ALIENAZIONE GENITORIALE
Di Gianfranco Dosi
I. Il principio della bigenitorialità nella separazione
II. I fattori che possono incrinare l’obiettivo della bigenitorialità
III. L’alienazione genitoriale come conseguenza della manipolazione del figlio da parte del genitore alienante
IV. I danni endofamiliari e la giurisprudenza civile sull’art. 709-ter c.p.c.
V. L’alienazione genitoriale nelle sentenze della prima sezione civile della Corte di cassazione
a) Le prime sbrigative sentenze (Cass. 7452/2012 e Cass. 5847/2013)
b) L’orientamento utopistico: il giudice deve verificare l’attendibilità scientifica della PAS (Cass. 7041/2013)
c) L’orientamento realistico: il giudice deve limitarsi ad accertare in concreto l’esistenza di una alienazione genitoriale (Cass. 6919/2016 e Cass. 13274/2019)
VI. Il punto di vista della Corte europea dei diritti dell’uomo
VII. Alienazione genitoriale e codice penale
a) Condotta alienante e sottrazione consensuale di minore (articoli 573 e 574 c.p.)
b) Inosservanza dei provvedimenti del giudice civile in materia di affidamento (art. 388 c.p.)
c) Il che modo il consenso del minore può avere rilevanza per escludere i reati?
d) I maltrattamenti psicologici quasi assenti in giurisprudenza (art. 572 c.p.)
I Il principio di bigenitorialità nella separazione
Negli ultimi anni la legge ha ribadito con decisione in più occasioni la prospettiva della bigenitoria¬lità come obiettivo da perseguire in via primaria in tutti i procedimenti giudiziari che si occupano dell’affidamento dei minori in sede di separazione dei genitori.
È stata decisiva in proposito la riforma operata con la legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli). Il principio esplicitato è che “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”. Per realizzare questa finalità – continua la legge – il giudice “adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa” e “valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori oppure stabilisce a quali di essi i figli sono affidati”.
La riforma ribaltava il precedente impianto del codice civile (basato sul principio di affidamento ad un solo genitore) introducendo l’affidamento ad entrambi i genitori (affidamento condiviso) come regola ordinaria in caso di separazione dei coniugi e di divorzio così recependo, anche se con grande ritardo, i principi già enunciati dalla Convenzione di New York del 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176) nel cui Preambolo, si legge: «Il fanciullo, ai fini dello sviluppo armonioso e completo della sua personalità, deve crescere in un ambiente familiare in un clima di felicità, di amore e di comprensione» e nel cui art. 9, comma 3: si afferma che «Il minore ha diritto di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo»), nonché dalla Convenzione europea di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77) recante una concezione del minore come soggetto non più incapace di provvedere a se stesso e necessariamente oggetto di decisioni altrui, ma, piuttosto, come persona titolare di una serie di diritti e protagonista delle sue scelte esistenziali.
Per la cultura giuridica quella dell’affidamento condiviso è stata una riforma di grandissimo rilievo; un nuovo paradigma concettuale ed operativo (la bigenitorialità) che il legislatore ha indicato ai genitori come modello comportamentale da attuare anche in caso di separazione o di divorzio e in sede di regolamentazione dell’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio.
La bigenitorialità consiste nella presenza comune di entrambe le figure genitoriali nella vita del figlio e nella loro cooperazione ai fini dell’adempimento dei doveri di assistenza, educazione ed istruzione verso i figli, per la cui realizzazione non è, però, strettamente necessaria una determi¬nazione paritetica del tempo da trascorrere con il minore, risultando invece sufficiente la previ¬sione di modalità di frequentazione tali da garantire il mantenimento di una stabile consuetudine di vita e di salde relazioni affettive con ciascuno dei genitori (Cass. civ. Sez. VI, 23 settembre 2015, n. 18817).
Non si tratta di un principio che spetta solo al giudice attuare, ma di un obiettivo da perseguire an¬che in qualsiasi accordo tra i genitori, come ribadito dal decreto-legge 12 settembre 2014, n.132, convertito nella legge 10 novembre 2014, n. 162 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile) che all’art. 6. (Conven¬zione di negoziazione assistita per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio) prescrive al terzo comma che “L’accordo raggiunto a seguito della convenzione produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono, nei casi di cui al comma 1, i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di sciogli¬mento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Nell’accordo si dà atto che gli avvocati hanno tentato di conciliare le parti e le hanno informate della possibilità di esperire la mediazione familiare. Si dà anche atto che gli avvocati hanno informato le parti dell’im¬portanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei genitori”.
