Stalking. Non è necessario che gli atti persecutori si manifestino in prolungata sequenza temporale

Cass. Pen., Sez. V, Sent., 26 gennaio 2024, n. 3215; Pres. Catena, Rel. Cons. Guardiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Con l’ordinanza di cui in premessa il tribunale di Catanzaro, adito ex art. 309, c.p.p., confermava
l’ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Catanzaro, in data 29
dicembre 2022, ha applicato nei confronti di A.A. la misura cautelare del divieto di avvicinamento
alla persona offesa e all’abitazione di quest’ultima, in relazione al reato ex art. 612 bis, c.p., oggetto
dell’imputazione provvisoria, commesso in danno di B.B.
2. Avverso l’ordinanza del tribunale del riesame ha proposto tempestivo ricorso per cassazione il A.A.,
lamentando: 1) violazione di legge, in punto di mancanza di autonoma valutazione da parte del
giudice dell’impugnazione cautelare, che si è limitato a riproporre le ragioni poste a fondamento
dell’ordinanza cautelare impugnata, anche con riferimento alla sussistenza delle esigenze cautelari;
2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta configurabilità del delitto di cui
all’art. 612 bis, c.p., e all’attualità del profilo cautelare, avendo il tribunale del riesame omesso di
considerare la rilevanza della revoca della querela da parte della persona offesa e della circostanza
che quest’ultima non ha assolutamente modificato il proprio stile di vita; 3) violazione di legge e vizio
di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari.
3. Con requisitoria scritta del 7 luglio 2023, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso
la Corte di cassazione, dott.ssa Picardi Antonietta, chiede che il ricorso venga dichiarato
inammissibile. Con memoria del 7 settembre 2023, il difensore di fiducia del A.A., insiste per
l’accoglimento del ricorso.
3. Il ricorso va dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.
4. Preliminarmente va fatta chiarezza sulla questione della remissione della querela da parte della
persona offesa. Il tema non è stato affrontato dal tribunale del riesame, sul presupposto che la dedotta
remissione della querela fosse una circostanza sopravvenuta, estranea al thema decidendum.
Su tale profilo il difensore del A.A. si sofferma nei motivi di ricorso, sia pure al limitato fine di
sottolineare come la dedotta circostanza, non valutata dal tribunale del riesame, abbia inciso sui gravi
indizi di colpevolezza e sull’attualità dell’esigenza cautelare del pericolo di reiterazione criminosa,
determinandone il venir meno (cfr. pp. 3 e 6 del ricorso). Solo con la menzionata memoria del 7
settembre 2023, il ricorrente deduce specificamente il venir meno della condizione di procedibilità,
stante la remissione della querela da parte della persona offesa, che, nel corso della testimonianza
resa in dibattimento (come da relativo verbale allegato alla memoria, in conformità al principio
dell’autosufficienza del ricorso) ha escluso che l’imputato abbia proferito nei suoi confronti “minacce
reiterate nei modi indicati dall’art. 612, secondo comma”, circostanza che, ove sussistente, avrebbe
reso irretrattabile la querela, ai sensi dell’art. 612 bis, co. 4, c.p. Orbene sul punto si osserva,
innanzitutto, che non risulta agli atti, consultabili in questa sede, essendo stato dedotto un error in
procedendo, alcuna formale remissione di querela, seguita da una formale accettazione da parte
dell’imputato, ai sensi dell’art. 340, c.p.p., condizioni indispensabili, ai sensi del combinato disposto
degli artt. 152, 155, c.p. e 340, c.p.p., affinché la remissione della querela produca l’effetto estintivo
del reato previsto dall’art. 152, co. 1, c.p. La necessità di una formale remissione di querela, seguita
da una formale accettazione del querelato, è, infatti, imposta dalla previsione dell’art. 612 bis, co. 4,
c.p.p., secondo cui la remissione della querela può essere soltanto processuale, con esclusione,
dunque, della remissione extraprocessuale, espressa o tacita che sia, dovendosi intendere per
remissione processuale quella disciplinata dal combinato disposto degli artt. 152, c.p., e 340, c.p.p.
(cfr. Sez. 4, n. 16669 del 08/04/2016, Rv. 266643). Sotto diverso profilo, va rilevato, in aggiunta a
quanto già osservato, che il tema dedotto in memoria non aveva formato oggetto di una specifica
deduzione nei motivi di ricorso (con i quali, come si è detto, la dedotta remissione della querela era
finalizzata a dimostrare l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e dell’attualità delle esigenze
cautelari), dovendosi, pertanto, qualificare come motivo nuovo, la cui inammissibilità deriva, ai sensi
dell’art. 585, co. 4, secondo periodo, c.p.p., dall’inammissibilità dei motivi originari.
5. Tali ultimi motivi, invero, risultano inammissibili, perché del tutto generici e aspecifici, nonché
manifestamente infondati e versati in fatto. Al riguardo vanno ribaditi i principi affermati dalla
giurisprudenza di legittimità, che da tempo ha evidenziato come, in materia di provvedimenti de
libertate, la Corte di Cassazione non ha alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali
delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, né di rivalutazione delle condizioni
soggettive dell’indagato, in relazione alle esigenze cautelari e all’adeguatezza delle misure, trattandosi
di apprezzamenti di merito rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice che ha
applicato la misura e del tribunale del riesame. Il controllo di legittimità è quindi circoscritto all’esame
del contenuto dell’atto impugnato per verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno
determinato e, dall’altro, l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni
rispetto al fine giustificativo del provvedimento (cfr. Cass., sez. II, 2.2.2017, n. 9212, rv. 269438;
Cass., sez. IV, 3.2.2011, n. 14726; Cass., sez. III, 21.10.2010, n. 40873, rv. 248698; Cass., sez. IV,
17.8.1996, n. 2050, rv. 206104), essendo sufficiente ai fini cautelari un giudizio di qualificata
probabilità in ordine alla responsabilità dell’imputato (cfr. Cass., sez. II,10.1.2003, n. 18103, rv.
224395; Cass., sez. III, 23.2.1998, n. 742). Pertanto quando, come nel caso, in esame, vengono
denunciati vizi del provvedimento di conferma emesso dal tribunale del riesame in ordine alla
consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte di Cassazione spetta il compito di verificare,
in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il
giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la
gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione
riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di
diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie, con gli adattamenti resi necessari
dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi e tendente
all’accertamento non della responsabilità, ma di una qualificata probabilità di colpevolezza, oltre che
all’esigenza di completezza espositiva” (cfr. Cass., sez. V, 20.10.2011, n. 44139, O.M.M.). Orbene,
non appare revocabile in dubbio che il tribunale del riesame di Catanzaro abbia fatto buon uso di tali
principi, in quanto, con motivazione approfondita e immune da vizi, in cui sono stati presi in debita
considerazione i rilievi difensivi, ha ritenuto sussistente il requisito dei gravi indizi di colpevolezza a
carico del A.A., in ordine al reato oggetto della contestazione. Ciò sulla base di un’attenta
ricostruzione delle risultanze investigative, fondate sulle dichiarazioni della persona offesa,
sottoposte a penetrante vaglio critico da parte del giudice dell’impugnazione cautelare, che ha
evidenziato come “il propalato della vittima appaia coerente, lineare, circostanziato quanto ai tempi,
ai luoghi e all’autore della condotta illecita, oltre che scevro da intenti calunniatori o vendicativi”,
conformemente al consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le
dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste da sole a fondamento
dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, non trovando applicazione nei confronti
della persona offesa le regole di valutazione della prova dettate dall’art. 192, comma 3, c.p.p., previa
verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e
dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che, peraltro, deve in tal caso essere più penetrante e
rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (cfr. Cass.,
sez. un., 19/07/2012, n. 41461, P.M., rv. 253214). Il tribunale del riesame, inoltre, pur non essendo
necessario, ha individuato riscontri esterni al narrato della B.B., con particolare riferimento
all’aggressione fisica da quest’ultima patita per mano dell’imputato, nel referto medico dell’Ospedale
pugliese (Omissis) di Ca., attestante l’esistenza di un trauma cranico non commotivo, con prognosi di
guarigione in cinque giorni, e nelle informazioni fornite da C.C., che ha assistito alle fasi
immediatamente successive alla menzionata aggressione. Del tutto esaustiva deve ritenersi la
motivazione dell’ordinanza impugnata anche sotto il profilo della ritenuta sussistenza di uno degli
eventi previsti dalla norma incriminatrice, avendo il tribunale del riesame specificamente chiarito
come la B.B., che “viveva da sola ed era abituata a condurre una vita riservata”, avesse “maturato un
perdurante e grave stato di ansia e di paura a causa della frequenza delle condotte dell’indagato”. A
fronte di tale limpido argomentare, i rilievi difensivi con cui si eccepisce la mancanza di autonoma
valutazione da parte del tribunale del riesame e la sussistenza degli elementi costituitivi del reato in
contestazione, risultano del tutto generici e versati in fatto, oltre che manifestamente infondati. Sul
punto non assume valore decisivo il fatto che la persona offesa, nel corso della deposizione
testimoniale resa in dibattimento, il cui relativo verbale, come si è detto, è stato allegato alla memoria
difensiva, abbia escluso di essere stata minacciata dall’imputato, ammettendo solo di avere subìto
l’aggressione fisica in precedenza indicata e di essere stata esposta a una serie di atti emulativi (definiti
dalla donna “dispetti, dispettucci”), consistenti nello spostamento e nel rovesciamento del bidone
della Spazzatura, posto all’esterno della sua abitazione.
Come è noto, infatti, assolutamente costante è l’orientamento della giurisprudenza di legittimità,
secondo cui integrano il delitto di atti persecutori ex art. 612-bis, c.p., anche due sole condotte di
minacce, molestie o lesioni, pur se commesse in un breve arco di tempo, idonee a costituire la
“reiterazione” richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti
persecutori si manifestino in prolungata sequenza temporale (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 46331 del
05/06/2013, Rv. 257560; Sez. 5, n. 33842 del 03/04/2018, Rv. 273622). Nel caso in esame accanto
all’aggressione fisica in danno della B.B., sfociata nelle indicate lesioni, anche a non voler considerare
le minacce, vanno comunque evidenziati quanto meno gli atti emulativi consistenti nello spostamento
ovvero nel rovesciamento dei bidoni di immondizia di fronte alla sua porta di casa, correttamente
valorizzati dal tribunale del riesame, costituenti vere e proprie molestie, essendosi concretizzati tali
atti in un’indebita ingerenza nella sfera individuale della persona offesa, idonea a comprometterne la
serenità e la libertà psichica, come dimostrato in tutta evidenza dal conseguente insorgere nella B.B.
del denunciato grave stato di ansia e di paura, derivante dalla consapevolezza di essere esposta alle
intemperanze e alla violenza del A.A.
6. Manifestamenti infondati e generici appaiono anche i rilievi formulati in ordine alla sussistenza
della ritenuta esigenza cautelare di tutela della collettività. Si osserva, al riguardo, come il Collegio
condivida il recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di
presupposti per l’applicazione delle misure cautelari personali, il requisito dell’attualità del pericolo
di reiterazione del reato, introdotto nell’art. 274, lett. c), c.p.p., dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, non
va equiparato all’imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato, ma sta invece ad
indicare la continuità del “periculum libertatis” nella sua dimensione temporale, che va apprezzata
sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell’indagato, ovvero
della presenza di elementi indicativi recenti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di
concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a realizzare, dovendosi considerare,
nella valutazione del pericolo di recidiva al momento dell’adozione della misura, il tempo trascorso
dal fatto contestato e la peculiarità della vicenda cautelare (cfr. Cass., sez. VI, 27.11.2015, n. 3043,
rv. 265618;
Cass., sez. III, 27.10.2015, n. 49318, rv. 265623; Cass., sez. V, 24.9.2015, n. 43083, rv. 264902).
Orbene tali profili sono stati attentamente considerati dal tribunale del riesame, che, intervenuto poco
tempo dopo il verificarsi dei fatti, ha evidenziato la persistenza del proposito criminoso del ricorrente,
tale da consentire di esprimere legittimamente un giudizio in termini di attualità e concretezza del
pericolo di recidiva pericolo, reso particolarmente elevato dalla prognosi sulla probabile reiterazione
di occasioni criminose, di cui il ricorrente sarebbe in grado di approfittare, che il giudice della
impugnazione cautelare ha ricollegato, sulla base di un ragionamento dotato di intrinseca coerenza
logica, alla gravità dei fatti, che, attraverso l’aggressione fisica culminata nel pugno sferrato al volto
della donna non appena quest’ultima aprì la porta di casa, denotano una particolare pericolosità sociale
dell’imputato, in tutta evidenza incapace di contenere le sue pulsioni, nonché alla circostanza che
quest’ultimo è stato deferito all’autorità giudiziaria il 24 agosto del 2022, dunque in epoca non lontana
nel tempo dai fatti per cui si procede, per il porto ingiustificato di un coltello. La conclusione cui è
giunto il tribunale del riesame appare, pertanto conforme alla previsione dell’art. 274, lett. c), c.p.p.,
(non modificata, sul punto, dalla novella legislativa del 16 aprile 2015, n. 47), nella parte in cui
prevede che il giudizio sulla personalità dell’indagato o dell’imputato possa fondarsi,
alternativamente, su comportamenti o atti concreti o sui suoi precedenti penali, interpretata da un
consolidato orientamento giurisprudenziale, nel senso che gli elementi per una valutazione di
pericolosità possono trarsi anche solo da comportamenti o atti concreti – non necessariamente aventi
natura processuale, pur in difetto di precedenti penali (cfr. ex plurimis, Cass., sez. V, 25.9.2014, n.
5644, rv. 264212).
7. Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p.,
al pagamento delle spese del procedimento ed, in favore della Cassa delle Ammende, di una somma
che si ritiene equo fissare in Euro 3000,00 euro, tenuto conto della circostanza che l’evidente
inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest’ultimo immune da colpa
nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186
del 13.6.2000). Va, infine, disposta l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi in caso
di diffusione del presente provvedimento, ai sensi dell’art. 52, co. 5, D.Lgs. 30/06/2003 n. 196.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. In caso di diffusione del presente
provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52, D.Lgs.
196/2003, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma il 13 settembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2024.

