Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018,
Ferri, Rv. 273217).
Né è consentito in questa sede valutare direttamente il significato probatorio delle evidenze sul quale
si è fondato il convincimento dei giudici.
Quel che rileva è che la motivazione, con i richiami diretti agli elementi investigativi di supporto,
appare coerente, lineare e non affetta da illogicità manifeste.
Il ricorrente, tra l’altro in modo aspecifico, si concentra su singoli aspetti del ragionamento del
Tribunale, perdendo di vista le complessive evidenze investigative richiamate dalla ordinanza
impugnata.
3.1. Il Tribunale del riesame ha congruamente argomentato la conferma del giudizio sulla gravità
indiziaria, con solido ancoraggio alle emergenze investigative e con un ragionamento scevro da
illogicità manifesta, dando conto della credibilità del narrato della persona offesa e dei riscontri
obbiettivi ad esso (sia pure non necessari, v. Sez. U., n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte ed altri, Rv.
253214, nonché, tra le più recenti, Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104).
4. In ordine al secondo motivo deve rilevarsi come la censura manifesti un mero – e palesemente
infondato – dissenso valutativo in ordine alla valutazione di pregnanza delle esigenze cautelari,
senza confrontarsi con logiche e specifiche indicazioni contenute nel provvedimento impugnato a
loro sostegno.
Occorre osservare che, qualora risulti che, successivamente alla pronuncia del Tribunale del riesame,
effettivamente, a seguito di sfratto, la persona offesa non viva più nella casa familiare, sarà il G.i.p. a
dovere modificare il contenuto della misura cautelare.
5. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali. In
ragione delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e
considerato che si ravvisano ragioni di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità,
deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00
in favore della Cassa delle ammende.
Dispone, a norma dell’art. 52 D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, che sia apposta, a cura della cancelleria,
sull’originale del provvedimento, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della
presente sentenza in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi
degli interessati riportati in sentenza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di Euro tremila a favore della Cassa delle ammende.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2024.
Depositata in cancelleria il 13 dicembre 2024.

Il minore è erede con la dichiarazione di accettazione del suo legale rappresentante

Cass. Civ., Sez. Unite, sentenza 6 dicembre 2024 n. 31310
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE UNITE CIVILE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. …/2018 R.G. proposto da:
A.A. e B.B., rappresentati e difesi per procure alle liti allegate al ricorso dall’Avvocato …domiciliati
ex lege presso la Cancelleria della Corte di cassazione in Roma, piazza Cavour.
Ricorrenti
Contro
UBI Banca Spa, con sede in Bergamo, in persona del procuratore speciale dott.ssa C.C. in forza di
atto del 22. 12. 2017 nn. 5376/3349 del notaio dott. D.D., rappresentata e difesa per procura alle liti a
margine del controricorso dagli Avvocati…, elettivamente domiciliata presso lo studio di
quest’ultimo in Roma, via….
Controricorrente
avverso la sentenza n. …/2017 della Corte di appello di Venezia, pubblicata il 2. 11. 2017.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 22. 10. 2024 dal consigliere Mario Bertuzzi.
Udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Carmelo
Celentano, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Uditi l’Avv. …per i ricorrenti e l’Avv…., per delega dell’Avv…., per la controricorrente.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione del 2014 A.A. e B.B. proposero dinanzi al Tribunale di Padova opposizione
all’esecuzione intrapresa nei loro confronti dal Banco di Brescia per il pagamento delle rate di mutuo
acceso dal loro genitore E.E., deceduto il (Omissis), eccependo che, avendo rinunciato all’eredità
paterna entro l’anno dal raggiungimento della maggiore età, ai sensi dell’art. 489 cod. civ., non
potevano rispondere del debito.
Nel contraddittorio delle parti il Tribunale respinse l’opposizione, rappresentando che, quando gli
attori erano ancora minorenni, la loro madre, F.F., aveva accettato, a loro nome e nel loro interesse,
l’eredità con beneficio di inventario, sicché la rinuncia da loro fatta successivamente era inefficace.
Proposto gravame, con sentenza n. 2464 del 2.11.2017 la Corte di appello di Venezia confermò la
decisione di primo grado.
Motivò tale conclusione sulla base dell’affermazione che l’eredità devoluta al minore e accettata dal
genitore con beneficio di inventario comporta, anche nel caso in cui l’inventario non sia redatto,
l’acquisto della qualità di erede da parte del minore. L’art. 489 cod. civ., infatti, attribuisce al minore,
una volta raggiunta la maggiore età, solo la facoltà di redigere l’inventario nel termine di un anno,
non anche di rinunciare all’eredità, come confermato dal fatto che la rinuncia non è sottoposta a
forme di pubblicità. Escluse inoltre ogni efficacia nel giudizio pendente alla sentenza della
Commissione tributaria provinciale di Padova, che aveva invece dichiarato valida la rinuncia
all’eredità fatta da A.A., rilevando che essa non era opponibile alla banca convenuta, che non aveva
partecipato a quel giudizio, e che il giudicato non era stata tempestivamente eccepito e documentato.
Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 2.5.2018, hanno proposto ricorso A.A. e
B.B., affidandosi a tre motivi.
UBI Banca Spa, subentrata al Banco di Brescia, ha notificato controricorso.
Successivamente ha depositato memoria di costituzione Intesa SanPaolo Spa, incorporante per
fusione UBI Banca.
Fissata per la trattazione la pubblica udienza, con ordinanza interlocutoria n. 34852 del 13.12.2013 la
decisione della causa è stata rimessa alle Sezione unici civili della Corte.
Il P.M. e le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso, nel denunciare la violazione degli artt. 471 e 484 cod. civ. in relazione
all’art. 489 c.c., censura la sentenza impugnata rappresentando che il principio da essa affermato si
pone in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, espresso con le pronunce
n. 9514 del 2017 e n. 4561 del 1988, secondo cui l’accettazione dell’eredità ex art. 484 cod. civ. da parte
del legale rappresentante del minore, che non sia seguita dalla redazione dell’inventario, non
comporta nei confronti dello stesso l’acquisto della qualità di erede, con l’effetto che egli, entro l’anno
dal conseguimento della maggiore età, può rinunziarvi. Tale conclusione si giustifica alla luce della
configurazione dell’accettazione con beneficio di inventario in termini di fattispecie a formazione
progressiva, i cui effetti si producono solo con il suo completamento e, quindi, con la redazione
dell’inventario.
Il secondo motivo lamenta la violazione degli artt. 471, 484 e 489 cod. civ., in relazione agli artt. 519
e 521 e seguenti cod. civ., per avere la Corte di merito infondatamente ritenuto che l’inefficacia della
rinuncia all’eredità effettuata dagli opponenti trovasse una conferma normativa nella mancata
previsione di forme di pubblicità per renderla conoscibile ai terzi, trascurando che l’ordinamento
contempla strumenti per ovviare ad una trascrizione errata e che è prioritario evitare che l’incapace
risulti erede pur a fronte di un’eredità dannosa.
Il terzo motivo deduce la violazione degli artt. 2908 e 2909 cod. civ., sostenendo che la qualità di
rinunciante all’eredità in capo ai ricorrenti era stata accertata con sentenza passata in giudicato della
Commissione tributaria provinciale di Padova, che, avendo statuito sullo status di erede, aveva
efficacia erga omnes, non rilevando che al giudizio non avesse partecipato anche la Banca
procedente.
2. Con ordinanza interlocutoria n. 34852 del 13.12.2023 la Seconda Sezione civile ha rimesso a queste
Sezioni unite la decisione del ricorso, per la presenza, con riguardo alla questione giuridica posta
dal primo motivo, di soluzioni contrastanti nella giurisprudenza di questa Corte e reputando
comunque la questione di particolare importanza.
Il tema posto all’esame è così sintetizzato dall’ordinanza: se l’accettazione dell’eredità con beneficio
di inventario fatta dal legale rappresentante del minore, senza la successiva redazione
dell’inventario, consenta al minore stesso di rinunciare all’eredità entro l’anno dal raggiungimento
della maggiore età o se tale possibilità sia preclusa, potendo egli solo redigere l’inventario nel
termine di legge per poter beneficiare della responsabilità per i pesi ereditari nei limiti di quanto
ricevuto.
In altri termini, posto che a mente dell’art. 471 cod. civ. l’accettazione con beneficio di inventario
costituisce l’unica forma di accettazione dell’eredità per i minori e che essa comporta, ai sensi dell’art.
484 cod. civ., il compimento delle operazioni di inventario dei beni caduti in successione, viene
chiesto di chiarire se il minore acquisti la qualità di erede fin dal momento della dichiarazione
formale di accettazione con beneficio di inventario resa dal suo legale rappresentante, quindi anche
nel caso in cui questi non provveda a redigere l’inventario, oppure conservi, in tale eventualità, la
posizione di chiamato all’eredità, con conseguente facoltà di rinuncia.
3. L’esame della questione richiede la necessaria sintetica ricognizione del quadro normativo di
riferimento e degli approdi giurisprudenziali sui temi connessi più rilevanti.
La disamina non può che partire dall’art. 471 cod. civ., secondo cui per i minori e per gli interdetti
l’eredità deve essere accettata con beneficio di inventario. L’espressione è intesa nel senso che tale
forma di accettazione è la sola consentita dalla legge per gli incapaci. La prescrizione è considerata,
in giurisprudenza e dalla dottrina, di ordine pubblico, rispondendo all’interesse generale di non
esporre il minore al rischio di depauperamento del proprio patrimonio a causa di debiti altrui.
La disposizione comporta, secondo la prevalente dottrina, l’invalidità, sotto specie di nullità per
violazione di norma imperativa (art. 1418 cod. civ.), di una dichiarazione del legale rappresentante
del minore di accettazione dell’eredità pura e semplice, cioè non accompagnata dalla volontà di
avvalersi del beneficio, e, certamente, l’inidoneità delle forme di accettazione tacita a far acquisire la
qualità di erede al minore, che rimane nella situazione di chiamato, non rientrando tali forme di
accettazione tra i poteri del legale rappresentante (Cass. n. 15267 del 2019; Cass. n. 21456 del 2017;
Cass. n. 2276 del 1995; Cass. n. 1267 del 1986; Cass. n. 162 del 1962). Va tenuto conto, inoltre, che
l’accettazione beneficiata richiede la forma scritta ad substantiam, ai sensi dell’art. 484 cod. civ., ed è
soggetta a trascrizione. L’ordinamento non prevede forme o strumenti diversi dalla dichiarazione
espressa per conseguire gli effetti del beneficio. L’argomento è altresì valido per escludere la tesi,
pure avanzata in passato in dottrina, secondo cui il minore acquisterebbe il beneficio ope legis, cioè
per il solo fatto del suo stato, a seguito di accettazione da parte del suo legale rappresentante, anche
se non espressa nella forma beneficiata.
Naturalmente rimane ferma la facoltà del legale rappresentante del minore di rinunciare all’eredità.