La giurisprudenza ha velocemente recepito questi principi e ormai in tutte le decisioni di legittimità sull’affidamento si ribadisce che al criterio legale dell’affidamento condiviso si può derogare solo allorché risulti, nei confronti di uno dei genitori, una condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore” e in questi casi, “la decisione sull’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della responsabilità genitoriale e sulla non rispondenza, quindi, all’interesse del figlio dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di affidamento (Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2015, n. 9632; Cass. civ. Sez. I, 11 gennaio 2013, n. 601; Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2010, n. 24526; Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12308; Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2009, n. 26587; Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2008, n. 19065; Cass. civ. Sez. I, 19 giugno 2008, n. 16593).
Anche la giurisprudenza di merito applica gli stessi principi (Trib. Novara, 31 maggio 2013; Trib. Novara,21 ottobre 2011; Trib. Roma, Sez. I, 11 ottobre 2012, Trib. Roma,Sez. I, 2 agosto 2012; Trib. Milano, Sez. IX, 11 giugno 2012; Trib. Pistoia 13 gennaio 2011; App. Napoli, 19 marzo 2010).
II I fattori che possono incrinare l’obiettivo della bigenitorialità
L’affermazione che la bigenitorialità è la prospettiva da perseguire in via primaria in sede di sepa¬razione dei genitori non significa naturalmente che questo avvenga sempre. Al contrario l’espe¬rienza insegna che spesso la separazione dei genitori produce nelle relazioni familiari sconvolgi¬menti e distorsioni che possono incrinare o frustrare quell’obiettivo talvolta in modo temporaneo ma spesso anche per lungo tempo e in alcuni casi anche permanentemente1.
All’origine di tali conseguenze possono esservi diversi fattori non necessariamente legati a com-portamenti dei genitori dolosamente preordinati ad attaccare il principio di bigenitorialità.
In alcuni casi, per esempio, la coppia genitoriale potrebbe non aver mai condiviso neanche nella vita in comune la genitorialità – per incapacità o per altre ragioni – ed è evidente in questi casi che la separazione non può magicamente far emergere uno stile comunicativo di condivisione che non c’è mai stato prima. Quindi, le caratteristiche della personalità dei genitori e le capacità genitoriali pregresse costituiscono un fattore di disfunzione che può creare problemi alla integrità della rela¬zione tra i figli e i genitori.
In alcune situazioni anche il disinteresse e addirittura la scomparsa materiale di uno dei genitori che rinuncia ad esercitare il suo ruolo, possono essere la causa principale di frustrazione dell’o¬biettivo della bigenitorialità.
Spesso, ancora, le ragioni stesse della separazione o le modalità con cui è attuata possono non favorire la piena consapevolezza circa l’importanza da attribuire alla bigenitorialità. In queste situazioni possono radicalizzarsi comportamenti di uno nei confronti dell’altro (di frustrazione, di collera, di rabbia) che sono del tutto fisiologici e normali nell’ambito di un evento stressante come la separazione ma che, se non risolti, possono produrre effetti anche devastanti nell’equilibrio delle persone e delle loro relazioni familiari.
Un’ulteriore variabile che può influire ed influisce spesso sul principio di bigenitorialità concerne i figli stessi. Innanzitutto l’età dei figli, essendo evidente che diverse sono le conseguenze sui
1 È sempre utile il riferimento a contributi interdisciplinari ormai classici su questi temi quali per esempio V. Cigoli, G. Gulotta, G. Santi, Separazione, divorzio e affidamento dei figli, III edizione, Milano, Giuffrè, 2007.
bambini e sugli adolescenti della separazione dei genitori. Nei bambini molto piccoli (2-3 anni), per esempio, gli psicologi evidenziano frequenti segni di regressione comportamentale con biso¬gno di affetto e protezione che il bambino manifesta succhiandosi il pollice, toccandosi in maniera compulsiva i capelli o con un ritorno ad oggetti transizionali precedenti; spesso con problemi di sonno, problemi alimentari, difficoltà del controllo sfinterico. Nei bambini più grandi (3-6 anni) sono osservate reazioni non regressive ma aggressive e nevrotiche che si manifestano con la rabbia, con l’aggressione ai compagni di gioco, distruggendo oggetti e così via. Nei preadolescen¬ti (7-12 anni) vi è, in ordine alla separazione dei genitori, più consapevolezza che si manifesta con sentimenti di tristezza, di dolore e di collera; spesso la rabbia è indirizzata in modo preciso verso uno o entrambi i genitori; frequenti sono anche le manifestazioni psicosomatiche di questa rabbia (mal di testa, dolori di stomaco, asma cronica, crampi).Nei figli adolescenti (13-17 anni) la separazione può portare ad un aumento del senso di responsabilità che, favorito anche da una maggiore distanza psicologica dai genitori, può evitare ripercussioni negative ma, al contrario, se affrontata con minor senso di responsabilità, potrebbe degenerare anche in atteggiamenti antiso¬ciali, depressione, fughe.