L’attitudine al lavoro proficuo dei coniugi costituisce elemento valutabile per la determinazione dell’assegno di mantenimento

Cass. Civ., Sez. I, Sent., 23 gennaio 2024, n. 2264; Pres. Genovese, Rel. Cons. Caiazzo
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
A.A. ha proposto appello avverso la sentenza del Tribunale di Ragusa del 23.1.18 che aveva
pronunziato la separazione personale dal marito B.B., affidando la figlia C.C., nata il (Omissis), in
via esclusiva al padre, facultando la madre a vederla esclusivamente presso i locali dei Servizi sociali
per non più di due volte a settimana, e di due ore consecutive, secondo quanto stabilito dagli stessi
Servizi, ponendo a carico del marito l’assegno di mantenimento di euro 400,00 al mese.
Si è costituito B.B., proponendo appello incidentale. Con sentenza del 26.1.23, la Corte d’Appello di
Catania, in parziale accoglimento dell’appello principale, ha disposto che gli incontri tra l’appellante
e la figlia avvenissero esclusivamente presso i locali dei Servizi sociali di Vittoria per tre volte a
settimana, e per due ore consecutive, secondo quanto stabilito dai Servizi stessi. Inoltre, in parziale
accoglimento dell’incidentale, la Corte ha ridotto l’assegno di mantenimento a carico del B.B., a
favore dell’appellante, alla somma di euro 300,00 mensile, dall’1.1.2023, incaricando altresì i Servizi
sociali di predisporre un intervento di monitoraggio della situazione, curando il passaggio graduale
degli incontri tra madre e figlia dallo spazio neutro all’abitazione della madre. In particolare, la Corte
d’Appello ha osservato che: il disposto allontanamento dall’abitazione materna aveva permesso alla
bambina di vivere quasi quattro anni produttivamente presso il padre il quale, tramite interventi
specialistici, aveva consentito il miglioramento psicofisico della figlia; era stata disposta c.t.u., avente
ad oggetto la valutazione delle competenze parentali della A.A., e della sua capacita di fornire alla
figlia assistenza morale e materiale, che aveva evidenziato il disagio psichico della madre, suggerendo
incontri periodici con la figlia presso l’unita operativa di neuropsichiatria infantile e il consultorio
familiare; alla luce del complessivo esame dell’attività istruttoria, nel preminente interesse della
minore, era opportuno mantenerne l’affidamento esclusivo al padre, con collocamento presso di lui,
con incontri tra la madre e la figlia sotto la supervisione dei Servizi sociali del Comune di Vittoria,
con l’inserimento di un’ulteriore giornata al fine di agevolare il percorso di avvicinamento tra loro;
era infine necessario che la minore fosse presa in carico presso il servizio di neuropsichiatria
competente al fine di superare i disturbi della condotta diagnosticati in sede di c.t.u.; era da rigettare
l’appello incidentale del B.B. sull’addebito della separazione, mentre era da accogliere parzialmente
la doglianza sull’assegno di mantenimento, riducendone l’importo, ribadendo pero il diritto all’assegno
in favore della A.A., in considerazione del suo stato di disoccupazione, della sua impossibilità di
procurarsi un’occupazione lavorativa, e tenuto conto dell’adeguata capacita patrimoniale del marito
che svolgeva una consolidata attività imprenditoriale.
A.A. ricorre in cassazione con tre motivi, illustrati da memoria. B.B. resiste con controricorso,
proponendo ricorso incidentale affidato a due motivi, illustrati da memoria.
Motivi della decisione
Il primo motivo deduce nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 132, c.4, c.p.c., e omesso
esame di fatto decisivo, per non aver la Corte d’Appello riconosciuto alla ricorrente il diritto
all’affidamento condiviso della figlia. Al riguardo, la medesima ricorrente si duole che non sia stata
adeguatamente esaminata la c.t.u. dalla quale era emerso che ella aveva la “capacita di fornire alla
figlia l’assistenza morale, materiale, possedendo le adeguate competenze genitoriali che non riusciva
pero ad estrinsecare”, anche per la tendenza paranoide accertata; la permanenza della minore presso
il padre aveva prodotto effetti deleteri, in ordine all’equilibrio e alla serenità della ragazza.
Pertanto, la ricorrente paventa che il mantenimento dell’affidamento esclusivo della minore al padre
continuerebbe a danneggiare il legame tra madre e figlia.
Il secondo motivo deduce nullità della sentenza per violazione degli artt. 132, c. 4, e 115 c.p.c., per
aver la Corte d’appello apoditticamente affermato che l’assegno di mantenimento a suo favore dovesse
essere ridotto da euro 400,00 a euro 300,00 mensili, a seguito della formazione della nuova famiglia
del marito e la nascita di un nuovo figlio, pur non percependo essa ricorrente alcun reddito. Il terzo
motivo denunzia violazione dell’art. 360 c.p.c. in relazione all’errore di sussunzione, ovvero all’errore
di ricognizione della fattispecie concreta, per aver la Corte d’appello escluso l’affidamento condiviso
della minore per l’elevata conflittualità tra coniugi, avendo la ricorrente “rinunciato a tale pretesa”,
senza rinunciare all’affido condiviso.
Il primo motivo del ricorso incidentale denunzia violazione degli artt. 132, c. 4, 116, c.p.c., ed omesso
esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, per aver la Corte d’appello rigettato il
motivo dell’appello incidentale riguardante l’addebito della separazione in ragione della conflittualità
dei rapporti tra gli ex coniugi, ampliata dalla nascita della figlia, che aveva determinato la reazione
incontrollata della madre, rappresentando, secondo la Corte, quell’interruzione della convivenza
l’esito di una crisi familiare già in atto da tempo, dovuta al deterioramento dei rapporti coniugali in
epoca anteriore all’allontanamento della madre.
Al riguardo, il ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia pronunciato senza prove, ritenendo
erroneamente la preesistenza di una crisi coniugale dei rapporti coniugali, peraltro durati poco più di
un anno, con riferimento all’esito di una perizia sullo stato psicopatologico della stessa madre,
emergendo dagli atti, piuttosto, che la A.A. avesse violato i doveri coniugali, abbandonando la casa
di famiglia, e recandosi presso la madre dopo la nascita della figlia. Il secondo motivo deduce nullità
della sentenza per violazione degli artt. 132 e 116, c.p.c., ed omesso esame di fatto decisivo, per aver
la Corte d’Appello accolto parzialmente il secondo motivo dell’appello incidentale in ordine alla
persistenza dei presupposti dell’assegno di mantenimento a favore della A.A. – pur avendone statuito
la riduzione dell’importo da euro 400,00 a euro 300,00 – in quanto quest’ultima non si era attivata per
acquisire un’attività lavorativa confacente alle sue attitudini, considerata anche la sua età (33 anni) al
momento della separazione, non essendo stata dimostrata l’impossibilita di prestare attività lavorativa.
Il primo e terzo motivo del ricorso principale, esaminabili congiuntamente, è inammissibile. Invero,
la Corte d’Appello ha così argomentato: alla luce del complessivo esame dell’attività istruttoria, sulla
base delle consulenze espletate in primo e secondo grado, nel preminente interesse della minore, era
opportuno mantenerne l’affidamento esclusivo al padre, con collocamento presso quest’ultimo, con
incontri tra la madre e la figlia sotto la supervisione dei Servizi sociali del Comune di Vittoria con
l’inserimento di un’ulteriore giornata al fine di agevolare il percorso di avvicinamento tra loro; era
infine necessario che la minore fosse presa in carico presso il servizio di neuropsichiatria competente
al fine di superare i disturbi della condotta diagnosticati in sede di c.t.u.
Al riguardo, la ricorrente richiama alcuni punti della c.t.u. per arguirne conclusioni a lei favorevoli,
ma le doglianze tendono in sostanza a ribaltare l’interpretazione fornita dalla Corte d’Appello; la
ricorrente, allo stato, è considerata inidonea all’affidamento condiviso, anche se gli incontri protetti
con la figlia sono finalizzati al recupero delle capacita genitoriali.
Il secondo motivo è infondato. Invero, la Corte territoriale ha motivato sulle ragioni della pur modesta
riduzione dell’importo dell’assegno, fermo restando le condizioni economiche delle parti come
accertate. Il primo motivo del ricorso incidentale è inammissibile poiché diretto al riesame dei fatti,
avendo la Corte d’appello motivato sull’insussistenza dei presupposti dell’addebito della separazione:
si chiede al riguardo solo un diverso apprezzamento di circostanze già apprezzate. Il secondo motivo
è infondato. In tema di separazione personale dei coniugi, l’attitudine al lavoro proficuo dei medesimi,
quale potenziale capacita di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione
della misura dell’assegno di mantenimento da parte del giudice, dovendosi verificare la effettiva
possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore
individuale ed ambientale, senza limitare l’accertamento al solo mancato svolgimento di una attività
lavorativa e con esclusione di mere valutazioni astratte e ipotetiche (Cass., n. 24049/21). Nella specie,
la Corte territoriale ha accolto parzialmente l’appello incidentale del B.B., ritenendo persistente il
diritto della ricorrente principale all’assegno di mantenimento, ma riducendone l’importo, in
considerazione di circostanze da bilanciare: lo stato di disoccupazione e l’impossibilita di procurarsi
un’occupazione lavorativa per la donna; la capacita patrimoniale dimostrata dal marito, che svolgeva
una consolidata attività imprenditoriale.
La censura riguarda l’omessa pronuncia e l’erronea valutazione degli elementi istruttori, nonché
l’omesso esame di fatto decisivo, in ordine ai presupposti dell’assegno di mantenimento. Ora, la Corte
d’Appello ha pronunciato, effettuando un accertamento fattuale sull’impossibilità della ex moglie di
procurarsi un’attività lavorativa – da ricondurre allo stato di salute mentale di quest’ultima, ragioni
serie e apprezzate con motivazione incensurabile in questa sede.
Data l’infondatezza del ricorso principale e dell’incidentale, le spese del giudizio sono da compensare.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; compensa tra le parti le spese del giudizio.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. n.115/02, da atto della sussistenza dei presupposti per
il versamento, da parte sia della ricorrente che del controricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello
stesso articolo 13, ove dovuto. Dispone che ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196/03, in caso di
diffusione della presente ordinanza si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
Così deciso in Roma il 15 novembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2024.