Per l’eredità devoluta al minore l’alternativa rimane fissata tra l’accettazione con beneficio di
inventario e la rinuncia. L’una e l’altra debbono essere autorizzate dal giudice tutelare (art. 320,
comma 3, cod. civ.). Il diritto di accettazione è soggetto a prescrizione, che decorre anche nei
confronti del minore, come si desume dall’art. 2942, comma 1, n. 1), cod. civ.
L’art. 484 cod. civ. prescrive che l’accettazione beneficiata si fa mediante dichiarazione ricevuta da
un notaio o da un cancelliere del Tribunale ed è inserita nel registro delle successioni e trascritta
presso il registro immobiliare.
La stessa disposizione precisa che l’accettazione deve essere seguita o preceduta dall’inventario, da
farsi secondo le forme prescritte dal codice di procedura civile (art. 769 e segg.). La norma va intesa
nel senso che in tanto l’erede può avvalersi del beneficio, che gli consente di soddisfare i creditori ed
i legatari nei limiti del valore della eredità ricevuta (art. 490 cod. civ.), in quanto vengano svolte le
operazioni di inventario. La disposizione risponde ad una logica interna e ad una esigenza di
chiarezza dei rapporti giuridici, in quanto la stessa separazione patrimoniale tra beni propri e beni
ereditati presuppone, per poter operare, l’identificazione materiale di questi ultimi e, al fine di
evitare incertezze, che essa si svolga in tempi celeri e secondo forme idonee ad assicurare la
correttezza delle operazioni.
Gli artt. 485 e 487 cod. civ. disciplinano l’obbligo di redigere l’inventario a seconda che il chiamato
sia o meno nel possesso dei beni, disponendo che, se l’inventario non è compiuto nel termine di tre
mesi, decorrente dal giorno dell’apertura della successione nel primo caso e dalla dichiarazione di
accettazione beneficiata nel secondo, “il chiamato all’eredità è considerato erede puro e semplice”.
La relativa disciplina non è modulata soltanto in base alla situazione in cui il chiamato si trova
rispetto ai beni ereditari, ma anche in base alla sua condizione soggettiva. Dispone l’art. 489 cod. civ.
che i minori (gli interdetti e gli inabilitati) non si intendono decaduti dal beneficio di inventario se
non al compimento di un anno dalla maggiore età (ovvero dalla cessazione dello stato di incapacità),
quando, “entro tale termine non si siano conformati alle norme della presente sezione”. La
disposizione introduce una proroga al termine di esecuzione dell’inventario, in quanto consente al
minore divenuto maggiorenne di usufruire del beneficio compiendo, entro l’anno, le relative
operazioni e altresì di accettare l’eredità con beneficio di inventario nel caso in cui il suo
rappresentante sia rimasto inerte ovvero abbia posto in essere una accettazione nulla o inefficace. Da
tale disposizione discende, per giurisprudenza costante, che, con riguardo alla eredità del minore,
non trova applicazione la disciplina degli artt. 485 e 487 sopra richiamati, che impongono la
redazione dell’inventario entro il termine di tre mesi. Di conseguenza, se il legale rappresentante fa
l’accettazione ma non compie l’inventario entro il termine previsto da tali articoli, giammai il minore
potrà essere considerato erede puro e semplice, cioè erede senza beneficio. La disposizione di cui
all’art. 489 cod. civ. è una estensione del principio posto dall’art. 471 cod. civ., da cui emerge che la
condizione dell’erede minorenne non può essere mai quella di erede puro e semplice e che, per tutta
la durata della minore età, non può verificarsi la decadenza dal beneficio.
4. Una delle maggiori questioni che si è posta sul piano sistematico riguarda la configurazione del
rapporto tra la dichiarazione di accettazione con beneficio e l’inventario.
Non v’è dubbio che la dichiarazione di accettazione con beneficio esprime la volontà del dichiarante
di accettare l’eredità e, quindi, di diventare erede. È sufficiente al riguardo richiamare l’art. 459 cod.
civ., secondo cui l’eredità si acquista con l’accettazione, ed il successivo art. 470 cod. civ., che indica
in essa una delle due modalità di accettazione, quanto agli effetti, consentita dalla legge.
È un dato acquisito, pertanto, che nella relativa dichiarazione l’intenzione di avvalersi della
limitazione di responsabilità non introduce una condizione sospensiva dell’efficacia della
accettazione, né un requisito del negozio di accettazione, come pure sostenuto in passato da una
dottrina minoritaria, basata sul tenore letterale dell’art. 955 cod. civ. del 1865.
La dichiarazione di accettazione con beneficio di inventario non subordina quindi la volontà di
succedere nel patrimonio del de cuius alla condizione che il dichiarante consegua il risultato di
tenere distinto il patrimonio del defunto dal proprio. Il chiamato all’eredità che è nel possesso dei
beni ovvero che, non trovandosi in tale situazione, dichiara di accettare l’eredità con beneficio di
inventario rimane erede anche nel caso in cui non ottenga il beneficio, a causa dell’omessa redazione
dell’inventario o della decadenza comminata dalla legge. Nel primo caso gli artt. 485, 487 cod. civ.
sono univoci nel loro tenore letterale nello stabilire che il chiamato, se l’inventario non è redatto nel
termine di tre mesi, “è considerato erede puro e semplice”; nell’ipotesi di decadenza gli artt. 493, 494
e 505 cod. civ. chiariscono che ad essere caducato è solo il beneficio.
La volontà di avvalersi di quest’ultimo va dichiarata al momento dell’accettazione, non essendo
consentita la formulazione sul punto di diverse manifestazioni di volontà nel corso del tempo. Vale
in proposito il principio della irrevocabilità della accettazione. Anche a seguire la tesi, sostenuta da
parte della dottrina, secondo cui nella fattispecie si rinvengono due tipi di dichiarazione, ossia
l’accettazione della eredità e la volontà di avvalersi del beneficio, il relativo contenuto è indivisibile.
L’inventario consiste invece in operazioni materiali. Proprio per questo la legge manifesta
sostanziale indifferenza in ordine alla persona che lo pone in essere, consentendo che a richiedere
l’inventario possano essere soggetti diversi dall’erede (art. 769 cod. proc. civ.), tra i quali vanno
annoverati i presunti eredi ed i creditori. Ciò che interessa è invece la sua esecuzione materiale,
sicché l’erede usufruisce del beneficio anche se l’inventario è compiuto a cura di altri.
5. La relazione tra dichiarazione di accettazione beneficiata ed inventario è stata ricostruita in modo
diverso sia in giurisprudenza che in dottrina, nel tentativo di identificare ed attribuire un preciso
significato, anche dal punto di vista sistematico, alla locuzione normativa secondo cui, trascorso il
termine previsto senza la redazione dell’inventario, ” il chiamato all’eredità è considerato erede puro
e semplice ” (art. 485, comma 2, cod. civ.).
Possono al riguardo rinvenirsi nella giurisprudenza due diverse posizioni, succedutesi nel tempo.
Secondo la prima, l’accettazione e l’inventario sarebbero due atti distinti e la dichiarazione di
accettazione sarebbe di per sé sufficiente a far acquisire il beneficio, sia pure in via provvisoria,
consolidando i suoi effetti in forza della redazione dell’inventario nel termine prescritto, salvo farli
cessare in caso di omissione (Cass. n. 3842 del 1995; Cass. n. 11084 del 1993; Cass. n. 2198 del 1987;
Cass. n. 329 del 1977). La redazione dell’inventario sarebbe pertanto assimilabile ad un onere ed il
suo mancato adempimento costituirebbe una causa di decadenza dal beneficio.
Questo orientamento, fatto proprio dalla giurisprudenza meno recente, è stato poi abbandonato in
favore della soluzione che ravvisa nell’art. 484 cod. civ. una ” fattispecie a formazione progressiva “,
per la cui realizzazione i due adempimenti della dichiarazione e dell’inventario sono indispensabili
per acquisire l’effetto della limitazione di responsabilità ovvero della separazione dei patrimoni.
Secondo questo indirizzo, inaugurato dalla sentenza n. 11030 del 2003 e che può oggi definirsi
dominante, ” la dichiarazione, di per sé, ha bensì una propria immediata efficacia, poiché comporta
il definitivo acquisto della qualità di erede da parte del chiamato e quindi il suo subentro in
universum ius defuncti, compresi i debiti del de cuius, ma non incide sulla limitazione della relativa
responsabilità intra vires hereditatis, che è condizionata (anche) alla persistenza o alla tempestiva
sopravvenienza dell’inventario, mancando il quale l’accettante ” è considerato erede puro e semplice
” (art. 485, 487 e 488 cod. civ.), non perché abbia perduto ex post il beneficio, ma perché non lo ha
mai conseguito ” (così la citata sentenza n. 11030 del 2003; nello stesso senso: Cass. n. 16739 del 2005;
Cass. n. 16514 del 2015; Cass. n. 9099 del 2018; Cass. n. 7477 del 2018).
Una parte della dottrina configura la dichiarazione di accettazione con beneficio di inventario e la
redazione dell’inventario come un procedimento di diritto privato, sia pure privo di un ordine fisso,
nel senso che l’inventario può seguire la dichiarazione o precederla. Secondo tale teoria soltanto con
il completamento del procedimento si produrrebbe l’effetto della limitazione di responsabilità per
l’erede, che altrimenti resterebbe escluso.
6. Merita infine accennare, perché se ne farà riferimento oltre, alla disposizione di cui all’art. 473 cod.
civ., che, con formula mutuata dalla disciplina per i soggetti incapaci, stabilisce che l’accettazione
dell’eredità da parte delle persone giuridiche ed associazioni (escluse le società), non può avvenire
se non con beneficio di inventario. La norma è interpretata nel senso che la mancata redazione
dell’inventario impedisce all’ente di succedere. Con riguardo agli enti morali, quindi, il mancato
perfezionamento della fattispecie della accettazione beneficiata, per omessa redazione
dell’inventario nei termini e modi previsti dalla legge, comporta che l’ente chiamato non acquisti la
qualità di erede (Cass. n. 9514 del 2017; Cass. n. 19598 del 2004; Cass. n. 2617 del 1979).
7. La questione se il minore, divenuto maggiorenne, e quindi acquisita la capacità di disporre, possa
rinunciare all’eredità accettata con beneficio dal proprio legale rappresentante nel caso in cui questi
non abbia provveduto alla redazione dell’inventario, ha ricevuto soluzioni contrastanti nella
giurisprudenza di questa Corte, come segnalato dalla ordinanza interlocutoria.
Secondo un primo orientamento, che può ricondursi alla sentenza della Seconda Sezione n. 4561
dell’11.7.1988, il minore, nel caso prospettato, rimane nella condizione di chiamato all’eredità e
quindi, raggiunta la maggiore età, è nella pienezza della potestà di decidere se accettare l’eredità
oppure rinunziarvi.