Sulla validità del testamento pubblico del non vedente

Cass. Cv., Sez. II, Ord., 15 gennaio 2024, n. 1431; Pres. Manna, Rel. Picaro
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
Svolgimento del processo
Con atto di citazione dell’8.6.2010 A.A. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Trento i fratelli
B.B. e D.D. e la figlia di quest’ultima, C.C., per fare accertare la nullità per difetto di autografia del
testamento olografo della madre, affetta da cecità progressiva e non vedente dopo il 1990, E.E.
(deceduta a 95 anni il 22.6.2000) dell’1.2.1999; in subordine, per farlo annullare per incapacità di
intendere e di volere ed in ulteriore subordine per fare dichiarare tale testamento inefficace nei limiti
della lesione della sua quota di legittima, con conseguente riduzione ex art. 554 cod. civ.
Con detto testamento, pubblicato dal notaio DeCa. di T. il 12.7.2000, la E.E., il cui patrimonio era
costituito da un fabbricato in T., aveva letteralmente disposto: “T. 1.2.99 lascio a mia nipote C.C.
meta casa e l’orto E.E.”.
Si costituiva nel giudizio di primo grado C.C., che affermava l’autografia e la piena validità del
testamento olografo della nonna, eccepiva la prescrizione della domanda subordinata di annullamento
per incapacità di intendere e di volere e l’inammissibilità e/o improponibilità della domanda di
riduzione per lesione di legittima ex art. 564 cod. civ.
Si costituiva in primo grado B.B., che faceva proprie le domande del fratello A.A..
Espletata CTU grafologica dalla dott.ssa G.G., il Tribunale di Trento con la sentenza n. 268/2013 del
26.3.2013 dichiarava inammissibile la domanda di accertamento della nullità del testamento per
difetto di autografia, non essendo stata proposta querela di falso (richiamando l’orientamento in tal
senso espresso da Cass. sez. un. n. 15169 del 23.6.2010), dichiarava prescritta l’azione subordinata di
annullamento per incapacità d’intendere e di volere ed inammissibile ex art. 564 cod. civ. la domanda
di riduzione per lesione di legittima. Condannava A.A. e B.B. al pagamento delle spese processuali
di C.C. e delle spese di CTU.
Avverso tale sentenza proponeva appello A.A., che riproponeva le domande avanzate in primo grado,
chiedeva la condanna di C.C. alla restituzione dell’importo versatole per le spese di soccombenza e
di CTU, e ai fini della contestazione dell’autografia del testamento olografo proponeva querela di
falso e chiedeva la sospensione del giudizio, oltre alla rinnovazione della CTU grafologica, in quanto
secondo la relazione del suo consulente di parte il testamento di E.E. era stato redatto con “mano
guidata”.
Analogo separato appello, poi riunito, veniva proposto da B.B..
Si costituivano in secondo grado C.C. e D.D., che chiedevano il rigetto degli appelli e la prima anche
una nuova quantificazione delle spese processuali liquidate ed il rimborso delle spese di CTP.
La Corte d’Appello di Trento, ritenuta la necessità per contestare l’autografia del testamento della
proposizione della querela di falso e preso atto della volontà di C.C. e D.D. di avvalersi del testamento
olografo, autorizzava la presentazione della querela di falso e sospendeva il giudizio di appello fino
all’esito del giudizio sulla querela di falso ex art. 355 c.p.c.
Riassunto il giudizio da A.A. e B.B. separatamente davanti al Tribunale di Trento e disposta la
riunione, con la sentenza n. 1289/2015 del 30.12.2015 veniva respinta la querela di falso (pur
ritenendosi non necessaria per la sufficienza dell’azione di accertamento negativo dell’autenticità
secondo Cass. sez. un. n. 12307/2015) e venivano condannati A.A. e B.B. al pagamento delle spese
processuali di C.C. e D.D..
Avverso tale sentenza del Tribunale di Trento proponeva appello A.A., che ribadiva la domanda di
accertamento della falsità del testamento olografo per difetto di autografia e la domanda di condanna
di C.C. alla restituzione in suo favore dell’importo di Euro 5.048,60 oltre interessi dal 29.1.2016 al
saldo.
Si costituivano in tale giudizio C.C. e D.D., che chiedevano di dichiarare inammissibile la querela di
falso e comunque di rigettare l’appello, mentre B.B. restava contumace.
La Corte d’Appello di Trento con la sentenza n. 300/2017 del 17.11.2017 respingeva l’appello,
superando però l’eccezione d’inammissibilità della querela di falso, e compensava le spese processuali
del doppio grado.
Avverso tale ultima sentenza, notificata il 29.1.2018, proponeva ricorso alla Suprema Corte, notificato
a C.C. e D.D. ed alla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Trento il 29.3.2018 ed a B.B. il
29.3/3.4.2018, H.H., quale procuratrice generale di A.A., affidandosi a tre motivi, e resistono con
controricorso e ricorso incidentale notificato il 7.5.2018 C.C. e D.D. con un unico motivo, mentre
B.B. è rimasto intimato.
Il ricorrente principale e le controricorrenti ricorrenti incidentali hanno depositato memoria ex art.
380 bis. 1 c.p.c..
La causa è stata trattenuta in decisione nell’adunanza camerale del 18.12.2023.
Motivi della decisione
Col primo motivo del ricorso principale A.A. lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3
c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 602 cod. civ. per avere la Corte d’Appello di Trento
affermato che l’eventuale intervento di un’altra persona nella redazione del prolungamento del filetto
del numero 1 della data del testamento olografo della non vedente E.E., risulterebbe irrilevante e non
comprometterebbe l’autografia di tale testamento, essendo comunque il segno grafico della predetta
ben comprensibile per la parte autografa.
Il motivo è inammissibile, in quanto non si basa sul fatto come ricostruito dall’impugnata sentenza,
ma su una mera ipotesi formulata nel ricorso, e quindi su una diversa ricostruzione dei fatti non
consentita in cassazione.
La sentenza impugnata, infatti, a pagina 14, al culmine di un lungo ragionamento basato sulla
valutazione critica della CTU grafologica espletata nel giudizio di primo grado dalla dott.ssa G.G.,
dell’originale del testamento olografo in verifica, delle scritture di comparazione considerate
autentiche, e della circostanza pacifica che l’ultranovantenne E.E., dopo il 1990 aveva perso
progressivamente la vista, risultando non più vedente alla firma del testamento olografo dell’1.2.1999,
ha ritenuto pienamente provata l’autografia del testamento olografo di E.E., che in primo grado era
stata contestata da A.A. e B.B., figli della defunta.
In particolare alle pagine 12 e 13 la sentenza impugnata, sulla base della CTU grafologica, ha indicato
come non implausibile, che ad un breve arresto nella scrittura, la mano della de cuius sia ripartita
esattamente dal punto di arresto del filetto verticale del numero 1 della data del testamento olografo,
posto che risulta utilizzato lo stesso inchiostro e non e stata riscontrata una differente pressione del
secondo tratto del filetto verticale e di quello orizzontale del numero e non e emersa altra circostanza
significativa di un intervento di conduzione della mano della testatrice di una terza persona, per cui è
rimasta una mera ipotesi frutto di sospetto, ma priva di prova, quella che a redigere il filetto verticale
inferiore e quello orizzontale alla base del numero 1 della data del testamento olografo sia stato un
soggetto diverso da E.E.. Per questo la sentenza impugnata non ha attribuito alcuna rilevanza alla
giustapposizione in questione alla base del numero 1 della data del testamento olografo, ed a tale
motivazione ha aggiunto, usando il verbo al condizionale, che un eventuale intervento di altra persona
sarebbe stato del tutto irrilevante, essendo comunque il segno grafico per la parte certamente
autografa ben comprensibile come numero 1 anche senza il prolungamento del filetto. Trattandosi
quindi di una motivazione ad abundantiam inerente ad un fatto meramente ipotetico, la critica della
stessa e inidonea ad intaccare la vera ragione posta a base del rigetto della domanda di nullità del
testamento olografo di E.E., che e quella della riconosciuta piena autenticità dello stesso da parte dei
giudici di primo e di secondo grado, sicché difetta l’interesse a far valere il motivo in questione, perché
anche se fondato, non potrebbe portare a caducare la statuizione impugnata.
Col secondo motivo del ricorso principale A.A., in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c.,
lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 602 cod. civ., per avere la Corte d’Appello di
Trento affermato che l’assistenza prestata da un terzo alla testatrice, affetta da cecità assoluta, nella
redazione del testamento olografo, col piazzamento della sua mano all’inizio di ogni rigo del
testamento, non comprometta l’autografia del testamento stesso.
La sentenza impugnata alle pagine 13 e 14, dopo avere escluso che il testamento olografo sia stato
vergato con la mano della testatrice condotta da terzi, come era stato ipotizzato da A.A., ha invece
ritenuto plausibile, sulla base del fatto che all’atto della redazione E.E. era ormai non vedente e che il
testamento olografo presenti due “centrature”, una della data e delle disposizioni di ultima volontà,
aventi un margine sinistro abbastanza uniforme, ed una della firma, e che invece il margine destro
non sia uniforme, che la testatrice, come ipotizzato dal CTU, sia stata aiutata al momento di vergare
il testo del testamento olografo nel posizionare la mano all’inizio delle righe. La sentenza ha poi
evidenziato che tale mero aiuto di posizionamento non ha inciso sull’autografia, e spiega come mai
siano state riscontrate piccole incongruenze nel testo dell’olografo rispetto alle scritture di
comparazione (puntini, trattini, l’uso di lettere minuscole per nomi propri tranne che nella firma, i
trattini delle t mancanti), che non vi sarebbero state se la mano della testatrice fosse stata condotta
nello scrivere da parte di un terzo. La sentenza ha poi evidenziato che ogni altra questione relativa
alla consapevolezza della testatrice circa l’atto che stava compiendo ed il suo contenuto non
attenevano alla falsità della scrittura, ma semmai alla capacita di intendere e di volere di E.E..
Il semplice posizionamento della mano del testatore, che aiuti il non vedente a dare una forma ordinata
alle sue disposizioni di ultima volontà e non comporti coartazione del gesto di scrittura del testatore
stesso attraverso il sostegno della mano, o addirittura attraverso il suo direzionamento in fase di
scrittura, lasciando quindi intatta la gestualità grafica del testatore, non è di per sé prova del difetto di
autografia della redazione e sottoscrizione del testamento olografo, e quindi della sua nullità ex art.
606 cod. civ., a meno che non si dimostri che l’assistenza nella redazione del documento non faccia
parte di un più ampio disegno di coartazione della capacita di intendere e di volere, che può sfociare
eventualmente nell’annullamento, per cui il motivo è infondato.
In proposito si deve ricordare che mentre il testamento pubblico del non vedente, non contemplato
dalla L. 16.2.1913 n. 89, che si riferisce invece alle particolari formalità richieste per il testamento
pubblico del sordo, del muto e del sordomuto (vedi in tal senso Cass. 4.12.2001 n. 15326; Cass.
7.4.2000 n.4344), in base all’art. 603 cod. civ. richiede normalmente la presenza solo di due testimoni,
ma secondo l’ultimo comma addirittura di quattro testimoni solo quando il non vedente sia anche
muto, sordo, o sordomuto, il testamento olografo del non vedente è regolato dalla L. 3.2.1975 n. 18,
che stabilisce:
a) all’art. 1, che la persona affetta da cecità congenita e contratta successivamente per qualsiasi causa,
e a tutti gli effetti giuridici pienamente capace di agire purché non sia inabilitata, o interdetta;
b) all’art. 2, che la firma apposta su qualsiasi atto, senza alcuna assistenza, dalla persona affetta da
cecità e vincolante ai fini delle obbligazioni e delle responsabilità connesse e che è vietato per il non
vedente il testamento segreto;
c) all’art. 3, che per espressa richiesta della persona non vedente e ammessa ad assistere la medesima
nel compimento degli atti, o a partecipare alla loro redazione, nei limiti indicati dall’interessato, altra
persona cui egli accordi la necessaria fiducia e che la persona che presta assistenza nel compimento
dell’atto, o partecipa alla redazione dell’atto, deve apporre su di esso la propria firma premettendo ad
essa le parole “il testimone” o “il partecipante alla redazione dell’atto”;
d) all’art. 4, che se il non vedente non può sottoscrivere l’atto, si richiede la sottoscrizione di due
persone designate ai sensi dell’art. 3.
Nel caso di specie non è stata allegata ed invocata la violazione delle formalità richieste per il
testamento olografo del non vedente dalla L. 18/1975, ma dalla stessa si desume che il non vedente
ha la piena capacità di agire purché non sia stato interdetto, o inabilitato, e che particolari cautele sono
previste per le ipotesi in cui il non vedente non sia in grado di sottoscrivere l’atto, ipotesi che non
ricorre nel caso in esame, in cui la CTU grafologica espletata ha pienamente confermato l’autenticità
sia del testo, che della sottoscrizione di E.E., che del resto ha progressivamente perso la vista solo
negli ultimi anni della sua vita, conservando, malgrado l’età avanzata, la capacita di scrittura
comprensibile anche se qualitativamente scaduta per il tremore e la perdita della vista.
Col terzo motivo del ricorso principale A.A. lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 4)
c.p.c., la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte d’Appello omesso di pronunciarsi sulla sua
domanda di restituzione di Euro 5.048,60 oltre interessi legali dal 29.1.2016 al saldo, somma che era
stata versata da A.A. in forza della condanna alle spese inflittagli dalla sentenza del Tribunale di
Trento n. 1289/2015, come emergente dal bonifico di pari importo che A.A. aveva allegato come
documento 1 al suo atto di appello.
Il terzo motivo è infondato, perché si deve ritenere che l’impugnata sentenza abbia provveduto
negativamente, in modo implicito, sulla richiesta di restituzione che era stata avanzata da A.A. nei
confronti di D.D. e C.C., avendo respinto la domanda di A.A. di accertamento della nullità/falsità del
testamento olografo di E.E., che costituiva il presupposto della restituzione che era stata richiesta, che
non era basata invece sulla compensazione delle spese processuali del doppio grado poi disposta a
conclusione del giudizio di secondo grado.
Col ricorso incidentale C.C. e D.D. lamentano, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c., la
violazione o falsa applicazione degli articoli 91 e 92 c.p.c., per avere la Corte d’Appello compensato
le spese processuali del doppio grado di giudizio per i contrasti giurisprudenziali ed il mutamento di
giurisprudenza in corso di causa sui mezzi processuali da utilizzare per contestare la mancanza di
autografia del testamento olografo, nonostante la domanda di accertamento della falsità del
testamento olografo avanzata da A.A. sulla base della quale lo stesso aveva chiesto la condanna della
controparte alla restituzione delle spese pagate per il giudizio di primo grado fosse stata respinta.
Tale motivo è parzialmente fondato, e merita accoglimento limitatamente alle spese processuali del
giudizio di primo grado, in quanto essendo stata respinta la domanda riproposta in appello da A.A.,
sul cui accoglimento si fondava la richiesta dello stesso di condanna di C.C. e D.D. alla restituzione
dell’importo di Euro 5.048,60 oltre interessi dal 29.1.2016 al saldo per l’avvenuto pagamento delle
spese processuali di primo grado, si è verificata per il primo grado di giudizio una soccombenza totale
di A.A., che pienamente giustificava la sua condanna alle spese processuali di primo grado, e non era
consentita, per assenza di un motivo d’impugnazione specifico sul punto, la compensazione delle
spese processuali di primo grado disposta dalla Corte d’Appello, spese che dovevano restare regolate
come disposto nella sentenza del Tribunale di Trento n. 1289/2015. Per le spese processuali del
giudizio di secondo grado, invece, l’impugnata sentenza ha fatto correttamente applicazione dell’art.
92 comma 2° c.p.c. nel testo vigente ratione temporis in considerazione del mutamento di
giurisprudenza della Suprema Corte intervenuto circa gli strumenti utilizzabili per contestare il difetto
di autografia del testamento olografo. L’impugnata sentenza ha infatti evidenziato che da un passaggio
incidentale della sentenza n. 15169/2010 delle sezioni unite della Corte di Cassazione, che aveva
ritenuto indispensabile la proposizione della querela di falso, ed in base al quale, su eccezione di parte
convenuta, A.A. era stato costretto a proporre querela di falso nel corso del giudizio di appello per
superare la dichiarazione d’inammissibilità della sua domanda di nullità del testamento olografo di
E.E. per difetto di autografia del Tribunale di Trento, si e passati alla tesi che sia sufficiente proporre
azione di accertamento negativo della provenienza del testamento olografo con onere della prova
comunque a carico della parte attrice (vedi Cass. sez. un. n.12307/2015) ed ha quindi accolto il primo
motivo di appello di A.A., respingendo l’eccezione d’inammissibilità della domanda di nullità accolta
in primo grado, rigettandola però nel merito.
La reciproca soccombenza delle parti giustifica la compensazione delle spese processuali del giudizio
di legittimità per 1/3 tra A.A. da un lato e C.C. e D.D. dall’altro, con condanna di A.A.,
prevalentemente soccombente, al pagamento dei residui 2/3 in favore di C.C. e D.D., liquidati in Euro
4.400,00 per compensi, oltre IVA, CA e rimborso spese generali del 15%, ed in Euro 140,00 per spese,
mentre B.B. è rimasto intimato.
Occorre dare atto che sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n.
115/2002 per imporre un ulteriore contributo unificato a carico del ricorrente, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, sezione seconda civile, respinge il ricorso principale, accoglie parzialmente
quello incidentale e cassa l’impugnata sentenza limitatamente alla compensazione delle spese
processuali del giudizio di primo grado. Dichiara compensate per 1/3 le spese processuali del giudizio
di legittimità e condanna A.A. al pagamento dei residui 2/3 in favore di C.C. e D.D., liquidati in Euro
4.400,00 per compensi, oltre IVA, CA e rimborso spese generali del 15%, ed in Euro 140,00 per spese.
Visto l’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 da atto che sussistono i presupposti per imporre un
ulteriore contributo unificato a carico del ricorrente, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 18 dicembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2024.

L’erede risponde in solido col dante delle obbligazioni tributarie

Cass. Civ., Sez. V, Sent., 16 gennaio 2024, n. 1640; Pres. Federici, Rel. Cons. Leuzzi
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
Svolgimento del processo
Con ricorso proposto avanti alla CTP di Catanzaro, A.A. impugnava la cartella di pagamento, emessa
nei confronti del coniuge deceduto B.B. e finalizzata al recupero coattivo di imposte dichiarate e non
versate in relazione all’anno 2004.
La contribuente eccepiva, in particolare, la nullità della cartella per mancato invio al suo indirizzo, in
quanto erede, della preventiva comunicazione di irregolarità; contestava poi la non debenza, sia delle
imposte richieste (per via della causa di giustificazione rappresentata dalla tutela del diritto alla
salute), sia delle sanzioni (in ragione della ricorrenza di una causa di forza maggiore), sia, infine,
degli interessi (considerata la mancanza di consapevolezza da parte della contribuente dell’esistenza
della pretesa tributaria relativa all’anno 2004).
La CTP di Catanzaro accoglieva il ricorso della contribuente, dichiarando la cartella di pagamento
inefficace nei suoi confronti.
La CTR della Calabria rigettava il successivo appello erariale, valorizzando la circostanza dell’omessa
preventiva comunicazione di irregolarità, prescritta dall’art. 6 della L. n. 212 del 2000, nonché dall’art.
36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973; il giudice regionale escludeva che l’Ufficio potesse procedere
direttamente alla notifica della cartella senza adempiere all’obbligo di comunicazione e senza
emettere un avviso di accertamento nei confronti dell’erede al fine di contestare debiti certi, liquidi
ed esigibili, scaturenti dalla dichiarazione dei redditi presentata dal de cuius.
Il ricorso dell’Agenzia delle Entrate è affidato ad un solo motivo.
Resiste con controricorso la contribuente.
L’agente della riscossione è rimasta intimata.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 36-bis, co. 3,
D.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 6, co. 5, L. n. 212 del 2000, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., dal
momento che, diversamente da quanto erroneamente ritenuto dalla CTR, l’obbligo della preventiva
comunicazione dell’esito del controllo sulla dichiarazione dei redditi di cui al citato art. 36-bis, co. 3,
sussiste unicamente qualora il controllo automatico riveli un risultato diverso rispetto a quello
indicato in dichiarazione, ossia faccia emergere un errore nella compilazione della dichiarazione dei
redditi, dovendosi detto obbligo viceversa escludere, ancorché ad invocarlo sia un erede, quando
l’imposta sia stata correttamente dichiarata, ma non versata o tardivamente liquidata.
Il motivo è fondato.
Questa Corte ha espresso in tema – reiteratamente – principi cui va dato condivisibilmente seguito.
La notifica della cartella di pagamento a seguito di controllo automatizzato è legittima anche se non
preceduta dalla comunicazione del c.d. “avviso bonario” ex art. 36-bis, comma 3, D.P.R. n. 600 del
1973, nel caso in cui non vengano riscontrate irregolarità nella dichiarazione; né il contraddittorio
endoprocedimentale è invariabilmente imposto dall’art. 6, comma 5, L. n. 212 del 2000, il quale lo
prevede soltanto quando sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, situazione,
quest’ultima, che non ricorre necessariamente nei casi soggetti al citato art. 36-bis, che implica un
controllo di tipo documentale sui dati contabili direttamente riportati in dichiarazione, senza margini
di tipo interpretativo (Cass. n. 33344 del 2019; Cass. n. 8342 del 2012).
In materia di riscossione, ai sensi degli artt. 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 e 54 bis del D.P.R. n.
633 del 1972, l’invio al contribuente della comunicazione di irregolarità, al fine di evitare la
reiterazione di errori e di consentire la regolarizzazione degli aspetti formali, è dovuto solo ove dai
controlli automatici emerga un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione ovvero
un’imposta o una maggiore imposta, mentre tale adempimento non è prescritto in caso di omessi o
tardivi versamenti; in ogni caso, la relativa omissione determina una mera irregolarità e non preclude,
una volta ricevuta la notifica della cartella, di corrispondere quanto dovuto con riduzione della
sanzione (Cass. n. 17479 del 2019).
L’emissione della cartella di pagamento con le modalità previste dall’art. 36-bis, comma 3, del D.P.R.
n. 600 del 1973, e dall’art. 54-bis, comma 3, del D.P.R. n. 633 del 1972, non richiede di regola la
preventiva comunicazione dell’esito del controllo al contribuente, salvo che la procedura di
liquidazione automatizzata non si limiti a rilevare meri errori materiali e richieda rettifiche preventive
dei dati contenuti nella dichiarazione, nel qual caso la sua omissione, a seconda che sussistano o meno
incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, può costituire mera irregolarità, non incidente sulla
validità della cartella di pagamento, oppure può comportarne la nullità ex art. 6, comma 5, della L. n.
212 del 2000 (Cass. n. 1711 del 2018).
L’emissione della cartella di pagamento con le modalità previste dagli artt. 36-bis, co. 3, del D.P.R.
29 settembre 1973, n. 600 (nella specie, per IRPEF e IRAP relativi all’anno di imposta 2003), non è
condizionata dalla preventiva comunicazione al contribuente dell’esito del controllo, salvo che da
quest’ultimo non emerga l’esistenza di errori poiché il riscontro di irregolarità nella dichiarazione
determina la necessità di comunicare la liquidazione d’imposta, contributi, premi e rimborsi (Cass. n.
3154 del 2015).
Con riferimento alla posizione dell’erede né l’art. 36-bis D.P.R. n. 600 del 1973, né l’art. 6, co. 5, L.
n. 212 del 2000, prevedono deroghe in ordine all’esposto quadro di regole, né contemplano
avvertimenti specifici. Viene, piuttosto, in apice il principio generale in ragione del quale l’erede è
chiamato a rispondere di tutti i debiti facenti capo al de cuius non soltanto con i beni oggetti del
patrimonio dell’estinto, ma, altresì, nel caso in cui questi ultimi non siano sufficienti al loro
assolvimento, con il proprio patrimonio personale. In forza degli artt. 752 e ss c.c. e per espressa
previsione dell’art. 65, co. 1, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, l’erede risponde in solido col dante
delle obbligazioni tributarie il cui presupposto si è verificato anteriormente alla morte di quest’ultimo.
Il ricorso va, in ultima analisi, accolto. Ne consegue la cassazione della sentenza d’appello, con il
rinvio della causa alla CTR della Calabria in diversa composizione, anche per la regolazione delle
spese del giudizio, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata. Rinvia la causa per un nuovo esame e per la
regolazione delle spese del giudizio alla CTR della Calabria in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria della Suprema Corte di
Cassazione, il 4 luglio 2023.
Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2024.

Conto corrente cointestato e conseguenze in caso di sequestro preventivo

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 16 gennaio 2024, n. 1877; Pres. Andreazza, Rel. Cons. Gentili
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Roma, con ordinanza pronunziata in data 1 marzo 2023, ha confermato, in tal modo
respingendo il ricorso presentato da A.A., il decreto di sequestro preventivo disposto il precedente 18
novembre 2022 dal Gip del Tribunale di Velletri in danno di B.B. (marito della ricorrente), oggetto di
indagini preliminari in relazione alla imputazione di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, per avere,
in qualità di legale rappresentante della S. Srl, indicato, nelle dichiarazioni fiscali elementi passivi di
reddito documentati con fatture relative ad operazioni inesistenti, sino alla concorrenza della somma
di Euro 138.461,90.
Il Tribunale, avendo dato atto che, per la somma di Euro 24.333,58 il sequestro era stato eseguito
attraverso l’apposizione del vincolo sulle somme giacenti su di un conto corrente bancario intrattenuto
presso la U. Spa cointestato al B.B. ed alla A.A., ha, altresì, osservato che gli argomenti impugnatori
dedotti dalla ricorrente a sostegno del proprio ricorso non avevano pregio in quanto, a differenza di
quanto sostenuto dalla ricorrente, le poste attive del conto corrente in discorso non erano alimentate
solamente dalle rimesse derivanti dall’accredito della pensione versata alla ricorrente ma si trattava,
per la più ampia parte, di versamenti ripetuti di somme di danaro rivenienti dalla S. Srl, di tal che non
dovevano ritenersi operanti i limiti dovuti alla solo parziale pignorabilità delle somme derivanti da
crediti pensionistici, limiti in relazione al cui superamento sarebbe stato, d’altra parte, onere
incombente sulla ricorrente fornire la dimostrazione; il Tribunale ha, altresì, osservato che, essendo
costituito da somme di danaro l’oggetto del sequestro, esso, stante la natura fungibile di quello, doveva
intendersi finalizzato alla confisca diretta, per cui non avevano pregio le eventuali contestazione in
ordine alla pertinenza dei beni sequestrati rispetto al reato in contestazione.
Avverso tale ordinanza ha interposto ricorso per cassazione la difesa della ricorrente, munita di
procura speciale, articolando due motivi di ricorso.
Di questi il primo ha ad oggetto, la violazione di legge per essere stata disattesa la richiesta di
dissequestro anche delle somme costituenti emolumenti pensionistici depositata sul conto corrente
bancario in questione, somme che, ai sensi dell’art. 545 cod. proc. civ. non sono soggette a
pignoramento.
Il secondo motivo concerne la violazione di legge in cui sarebbe incorso il Tribunale nel non disporre
il dissequestro delle somme costituenti un compendio finanziario privo di pertinenzialità con il reato
attribuibile a soggetto esso stesso terzo rispetto alla condotta delittuosa.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato e pertanto il provvedimento impugnato deve essere annullato con rinvio.
Deve preliminarmente darsi atto della circostanza che, pur essendo stato il ricorso presentato da
soggetto che si professa terzo rispetto alla indagine penale nell’ambito della quale e stata emessa la
misura cautelare impugnata, lo stesso e stato, dal punto di vista formale, correttamente introdotto.
Infatti, ulteriormente confermando il consolidato principio in base al quale, laddove un
provvedimento concernente una misura cautelare reale sia impugnato da chi dichiara di essere terzo
rispetto alla vicenda strettamente penale che è alla base della adozione del provvedimento in
questione, costui, data la sostanziale valenza esclusivamente civilistica della sua pretesa – questi,
infatti, in ipotesi lamenta di essere stato illegittimamente leso per effetto del provvedimento cautelare
(o comunque ablativo del bene) in un suo diritto soggettivo sul bene stesso in assenza delle condizioni
che consentono allo Stato di incidere sulla titolarità vantata dai cittadini sui beni o, comunque, sui
diritti soggettivi di carattere patrimoniale – per agire in giudizio deve essere rappresentato da un
professionista munito di procura speciale ad litem (in tale senso, fra le molte: Corte di cassazione,
Sezione VI penale, 18 gennaio 2022, n. 2132; Corte di cassazione, Sezione II penale, 9 gennaio 2018,
n. 310), osserva il Collegio che nell’occasione la A.A. ha conferito al suo difensore procura speciale
ad impugnare di fronte a questa Corte il provvedimento con il quale, in sede di riesame cautelare, il
Tribunale di Roma ha rigettato la sua richiesta di annullamento del sequestro eseguito, anche, su beni
a lei riconducibili.
Tanto premesso, rileva il Collegio, come dianzi accennato, che il ricorso proposto è fondato.
Ed infatti deve osservarsi che, come emerge dallo stesso testo della ordinanza ora censurata, il
sequestro di cui trattasi è stato, per quanto ora interessa, eseguito, sino alla concorrenza della somma
di Euro 24.333,58, tramite immobilizzazione del saldo attivo del rapporto di conto corrente bancario
intrattenuto presso una agenzia della U. Spa dai coniugi B.B., soggetto materialmente indagato, e
A.A., odierna ricorrente; che, sempre per quanto emerge dalla stessa ordinanza impugnata, le poste
attive di tale conto corrente sono, almeno in parte, costituite dalle rimesse finanziarie rivenienti alla
A.A. dalla corresponsione di ratei pensionistici (nel provvedimento impugnati si fa, invero,
riferimento a due diverse tipologie di versamenti periodici imputabili alla predetta causale, senza che
sia chiarito se entrambi i medesimi versamenti siano o meno da ascrivere alla A.A. ovvero se uno
solo di essi abbia quale pertinenza).
A questo punto la Corte di cassazione – senza che sia necessario esaminare il tema della possibilità,
negata alla A.A. dal Tribunale di Roma, da parte del terzo ricorrente di articolare le proprie censure
avverso il provvedimento cautelare con riferimento anche alla sussistenza del fumus delicti e del
periculum in mora, tematica questa che è stata di recente oggetto di una significativa rivisitazione (il
cui effetto potrebbe essere la revisione del consolidato orientamento che tale possibilità negava al
terzo; si vedano, infatti, Corte di cassazione, Sezione III penale, 2 agosto 2019, n. 36347; Corte di
cassazione, Sezione VI penale, 5 ottobre 2016, n. 42037), ad opera di questa stessa III Sezione penale
della suprema Corte con la decisione assunta in data 10 ottobre 2023 e del cui innovativo decisum è
stata fornita informazione con la notizia di decisione n. 7 del 2023, posto che nell’occasione la difesa
della A.A. non ha lamentato come illegittima la decisione in tale senso assunta dal Tribunale
capitolino – osserva come non sia in linea con il condiviso orientamento giurisprudenziale per
fattispecie sovrapponibili alla presente l’indirizzo decisorio prescelto dal giudice del merito.
Ed infatti, pur essendo ben vero che, sulla base di un tradizionale orientamento, ai fini del sequestro
preventivo, funzionale alla confisca per equivalente di cui all’art. 322-ter cod. pen. della somma di
denaro depositata su un conto corrente bancario cointestato con un soggetto estraneo al reato, la
misura preventiva reale si estende ai beni comunque nella disponibilità dell’indagato, senza che a tal
fine possano rilevare presunzioni o vincoli posti dal codice civile per regolare i rapporti interni tra
creditori e debitori solidali o i rapporti tra banca e depositante, ferma restando la possibilità nel
prosieguo di procedere ad un effettivo accertamento dei beni di esclusiva proprietà di terzi estranei al
reato (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 31 maggio 2019, n. 24432; Corte di cassazione,
Sezione II penale, 21 luglio 2017, n. 36175), non può non segnalarsi come siffatta indicazione
giurisprudenziale – oltre ad essere contrastata da altri arresti nei quali, essendo in essi manifestata una
più immediata cura degli interessi dei soggetti estranei al reato in provvisoria contestazione, si è
segnalato che, in tema di sequestro preventivo, funzionale alla confisca del prezzo o del profitto del
reato, eseguito su conto corrente cointestato all’indagato ed a soggetto terzo, è necessario accertare la
derivazione del denaro dal reato e la sua provenienza dall’indagato dovendosi verificare, anche solo
a livello indiziario, se ed in che misura il conto sia stato alimentato con risorse derivanti da rimesse
operate dal terzo (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 1 luglio 2020, n. 19766) – debba,
necessariamente e convenientemente, coniugarsi con la normativa, dettata in materia di processo
esecutivo civile ma ritenuta rilevante ed applicabile anche in sede penale, la quale pone dei limiti alla
ablazione forzosa dei trattamenti pensionistici (in tale senso, per tutte: Corte di cassazione, Sezioni
unite penali, 7 luglio 2022, n. 26252, la quale ha stabilito che i limiti di impignorabilità delle somme
spettanti a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego,
comprese quelle dovute a titolo di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengano
luogo di pensione o di assegno di quiescenza, previsti dall’art. 545 cod. proc. civ., si applicano anche
alla confisca per equivalente ed al sequestro ad essa finalizzato).
Ciò posto, considerato che nel provvedimento emesso dal Tribunale di Roma – nel quale pur si dà atto
che, quanto meno, per una parte le somme confluite sul conto corrente bancario intestato ai coniugi
B.B. -A.A. sono costituite da rimesse derivanti da trattamenti pensionistici a quest’ultima riferiti – tale
fattore, come detto invece decisivo ai fini della confiscabilità delle somme di danaro (e, pertanto,
anche alla loro sequestrabilità ove la misura sia strumentale alla confisca), non è stato adeguatamente
considerato né ai fini dell’eventuale limitazione della somma sequestrabile al solo attivo finanziario
esulante rispetto alle indicate causali né ai fini della dimostrazione della ritenuta irrilevanza del
descritto fattore nell’ambito della presente controversia, il provvedimento impugnato deve essere
annullato, con rinvio al medesimo Tribunale di Roma, competente ai sensi dell’art. 324, comma 5,
cod. proc. pen., affinché, in diversa composizione personale ed attenendosi alle indicazioni
ermeneutiche dianzi esposte, provveda nuovamente in ordine alla impugnazione presentata in sede di
riesame cautelare dalla difesa della odierna ricorrente.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Roma, competente ai sensi
dell’art. 324, comma 5, cod. proc. pen.
Così deciso in Roma, il 7 luglio 2023.
Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2024.