La conclusione è argomentata dal rilievo che la disposizione dettata dall’art. 485, comma 2, cod. civ.,
secondo cui l’erede che abbia accettato con beneficio ma non abbia compiuto l’inventario entro il
termine di tre mesi, è considerato erede puro e semplice, non è applicabile nell’ipotesi di eredità
devoluta al minore. L’art. 489 cod. civ. stabilisce, infatti, che i minori “non si intendono decaduti dal
beneficio di d’inventario, se non al compimento di un anno dalla maggiore età…, qualora entro tale
termine non si siano conformati alle norme della presente sezione “, ovvero, per l’aspetto che qui
interessa, non abbiano compiuto l’inventario. Nel caso in cui il legale rappresentante del minore
accetti l’eredità, nella forma beneficiata, ma non rediga l’inventario, il minore non può, pertanto,
essere considerato erede puro e semplice. Poiché, tuttavia, l’assenza dell’inventario impedisce al
minore anche di assumere la qualità di erede beneficiato, la conseguenza non può che essere quella
di mantenerlo nella condizione originaria di chiamato.
Il principio formulato dalla sentenza m. 4561 del 1988 è stato riaffermato dalla Sezione tributaria di
questa Corte, con orientamento uniforme, senza esposizione o aggiunta di motivazioni ulteriori
(Cass. n. 25666 del 2008; Cass. n. 22712 del 2009; Cass. n. 5211 del 2011; Cass. n. 24931 del 2016; Cass.
n. 841 del 2014). Risulta inoltre seguito dalla sentenza della Seconda Sezione n. 9648 del 2000, che ha
ritenuto valida la rinuncia all’eredità fatta dal minore una volta raggiunta la maggiore età pur in
presenza di una precedente accettazione con beneficio ed ha ribadito l’inoperatività, per il minore,
del meccanismo previsto dall’art. 485 cod. civ. nel caso in cui l’accettante non proceda all’inventario
nel termine prescritto. Si ispira a tale indirizzo anche la sentenza della Seconda Sezione n. 29665 del
16. 11.2018, che, richiamando il principio sopra esposto, ha ritenuto priva di effetto la rinuncia
all’eredità del minore divenuto maggiorenne non per il motivo che vi era stata una accettazione
beneficiata da parte del legale rappresentante, ma in forza del rilievo che, nel caso esaminato,
l’inventario era stato eseguito. Non costituisce invece un precedente in termini la sentenza di questa
Corte n. 9514 del 2017, citata dai ricorrenti, che tratta della diversa questione della mancanza
dell’inventario nel caso di eredità devoluta alle persone giuridiche (art. 473 cod. civ.).
Il diverso orientamento è seguito dalle sentenze di questa Corte n. 15267 del 2019, n. 8832 del 1999,
n. 2276 del 1995, n. 8034 del 1993 ed è motivato dal rilievo che la posizione del minore, una volta che
l’eredità a suo favore sia stata debitamente accettata con beneficio di inventario, è disciplinata dalla
norma, di carattere speciale, dettata dall’art. 489 cod. civ., secondo cui la decadenza a suo carico si
verifica soltanto se nell’anno successivo al raggiungimento della maggiore età non sia redatto
l’inventario. Il minore divenuto maggiorenne, nell’ipotesi considerata, non può rinunciare
all’eredità, risultando essa già accettata in suo nome dal legale rappresentante, ma può solo
procedere all’inventario, la cui omissione comporta che egli debba essere considerato erede puro e
semplice. Infatti, l’art. 489 cod. civ., che consente ai minori, entro il compimento di un anno dalla
maggiore età, di conformarsi alle norme sul beneficio di inventario e perciò, tra l’altro, di compiere
l’inventario, commina, nel caso di inosservanza delle norme suddette, non già la nullità
dell’accettazione con conseguente perdita della qualità di erede, ma la mera decadenza dal beneficio.
L’inapplicabilità dell’art. 485 cod. civ. nei confronti del minore discenderebbe, pertanto, non già dalla
impossibilità di configurare nei suoi confronti una responsabilità ultra vires, ma perché tale
disposizione è derogata, per i minori, dalla norma speciale dettata dall’art. 489 cod. civ.
8. Merita di essere qui confermato, in adesione alle motivate conclusioni del Procuratore Generale,
l’indirizzo interpretativo che riconosce al minore la qualità di erede, per effetto della dichiarazione
di accettazione del suo legale rappresentante, anche se non accompagnata dall’inventario, e nega per
l’effetto la facoltà di una valida rinuncia successiva.
La ragione principale risiede nel rilievo, del tutto pacifico, che l’accettazione beneficiata è sempre
accettazione dell’eredità, esprimendo la relativa dichiarazione la volontà del chiamato di succedere
nel patrimonio del defunto. Come già detto, la legge ripudia l’idea che l’intenzione di avvalersi del
beneficio di inventario possa essere trattata alla stregua di una condizione sospensiva
dell’accettazione, tale da esprimere la volontà del dichiarante di essere erede solo se risponderà dei
debiti del de cuius nei limiti del valore dei beni ricevuti. L’accettazione con beneficio d’inventario
comporta, pertanto, l’acquisto della qualità di erede. Gli art. 485 e seguenti cod. civ. disciplinano le
condizioni ed i casi in cui può ottenersi o meno il beneficio, ma non si interessano della condizione
di erede, che danno per acquisita.
È noto, inoltre, che il negozio di accettazione dell’eredità è irretrattabile: chi accetta l’eredità l’acquista
in modo definitivo, non essendo la relativa dichiarazione revocabile, in base al principio ” semel
heres semper heres ” (Cass. n. 1735 del 2024; Cass. n. 15663 del 2020).
In applicazione di tale regola deve escludersi che, ad accettazione dell’eredità avvenuta da parte del
legale rappresentante del minore, nella forma beneficiata come richiesto dalla legge, il minore stesso
possa essere considerato, fino ad un anno dopo il compimento della maggiore età, mero chiamato
all’eredità e non erede, e che gli sia concessa la facoltà di rinuncia, come se la dichiarazione di
accettazione beneficiata del suo legale rappresentante non fosse mai stata resa, in base ad una non
consentita equiparazione tra la dichiarazione di accettazione beneficiata non seguita dall’inventario
e l’accettazione pura e semplice fatta dal legale rappresentante del minore.
La dichiarazione di accettazione ai sensi dell’art. 484 cod. civ., al contrario, in quanto accettazione
dell’eredità, è atto idoneo e sufficiente a far acquistare al rappresentato la qualità di erede.
Secondo lo schema legale, il rappresentante del minore può rinunciare o accettare l’eredità, nella
forma beneficiata. Se accetta, il minore è erede.
L’art. 489 cod. civ. è il logico sviluppo di questo presupposto. La disposizione stabilisce che il minore
non decade dal beneficio di inventario se, entro un anno dal compimento della maggiore età, si
conforma alle norme in materia, cioè provvede a redigere l’inventario ed osserva i relativi obblighi.
La previsione normativa presuppone che l’inventario non sia stato eseguito. In caso contrario, la
concessione di un termine per porlo in essere non avrebbe senso, risolvendosi nell’obbligo di ripetere
un adempimento già realizzato (Cass. n. 9142 del 1993). Né tale necessità sussisterebbe nel caso in
cui l’inventario fosse stato eseguito dal legale rappresentante al di là del termine fissato dall’art. 485
cod. civ., essendo pacifico in giurisprudenza che tale ultima disposizione non si applica con riguardo
all’eredità del minore.
L’art. 489 cod. civ. appare riferirsi sicuramente anche al caso in cui il legale rappresentante del
minore abbia accettato l’eredità con beneficio di inventario, ma non lo abbia eseguito. Tale
inadempimento, per volontà della legge, non è causa di impedimento al prodursi degli effetti del
beneficio, ripugnando alla legge che il minore sia destinatario di una eredità dannosa ovvero, per
usare le parole della legge, si trovi nella posizione di erede puro e semplice. Lo strumento attraverso
cui la legge persegue tale risultato, è, sostanzialmente, la sterilizzazione del termine per la redazione
dell’inventario durante il periodo della minore età e l’allungamento ad un anno, dal raggiungimento
della maggiore età, per predisporlo. In caso vi provveda, egli usufruirà del beneficio che limita la
sua responsabilità, in caso contrario sarà considerato erede puro e semplice, essendo ogni ostacolo
a considerarlo tale superato dal raggiungimento della maggiore età. Correttamente l’inoperatività
nei confronti del minore della disposizione di cui all’art. 485 cod. civ. è stata motivata in ragione
della deroga che, con riguardo al tempo dell’inventario, risulta introdotta dall’art. 489 cod. civ.
Appare coerente con tali premesse il mancato riferimento, in quest’ultima disposizione, alla
possibilità per il minore, una volta raggiunta la maggiore età, in caso di mancata redazione
dell’inventario, di rinunciare all’eredità. La citata disposizione prospetta i possibili epiloghi, in
termini alternativi, esclusivamente sul piano della responsabilità per i debiti ereditari, senza
interessarsi e quindi incidere sulla sua condizione di erede, che dà per acquisita in forza della
precedente accettazione fatta dal suo legale rappresentante. Parlando la norma di decadenza dal
beneficio, essa fa intendere che l’incapace è già erede. Lo spettro di efficacia dell’art. 489 cod. civ. è,
pertanto, limitato al termine per conseguire il beneficio, non al termine per accettare o rinunziare
all’eredità.
Non condivisibile appare, perciò, l’argomento prospettato dall’orientamento qui disatteso, secondo
cui non potendo il minore, per la regola generale accolta dall’ordinamento, essere erede puro e
semplice e non potendo, in mancanza di inventario, considerarsi erede beneficiato, l’unica
conclusione possibile sarebbe quella di riconoscergli la posizione di mero chiamato all’eredità. Tale
tesi non considera che il termine per l’inventario è prorogato fino ad un anno dalla maggiore età e
che la legge ripropone, con riguardo ad esso, l’alternativa tra erede puro e semplice ed erede
beneficiato, secondo il meccanismo già utilizzato dall’art. 485 cod. civ. La differenza tra l’art. 485 e
489 cod. civ. va pertanto ravvisata, per il tema che qui interessa, esclusivamente nel termine per la
redazione dell’inventario, che, con una disposizione di indubbio favore, è prorogato per i minori
fino ad un anno della maggiore età.
9. L’indirizzo favorevole a riconoscere che il minore, in caso di accettazione non accompagnata
dall’inventario, conservi la posizione di chiamato, con conseguente facoltà di rinunciare
successivamente all’eredità, potrebbe fondarsi anche sulla considerazione che, essendo per i minori
l’accettazione con beneficio di inventario obbligatoria, anzi l’unica forma di accettazione prevista
dalla legge, ai fini del suo perfezionarsi dovrebbero intervenire entrambi gli elementi richiesti dalla
fattispecie per il conseguimento dei suoi effetti, vale a dire la dichiarazione di accettazione e
l’inventario. La dichiarazione di accettazione beneficiata, disgiunta dalle operazioni di inventario,
non comporterebbe, pertanto, l’immediata adizione dell’eredità. L’art. 489 cod. civ., in questa
prospettiva, andrebbe letto nel senso che esso intende conferire al minore, divenuto maggiorenne, la
possibilità di riappropriarsi pienamente, nonostante l’accettazione del proprio rappresentante, della
facoltà di prendere ogni decisione relativa ai suoi diritti successori, potendo fare l’inventario entro
un anno, ma anche rinunciare all’eredità.