Violenza sessuale e riconoscimento dell’attenuante della minore gravità

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 02 gennaio 2024, n. 7; Pres. Ramacci, Rel. Cons. Magro
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 11/01/2023, la Corte di appello di Caltanissetta, in parziale riforma della
pronuncia emessa dal giudice di primo grado, ha confermato la penale responsabilità di A.A. per il
reato di cui all’art. 609 bis cod. pen., condannando l’imputato alla pena di anni due, mesi due e giorni
venti di reclusione, per aver costretto, con azioni repentine, all’interno di un autobus in corsa con
tratta P.A. e approfittando dello stato di dormiveglia, B.B., passeggera dell’autobus, a subire
palpeggiamenti delle zone erogene, infilando le mani tra le gambe e la zona pubica; l’imputato,
ritornato al suo posto a causa della immediata reazione della persona offesa, si slacciava i pantaloni
e iniziava a sfregarsi le parti intime.
2. A.A. ricorre per cassazione formulando due motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione di legge e vizio della motivazione in ordine
al mancato riconoscimento del vizio totale di mente ai sensi dell’art. 88 cod. pen. La Corte territoriale
ha affermato la penale responsabilità per il reato di violenza sessuale prescindendo da un’attenta
analisi e valutazione della perizia effettuata dal dottor C.C., primo perito nominato dal Gup in sede
di giudizio abbreviato, il quale aveva evidenziato la sussistenza di un disturbo della personalità di
tipo narcisistico di indubbia gravità ed un probabile disturbo organico di personalità tale da precludere
al momento del fatto la capacità di intendere e di volere. Il giudice a quo, tuttavia, ha aderito alle
conclusioni del dottor D.D., nuovo perito nominato dal medesimo Gup. Il dottor D.D., pur essendo
impossibilitato ad effettuare un esame clinico dell’imputato e a somministrare test scientifici, ha
concluso per la insussistenza di un disturbo della personalità tale da inficiare totalmente o
parzialmente la capacità di intendere e di volere del periziato. Evidenzia il ricorrente che il dottor
D.D. non ha esaminato il periziando, e che pertanto la diagnosi effettuata da quest’esperto non può
ritenersi scientificamente fondata, né tale da superare le conclusioni del perito dottor C.C. che ha
invece effettuato una analisi più completa e contestualizzata. Il perito dotto D.D. non ha, infatti,
valutato il disagio psichico che l’imputato aveva patito poco prima dei fatti, sottovalutando il vissuto
dell’imputato e la sua biografia, a differenza del dottor C.C.. Il A.A. era di rientro da M. ove aveva
effettuato un provino come attore porno, con risultati assai deludenti a causa della scarsa performance
avuta al momento dell’esibizione. Il dottor C.C. aveva affermato che il comportamento esibito
sull’autobus era mosso da un bisogno di affermare una potenza virile quale componente essenziale
del “sé grandioso” dell’imputato che aveva ricevuto una ampia smentita in occasione di tale provino.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente deduce violazione di legge in ordine all’omesso
riconoscimento della circostanza attenuante di cui al terzo comma dell’art. 609 bis cod. pen., da
applicare alla luce di una valutazione complessiva del fatto. Il giudice a quo non ha considerato che
si è trattato di un unico episodio, da ricondurre ad una situazione di stress, avvenuto in un contesto
temporale e logistico eclatante, alla presenza di altre persone, che non vi è stato alcun uso di violenza
fisica e in considerazione del grado lieve di compressione della libertà sessuale della vittima, che ha
immediatamente reagito e alla cui reazione è seguita la interruzione dell’azione abusiva da parte
dell’imputato. Viceversa, la Corte territoriale ha valorizzato unicamente un solo elemento, relativo
allo stato di dormiveglia in cui versava la persona offesa trascurando di considerare i suddetti
elementi.
3. Il Procuratore generale presso questa Corte, con requisitoria scritta, ha chiesto dichiararsi
l’inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
1. La prima doglianza non può trovare accoglimento. Costituisce infatti ius receptum, nella
giurisprudenza di questa Corte, che, anche alla luce della novella del 2006, il controllo del giudice di
legittimità sui vizi della motivazione attenga pur sempre alla coerenza strutturale della decisione, di
cui saggia l’oggettiva “tenuta” sotto il profilo logico•-argomentativo e quindi l’accettabilità razionale
(Sez. 3, n 37006 del 27 -9-2006, Piras, Rv. 235508; Sez. 6, n. 23528 del 06/06/2006, Bonifazi, Rv.
234155). Il sindacato di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve pertanto
essere volto a verificare che quest’ultima: a) sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare
le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente
illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori
nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente “contraddittoria” ovvero sia esente
da antinomie e da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o tra le affermazioni in essa
contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo”, indicati in termini
specifici ed esaustivi dal ricorrente, nei motivi posti a sostegno del ricorso, in misura tale da risultare
radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Rv. 251516).
Tanto premesso nelle linee generali, si precisa che l’art. 220 cod. proc. pen. prevede l’espletamento
della perizia ogniqualvolta sia necessario svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che
richiedano specifiche competenze di natura tecnica. La perizia rappresenta un indispensabile
strumento probatorio, allorché si accerti il ricorrere del presupposto inerente alla specificità delle
competenze occorrenti per l’acquisizione e la valutazione di dati, perfino laddove il giudice possieda
le specifiche conoscenze dell’esperto, perché l’eventuale impiego, ad opera del giudicante, della sua
scienza privata costituirebbe una violazione del principio del contraddittorio e del diritto delle parti
sia di vedere applicato un metodo scientifico sia di interloquire sulla validità dello stesso (Sez. 5, n.
9047 ciel 15/06/1999, Rv. 214295). L’ontologica terzietà del sapere scientifico accreditato è lo
strumento a disposizione del giudice e delle parti per conferire oggettività e concretezza al precetto e
al giudizio di rimprovero personale. È ben vero, infatti, che al giudice è attribuito il ruolo di peritus
peritorum. Ma ciò non lo autorizza affatto ad intraprendere un percorso avulso dal sapere scientifico,
avventurandosi in opinabili valutazioni personali, sostituendosi agli esperti e ignorando ogni
contributo conoscitivo di matrice tecnico-scientifica. Il ruolo di peritus peritorum abilita invece il
giudice a individuare, con l’aiuto dell’esperto, il sapere accreditato che può orientare la decisione e a
farne un uso oculato, pervenendo a una spiegazione razionale dell’evento. Il perito non è l’arbitro che
decide il processo ma l’esperto che espone al giudice il quadro del sapere scientifico nell’ambito
fenomenologico al quale attiene il giudizio, spiegando quale sia lo stato del dibattito, nel caso in cui
vi sia incertezza sull’affidabilità degli enunciati a cui è possibile addivenire, sulla base delle
conoscenze scientifiche e tecnologiche disponibili in un dato momento storico. Di tale indagine il
giudice è chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e
utilizzate e fornendo una razionale giustificazione, in modo completo e, il più possibile,
comprensibile a tutti, dell’apprezzamento compiuto. Si tratta di accertamenti e valutazioni di fatto,
insindacabili in cassazione, ove sorretti da congrua motivazione, poiché il giudizio di legittimità non
può che incentrarsi esclusivamente sulla razionalità, completezza e rigore metodologico del predetto
apprezzamento. Il giudice di legittimità, infatti, non è giudice del sapere scientifico e non detiene
proprie conoscenze privilegiate (Sez. 4, n. 1826 del 19/10/2017).
1.1. Nel caso in esame, emerge dalle considerazioni formulate a pagina 2 della sentenza impugnata,
che il giudice a quo ha dato rilievo a quanto affermato dal perito dottor D.D., il quale ha evidenziato
come “un eventuale disturbo della personalità incidente in termini compromissori sulla capacità di
intendere e di volere avrebbe determinato una incapacità di controllo degli impulsi foriera di
manifestazioni ripetute in contesti di varia natura fattuale e temporale, mentre, nel caso in esame, tali
manifestazioni sarebbero limitate alla sfera sessuale”.
Inoltre, il giudice ha richiamato la documentazione medica prodotta in giudizio, inerente ad un
ricovero dell’imputato avvenuto nell’anno 2019, coevo all’epoca a cui si riferiscono i fatti in
contestazione, affermando che da tale documentazione non si trae la sussistenza di alcuna condizione
dissociativa o psicotica, che avrebbe certamente compromesso la capacità di intendere e di volere.
Con riferimento a tale documentazione medica relativa al ricovero avvenuto nel settembre 2019
presso una struttura sall1itaria pubblica per la cura di problemi di salute mentale, il giudice di primo
grado aveva evidenziato che la diagnosi di dimissione formulata appena tre mesi dopo i fatti, dava
riscontro di alterazioni affettivo relazionali ma non di un disturbo dell’identità né di alterazione del
senso della realtà, importanti indicatori di gravità del disturbo della personalità. Gli psichiatri della
struttura avevano osservato l’assenza di “manifestazioni sensoriali dispercettive o di ideazione
delirante strutturata”. Inoltre, il giudice di primo grado aveva argomentato l’inattendibilità delle
conclusioni peritali cui era pervenuto il dottor C.C. alla luce della capacità dell’imputato di partecipare
al processo consapevolmente, affermata da entrambi i periti.
Alla luce di tali premesse, anche la Corte territoriale ha ritenuto che la perizia espletata dal dottor
D.D. fosse non solo più accurata ma anche più motivata e aderente alle emergenze processuali appena
evidenziate rispetto a quella espletata dal dottor C.C.. Invero, entrambi i periti hanno riconosciuto la
sussistenza nel periziando di una “personalità disfunzionale con elementi di tipo narcisistico”, tuttavia
giungendo a conclusioni differenti in quanto il dottor D.D. ha escluso la sussistenza di un vero e
proprio disturbo della personalità effettuando una valutazione comparativa delle condizioni
dell’imputato nelle diverse fasi della sua vita, mentre il dottor C.C. ha prospettato una possibile
condizione psicopatologica tale da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di
volere. Il giudice ha ritenuto di non dover attribuire rilevanza preponderante allo stato di prostrazione
in cui si è trovato l’imputato a causa della delusione subita poche ore prima dei fatti in quanto le
difficoltà di controllo degli impulsi e le azioni compulsive si sarebbero dovute manifestare in vari
contesti e in diversi momenti.
D’altronde, aggiunge il giudice, la tesi difensiva che assume la totale incapacità di intendere e di
volere dell’imputato non è supportata sotto il profilo scientifico in termini dialettici né altrimenti
documentata.
In ordine al mancato esame clinico dell’imputato da parte del dottor D.D., dall’apparato argomentativo
della pronuncia di primo grado si evince che l’imputato si è rifiutato di sottoporsi alla seconda visita
peritale, pur essendo stato esaminato dal dottor C.C. e pur essendo capace di partecipare
consapevolmente al processo, comportamento che il primo giudice ha attribuito esclusivamente alla
scelta strategica di eludere le operazioni peritali.
Dunque, l’apparato argomentativo a sostegno della decisione è preciso, fondato su specifiche
risultanze processuali e del tutto idoneo a illustrare l’itinerario concettuale esperito dal giudice di
merito. D’altronde, dedurre vizio di motivazione della sentenza significa dimostrare che essa è
manifestamente carente di logica e non già opporre alla ponderata ed argomentata valutazione degli
atti effettuata dal giudice di merito una diversa valutazione (Sez. U, 19/06/1996, Di Francesco, Rv.
205621). Le scelte compiute dal giudice di merito, infatti, se coerenti, sul piano della razionalità, con
una esauriente analisi delle risultanze acquisite, si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta
accertato che, come nel caso in disamina, il processo formativo del libero convincimento del giudice
non abbia subìto il condizionamento derivante da una riduttiva indagine conoscitiva o da una
superficiale valutazione delle acquisizioni processuali (Sez. U, 25/11/1995, Facchini, Rv. 203767).
Costituisce d’altronde, ius receptum, nella giurisprudenza di questa Corte, il principio
dell’integrazione delle sentenze di primo e di secondo grado, che ben possono confluire in un corpus
unico, cui il giudice di legittimità può fare riferimento (Sez. 6, n. 26996 dell’8/05/2003), a condizione
che, come nel caso in esame, le due pronunce abbiano adottato criteri omogenei e un apparato logico-
argomentativo uniforme (Sez. 3, n.,44418 del 16/07/2013, Rv. 257595).
2. La seconda doglianza è fondata. Dal plesso argomentativo costituito dalla saldatura tra gli apparati
motivazionali delle sentenze di primo e di secondo grado non si evince infatti quale sia stato l’iter
logico -giuridico esperito dai giudici di merito al riguardo. Nell’apparato giustificativo della sentenza
impugnata non vi è infatti cenno alla tematica relativa al riconoscimento dell’attenuante della minore
gravità di cui all’art. 609 bis cod. pen., benché al riguardo, fosse stato formulato un esplicito motivo
di appello ed enunciati gli elementi favorevoli alla concessione, quali la limitata compressione della
libertà sessuale della persona offesa e l’immediata interruzione dell’azione abusiva. In proposito si
ricorda che, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravità,
prevista dall’art. 609-bis, comma terzo, cod. pen., deve farsi riferimento ad una valutazione globale
del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato
sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, le caratteristiche psicologiche valutate in
relazione all’età, in modo da accertare che la libertà sessuale non sia stata compressa in maniera grave
e che non sia stato arrecato alla vittima un danno grave, anche in termini psichici (Sez.3, n.50336 del
10/10/2019, Rv. 27761).
Al riguardo, la Corte territoriale, pur richiamando tale consolidato orientamento, si è limitata ad
evidenziare uno dei parametri enunciati, ovvero lo stato di dormiveglia in cui si trovava la persona
offesa, senza effettuare una valutazione complessiva del fatto, alla luce delle modalità di realizzazione
e del danno psichico arrecato, onde ricorre il vizio di mancanza di motivazione, che è ravvisabile non
solo allorquando quest’ultima venga completamente omessa ma anche qualora l’apparato
argomentativo sia privo di singoli momenti esplicativi in ordine ai temi sui quali deve vertere il
giudizio (Sez. 6, n. 27151 del 27/06/2011; Sez. 6, n. 35918 del 17/06/2009, Rv. 244763).
Si impone, pertanto, un pronuncia mento rescindente sul punto.
2. La pronuncia impugnata è dunque affetta, in parte qua, dal vizio di mancanza di motivazione che
ne determina l’annullamento con rinvio, onde consentire al giudice di rivalutare il punto, specificando
le ragioni a fondamento delle statuizioni emanate.
PQM
Annulla la sentenza impugnata limitatamente all’applicabilità della circostanza di cui all’art 609 bis
ultimo comma cod. peno con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di
Caltanissetta. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma il 15 novembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 2 gennaio 2024.

L’impossibilità di far fronte agli adempimenti, sanzionati dall’art. 570 c.p., deve essere assoluta

Cass. Pen., Sez. VI, Sent., 5 gennaio 2023, n. 462; Pres. Villoni, Rel. Pacilli
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 16 dicembre 2022 la Corte di appello di Ancona ha confermato la pronuncia
emessa dal Tribunale di Urbino il 20 ottobre 2020, con cui L.N. è stato condannato alla pena ritenuta
di giustizia per il reato di cui all’art. 570 cod. pen., commesso ai danni dei figli.
2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, che ha
dedotto l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge, per avere la Corte territoriale trascurato
che l’imputato difettava di capacità economica e, quindi, versava in una persistente, oggettiva ed
incolpevole indisponibilità di introiti; peraltro, non era sussistente l’elemento soggettivo del reato
contestato.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Il ricorrente ha reiterato censure già sollevate con l’atto di appello e adeguatamente disattese dalla
Corte territoriale, che ha affermato che l’imputato aveva i mezzi economici necessari per adempiere
agli obblighi inerenti alla propria qualità di genitore.
La menzionata Corte, dopo avere ricordato che l’imputato aveva ricevuto la somma di euro
220.000,00 a titolo di risarcimento del danno tra il 2006 e il 2017, ha condiviso la valutazione del
Giudice di primo grado, secondo cui l’imputato, vuoi per imprudenza, vuoi per precise scelte di vita,
non solo non aveva preservato un capitale di non modesta entità ma non l’aveva nemmeno impiegato,
nell’immediatezza della sua riscossione, in favore di tutti i suoi figli.
Quanto al dolo, la Corte di appello ha rimarcato che «nella condotta dell’imputato erano riconoscibili
il margine dii scelta volontaria e la suitas della condotta (con conseguente esclusione della forza
maggiore, che, invece, postula un fatto imponderabile, esulante del tutto dalla condotta dell’agente)
nel momento in cui l’inadempimento, penalmente sanzionato, maturava inesorabilmente mese per
mese, pur avendo l’imputato avuto a disposizione una somma di ben 220.000 euro».
3. Siffatte argomentazioni sfuggono a ogni rilievo censorio, essendo logiche e in linea con quanto già
affermato da questa Corte (Sez. 6 – n. 53173 del 22/05/2018, R., Rv. 274613 – 01; Sez. 6, n. 41697
del 15/09/2016, B., Rv. 268301 – 01), secondo cui, in tema di violazione degli obblighi di assistenza
familiare, l’impossibilità di far fronte agli adempimenti, sanzionati dall’art. 570 cod. pen., deve essere
assoluta e deve altresì integrare una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità
di introiti.
Si è precisato che è onere dell’imputato allegare gli elementi dai quali possa desumersi la sua
impossibilità di adempiere all’obbligazione, senza che valga a tal fine la dimostrazione di una mera
flessione degli introiti economici o la generica allegazione di difficoltà.
4. Alla stregua dei principi richiamati deve rilevarsi che la pronuncia impugnata ha valutato in
maniera puntuale e approfondita la sussistenza degli elementi integrativi del reato di cui all’art. 570
cod. pen. mentre l’imputato non ha neppure dedotto circostanze atte a comprovare che le difficoltà
economiche fossero tali da non consentire l’adempimento dei propri obblighi di assistenza familiare.
5. In definitiva, il ricorso è inammissibile e ciò comporta, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché – non sussistendo ragioni di
esonero (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186) – al versamento della sanzione pecuniaria,
equitativamente determinata in euro 3.000,00, in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

La violenza sessuale può configurarsi anche per via telematica?