L’argomento troverebbe conferma nella disposizione di cui all’art. 473 cod. civ., sulla devoluzione
all’eredità alle persone giuridiche, atteso che tale norma, letta in modo condiviso nel senso di negare
la qualità di erede all’ente in caso di mancanza di inventario, usa una formula identica a quella
impiegata dall’art. 471 cod. civ. per gli incapaci.
Queste considerazioni non meritano di essere condivise.
In contrario, può osservarsi che, per quanto gli artt. 471 e 473 cod. civ. impongano per i minori e gli
incapaci, il primo, e per i corpi morali, il secondo, l’accettazione nella forma beneficiata, la differenza
tra le due situazioni rimane nettamente diversa e non appare giustificare sovrapposizioni di
disciplina. La condizione che impedisce agli enti morali di accettare l’eredità ultra vires, infatti, è
considerata dalla legge insita nella loro condizione o natura, è quindi definitiva, nel senso che non è
superabile; per gli incapaci si tratta invece di una condizione temporanea, essendo destinata a
cessare, per i minori, al raggiungimento della maggiore età e, per gli interdetti, al cessare dello stato
di interdizione o d’inabilitazione, come si esprime lo stesso art. 489 cod. civ.
La stessa premessa che la legge regolerebbe le due situazioni in modo identico non tiene conto che
la disciplina sulla successione del minore non è regolata solo dal principio posto dall’art. 471 cod.
civ., ma anche dalla disposizione di cui al successivo art. 489.
La differenza si riflette anche nell’atteggiarsi dell’obbligo di redazione dell’inventario. Per gli enti
morali non vi è ragione di escludere la disciplina posta dall’art. 485 cod. civ. con riguardo al termine
entro cui l’inventario deve essere redatto. Per gli incapaci opera il diverso termine previsto dalla
norma speciale e non vi sono ragioni sostanziali per escludere che, raggiunta la maggiore età, la
mancata redazione dell’inventario determini la loro piena responsabilità patrimoniale.
10. A sostegno della conclusione accolta sono rinvenibili ulteriori argomenti.
Una prima conferma può trarsi dalla previsione dell’art. 320, comma 3, cod. civ., che sottopone
l’accettazione dell’eredità del minore alla autorizzazione del giudice tutelare. Come dedotto nella
sua requisitoria dal Procuratore Generale, la necessità della preventiva autorizzazione implica che
la legge riconosce all’atto di accettazione beneficiata, compiuto dal legale rappresentante, effetti nella
sfera giuridica del minore, effetti che non si vede possano essere diversi da quello dell’acquisto della
qualità di erede.
In senso analogo l’osservazione va estesa alla disposizione di cui all’art. 484 cod. civ., che prevede
l’inserzione della dichiarazione di accettazione beneficiata, disgiunta dall’inventario, nel registro
delle successioni e la sua trascrizione nei registri immobiliari, pur dovendosi dare atto che anche
l’inventario, una volta compiuto, è soggetto ad annotazione nel registro. L’onere della trascrizione,
pur non avendo essa efficacia costitutiva, presuppone il riconoscimento alla relativa dichiarazione
di un autonomo effetto ai fini della pubblicità, il quale, anche in questo caso, non può che identificarsi
nella accettazione dell’eredità.
La tesi qui disattesa non sembra poi considerare che, una volta compiuta l’accettazione beneficiata,
l’inventario può essere richiesto ed eseguito anche da soggetti diversi, a ciò legittimati dall’art. 769
cod. proc. civ.. Ciò comporterebbe che l’acquisto della qualità di erede, non già l’acquisizione del
beneficio, dipenderebbe non da condotte del legale rappresentante del minore, ma da condotte
altrui, che rileverebbero sulla condizione del minore, mutandola da semplice chiamato ad erede,
conclusione difficilmente accettabile in base ai principi generali in tema di successione, che fanno
dipendere la condizione di erede dalla volontà del chiamato.
Va inoltre osservato che, in base all’art. 487, comma 1, cod. civ., secondo l’interpretazione corrente,
la prescrizione del diritto di accettare l’eredità è impedita dall’atto di accettazione con beneficio di
inventario, senza necessità che entro il termine prescrizionale l’inventario sia compiuto. Questa
conclusione è coerente con l’affermazione che la dichiarazione di accettazione beneficiata disgiunta
dall’inventario vale come accettazione dell’eredità. Per contro, la tesi che il minore, nonostante
l’accettazione beneficiata, rimanga nella condizione di chiamato se l’inventario non è eseguito, mal
si concilia con l’effetto che la disposizione considerata attribuisce, ai fini della prescrizione, alla
suddetta dichiarazione. La conseguenza potrebbe essere quella di non riconoscere alcun effetto alla
dichiarazione del legale rappresentante, esponendo così il minore al rischio di vedere estinto il
proprio diritto di accettare l’eredità per prescrizione, la quale non è sospesa nei suoi confronti, ai
sensi dell’art. 2942, comma 1 n. 1), c.c., tranne i casi in cui il rappresentante si trovi in conflitto di
interessi (Cass. n. 12490 del 2012; Cass. n. 2211 del 2007).
La tesi qui disattesa, nel disconosce valore di accettazione alla dichiarazione del legale
rappresentante, se potrebbe produrre in casi particolari effetti favorevoli per il minore (la sentenza
n. 4561 del 1988 utilizza gli argomenti sopra esposti per escludere l’estensione della dichiarazione di
fallimento al minore e ad analoghi risultati vantaggiosi perviene la giurisprudenza tributaria,
chiamata a pronunciarsi sulla decorrenza dell’obbligo di presentare la denuncia di successione)
comporterebbe un generale svantaggio sul versante, di particolare rilevanza pratica, della
prescrizione del diritto di accettare l’eredità, in contrasto con la chiara intenzione del codice civile di
dettare una disciplina di accentuato favore per i minori chiamati a succedere.
Nello stesso ordine di idee, analoghe criticità si presentano nel caso di esercizio, da parte dei terzi
interessati, della c.d. actio interrogatoria prevista dall’art. 481 cod. civ., ritenuta applicabile, dalla
giurisprudenza e dalla dottrina, anche nei confronti del minore (Cass. n. 3828 del 1985; Cass. n. 1922
del 1973), potendo la tesi qui disattesa portare alla conseguenza di ritenere, nell’ipotesi considerata,
perduto il diritto di accettare l’eredità da parte del minore, al quale non rimarrebbe altra forma di
tutela se non quella risarcitoria nei confronti del proprio rappresentante.
11. Non appare esercitare influenza, ai fini della risoluzione della questione proposta dal ricorso, la
diversa configurazione della relazione tra dichiarazione di accettazione beneficiata e redazione
dell’inventario, di cui si è fatta menzione al precedente punto 5.
Il contrasto giurisprudenziale ha interessato esclusivamente l’applicazione, nella controversia tra
creditore ed erede, della regola dell’onere della prova della redazione dell’inventario. La soluzione
favorevole a ravvisare nel suo mancato adempimento una causa di decadenza del beneficio pone
l’onere a carico del creditore, mentre l’indirizzo che inquadra dichiarazione ed inventario in una
ipotesi di fattispecie a formazione progressiva lo pone a carico dell’erede.
In generale, il contrasto tra i predetti orientamenti si dispiega interamente sul piano del momento in
cui si producono gli effetti della limitazione di responsabilità, se dal momento della dichiarazione
beneficiata o da quello della redazione dell’inventario, nel caso in cui quest’ultimo non abbia
preceduto la prima.
Entrambi gli orientamenti non dubitano, invece, che la sola dichiarazione, disgiunta dall’inventario,
comporti nei confronti del dichiarante, con effetto immediato, l’acquisto della qualità di erede.
Non a caso del resto la stessa sentenza n. 11030 del 2003, che ha inaugurato il nuovo indirizzo
giurisprudenziale, ora prevalente, della fattispecie a formazione progressiva, tiene a precisare, al fine
di evitare incertezze al riguardo, che ” la dichiarazione ” di accettazione con beneficio di inventario,
“di per sé, ha… una propria immediata efficacia, poiché comporta il definitivo acquisto della qualità
di erede da parte del chiamato e quindi il suo subentro in universum ius defuncti, compresi i debito
del de cuius”, restando in discussione solo la” limitazione della relativa responsabilità intra vires
hereditatis, che è condizionata (anche) dalla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza
dell’inventario, mancando il quale l’accettante ” è considerato erede puro e semplice””; (nello stesso
senso: Cass. n. 16739 del 2005, secondo cui la dichiarazione di accettazione con beneficio d’inventario
ha una propria immediata efficacia, determinando il definitivo acquisto della qualità di erede da
parte del chiamato che subentra perciò in ” universum ius defuncti”).
Non è pertanto condivisibile la tesi che, facendo leva sull’orientamento che ravvisa nell’accettazione
con beneficio di inventario una fattispecie a formazione progressiva, sostiene che l’accettante
conserva la posizione di chiamato all’eredità fino alla redazione dell’inventario.
Siffatta conclusione è altresì negata, in modo evidente, anche dall’indirizzo che ravvisa nella mancata
redazione dell’inventario una causa di decadenza del beneficio. Il punto di partenza di questa tesi,
che gli effetti della accettazione beneficiata si producono fin dal momento della dichiarazione, salvo
il loro venir meno per omessa redazione dell’inventario, implica infatti il riconoscimento della
acquisita condizione di erede del dichiarante.
Nello stesso ordine di idee si è posta la dottrina che configura la dichiarazione di accettazione
beneficiata e l’inventario come procedimento di diritto privato. Si è precisato, in proposito, che nulla
porta a concludere che la dichiarazione di accettazione beneficiata sia priva di effetti in mancanza
dell’inventario, essendo al contrario proprio la legge a stabilire che in tal caso, se non si verifica
l’effetto voluto, cioè la separazione dei patrimoni, si produce comunque l’effetto diverso dell’acquisto
dell’eredità.
12. La questione posta dalla ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione va quindi risolta nel
senso che la dichiarazione di accettazione di eredità con beneficio di inventario resa dal legale
rappresentante del minore, anche se non seguita dalla redazione dell’inventario, fa acquisire al
minore la qualità di erede, rendendo priva di efficacia la rinuncia all’eredità manifestata dallo stesso
una volta raggiunta la maggiore età.
Il primo motivo di ricorso è perciò infondato.
13. Il secondo motivo di ricorso va considerato assorbito dalle considerazioni precedenti.
14. Il terzo motivo di ricorso è infondato.
La sentenza della Commissione provinciale di Padova, invocata dal ricorrente A.A., che ha ritenuto
valida la rinuncia da lui fatta all’eredità del padre, è priva infatti di efficacia nel presente giudizio.