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 14 marzo 2024, n. 10692; Pres. Galterio, Rel. Cons. Reynaud
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 30 novembre 2022, la Corte di appello di Palermo ha confermato la decisione,
resa all’esito del giudizio abbreviato, con cui A.A., previo riconoscimento del vizio parziale di mente
e della fattispecie attenuata di cui al terzo comma dell’articolo 609-bis cod. pen., era stato condannato
alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione in relazione ai reati di violenza sessuale e di
diffusione di immagini indebitamente ottenute, attinenti alla vita privata e intima, di cui all’art. 615
bis, secondo comma, cod. pen., commessi in danno di B.B.
2. Avverso la sentenza, per il tramite del proprio difensore di fiducia, l’imputato ha proposto ricorso
per cassazione, lamentando, con il primo motivo, il vizio di motivazione in relazione alla sua ritenuta
identificazione quale autore delle condotte, non avendo i giudici di merito svolto alcun accertamento
sulla effettiva riconducibilità a lui del profilo Facebook utilizzato per commettere i reati ed avendo
erroneamente affermato che la persona offesa lo aveva riconosciuto per averlo incontrato di persona:
ciò non era invece mai accaduto e il riconoscimento si fondava unicamente sull’inserimento della foto
dell’imputato, da altri effettuata, sul profilo social aperto a suo nome.
3. Col secondo motivo si lamentano violazione di legge e vizio di motivazione nella parte in cui la
Corte territoriale ha ritenuto sussistente il reato di violenza sessuale consumata a fronte di mere
minacce che avevano indotto la persona offesa a ritrasmettere all’imputato immagini da lei in
precedenza realizzate in modo consenziente e spontaneamente già trasmesse. Il fatto si dovrebbe
pertanto riqualificare, con conseguente riduzione della pena, in violenza privata ovvero nel tentativo
di violenza sessuale non giunto a consumazione.
4. Con il terzo motivo si deduce il vizio di motivazione in riferimento alla condotta di cui all’articolo
615-bis cod. pen. sul rilievo che non poteva dirsi provata la natura indebita dell’acquisizione delle
fotografie diffuse dall’imputato, che le aveva ricevute spontaneamente dalla persona offesa.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile per genericità, manifesta infondatezza e perché proposto per ragioni non
consentite.
Esso, infatti, si presenta come pedissequamente ripropositivo delle doglianze sollevate in grado di
appello, disattese con non illogica motivazione dalla sentenza impugnata, nonché rivalutativo del
quadro probatorio ricostruito con doppia decisione conforme dai giudici di merito.
Ed invero, va in primo luogo osservato che la genericità del ricorso sussiste non solo quando i motivi
risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con
le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013,
Sammarco, Rv. 255568). In particolare, i motivi dei ricorso per cassazione – che non possono
risolversi nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla
corte di merito – si devono considerare non specifici, ma soltanto apparenti, quando omettono di
assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6,
n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e aa., Rv. 243838), sicché è inammissibile il ricorso per cassazione
quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata
e quelle poste a fondamento dell’atto d’impugnazione, atteso che quest’ultimo non può ignorare le
affermazioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).
Alla Corte di cassazione, poi, sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento
della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore
capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015,
Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507), così come non è
sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la
valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di
prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5,
n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico e a., Rv. 271623; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv.
250362).
2. Quanto al primo motivo, la sentenza impugnata ha del tutto logicamente ritenuto che l’autore delle
condotte andasse individuato nell’imputato, valorizzando il fatto che il profilo Facebook attraverso il
quale l’uomo aveva agito era a lui intestato, recava la sua fotografia, era associato all’utenza telefonica
intestata alla di lui madre convivente e che la persona offesa aveva riconosciuto l’uomo non solo
perché la foto profilo era la sua, ma anche per averlo concretamente visto. Se già i primi elementi
valorizzati consentono di ritenere non illogica la motivazione sul punto, a fronte delle generiche
contestazioni mosse in ricorso e poggianti sulla fantasiosa tesi – priva di alcun aggancio a concreti
dati di fatto emersi in processo – che terzi non meglio identificati potrebbero aver utilizzato per
commettere i reati un profilo Facebook illecitamente aperto a nome dell’imputato ed associato
all’utenza telefonica della sua abitazione intestata alla di lui madre, la contestazione dell’ultima
argomentazione spesa in sentenza, che integrerebbe un travisamento probatorio, è del tutto inidonea
alla luce dei principi ermeneutici che consentono di delimitare il concetto di travisamento della prova.
2.1. Ed invero, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il suddetto vizio deve risultare
dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati dal
ricorrente, ed è ravvisabile ed efficace solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero
ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa
dell’elemento frainteso o ignorato, fermi restando il limite del “devolutum” in caso di cosiddetta
“doppia conforme” e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (Sez. 5, del
02/07/2019, S., Rv. 277758; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e a., Rv. 258774). Quanto al
primo dei cennati profili, il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve
essere coerente e logica rispetto agli elementi di prova in essa rappresentati ed alla conseguente
valutazione effettuata dal giudice di merito, che si presta a censura soltanto se, appunto,
manifestamente contrastante e incompatibile con i principi della logica. Sotto il secondo profilo, la
motivazione non deve risultare incompatibile con altri atti del processo indicati in modo specifico ed
esaustivo dal ricorrente nei motivi del suo ricorso (c.d. autosufficienza), in termini tali da risultarne
vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (cfr. Sez. 2, n. 38800 del 01/10/2008,
Gagliardo e a., Rv. 241449). Ne deriva che il ricorso per cassazione con cui si lamenta la mancanza,
contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l’omessa valutazione di circostanze
acquisite agli atti non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali
non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero
non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece, a) identificare l’atto
processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto
emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della
verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato nonché della effettiva esistenza dell’atto
processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in
modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale
“incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 3, n.
2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816; Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Damiano, Rv.
249035).
2.2. Non solo l’imputato non ha assolto a questi oneri, ma la sentenza di primo grado (pag. 7) attesta
che la mamma della persona offesa aveva dichiarato che la figlia aveva intrattenuto videochiamate
con l’autore delle condotte illecite e per questo era in grado di riconoscerlo, sì che il riferimento,
contenuto nella sentenza impugnata (pag. 2 della motivazione), al “fisico incontro” tra i due va
quantomeno inteso in questo senso e non risulta quindi scardinata la logicità dell’affermazione resa.
3. Quanto al secondo motivo, la sentenza impugnata – con cui il generico ricorso non si confronta –
ha non illogicamente attestato, in modo conforme alla decisione di primo grado, che, dopo aver
inizialmente ottenuto immagini intime che rappresentavano la persona offesa nuda, da lei
spontaneamente autoprodotte ed a lui trasmesse nell’ambito di un iniziale rapporto telematico
consenziente, l’imputato aveva poi costretto la ragazza, che a ciò si era determinata per timore delle
minacce ricevute (di violenza, anche di morte, e di diffusione telematica a terzi del primo materiale
pornografico spontaneamente trasmesso), a mandargliene altre e ad inviargli anche video riproducenti
atti di autoerotismo parimenti commessi a seguito di costrizione, donde la corretta qualificazione del
fatto quale violenza sessuale consumata.
3.1. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, infatti – prevalentemente elaborata in
relazione all’analogo delitto di cui all’articolo 609-quater cod. pen., ma con l’espressione di principi
di valenza generale – si deve ritenere che anche ai fini del reato qui sub iudice gli atti di masturbazione
rilevano quali atti sessuali non solo quando con costrizione praticati dall’agente a terzi o da costoro
al primo, ma pure laddove la persona offesa sia stata costretta a praticarli su sé medesima, non essendo
necessario il contatto fisico fra l’agente e la vittima (cfr. Sez. 3, n. 26809 del 04/04/2023, S., Rv.
285060; Sez. 3, n. 25822 del 09/05/2013, T.P., Rv. 257139). Non può, quindi, negarsi la possibilità
della realizzazione del reato contestato anche per via telematica, quando il reo, utilizzando strumenti
per la comunicazione a distanza quali il telefono, la videochiamata, la chat, costringe la persona offesa
a compiere atti sessuali pur se questi non comportino alcun contatto fisico con l’agente (cfr. Sez. 3, n.
20521 del 19/04/2011, n.m.).
3.2. Evidenziano, inoltre, i secondi giudici, che di un eventuale “reinvio” di foto precedentemente
fornite spontaneamente – circostanza posta a fondamento anche dell’ultimo motivo di ricorso e sulla
quale subito si ritornerà – non esiste alcuna traccia nelle chat intercorse tra persona offesa ed imputato,
non essendosi questi mai lamentato che quanto richiesto ed ottenuto con minaccia fosse la mera
ritrasmissione di materiale già in suo possesso.
4. Le circostanze di cui si è appena dato conto rivelano la manifesta infondatezza e genericità anche
del terzo motivo di ricorso, posto che la sentenza di primo grado (pag. 12) e quella di appello (pag.
8) convergono nel ritenere che sussista il requisito della “indebita” acquisizione delle immagini
riproducenti la vita intima e privata della persona offesa successivamente diffuse dall’imputato, in
quanto ottenute, appunto, sotto costrizione dovuta a minaccia. Se questa corretta conclusione non
viene in diritto contestata, la ricostruzione fattuale sostenuta dal ricorrente, secondo cui le immagini
trasmesse sarebbero quelle ottenute consensualmente dalla persona offesa prima delle minacce, è in
sentenza non illogicamente definita “teorica e congetturale”, non avendo l’imputato prodotto né
allegato alcun elemento idoneo a sostenere la tesi alternativa a quella non illogicamente argomentata
dai giudici di merito sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e dalla di lei madre.
5. Alla declaratoria dell’inammissibilità consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle
spese del procedimento. Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte
costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia
proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla
declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere del
versamento della somma, in favore della cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro
3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 23 gennaio 2024.
Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2024.

Pornografia minorile. Cosa si intende per “utilizzazione” del minore?