La ragione risiede nel rilievo che, sulla base dei principi generali e dalla lettura della stessa decisione,
la sentenza invocata ha affrontato e risolto la questione della validità della rinuncia solo incidenter
tantum e non con efficacia di giudicato. Il giudice tributario, infatti, può conoscere le questioni che
ricadono in altra giurisdizione, quando dalla loro risoluzione dipenda la decisione sull’esistenza di
un particolare obbligo previsto dalla norma tributaria, ma ciò può fare solo in via incidentale, senza
efficacia di giudicato, dovendo altrimenti sospendere il giudizio in attesa che sulla relativa questione
si pronunci il giudice competente, ai sensi dell’art. 2, comma 3, D.Lgs. n. 546 del 1992 sul processo
tributario (Cass. Sez. un. n. 467 del 2000; Cass. Sez. un. n. 1557 del 2002; Cass. Sez. un. n. 6631 del
2003; Cass. n. 25116 del 2014; con riferimento al giudice civile, in rapporto con la giurisdizione della
Corte dei conti: Cass. Sez. un. n. 2814 del 2012). Il principio è scandito anche dall’art. 34 cod. proc.
civ., che, ai fini della decisione della questione pregiudiziale con efficacia di giudicato, in presenza
di espressa domanda, presuppone che il giudice abbia giurisdizione sulla stessa, oltre che
competenza per materia e per valore.
L’affermazione della menzionata sentenza della Commissione tributaria in ordine alla validità della
rinuncia all’eredità da parte dell’odierno ricorrente risulta sprovvista pertanto di quella autorità
idonea ad esercitare effetti nel giudizio civile in corso, al di là delle questioni, pur rilevanti, della
ricorrenza degli altri requisiti a cui è legata, ai sensi dell’art. 2909 cod. civ., l’efficacia del giudicato in
altro giudizio.
15. Il ricorso va pertanto respinto.
La presenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla principale questione controversa
giustifica la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto che sussistono i presupposti
per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese di giudizio.
Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili il 22 ottobre 2024.
Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2024.

Maltrattamenti in famiglia. Che valore ha la ritrattazione della vittima?

Cass. Pen., Sez. VI, Sent., 05 dicembre 2024, n. 44544; Pres. Rel. E. Aprile
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Torino, decidendo sulla richiesta di riesame presentata ai sensi dell’art. 309 cod.
proc. pen. dal difensore dell’indagato, riformava il provvedimento emesso il 25 luglio 2024 nei
riguardi di A.A. – sottoposto ad indagini in relazione ai reati di cui agli artt. 572 e 582 -585 cod. pen.,
commessi ai danni della compagna convivente B.B. – e revocava le misure cautelari dell’obbligo di
presentazione alla polizia giudiziaria, dell’obbligo di allontanamento dalla casa familiare e del divieto
di avvicinamento o di comunicazione con la persona offesa applicate all’A.A.
Rilevava il Tribunale del riesame come gli elementi di conoscenza a disposizione avessero riscontrato
l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza dell’indagato con riferimento ad entrambi i delitti
addebitati, ma come i dati informativi acquisiti avessero escluso l’attualità delle esigenze cautelari
riconosciute dal provvedimento genetico delle misure, considerato che la persona offesa aveva riferito
di aver voluto tornare a vivere con il compagno, che aveva dimostrato “di essere cambiato” e “di aver
preso coscienza delle condotte contestate”: di talché poteva ritenersi oramai cessata quella
“conflittualità tra le parti” che aveva determinato la consumazione degli illeciti in parola.
2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso il Pubblico Ministero il quale ha dedotto la violazione
di legge, in relazione all’art. 274, lett. c), cod. proc. pen., e il vizio di motivazione, per mancanza e
manifesta illogicità, per avere il Giudice del riesame contraddittoriamente riconosciuto la piena
attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa B.B., madre di una bambina di
pochi mesi, anche per i plurimi e significativi riscontri che le stesse avevano ricevuto, che avevano
“disegnato” una situazione di totale soggezione della prevenuta al suo compagno, e, nel contempo,
riconosciuta la credibilità della ritrattazione di alcuni giorni dopo, sostenendo che la B.B. si fosse
liberamente determinata a riprendenre il rapporto con l’A.A. , assicurando che fosse tra i due tornata
una “situazione di piena normalità”.
3. Il procedimento è stato trattato nell’odierna udienza in camera di consiglio con le forme e con le
modalità di cui all’art. 23, commi 8 e 9, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 convertito dalla
legge 18 dicembre 2020, n. 176, i cui effetti sono stati prorogati da successive disposizioni di legge.
Motivi della decisione
1. Ritiene la Corte che il ricorso vada accolto, per le ragioni di seguito precisate.
2. È fondata la doglianza formulata dal Pubblico Ministero in termini di vizio di motivazione.
Il percorso argomentativo seguito dal Tribunale del riesame per giustificare l’affermazione di una
sopravvenuta mancanza di attualità delle già riconosciute esigenze cautelari, poste a fondamento del
provvedimento genetico delle misure cautelari, appare gravemente contraddittorio.
Ed infatti, il Tribunale di Torino, dopo aver descritto in maniera dettagliata il contenuto delle
dichiarazioni accusatorie rese ai carabinieri il 7 e il 12 giugno 2024 dalla persona offesa B.B. – la
quale aveva raccontato di essere vittima, da oltre un anno, di gravissime forme di maltrattamenti fisici
e verbali ad opera del compagno convivente A.A. che di lei era geloso; di avere evitato di farsi
refertare le lesioni più volte patite, per paura di ritorsioni, nonostante le ripetute azioni violente
fossero state talora poste in essere in presenza della figlia minore; e di essere stata, da ultimo, il 7
giugno, aggredita dall’uomo per strada, che l’aveva percossa e l’aveva ferita ad una mano con un
coltello – e dopo aver chiarito come la lineare e non calunniosa narrazione della predetta fosse stata
riscontrata dalle deposizioni rese da una sorella e da alcuni vicini di casa, e non potesse dirsi
contraddetta dalla “non credibile” ritrattazione che la persona offesa aveva offerto ai carabinieri il 23
giugno 2024, in maniera del tutto illogica ha asserito che proprio quella ritrattazione aveva dimostrato
che i due si erano oramai riconciliati e che, essendo venuta meno la conflittualità, avendo la B.B.
riferito di voler riprendere la convivenza con il compagno, dovevano reputarsi non più attuale il
rischio che l’uomo potesse tornare a commettere reati della stessa natura di quelli per i quali è
indagato.
Nella motivazione del provvedimento gravato è riconoscibile, invero, una insanabile frattura nella
consequenzialità logica tra la descrizione dei fatti e la valutazione del relativo significato. Il Tribunale,
che pure aveva delineato un quadro di prolungata compromissione dei rapporti tra l’A.A. e la B.B., e
che aveva sottolineato come la scelta della donna, che maldestramente e in maniera niente affatto
credibile aveva cercato di “sminuire” la portata delle sue precedenti accuse, di ritrattare la propria
denuncia fosse stata preceduta da ripetuti interventi dell’A.A. – il quale (dapprima recandosi in
caserma e poi chiamando al telefono i carabinieri) aveva preannunciato che la compagna avrebbe
“rimesso la querela” ed aveva persino provato a chiedere ragioni circa le ulteriori iniziative di
indagine che i militari avevano avviato nonostante “la rimessione della querela” – ha acriticamente
“preso per buone” le affermazioni della B.B. che aveva riferito di “voler riprendere la convivenza con
l’indagato”, perché questi “era cambiato nei suoi confronti”, così dimostrando “un mutato
atteggiamento” verso di lei.
3. Sotto altro e complementare punto di vista, risultano fondate anche le censure che il Pubblico
Ministero ha formulato in termini di violazione di legge.
In una recente sentenza la Corte costituzionale, nel giudicare infondate le questioni di legittimità
costituzionale della disposizione dettata dall’art. 282-ter cod. proc. pen. – che, in materia di misure
cautelari applicabili nei procedimenti penali aventi ad oggetto reati contro vittime vulnerabili,
prevedono rigidi e non derogabili criteri applicativi – ha chiarito che le scelte del legislatore
rispondono ad un ragionevole bilanciamento tra valori in tensione (da un lato, la libertà di movimento
della persona indagata, dall’altro, l’incolumità fisica e psicologica della persona minacciata) che, oltre
a risultare coerenti con le prescrizioni contenute nella direttiva (UE) 2024/1385 sulla lotta alla
violenza contro le donne e alla violenza domestica, “asseconda il criterio di priorità enunciato dall’art.
52 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei
confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’I 1 maggio 2011, ratificata e resa
esecutiva con legge 27 giugno 2013, n. 77 : (tenuto conto che) nel disciplinare le misure urgenti di
allontanamento imposte dal giudice, inclusive del divieto di avvicinamento, la norma convenzionale
stabilisce infatti che deve darsi “priorità alla sicurezza delle vittime o delle persone in pericolo” (Corte
cost., n. 173 del 2024).
Alla luce di tale autorevole indicazione interpretativa, nella decisione del Tribunale del riesame è
riconoscibile il mancato rispetto di quel “criterio di priorità”: dato che a fronte di una situazione che
gli stessi giudici di merito hanno descritto come protrattasi fino a pochi giorni prima della ritrattazione
della denuncia da parte della vittima e di un contesto caratterizzato da una relazione personale
nettamente “squilibrata” tra l’agente e la persona offesa, nell’ottica cautelare che doveva caratterizzare
la valutazione dei dati a disposizione, non è stata affatto verificata la reale spontaneità e autenticità
della seconde dichiarazione della vittima di essere disponibile a tornare a convivere con l’odierno
ricorrente.
In altri termini, in ragione delle peculiarità della specifica vicenda, che potrebbe imporre una
interpretazione applicativa dell’art. 274 cod. proc. pen. come finalizzata a garantire l’incolumità della
persona offesa del reato anche “contro la sua volontà”, spetterà al giudice di rinvio accertare, seguendo
le indicazioni al riguardo offerte dalla Cassazione (v. Sez. 6, n. 24027 del 21/01/2020, C., in
motivazione, par. 4), la plausibilità della valenza della ritrattazione delle precedenti accuse da parte
della persona offesa, anche con riferimento alla portata indiziaria delle prime dichiarazioni della
donna che -come si legge nel provvedimento impugnato – in una complessiva valutazione della
dinamica delle relazioni familiari, l’avevano vista “sola” al momento della scelta di denunciare un
compagno che, durante la pregressa convivenza, aveva tenuto abituali comportamenti aggressivi e
violenti, in particolare quando la stessa aveva manifestato l’intenzione di lasciarlo.
Tale esegesi dell’art. 274 cod. proc. pen. è, altresì, conforme all’indirizzo costituente la ratio
dell’intervento del legislatore dell’Unione europea che, nella citata direttiva (UE) 2024/1385, ha
raccomandato le competenti autorità statuali ad effettuare “valutazioni individuali delle esigenze di
protezione delle vittime” (art. 16): senza trascurare che, “la preoccupazione principale dovrebbe
essere garantirne l’incolumità e fornirle un’assistenza su misura, tenendo conto tra l’altro della sua
situazione individuale. Le situazioni che richiedono una particolare attenzione potrebbero includere,
ad esempio… il suo legame di dipendenza o la sua relazione con l’autore del reato o l’indagato, (e) il
rischio che la vittima ritorni dall’autore del reato o dall’indagato…” (considerando 39).
Va, dunque, ribadito che, in tema di maltrattamenti in famiglia, è ininfluente, ai fini del persistere del
pericolo di condotte reiterative da parte di soggetto sottoposto a custodia cautelare per il reato
commesso in danno del coniuge o del compagno, la sola manifestata volontà della persona offesa, in
quanto occorre sempre effettuare una corretta valutazione e gestione dei rischi di letalità, di gravità
della situazione, di reiterazione di comportamenti violenti, in un’ottica di prioritaria sicurezza delle
vittime o persone in pericolo, che non può essere affidata alla iniziativa delle stesse (in questo senso
Sez. 6, n. 46797 del 18/10/2023, T., Rv. 285542-01).
4. L’ordinanza impugnata va, dunque, annullata con rinvio al Tribunale di Torino che, nel nuovo
giudizio, si atterrà ai principi di diritto innanzi delineati.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Torino competente ai sensi
dell’art. 309, comma 7, cod. proc. pen.
Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2024.

Pensione di reversibilità e domanda di rivalutazione contributiva per esposizione all’amianto

Cass. Civ., Sez. Lav., Ord., 30 dicembre 2024, n. 34943
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Potenza ha respinto il gravame dell’INPS avverso la sentenza del Tribunale
di Matera che, in accoglimento del ricorso proposto da A.A., titolare di pensione di reversibilità dal
1/10/2008 a seguito del decesso della moglie B.B. risalente al 7/9/2008, aveva riconosciuto il suo
diritto alla rivalutazione dei contributi versati ex lege 257/92 per l’esposizione all’amianto subita dal
coniuge per il periodo in cui aveva lavorato alle dipendenze dello stabilimento E. di P. dal 1966 al
1982. In particolare, respinta l’eccepita carenza di titolarità attiva del rapporto controverso, rilevabile
anche d’ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa, ed escluso che il diritto al ricalcolo della
maggiorazione contributiva per l’esposizione qualificata all’amianto inerente ai ratei non richiesti sia
entrato nel patrimonio del de cuius, non avendone questi fatto richiesta all’INPS, e che per tale
ragione, stante la natura costitutiva della domanda amministrativa, esso possa essere stato trasmesso
per successione all’erede, il giudice di secondo grado ha evidenziato che l’originario ricorrente non
aveva chiesto ed ottenuto la condanna dell’istituito al pagamento dei ratei, ma solo il riconoscimento
del suo diritto alla rivalutazione contributiva della pensione di reversibilità per effetto della
esposizione ad amianto subìta dal proprio dante causa. La Corte territoriale ha inoltre respinto
l’eccezione di prescrizione decennale decorrente dal decesso del coniuge rispetto alla quale la
domanda del 25/3/2017 era tempestiva e, nel merito, ha ritenuto fondata la domanda tenuto conto
delle risultanze della CTU che, ricostruito l’ambiente di lavoro e le mansioni espletate dalla
lavoratrice, aveva ritenuto provata l’esposizione qualificata alle fibre d’amianto.
2. Per la cassazione della sentenza l’INPS ha proposto ricorso affidato ad un unico motivo, al quale si
riporta nelle memorie da ultimo depositate.
3. La parte privata si è costituita con controricorso.
4. All’udienza camerale del 27 settembre 2024 la causa è stata trattata e decisa come da dispositivo.
Motivi della decisione
1. Con unico motivo, l’INPS deduce la violazione dell’art. 13 comma 8 della Legge n.257/1992, in
relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., avendo la Corte territoriale supposto un diverso regime
giuridico a seconda che l’erede, nel rivendicare l’applicazione della rivalutazione contributiva mai
richiesta dal dante causa, chieda l’accertamento del suo diritto jure hereditario alle differenze maturate
sui ratei della pensione eventualmente fruita dal de cuius, ovvero l’accertamento al ricalcolo della sua
pensione di reversibilità, da determinarsi sulla base della provvista contributiva intestata al lavoratore
deceduto ed incrementata per effetto del coefficiente moltiplicatore; e nel primo caso la pretesa
dell’erede non sarebbe fondata in quanto il credito relativo alle pretese maturate sui ratei non sarebbe
mai entrato nel patrimonio ereditario, invece nel secondo caso l’erede avrebbe diritto a far valere, ai
fini del ricalcolo della sua pensione, l’esposizione all’amianto subita dalla de cuius; il ricorrente
istituto non ritiene che tale distinzione sia conforme a diritto, non condividendo il differente regime
riservato, da un lato, al credito per le differenze sui ratei arretrati (mai sorto e non trasmissibile) e,
dall’altro, al diritto alla rivalutazione contributiva in se considerata (che sorgerebbe a prescindere dalla
domanda e sarebbe, dunque, trasmissibile). Invero, il moltiplicatore di cui all’art. 13 L. 257/92 non
inciderebbe affatto sui ratei di pensione bensì unicamente sulla contribuzione accreditata al lavoratore
esposto ad amianto. E nel riprendere le argomentazioni espresse in altra pronuncia di questa Corte
(ord. n. 11574/2015) l’istituto ricorrente precisa che nel patrimonio del lavoratore deceduto non era
mai entrato il diritto alla rivalutazione contributiva e, di conseguenza, neppure quello ai ratei
differenziali, tenuto conto che la prestazione in quel caso richiesta aveva ad oggetto un assegno
ordinario di invalidità, non reversibile. E poiché nel caso in esame la pensionata non aveva mai
presentato domanda amministrativa diretta ad ottenere la rivalutazione contributiva per esposizione
ad amianto, non era mai sorto in capo alla predetta il diritto all’applicazione del coefficiente
moltiplicatore, di talché nessun diritto poteva essere azionato jure hereditario dal coniuge superstite,
per ottenere il ricalcolo della pensione di reversibilità, previo incremento della posizione assicurativa
e contributiva dell’assicurata deceduta.
2. Nel controricorso la parte privata, premesso di essere titolare di pensione di reversibilità dall’ottobre
2008 e di avere presentato in data 24/3/2017 domanda amministrativa di rivalutazione dell’anzianità
contributiva della propria dante causa ai sensi dell’art. 13 L. 257/92, respinta dall’INPS per mancanza
di certificazione INAIL attestante l’esposizione all’amianto, contesta l’erroneo richiamo alla pronuncia
della Suprema Corte n. 11574/15 afferente al diverso caso di un richiedente jure hereditatis della
riliquidazione dei ratei dell’assegno ordinario di invalidità di cui aveva beneficiato in vita il defunto
coniuge in relazione ad un incremento di contribuzione figurativa derivante dall’esposizione
all’amianto, per il quale né il de cuius né l’erede avevano avanzato alcuna domanda amministrativa,
diversamente dal caso in esame in cui il richiedente aveva agito in qualità di coniuge superstite
esercitando il diritto jure proprio, in quanto titolare di pensione di reversibilità. Si riporta a quanto
stabilito dalla circolare INPS n. 58 del 15/4/2005 circa il riconoscimento del beneficio pensionistico,
su domanda, ai superstiti del dante causa che, prima del decesso, abbia maturato i benefici
pensionistici, tale essendo il coniuge del A.A. che al momento del decesso era titolare di una pensione
di anzianità; evidenzia che il diritto alla pensione di reversibilità o indiretta sorge in capo al coniuge
superstite jure proprio, non in qualità di erede, e che la domanda di ricostituzione contributiva è
finalizzata alla rideterminazione dell’importo pensionistico del de cuius, che prima del decesso aveva
maturato i benefici pensionistici in esame, ed ancora che su di esso viene a sua volta rideterminato
l’importo della pensione del coniuge superstite. La domanda, quindi, non ha ad oggetto somme
spettanti al de cuius per gli arretrati maturati sulla propria pensione diretta, bensì unicamente il
ricalcolo della pensione di reversibilità sulla base del riconoscimento dei benefici previdenziali in
favore del dante causa; pertanto, per determinare esattamente l’importo della pensione di reversibilità
è necessario preliminarmente procedere al ricalcolo dell’anzianità contributiva del de cuius, essendo
la pensione di reversibilità un riflesso della pensione diretta liquidata in percentuale sulla pensione
già in titolarità del de cuius.
3. Il ricorso è fondato per le ragioni che seguono.
3.1 – In primo luogo, si rammenti che il diritto alla maggiorazione contributiva in conseguenza della
esposizione all’amianto costituisce, nell’interpretazione di questa Corte, un diritto autonomo e distinto
rispetto al diritto a pensione (lo ribadisce, da ultimo sent. n. 27149/2024, ivi richiamando le pronunce
n. 2351/2015, 2856/2017, 4283/2020, 14599/2022; ed altre ancora, cfr. ord. 7559/2019, 29624/2024,
18254/19), che sorge in conseguenza della esposizione ad amianto e determina una maggiorazione
pensionistica avente in un certo qual modo natura risarcitoria (Cass. n. 2856/17). Ciò che si fa valere
nelle controversie ex articolo 13 legge 257/1992 non è il diritto al ricalcolo della prestazione
pensionistica ovvero alla rivalutazione dei singoli ratei, bensì il diritto ad un beneficio che, seppure
previsto ai fini pensionistici, è dotato di una sua specifica individualità ed autonomia; il beneficio
della rivalutazione contributiva è riconosciuto dalla legge in presenza di condizioni diverse rispetto a
quelle previste per la liquidazione di pensioni e supplementi secondo le regole ordinarie, condizioni
all’evidenza conosciute solo da chi le invoca e, come tali, da portare a conoscenza dell’INPS mediante
apposita domanda amministrativa.
3.2 – Come chiarito da questa Corte (ord. n. 11438/17), la domanda amministrativa di prestazione
previdenziale all’ente erogatore ex art. 7 legge n. 533 del 1973 è condizione di ammissibilità della
domanda giudiziaria “avendo disposto il legislatore che il privato non affermi un diritto davanti
all’autorità giudiziaria prima che esso sia sorto, ossia prima del perfezionamento della relativa
fattispecie a formazione progressiva, nella quale la presentazione della domanda segna la nascita
dell’obbligo dell’ente previdenziale e, in quanto tale, non può essere assimilata ad una condizione
dell’azione, rilevante anche se sopravvenuta nel corso del giudizio (Cass. n. 732 del 2007)”. Alla
presentazione della domanda amministrativa corrisponde altresì l’insorgenza del diritto del privato a
esercitare tutela in sede giudiziaria, e la sua mancata presentazione si riverbera sulla sussistenza stessa
del diritto alla prestazione, così da precluderne in radice l’accertamento (arg. da ord. n. 17281/2024):
in sintesi, la previa domanda amministrativa assurge a “elemento costitutivo del corrispondente
diritto” (cfr. Cass. 30283/2018, ivi richiamate anche ord. n.11574/15 e sent. n.732/07), e non integra
una mera condizione dell’azione, divenendo irrilevante ove sopravvenuta in corso di causa: donde la
necessità di presentarla prima dell’instaurazione della lite (Cass., sez. lav., 29/10/2018, n. 27384).