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 02 gennaio 2024, n. 2; Pres. Ramacci, Rel. Cons. Aceto
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. Il sig. A.A. ricorre per l’annullamento della sentenza del 15/11/2022 della Corte di appello di Roma
che, in riforma della sentenza del 28/01/2015 del GUP del Tribunale di Roma, pronunciata a seguito
di giudizio abbreviato e da lui impugnata, lo ha assolto dal reato di cui agli artt. 81, cpv., 629 cod.
pen., rubricato al capo B dell’imputazione, perché il fatto non sussiste, ha rideterminato la pena per
le residue imputazioni nella misura di quattro anni e due mesi di reclusione, ha sostituito la pena
accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella dell’interdizione temporanea per
cinque anni, ha confermato nel resto la condanna per i reati di cui ai capi A (artt. 81, cpv., 609-bis,
commi primo e secondo, n. 1, cod. pen.), C (artt. 81, cpv., 609A-bis, commi primo e secondo, n. 1,
cod. pen.), D (artt. 81, cpv., 609-bis, commi primo e secondo, n. 1, cod. pen.), E (artt. 81, cpv., 56,
609-bis, commi primo e secondo, n. 1, cod. pen.), F (art. 600-ter cod. pen.) e G (artt. 81, cpv., 600-
bis, comma primo, n. 2, e comma secondo, cod. pen.), commessi ai danni della medesima persona
offesa dal mese di dicembre dell’anno 2012 fino al 26 gennaio dell’anno successivo.
1.1. Con il primo motivo deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 609-bis, primo e
secondo comma, cod. pen., e l’insussistenza del reato di violenza sessuale di cui al capo A della
rubrica.
Non è stato accertato, afferma, l’effettivo abuso delle condizioni di inferiorità psichica della vittima,
illegittimamente (ed automaticamente) desunte dall’età anagrafica di quest’ultima (diciassette anni e
dieci mesi al momento del fatto). Egli, afferma, non poteva essere consapevole delle condizioni di
minorazione della ragazza avuto riguardo al contesto che aveva preceduto e accompagnato l’azione.
Aggiunge che il racconto della vittima era tutt’altro che lineare, come annotato dalla stessa polizia
giudiziaria.
1.2. Con il secondo motivo deduce l’erronea applicazione dell’art. 600-ter cod. peno e l’insussistenza
del reato di pornografia minorile di cui al capo F della rubrica, osservando che non basta la semplice
proposta di produzione di materiale pedopornografico, essendo necessaria una positiva attività di
persuasione che determini o rafforzi la decisione del minore di prendere parte all’esibizione. Dagli
atti del processo, afferma, non risulta in alcun modo tale attività manipolatoria del ricorrente laddove
emerge solo un reciproco scambio di fotografie.
1.3. Con il terzo motivo deduce l’erronea applicazione dell’art. 600-bis cod. pen., e la carenza e/o
manifesta illogicità della motivazione in merito alla sussistenza del reato di cui al capo G). La persona
offesa, afferma, era dedita alla prostituzione (come si evince dalle chat intrattenute dalla ragazza sul
forum “Badoo”) ed era stata lei stessa a proporre al ricorrente l’opportunità di “lavorare” per lui
offrendosi di avere rapporti sessuali con terze persone dietro corrispettivo. Manca, afferma, ogni
forma di induzione, persuasione, suggestione, pressione o coartazione morale da parte del ricorrente
nei confronti della persona offesa.
Quanto alla contestazione relativa al secondo comma, la persona offesa aveva sempre negato il
consenso ai rapporti sessuali e la percezione di denaro, laddove il ricorrente aveva sempre negato le
violenze ed affermato il consenso della ragazza agli atti sessuali ancorché dietro corrispettivo. La
rubrica colloca il reato di cui al capo G in un’epoca compresa tra il dicembre 2012 ed il gennaio 2013,
lo stesso periodo durante il quale la stessa rubrica colloca le violenze sessuali contestate ai capi A, C,
D ed E; sicché delle due l’una: o si è trattato di violenza sessuale oppure di atti sessuali consumati
con minore di età compresa tra i quattordici ed i diciotto anni. La Corte di appello è del tutto silente
sul punto.
2. Con requisitoria scritta del 14/07/2023, il Procuratore generale ha concluso per l’inammissibilità
del ricorso.
3. Con memoria del 17/07/2023 il difensore della parte civile, Avv. G. F. P., ha chiesto che il ricorso
venga dichiarato inammissibile o comunque rigettato.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato limitatamente al reato di cui al capo G; è inammissibile nel resto.
2. Il primo motivo è generico e manifestamente infondato.
2.1. Il capo A della rubrica imputa al ricorrente la consumazione del reato di cui all’art. 609-bis cod.
peno tanto nella forma costrittiva (primo comma) quanto in quella induttiva mediante abuso delle
condizioni di inferiorità psichica (secondo comma).
2.2. La Corte di appello afferma con estrema chiarezza che il reato in questione è stato consumato
con violenza fisica (consistita nell’afferrare la testa della persona offesa spingendola sui genitali
dell’imputato), con conseguente irrilevanza della questione relativa alla sussistenza dell’abuso
consapevole delle condizioni di minorazione della vittima, questioni peraltro poste mediante
l’inammissibile richiamo al contenuto delle prove delle quali non viene nemmeno dedotto il
travisamento.
4.Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.
4.1. In tema di reato di pornografia minorile di cui all’art. 600-ter, comma primo, cod. pen., è lecita
unicamente la produzione di materiale pornografico realizzato senza la “utilizzazione” del minore e
con il consenso espresso di colui che abbia raggiunto l’età per manifestarlo (Sez. U, n. 4616 del
28/10/2021, dep. 2022, Rv. 282718 -04).
4.2. L’utilizzazione -spiegano le Sezioni Unite – evoca la strumentalizzazione del minore e la sua
riduzione a res” per il soddisfacimento di desideri sessuali di altri soggetti o per conseguire un utile.
Se ricorre l’utilizzazione del minore, nel senso sopra indicato, nessuna valenza – esimente o
scriminante – può essere riconosciuta al suo consenso. In questo caso, il consenso non può essere
ritenuto libero e si presume determinato proprio dalla abusività della condotta dell’adulto. In
quest’ottica si spiega la mancanza di alcun riferimento, nel corpo dell’art. 600Â-ter, comma primo,
cod. pen., al consenso del minore cui, invece, attribuiscono rilievo le Convenzioni internazionali che
riconnettono la liceiti3 della condotta dell’adulto al “consenso” del minore, purché non ottenuto
mediante comportamenti “abusivi” dell’adulto.
4.3. Le Sezioni Unite ribadiscono che il concetto di “utilizzazione” sta ad indicare la condotta di chi
manovra, adopera, strumentalizza o sfrutta il minore servendosi dello stesso e facendone uso nel
proprio interesse, piegandolo ai propri fini come se fosse uno strumento. Con riferimento al consenso
del minore, ritengono essenziale un attento e rigoroso accertamento del contesto in cui è stato espresso
il consenso stesso ed una verifica specifica per escludere che lo stesso sia stato inficiato da
condizionamenti.
4.4. Già le Sezioni Unite n. 51815 del 2018, ricorda la sentenza, avevano indicato, in modo
esemplificativo, una serie di elementi dai quali è possibile ricavare la condizione di “utilizzazione”
del minore. Essi sono stati individuati nella abusività della condotta connessa alla posizione di
supremazia rivestita dal soggetto agente nei confronti del minore; nelle: modalità con le quali il
materiale pornografico viene prodotto (ad esempio, minaccia, violenza, inganno); nel fine
commerciale; nell’età dei minori coinvolti, se inferiore a quella prevista per la valida formulazione
del consenso sessuale.
4.5. All’epoca del fatto la persona offesa aveva diciassette anni. Dalla lettura della sentenza impugnata
(e di quella di primo grado) risulta che le cinque immagini pedopornografiche erano state prodotte
dalla ragazza dietro minaccia di percosse e della divulgazione della notizia che la stessa svolgeva
attività di meretricio.
4.6. Il ricorrente, dal canto suo, si limita ad opporre una verità diversa, sostenendo di non aver mai
proferito alcuna minaccia (né esplicita, né velata) nei confronti della ragazza, senza però dedurre la
contraddittorietà estrinseca della motivazione con specifici atti del processo (in tesi travisati) ma solo
affermando che lo scambio era reciproco.
4.7. La pura e semplice deduzione dell’erronea applicazione della legge penale non consente
divagazioni extratestuali e di certo non può basarsi su una ricostruzione del fatto in termini diversi da
quello che risulta dalla motivazione della sentenza impugnata (e dunque su un fatto diverso da quello
ritenuto dal giudice di merito). Ciò non impedisce una interpretazione sostanziale del motivo ma
occorre comunque che il vizio di motivazione che, in tesi, affligge la ricostruzione del fatto venga
dedotto in modo specifico in almeno una delle declinazioni previste dall’art. 606, lett. e), cod. proc.
pen., non potendosi la Corte di cassazione sostituire alla parte e correggere l’errato uso del potere
dispositivo di quest’ultima.
5.Il terzo motivo è, invece, fondato.
5.1. Il capo G della rubrica imputa al ricorrente il reato di cui agli artt. 81, cpv., 600-bis cod. pen., per
aver compiuto atti sessuali con la minore in cambio di corrispettivi in danaro inducendola altresì ad
avere rapporti sessuali con terze persone dietro promessa di corrispettivi in denaro.
5.2. E’ in primo luogo fondata la doglianza relativa alla sussistenza del reato di prostituzione minorile
in relazione ai rapporti sessuali intercorsi tra la persona offesa e l’imputato.
5.3. Questi ha sempre sostenuto che tali rapporti erano consensuali e a pagamento. Ne dà atto la Corte
di appello allorquando illustra il contenuto dell’interrogatorio di garanzia per poi trarne argomento di
condanna anche per il delitto di prostituzione minorile.
5.4. Sennonché la sentenza sconta sul punto una evidente contraddittorietà intrinseca nella misura in
cui dà credito al racconto della vittima secondo cui i rapporti con il ricorrente erano sempre stati posti
in essere con violenza e/o minaccia; l’alternativa decisoria è inevitabile: o l’imputato aveva sempre
avuto rapporti sessuali non consenzienti con la vittima o li aveva avuti a pagamento comprando il
consenso di quest’ultima. Tanto più che la contestazione relativa al reato di cui al capo G copre lo
stesso arco temporale nel quale sono state consumate le condotte abusanti di cui ai capi A C, D ed E.
5.5. Ne consegue che, siccome le censure relative a questi reati sono inammissibili per le ragioni già
sopra indicate e non esistendo alcuna possibilità logico-giuridica di un concorso formale tra le due
diverse ipotesi di reato (violenza sessuale e prostituzione minorile) per lo stesso, identico fatto storico,
è necessario che la Corte di appello accerti con esattezza se le condotte di cui al capo G si
sovrappongano totalmente a quelle di cui ai capi A, C, D ed E, identificandosi con esse, oppure se
siano ulteriori e diverse.
5.6. Quanto, invece, alla induzione della minore a prostituirsi con terze persone, la Corte di appello
ha omesso di confrontarsi in modo specifico con le altrettanto specifiche deduzioni difensive volte a
escludere una qualsiasi attività induttiva del ricorrente. La Corte territoriale, effettivamente, non
spiega in che modo l’agente abbia determinato, persuaso o convinto la persona offesa a concedere il
proprio corpo per pratiche sessuali da tenere con terzi a fronte di specifiche allegazioni difensive volte
a dimostrare che la vittima già si prostituiva autonomamente senza alcuna sollecitazione
dell’imputato. Non che il reato di cui all’art. 600-bis, comma primo, n. l), cod. pen., non sia
configurabile, sotto il profilo della induzione, a danno della persona minore di età che già eserciti la
prostituzione (Sez. 3, n. 13995 del 25/10/20:1.7, dep. 2018, F. Rv. 273161 -01; Sez. l, n. 24806
26/05/2010, T., Rv. 247805 … 01); gli è che, in tal caso, occorre uno sforzo probatorio maggiore a
fronte di allegazioni difensive volte a dimostrare che l’agente non ha dovuto porre in essere alcuna
attività induttiva a fronte di un consenso che, in tesi difensiva, si afferma essere stato tutt’altro che
viziato.
5.7. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al reato di cui al capo
G con rinvio, per nuovo giudizio sul punto, ad altra sezione della Corte di appello di Roma. Nel resto,
il ricorso è inammissibile. Il giudice rescindente provvederà alla liquidazione delle spese sostenute
dalla parte civile nel presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo G) dell’imputazione con rinvio
per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma. Dichiara inammissibile nel resto
il ricorso.

Al momento della celebrazione del matrimonio la buona fede dei nubendi si presume.