4. Ciò posto, va dunque precisato che, nel caso in esame, il titolare della pensione diretta (pensione
di anzianità, categoria VO), coniuge defunto dell’attuale controricorrente, non aveva in vita presentato
domanda amministrativa per la rivalutazione contributiva ex art. 13 comma 8 L. 257/1992, sicché
all’apertura della sua successione, non è stato devoluto all’erede l’autonomo diritto al conseguimento
di una prestazione previdenziale maggiorata per effetto della predetta (eventuale) rivalutazione
contributiva – trattasi di una situazione giuridica soggettiva non sorta per mancato perfezionamento
della relativa fattispecie a formazione progressiva -.
Il coniuge superstite non ha tuttavia richiesto jure hereditatis il diritto alla rivalutazione contributiva
per il ricalcolo della pensione del de cuius, non ha presentato domanda amministrativa in tal senso e,
quindi, il diritto ex art. 13 co. 8 non soltanto non è stato trasmesso dal dante causa pensionato, ma
neppure è sorto in virtù ed a seguito di domanda dell’erede.
5. Diversamente, per la pensione di reversibilità, di cui il coniuge superstite era già titolare in proprio
sin dall’ottobre 2008, la domanda di rivalutazione dei contributi versati in vita dal de cuius ex lege
257/92 per l’esposizione ad amianto è volta alla ricostituzione dell’anzianità contributiva che
costituisce la base dell’originario calcolo e, di conseguenza, alla riliquidazione della pensione di
reversibilità. In tal modo, come è evidente, il richiedente ha inteso reintrodurre una rivalutazione
contributiva per esposizione ad amianto non esercitata dal congiunto, intendendo far valere un diritto
presupposto della propria pensione di reversibilità, non sorto in capo all’originario titolare e non
trasmesso al suo erede. Attraverso la domanda giudiziale di ricostituzione della anzianità contributiva
del coniuge defunto ai fini della riliquidazione della pensione di reversibilità, il richiedente avrebbe,
pertanto, inteso conseguire un ricalcolo del montante contributivo originario, quale base di calcolo
della propria pensione.
6. Devesi tuttavia rammentare la finalità dell’istituto: le prestazioni a favore dei superstiti mirano a
coprire il rischio del venir meno di una fonte di reddito (ancorché pensionistico) sulla quale i familiari
congiunti del pensionato avevano potuto fare affidamento; la morte rappresenta un evento protetto
dal regime di assicurazione obbligatoria, generatore di un bisogno socialmente rilevante, e la
prestazione spetta, in particolare, al coniuge superstite in virtù del vincolo di solidarietà coniugale.
Trattasi, come annunciato, di un diritto che i beneficiari stretti congiunti acquisiscono jure proprio, ai
sensi dell’art. 22 L. 903/1965, e qui si comprende il senso della entità economica del diritto,
commisurato al reddito mancato, nella percentuale corrispondente alla pensione “già liquidata” di cui
il congiunto godeva e sulla quale il superstite poteva contare anche per il proprio sostentamento, in
ossequio alla finalità solidaristica che sovrintende l’istituto e dell’apporto contributivo che la pensione
forniva alle esigenze del nucleo familiare. La prestazione in reversibilità, diritto proprio del superstite,
trova il suo fondamento di calcolo in una situazione soggettiva già conclamata, concernente la
pensione di anzianità del defunto, mentre la rivalutazione contributiva posta a base della pensione del
de cuius, non attivata attraverso la domanda ex art. 13 comma 8 L. 257/92, non si è perfezionata, non
è entrata nel patrimonio del titolare di pensione, e non è stata trasmessa. In sostanza la domanda di
riliquidazione della pensione di reversibilità (diritto proprio del coniuge superstite) si basa su un
diritto – non sorto – alla maggiorazione contributiva ex lege 257/92 (non acquisito jure hereditario),
ed è per tale motivo infondata.
In tali termini può essere data continuità alla pronuncia rammentata dal ricorrente istituto, ordinanza
n. 11574/2015, che, ancorché riferita ad una domanda di riliquidazione dell’assegno ordinario di
invalidità goduto in vita dal coniuge del richiedente, ha chiarito l’intrasmissibilità del diritto al
ricalcolo dei ratei non richiesti, in relazione alla contribuzione figurativa derivante dall’esposizione
ad amianto.
7. Dalle considerazioni svolte discende che, in mancanza della domanda amministrativa, in quanto
provvista di carattere costitutivo, il relativo diritto non è acquisito al patrimonio del lavoratore e
neppure, dunque, è trasmissibile, in caso di decesso, agli eredi (Cass., sez. VI L, 4 giugno 2015, n.
11574).
Pertanto, alla mancata presentazione della domanda da parte del de cuius non può supplire una
domanda dell’erede, quando questi, come avviene nel caso di specie, faccia valere in via diretta un
diritto iure proprio – ed in via mediata un diritto jure ereditario – vantando il diritto alla ricostituzione
dell’anzianità contributiva del proprio congiunto deceduto (in considerazione del riconoscimento
della sua esposizione all’amianto) sui ratei che, che in quanto non richiesti dal dante causa (che
pacificamente non ha presentato domanda all’INPS) non sono entrati nel patrimonio del de cuius e
non possono pertanto essere trasmessi per successione, con l’effetto consequenziale della
riliquidazione della pensione di reversibilità.
8. La pronuncia impugnata, che ha delimitato e sintetizzato l’oggetto della domanda alla rivalutazione
contributiva della pensione di reversibilità, non ha correttamente applicato la disposizione normativa
di cui al citato art. 13 comma 8, né i principi regolatori degli istituti coinvolti. Ne consegue la
cassazione della sentenza d’appello e, non residuando la necessità di ulteriori accertamenti di fatto, la
causa può essere decisa senza rinvio, pronunciando il rigetto dell’originaria domanda introduttiva.
9. Le spese del presente giudizio possono essere compensate, in tutti i gradi, in ragione della
particolarità delle questioni trattate e del consolidarsi dell’orientamento di questa Corte su tutte le
implicazioni dei temi dibattuti, in epoca posteriore alla proposizione della domanda giudiziaria.
Non ricorrono le condizioni per il pagamento del doppio del contributo versato dal ricorrente nella
introduzione della presente fase di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda
originariamente proposta. Compensa le spese dell’intero processo.
Dichiara la insussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, a norma del
comma 1 – bis dell’art. 13 del D.P.R. n. 115 del 2002.
Così deciso in Roma il 27 settembre 2024.
Depositata in Cancelleria il 30 dicembre 2024.

Ai fini della dichiarazione di adottabilità la condizione di abbandono morale e materiale deve essere valutata nell’attualità.

Cass. civ., Sez. I, Ord., 10/12/2024, n. 31704
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACIERNO Maria – Presidente/Relatore
Dott. MACCARRONE Tiziana – Consigliere
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere
Dott. REGGIANI Eleonora – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7394/2024 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in GENOVA VIA ASSAROTTI, 7, presso lo studio
dell’avvocato BAVA ARTURO ((Omissis)) che lo rappresenta e difende
– ricorrente –
contro
AVV. B.B., in qualità di tutore provvisorio della minore C.C. difesa da sé stessa
– controricorrente –
nonchè contro
Giurisprudenza di legittimità Ondif
3
PROCURATORE GENERALE CORTE D’APPELLO GENOVA
– intimato –
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO GENOVA n. 16/2024 depositata il
06/03/2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 11/10/2024 dalla
presidente MARIA ACIERNO.
Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Genova, con sentenza n. 16/2024 pubblicata il
06.03.2024, rigettava l’appello proposto dalla sig.ra avverso la sentenza del
Tribunale per i minorenni e confermava lo stato di adottabilità del minore C.C.,
alias D.D. nata a D. il (Omissis).
In particolare, in data 2.6.2019, C.C., insieme al minore E.E., suo cugino, ed
alla (allora presunta) sorella F.F., incinta, sbarcavano, privi di documenti, a
Genova e venivano collocati nella struttura di (Omissis) a G.
In data 23.6.2019 F.F. si allontanava dalla struttura con i minori, e veniva
rintracciata il giorno successivo alla stazione ferroviaria di Genova in procinto
di partire per la Francia.
Il Tribunale per i minorenni di Genova (di seguito: TM) con decreto urgente
datato 24.06.2019 disponeva che i minori venissero affidati al Servizio Sociale,
collocati in struttura e nominava tutrice l’Avv. B.B., dichiarando poi aperta la
procedura di adottabilità.
Disposta l’audizione di F.F., la stessa affermava in data 19.09.2019 di avere
una sorella in Francia, madre di C.C., e di essere, in verità, la zia dei minori.
A seguito di dette dichiarazioni la sig.ra A.A. veniva contattata dai Servizi
Sociali, confermava di essere la madre della minore C.C., allegando estratto di
nascita.
I servizi sociali con relazione del 10.02.2020 riferivano che la sig.ra A.A., dopo
aver infruttuosamente esperito diversi tentativi al fine di mettersi in contatto
con loro, aveva chiesto notizie del figlio, aveva dichiarato di non essere stata,
precedentemente, in condizioni di contattarli a causa della situazione di
irregolarità in Francia, ma di aver comunque migliorato la propria condizione
economica. Aggiungeva di voler ritornare in Italia al fine di avere nuovamente
il figlio con sé.
Con decreto 8.3.2021 il TM disponeva la collocazione dei minori in famiglie
affidatarie, invitava poi, con lettera datata 12.04.2021, la sig.ra A.A., madre
della minore a costituirsi in giudizio tramite un avvocato onde essere ascoltata
entro il termine di 20 giorno dalla notificazione.
Con istanza del 1.06.2021 il tutore della minore evidenziava l’opportunità di
nominare un avvocato di ufficio per A.A., così come richiesto dal difensore
francese della stessa.
Ciononostante, il TM dichiarava il non luogo a provvedere sull’istanza, sul
riscontro che la sig.ra A.A. non aveva fornito prove di essere la madre del
minore né aveva deciso di costituirsi in giudizio.
Con comunicazione datata 5.8.2021 l’avocat N. del B. di Parigi riaffermava
l’intenzione dell’assistita di ricongiungersi con il figlio, chiedeva informazioni
sulla possibilità di costituirsi in giudizio, ribadiva l’impossibilità per la sig.ra
A.A. di recarsi in Italia in quanto richiedente asilo ancora priva di documenti.
Con atto datato 24.1.2022 la ricorrente attuale si costituiva in giudizio a mezzo
del difensore avv. A. B., comunicando l’avvenuto rilascio della carta di
residenza, chiedeva disporsi la comparizione dinanzi al TM, instava per il
rigetto della richiesta di adozione del minore C.C.