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza del 17 gennaio 2024, n. 1772, Cons. Rel.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1926/2021 R.G. proposto da:
Giurisprudenza di legittimità Ondif
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA A., 143, presso lo studio dell’avvocato
GALIANI DAVIDE rappresentato e difeso dall’avvocato SECHI LUCA, come da procura
speciale in atti.
– ricorrente –
contro
B.B., elettivamente domiciliato in ROMA VIA M. 247, presso lo studio dell’avvocato DI
GIOVANNI FRANCESCO che lo rappresenta e difende, come da procura speciale in atti.
– controricorrente –
nonché contro
PROCURATORE GENERALE CORTE APPELLO CAGLIARI
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI n. 543/2020 depositata il
28/10/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/11/2023 dal Consigliere LAURA
TRICOMI.
Svolgimento del processo
An.De. ebbe a contrarre matrimonio l’11 novembre 1969 con Si.Be., matrimonio da cui
nacque A.A.; con sentenza parziale in data 18 febbraio 2009 il Tribunale di Sassari
pronunciò la cessazione degli effetti civili di questo matrimonio; in data 13 giugno 2009
An.De. contrasse matrimonio civile con B.B.; in data 15 ottobre 2011 An.De. morì.
Con atto di citazione in data 15 giugno 2013 A.A. agì dinanzi al Tribunale di Cagliari nei
confronti di B.B., per fare dichiarare la nullità del matrimonio da questa contratto con il
padre nel 2009, per mancanza del requisito della libertà di stato del nubendo al momento
del matrimonio: dedusse, a tal fine, che la sentenza di divorzio non era ancora passata in
giudicato al momento in cui venne celebrato il nuovo matrimonio.
Il Tribunale di Cagliari accolse la domanda e dichiarò la nullità del matrimonio contratto in
Roma in data 13 giugno 2009 da An.De. e B.B., disponendo le annotazioni di rito a cura
dell’Ufficiale di Stato Civile.
La Corte di appello di Cagliari, investita del gravame proposto da B.B., ha ritenuto
tempestivo ed ammissibile l’atto di appello e lo ha accolto in quanto ha ritenuto che A.A.
non era legittimata all’azione, promossa adducendo un interesse di natura successoria in
conseguenza dell’avvenuto decesso del padre. Segnatamente la Corte territoriale ha
affermato che l’interesse legittimo ed attuale ad agire, di cui all’art. 117 cod. civ. deve
identificarsi nell’interesse dei soggetti titolari di una situazione soggettiva collegata a
rapporti di indole familiare che è pregiudicata dagli effetti propri del matrimonio, per cui la
legittimazione deve ammettersi in quanto l’azione sia strettamente necessaria a rimuovere
il pregiudizio da cui scaturisce l’interesse. Nello specifico, il giudice del gravame ha
escluso la sussistenza dell’interesse successorio prospettato da A.A. in quanto la
declaratoria di nullità del matrimonio non avrebbe potuto incidere, in forza dell’art. 584
cod. civ. che regola il caso del matrimonio putativo, sulla consistenza della quota ereditaria
spettante alle due parti in causa e pertanto non poteva realizzare l’interesse per il quale la
domanda di nullità era stata proposta (fol. 17 della sent. imp.); in proposito, ha affermato
che non vi era dubbio alcuno della sussistenza della buona fede in capo a B.B. al
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momento del matrimonio, con riferimento al ritenuto passaggio in giudicato della sentenza
del Tribunale di Sassari che aveva pronunciato il pregresso divorzio.
A.A. ha proposto ricorso con tre mezzi illustrati da memoria, per conseguire la cassazione
della sentenza de quo. B.B. ha replicato con controricorso e memoria.
È stata disposta la trattazione con rito camerale.
Motivi della decisione
2.1.- La prima e la seconda censura concernono la declaratoria di ammissibilità dell’atto di
appello, ritenuto dalla Corte territoriale tempestivamente introdotto da B.B., sulla scorta
della accertata nullità della notificazione della sentenza di primo grado eseguita
personalmente nei confronti di questa, rimasta contumace in primo grado, su istanza del
difensore di A.A. a mezzo del servizio postale ai sensi dell’art. 8 della legge n. 890/1982 .
Segnatamente la copia conforme della sentenza venne notificata a mezzo del servizio
postale presso la residenza in Milano Via de.Fa. n.24 e in Cagliari Via Az. n.38: in entrambi
i casi, gli addetti al recapito, constatarono nella relata la temporanea assenza del
destinatario nella data del 15 dicembre 2016, immisero l’avviso nella cassetta degli stabili
indicati nei rispettivi indirizzi e inoltrarono, con distinte raccomandate a/r , le comunicazioni
di avvenuto deposito.
Già in sede di costituzione in appello la odierna ricorrente sostenne che il procedimento si
era svolto correttamente e la notificazione si era perfezionata con la compiuta giacenza in
data 27 dicembre 2016 presso entrambi i domicili, di guisa che l’atto di appello di B.B.,
notificato il 2 febbraio 2017, risultava tardivo ed inammissibile.
Con le presenti censure, svolte come vizi motivazionali ex art. 360 , primo comma, n.5,
cod. proc. civ., A.A. insiste su tale prospettazione.
2.2.- Con il primo, la ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo,
relativamente alla dedotta dimora di B.B. In Cagliari via Az. n. 38, costituito dal
perfezionamento della notifica della sentenza di primo grado in Cagliari e dall’estratto delle
“pagine bianche”, riportante proprio quell’indirizzo di B.B. in Cagliari, alla data del 3
maggio 2017, a dimostrazione della ritualità della notificazione ivi eseguita.
Il primo motivo è inammissibile perché non si confronta con la ratio decidendi ove è
affermato, senza la Corte di appello sia stata smentita sul punto, che era “pacifico” che
B.B. da anni si era trasferita a Milano e che pertanto non poteva avere la sua dimora
abituale in Cagliari, di guisa che la notifica della sentenza lì eseguita non soddisfaceva i
requisiti di legge.
Quanto al fatto di cui sarebbe stato omesso l’esame, va osservato che non ne risulta
illustrata la decisività, posto che le “pagine bianche” sono formate dall’elenco degli
abbonati telefonici in ordine alfabetico con l’indicazione dell’indirizzo che riguarda,
appunto, i recapiti telefonici, la localizzazione degli apparecchi fissi e la titolarità dei
contratti telefonici, ma da ciò nulla è direttamente ed univocamente desumibile in ordine
alla abituale dimora dell’intestatario, potendo essere stato stipulato il contratto telefonico a
servizio di altro utilizzo dell’immobile (studio/attività economiche/ seconda casa ad uso
vacanze, etc.) e la circostanza rilevabile dall’elenco non è stata ritenuta univoca in merito
al perfezionamento della notificazione, nel caso di specie, stante il “pacifico” trasferimento
a Milano di B.B.
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2.3.- Con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo,
relativo alla dedotta dimora di B.B. in Milano Via Fa. n.24, costituito dalla circostanza che
l’annotazione del cambio di residenza in Milano da Via Fa. n.24 a via Torino n.18, sia pure
con decorrenza anticipata al 4 ottobre 2016, era stato eseguito dal Comune di Milano – a
seguito dell’istanza di riesame avanzata da B.B., a seguito del provvedimento di rigetto
emesso dal Comune di Milano il 1° marzo 2017, e, quindi, in epoca successiva alla notifica
della sentenza di primo grado, di guisa che non si poteva affermare che B.B. non avesse
più la sua residenza e /o dimora in Via Fa. n.24 al momento della notifica.
Il secondo motivo è infondato.
La Corte di appello ha fondato la sua pronuncia sulle informazioni rilasciate dal Comune di
Milano in data 28 dicembre 2018 e sulle risultanze anagrafiche corrette, risultanti dal
certificato anagrafico storico rilasciato in pari data dal Comune ove era precisato che
sostitutiva ed annullava le certificazioni precedenti. Da questo certificato ha desunto che
dal 5 ottobre 2016 al 27 dicembre 2018 B.B. risiedeva anagraficamente in Via To. n. 18 e
che quindi la notifica era stata fatta in luogo diverso dalla residenza anagrafica, luogo che
– stante le attività poste in essere dall’agente postale ed attestate nell’avviso di ricevimento
della raccomandata, presentava un collegamento con B.B., dando luogo ad una
presunzione semplice.
La Corte di merito ha dedotto che toccava, quindi, a B.B. dimostrare che ella aveva non
solo la residenza, ma anche la dimora in un luogo diverso ed ha affermato che tale prova
era stata offerta sulla base di documenti da quali si evinceva che, al momento della
notifica, B.B. non risiedeva più in Via Fa. n.24, né aveva lì la sua dimora abituale,
documenti il cui contenuto non è messo in discussione dalla ricorrente.
L’esame dei documenti indicati dalla ricorrente e delle attestazioni rese dal Comune di
Milano vi è stato, ed anzi proprio in base a questi la Corte di merito ha motivato la
decisione, anche se ha raggiunto conclusioni non conformi alle aspettative della ricorrente.
D’altronde la Corte di merito, pur ritenendo, sulla scorta dell’acquisito certificato di
residenza storica – che la residenza anagrafica di B.B. fosse già stata trasferita a Via To.
n.18 al momento della notificazione della sentenza di primo grado, ha comunque ritenuto
che fosse stata attestato un collegamento tra la dimora in Via Fa. n.24 e B.B. da parte
dell’agente postale ed ha affermato che su quest’ultima gravava l’onere di fornire la prova
contraria. Ha, quindi, ritenuto che ciò B.B. aveva dimostrato in ragione di plurimi elementi
(antecedente riconsegna dell’ immobile di Via Fa. e registrazione all’Agenzia delle entrate
della risoluzione del contratto, etc.).
Risulta, pertanto, rispettato il principio secondo il quale la notificazione di un atto ex art.
140 cod. proc. civ. – al quale è assimilabile la notificazione a mezzo del servizio postale- in
un luogo non coincidente con le risultanze anagrafiche non determina la nullità del
procedimento atteso che le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente
presuntivo circa il luogo dell’effettiva abituale dimora, che è accertabile con ogni mezzo di
prova, anche contro le stesse, assumendo rilevanza esclusiva il luogo ove il destinatario
della notifica dimori, di fatto, in via abituale (Cass. n. 8463/2023 ) e
la Corte di appello ha accertato, sulla scorta di circostanze di fatto non contestate e non
costituite dalla sola emergenza anagrafica, che B.B. non dimorava più in Via Fa. n.24 al
momento della notificazione.
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3.1.- Con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt.112 e 345
cod. proc. civ., in relazione agli artt.86 , 117 , 128 e 584 cod. civ., riferita al contestato
accoglimento dell’eccezione di carenza di legittimazione attiva in capo alla odierna
ricorrente.
La Corte di appello ha premesso che la dichiarazione di nullità del matrimonio è soggetto a
condizioni più stringenti rispetto ad altri casi di nullità e che la legittimazione ad agire è
riservata a coloro che “abbiano per impugnarlo un interesse legittimo ed attuale” e che,
quindi, va identificata in una situazione pregiudicata proprio dagli effetti del matrimonio; ha,
quindi, rimarcato che l’interesse ad agire per la declaratoria di nullità, prospettato dalla
ricorrente odierna, era collegato ai diritti ereditari ed ha escluso la ricorrenza dell’interesse
in questione, sul rilievo che B.B. era in buona fede al momento del matrimonio, in ciò
indotta, in particolare, dalle risultanze formali delle annotazioni relative alla cessazione
degli effetti civili del precedente matrimonio contratto da A.A., riportate sui pubblici registri –
oltre che da altri elementi -, di guisa che avrebbe trovato ingresso, anche ove dichiarata la
nullità del matrimonio, l’applicazione dell’art. 584 cod. civ. che disciplina la successione
ereditaria del coniuge putativo.
Sulla scorta di ciò ha ravvisato il difetto di legittimazione della ricorrente.
La ricorrente sostiene che la ricorrenza o meno dei presupposti di applicabilità dell’art. 584
cod. civ. rileverebbe solo in un momento successivo alla dichiarazione di nullità del
matrimonio putativo intervenuta dopo la morte del coniuge; che l’art. 128 cod. civ.
dimostra che non può parlarsi di matrimonio putativo se non quando il matrimonio sia stato
celebrato e sia stato poi dichiarato nullo; che la Corte di appello avrebbe esorbitato dal
thema decidendum rimesso alla sua valutazione, perché la questione della buona fede dei
coniugi e della loro convivenza non era mai stata dedotta nel corso del giudizio, e che si
era pronunciata su eccezioni che potevano essere sollevate solo dalla parte, ampliando in
modo non consentito l’oggetto del giudizio.
3.2.- Il motivo è infondato.
3.3.- L’art. 117 , primo comma, cod. civ. prevede una pluralità di ipotesi di nullità del
matrimonio, a seconda che siano stati violati gli artt.86 , 87 o 88 cod. civ. Questa
disposizione rileva nel presente caso, in cui è stata dedotta la nullità del matrimonio per
violazione dell’art. 86 cod. civ. che prescrive la libertà di stato per i nubendi; essa
circoscrive la legittimazione a promuovere l’azione di nullità ad alcuni soggetti specifici –
coniugi, ascendenti prossimi, pubblico ministero- e a “tutti coloro che abbiano per
impugnarlo un interesse legittimo ed attuale” disposizione la cui interpretazione è centrale
nella vicenda in esame.
Va rammentato che l’azione di nullità, pur promuovibile dal pubblico ministero, non può più
essere esperita da questi dopo la morte di uno dei coniugi, secondo quanto previsto
dall’art. 125 cod. civ. (Cass. n.4653/2018 ) e che l’azione per impugnare il matrimonio è
intrasmissibile agli eredi, se non quando il giudizio è già pendente alla morte dell’attore
(art. 127 cod. civ.), circostanza non ricorrente nel presente caso.
Orbene, nel caso in cui uno dei due coniugi sia già deceduto al momento in cui viene
dichiarata la nullità, il matrimonio è già sciolto ai sensi dell’art. 149 cod. civ. e gli effetti
conseguenti al decesso di uno dei coniugi, quale l’apertura della successione ereditaria,
già si sono verificati, tanto è vero che la peculiare situazione è espressamente e
distintamente disciplinata dall’art. 584 cod. civ., che fa salvi i diritti ereditari del coniuge
superstite in buona fede “putativo”.
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Il titolo di legittimazione fatto valere dalla odierna ricorrente, che ha agito dopo la morte del
padre per conseguire la declaratoria di nullità del matrimonio, è stato fondato su “un
interesse legittimo ed attuale” rappresentato dalle proprie aspettative successorie in
ragione della previsione, ritenuta pregiudizievole, dell’art. 584 , primo comma, cod. civ.
L’art. 584 , primo comma, cod. civ., stabilisce che “Quando il matrimonio è stato dichiarato
nullo dopo la morte di uno dei coniugi, al coniuge superstite di buona fede spetta la quota
attribuita al coniuge dalle disposizioni che precedono. Si applica altresì la disposizione del
secondo comma dell’articolo 540” così facendo salvi i diritti successori del coniuge di
“buona fede”. In proposito, va rimarcato che tardivamente la ricorrente, nell’atto
introduttivo del giudizio di legittimità (fol. 32), ha prospettato un interesse di natura
familiare anche morale, oltre che economico, senza tuttavia nulla illustrare circa la
tempestiva introduzione del tema nella fase di merito e senza descrivere lo specifico
interesse morale vantato, con evidente novità ed inammissibilità della questione nella fase
di legittimità.
Chiarito il perimetro normativo della legittimazione ad agire rilevante nel presente caso, va
osservato che la disposizione di cui all’art. 128 cod. civ., che prevede a quali condizioni il
matrimonio nullo produce gli effetti del matrimonio valido (cd. matrimonio putativo),
stabilisce che gli effetti del matrimonio valido si producono in favore dei coniugi fino alla
sentenza che ha pronunciato la nullità ” … quando i coniugi stessi lo hanno contratto in
buona fede, oppure quando il loro consenso è stato estorto con violenza o determinato da
timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne agli sposi”, dal che si deduce la
centralità del tema della “buona fede” nell’ambito dell’accertamento della nullità del
matrimonio quando si controverta su diritti che vengono “fatti salvi” anche in caso di
accertata nullità.
In proposito, è necessario ricordare che nella giurisprudenza di legittimità corrisponde a un
principio ampiamente recepito l’applicabilità alla materia matrimoniale del criterio generale
di cui all’art. 1147 , quarto comma, cod. civ., dovendosi – agli effetti della dichiarazione di
nullità del matrimonio putativo ex art. art. 128 cod. civ.-, presumere la buona fede dei
nubendi nel momento della celebrazione del matrimonio, con la conseguenza che l’onere
di provare l’inefficacia del matrimonio nullo, anche sotto il profilo della putatività, e la mala
fede del nubendo, incombe a colui che lo allega (cfr. Cass. n. 33409/2021 ; Cass. n.
2077/1985; Cass. n. 4889/1981; Cass. n. 1298 del 1971).
È stato precisato che anche la prova dell’esistenza di uno stato di dubbio del coniuge sulla
validità del matrimonio è a carico di chi ha interesse a dimostrare l’assenza di buona fede.
Ed ogni valutazione al riguardo – anche in ordine alla ricorrenza di una situazione di
ignoranza dipendente da colpa grave in capo al coniuge cui tale situazione è rimproverata
(cfr. Cass. n. 4649/1985) – è riservata al giudice di merito (cfr. Cass. n. 2486/1969).
3.4.- Premesso l’inquadramento normativo, va rilevato che dalla lettura dell’art. 584 , primo
comma, cod. civ. si evince che il diritto alla quota ereditaria di pertinenza del coniuge
superstite – rispetto alla disponibilità della quale la ricorrente ha prospettato il suo interesse
ad agire – viene meno solo ove ricorrano due condizioni concorrenti ed intrinsecamente
connesse e cioè: I) la nullità del matrimonio; ii) la mancanza di buona fede del coniuge
superstite. Da ciò si evince che la declaratoria di nullità del matrimonio, ove non sia
accertata la mancanza di buona fede, è priva di effetti ai fini successori.
Va rimarcato che l’art. 584 cod. civ. non è norma processuale, ma norma sostanziale che
stabilisce i presupposti giuridici del diritto da esso riconosciuto.
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Questa disposizione – a differenza di quanto sostiene la ricorrente – non stabilisce che il
coniuge superstite ha diritto a pretendere la quota ereditaria solo se in buona fede, ma che
“la quota ereditaria spetta al coniuge superstite di buona fede”, buona fede che, come già
si è evidenziato, si presume, a meno che non vi sia prova contraria che grava su colui che
invoca la nullità.
3.5.- Ne discende che l’interesse ad agire ex art. 117 , primo comma, cod. civ. che sia fatto
valere per conseguire la declaratoria di nullità del matrimonio da parte di un terzo, al fine di
evitare il pregiudizio di diritti successori vantati verso il coniuge deceduto che egli potrebbe
subire a seguito dell’applicazione dell’art. 584 cod. civ. a favore del coniuge “putativo”, si
configura come “legittimo ed attuale” solo ove l’azione proposta sia volta a conseguire la
declaratoria di nullità del matrimonio e l’accertamento della mala fede da parte del coniuge
superstite, che il terzo attore ha l’onere di allegare, dedurre e dimostrare, in quanto solo in
presenza di queste due circostanze il diritto successorio del coniuge superstite recede.
3.6.- Nel caso in esame, la stessa ricorrente riconosce che “nel giudizio di primo grado il
tema della buona fede non sia stato mai oggetto di discussione, al pari del giudizio di
appello in cui un solo accenno viene svolto tardivamente ed inammissibilmente nella
comparsa conclusionale della B.B.”(fol. 30 del ric.): da ciò si evince, la carenza
dell’interesse legittimo ed attuale di A.A.- rettamente riscontrata dalla Corte di appello –
perché l’azione proposta avrebbe potuto contrastare il pregiudizio prospettato
(conseguente all’applicazione dell’art. 584 cod. civ.) solo in quanto atta a dimostrare non
solo la nullità del matrimonio, ma anche la malafede del coniuge superstite, mentre risulta
evidente che il tema della buona/mala fede non era stato da essa stessa – su cui
incombeva l’onere – posto in alcun modo né in primo, né in secondo grado.
La decisione risulta pertanto immune da vizi, come emerge dalla motivazione che è
argomentata e immune da vizi logici e, quindi, incensurabile in sede di legittimità. La
circostanza che la Corte di appello abbia accertato che la buona fede di B.B., oltre che
presunta, era provata anche dalle evenienze documentali versate in giudizio, provenienti
dalla Cancelleria del Tribunale di Sassari e dai Registri di stato civile di Cordongianus, ha
una valenza esclusivamente rafforzativa della decisione, a fronte del mancato
assolvimento degli oneri allegativi, deduttivi e probatori suoi propri da parte dell’originaria
attrice in merito alla mala fede del coniuge superstite.
4.- In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità
delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003 , art. 52 .
Raddoppio del contributo unificato, ove dovuto.
P.Q.M.
– Rigetta il ricorso;
– Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio che liquida in euro
6.000,00=, oltre euro 200,00= per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella
misura del 15% ed accessori di legge;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità
delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003 , art. 52 ;
Giurisprudenza di legittimità Ondif
– Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002 , art. 13 , comma 1 quater, dà atto della sussistenza
dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello relativo al ricorso, se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, il giorno 29 novembre 2023.
Depositata in Cancelleria il 17 gennaio 2024.