Comparendo pertanto innanzi al TM in data 3.3.2022, N.N. dichiarava di essere
partita dal 2015 dalla Costa d’Avorio, di aver lasciato C.C. con sua madre in
patria, di vivere in Francia, ove aveva contratto matrimonio, di non aver saputo
dell’iniziativa di F.F. di partire per l’Italia portando con sé i minori e di essere
venuta a conoscenza della presenza dei minori in Italia solo nel 2019.
Il Tribunale, valutando anche il corretto inserimento di C.C. nella famiglia
affidataria, alla luce delle predette circostanze, riteneva sussistente la
condizione di abbandono non transitorio.
Avverso tale sentenza ricorreva A.A.:
Lamentando di essere stata privata del diritto di difesa in quanto, pur essendo
nota la sua qualità di madre del minore già a partire dal 10.09.2019, il TM non
aveva disposto la nomina di un avvocato d’ufficio in violazione degli artt. 8 e
10 della L. 184/1983 . In relazione a ciò, la ricorrente sottolineava di essere
stata privata della possibilità di presentare la sua versione dei fatti.
Lamentando l’insufficienza istruttoria del TM, il quale avrebbe omesso di
indagare l’idoneità della ricorrente a prendersi cura della minore
Si opponeva, pertanto, alla dichiarazione di adottabilità.
Si costituiva in giudizio, l’avv. B.B. opponendosi ad ogni motivo di
impugnazione assumendo l’abbandono materiale e morale della minore.
La Corte d’Appello con Ordinanza del 17.11.2022 dichiarava l’inutilizzabilità
degli atti istruttori del procedimento di primo grado compiuti fino al
24.01.2022, disponeva audizione dei genitori affidatari del minore.
Con ordinanza del 25.05.2023 disponeva CTU sulle condizioni psicofisiche della
minore, osservando la sua relazione con la madre e con gli affidatari.
Con la sentenza n. 16/2024, la Corte d’Appello rigettava l’appello proposto da
A.A., confermando la sentenza di primo grado e compensando integralmente
fra le parti le spese di giudizio.
Con ricorso ex art. 360 c.p.c. A.A. proponeva ricorso per Cassazione per i
seguenti motivi:
Ex art. 360 c.p.c. numero 3, violazione e falsa applicazione di legge in
relazione alla L. n. 184 del 1983 , artt. 1 , 8 , 10 e 15 , con riferimento alla
dichiarazione di inidoneità genitoriale della madre, basata sulla di lei supposta
incapacità genitoriale irreversibile.
In ogni caso in violazione degli artt. 1 e 8 L. 184 del 1983 , dell’art. 7 e 9
convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20.11.1989 (ratificata con
L. n. 176 del 1991 ); dell’art. 8 della convenzione di Strasburgo del 25.01.1996
(ratificata con L. n. 27 del 2003 ); con riferimento al diritto del minore a
crescere e mantenere contatti con la madre.
Ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c.: omesso esame di un fatto decisivo, consistente
nella la relazione dei servizi sociali francesi prodotta nel corso del giudizio di
appello.
Ex art. 360 c.p.c., n. 3, Violazione e falsa applicazione di legge in relazione
all’art 30 Cost., co. 2; alla L. n. 184 del 1993 , agli artt. 1, 8, 10 e 15, con
riferimento alla mancata predisposizione di qualsiasi progetto di intervento
volto a sostenere il ricorrente nelle funzioni genitoriali anche con l’ausilio
dell’attuale marito e dei servizi sociali di Parigi
Ex art. 360 c.p.c. n. 3, violazione o falsa applicazione di legge in relazione alla
L. n. 184 del 1983 , artt. 1 , 8 , 10 e 15 , con riferimento alla mancata
valutazione della possibilità di evitare la rescissione del legame filiale mediante
la cd. Adozione mite.
Motivi della decisione
Con la prima censura, la ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione di
legge in relazione alla L. n. 184/1983 , artt. 1 , 8 , 10 e 15 , con riferimento
alla dichiarazione di inidoneità genitoriale della madre, basata sulla supposta
incapacità genitoriale irreversibile.
La ricorrente censura, inoltre, l’omesso esame di un fatto decisivo e
segnatamente l’esame della relazione dei servizi sociali francesi prodotta nel
corso del giudizio.
Il primo motivo è fondato.
Occorre premettere che, come opportunamente osservato e coerentemente
con quanto disposto dalla Corte d’Appello con ordinanza del 17.11.2022, gli atti
istruttori compiuti sino al giorno della costituzione della stessa ricorrente (e
quindi le varie relazioni dei servizi sociali, il decreto del Tribunale per minorenni
che ha disposto la collocazione in famiglia affidataria del minore e gli ulteriori
atti compiuti in assenza del difensore della Sig.ra A.A.) non possono essere
tenuti in considerazione al fine della decisione a motivo della grave lesione
arrecata al diritto di difesa della ricorrente, messa nella condizione
d’impossibilità di partecipare fin dall’inizio al giudizio, assistita da un difensore.
Al riguardo, il rilievo della nullità da parte della Corte d’Appello concretamente
è risultato privo di conseguenze endoprocessuali e relative all’affidamento della
minore, dal momento che la “rinnovazione” disposta ha prodotto
esclusivamente la sanatoria ex tunc dell’attività pregressa, pur ritenuta
invalida, senza incidere su quanto già deciso nel corso del giudizio di primo
grado.
Ne è conseguita la conservazione della limitazione della responsabilità
genitoriale della ricorrente, pur se disposta in una fase del procedimento
giurisdizionale viziato da nullità.
Fin dall’inizio del procedimento giurisdizionale, di conseguenza, si deve
segnalare una rilevante carenza di effettiva attività istruttoria rivolta all’esame
della ricorrente, alle ragioni del suo allontanamento dalla minore, della
residenza in Francia, trascurando le istanze di partecipazione effettive al
giudizio in Italia.
Nel giudizio di secondo grado, svoltosi con la partecipazione della ricorrente,
assistita da difesa tecnica, è stata svolta attività istruttoria sostanzialmente
esauritasi nell’audizione della stessa e nello svolgimento della CTU, all’esito
della quale, tuttavia, la Corte d’Appello, come sottolineato nella prima parte
della censura, ha svolto una valutazione d’inidoneità fuori dal paradigma
normativo, radicalmente carente dei requisiti previsti dalla norma in esame.
Sono state ignorate le risultanze provenienti dai servizi sociali francesi e,
soprattutto, non è stata considerata adeguatamente la situazione attuale di
stabilità economica e familiare della ricorrente, risultando il giudizio negativo
fondato esclusivamente sullo stigma relativo alla condotta della stessa con
esclusivo riferimento alla fase di allontanamento iniziale dalla minore e a quella
successiva alla fuga in Italia della sorella (zia della minore), senza considerare
la situazione di contesto nella quale la ricorrente si trovava al momento
dell’arrivo della figlia minore in Italia, e senza considerare i plurimi tentativi di
partecipare al giudizio davanti al Tribunale per i minorenni.
La Corte d’Appello ha formulato la propria valutazione esclusivamente su alcuni
stralci della CTU che, tuttavia, hanno tratto la conclusione dell’inidoneità in
modo apodittico solo dalle condotte già descritte, senza alcuna indagine sulla
personalità della ricorrente, soprattutto con riferimento alle sue capacità di
relazione con la minore, dalla quale si è dovuta presto allontanare per lavorare
altrove. Non si tenuto conto infine della sua attuale condizione di madre e della
valutazione eventualmente da richiedere ai servizi sociali territorialmente
competenti, di questo profilo.
La Corte d’Appello ha, inoltre, ignorato le ragioni addotte dalla ricorrente in
sede di audizione, relative al non aver esposto la minore ad un trasferimento
difficile.
In conclusione, si è stabilita una continuità abbandonica solo sulla base di
giudizi valutativi sul trasferimento in Europa senza la minore, ma senza che la
stessa sia valutata alla luce delle ragioni, pur esplicitate, né avendo riguardo al
contesto in cui talune scelte sono maturate, così da dare luogo ad una
valutazione radicalmente carente e non coerente con il parametro normativo.
Infine, la valutazione di abbandono difetta del requisito dell’attualità, essendo
esclusivamente rivolta al passato e non alla condizione sopravvenuta fin dal
primo grado di giudizio di stabilità personale, familiare ed economica della
ricorrente, e si riduce ad un esame esclusivo della condizione di benessere
della minore nella famiglia affidataria, non sufficiente da sola a fondare la
dichiarazione di adottabilità, tenuto conto della centralità della valutazione
delle capacità dei genitori biologici.
La giurisprudenza di legittimità al riguardo è costante nell’affermare che: “In
tema di adozione del minore, il giudice, nella valutazione della situazione di
abbandono, quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità,
deve fondare il suo convincimento effettuando un riscontro attuale e concreto,
basato su indagini ed approfondimenti riferiti alla situazione presente e non
passata, tenendo conto della positiva volontà di recupero del rapporto
genitoriale da parte dei genitori” (Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 2017, n.
22933 ).
Il giudizio di bilanciamento non può che tenere in massima considerazione il
diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia,
conseguendo da ciò la residualità dell’adozione del minore cui solo si può fare
ricorso allorquando la situazione di carenza di cure materiali e morali sia tale
da pregiudicare in modo grave e non transeunte lo sviluppo e l’equilibrio
psicofisico del minore, a motivo della ostinata inidoneità del genitore ad
assumere e conservare piena consapevolezza dei propri compiti e delle proprie
responsabilità.
In particolare, questa Corte ribadisce il principio per cui “il diritto del minore di
crescere nell’ambito della propria famiglia di origine, considerata l’ambiente più
idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è tutelato dall’art. 1 della L. 4
maggio 1983, n. 184 . Ne consegue che il giudice di merito deve,
prioritariamente, verificare se possa essere utilmente fornito un intervento di
sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare, e, solo
ove risulti impossibile, quand’anche in base ad un criterio di grande probabilità,
prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la
necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittimo e
corretto l’accertamento dello stato di abbandono” (Cass. sez. 1, sent. n. 6137
del 26.03.2015 ).
La valutazione del giudice, nel caso di specie, ignorando peraltro la radicale
impossibilità per la ricorrente di essere messa nelle condizioni effettive di
esercizio del proprio diritto di difesa per tutto il giudizio di primo grado, è
risultata carente di ogni approfondimento diretto alla sussistenza di detti
requisiti all’attualità, dando origine ad un provvedimento radicalmente viziato
per i motivi di cui alla prima censura.
Il primo motivo, va in conclusione accolto, con assorbimento dei rimanenti
motivi. La sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte
d’Appello di Genova in diversa composizione perché provveda anche sulle
spese processuali del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbe gli altri e cassa la sentenza
impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Genova in diversa composizione
perché provveda anche sulle spese processuali del presente giudizio.
Conclusione
Così deciso in Roma, l’11 ottobre 2024.
Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2024.