Da tutto ciò si comprende come non sempre l’obiettivo della bigenitorialità trova attuazione. Tal¬volta per inadeguatezza dei genitori, altre volte per le modalità conflittuali con cui è vissuta nel suo complesso la separazione e in molti casi anche per la reazione dei figli, soprattutto in età preado¬lescenziale e adolescenziale, rispetto all’allontanamento di uno dei genitori dalla vita quotidiana.
In tutte le situazioni descritte si verifica una lacerazione nel rapporto tra genitori e figli che può assumere anche le forme molto gravi e devastanti o una condizione di rifiuto di uno dei genitori da parte del figlio.
III L’alienazione genitoriale come conseguenza della manipolazione da parte del genitore alienante
L’espressione alienazione genitoriale – da tempo utilizzata, anche se molte volte a sproposito, nel linguaggio della patologia delle relazioni genitori-figli nel corso della separazione – evoca so¬stanzialmente la situazione che si verifica quando il rifiuto e l’ostilità che il figlio mostra verso un genitore, deve considerarsi, non tanto la conseguenza di un comportamento genericamente ostruzionistico di un genitore nei confronti dell’altro, ma una situazione determinata e indotta consapevolmente dall’altro genitore Si tratta di una manifestazione che può avere connotazioni patologiche o espressione, comunque, di disturbi relazionali, ma che è certamente pregiudizievole per la crescita del figlio minore2.
Nei contributi della psicologia giuridica su questo tema si segnala che in molti casi l’azione del ge¬nitore alienante nella programmazione del figlio è un’attività consapevole e strumentale all’elimi¬nazione dell’altro genitore anche come ex partner. Il genitore in taluni casi è spinto da distorsioni cognitive e di personalità che lo inducono a nuocere al bambino in maniera anche irreversibile; talvolta però può anche agire nella convinzione di operare per il bene del proprio figlio.
La situazione che si determina in caso di alienazione genitoriale, viene comunemente indicata come Parental Alienation Syndrome (PAS) dal nome che gli dato a metà degli anni Ottanta lo psichiatra infantile nordamericano Richard Gardner secondo il quale l’alienazione parentale deri¬verebbe dal concorso di due principali fattori che sono, il condizionamento operato dal genitore collocatario ostile all’altro genitore e il contributo all’alienazione dato da figlio minore alleatosi con un genitore contro l’altro.
In uno dei suoi lavori su questo tema – non sempre condivisi ma comunque largamente recensiti e richiamati nella letteratura psicologia italiana cui si è fatto cenno – Gardner definì la sindrome di alienazione come “disturbo che insorge principalmente nelle controversie per la custodia dei figli. La sua manifestazione principale è la campagna di denigrazione rivolta contro un genitore: una campagna che non ha giustificazioni. Essa è il risultato della combinazione di una programmazio¬ne (lavaggio del cervello) effettuata dal genitore indottrinante e del contributo dato dal bambino in proprio, alla denigrazione del genitore bersaglio. In presenza di reali abusi o trascuratezza dei genitori, l’ostilità del bambino può essere giustificata e, di conseguenza, la sindrome di alienazione genitoriale, come spiegazione dell’ostilità del bambino, non è applicabile”.
Come si vede quindi, secondo questo punto di vista, si parla di PAS solo quando il coinvolgimen¬to persuasivo che un genitore (programmatore) opera verso il figlio minore per vari motivi (per esempio per mantenere un affido esclusivo o per paura di perdere il figlio), determina nello stesso figlio una alleanza ostile all’altro genitore (bersaglio) e perciò una vera e propria coalizione contro l’altro genitore. Nonostante che la manipolazione abbia origine dal genitore, il figlio rappresenta quindi in questa interpretazione una parte attiva della campagna di denigrazione, spesso (come fa notare la Cavedon nel suo lavoro citato in nota) superando i comportamenti e le aspettative del
2 G. Buzzi, La sindrome di alienazione genitoriale, in V. Cigoli, G. Gulotta, G. Santi, Separazione, divorzio e affi¬damento dei figli, II edizione, Milano, Giuffrè, 1997, 177-187; G. Gulotta, La sindrome di alienazione genitoriale: definizione e descrizione, in Pianeta Infanzia, Questioni e documenti, Istituto degli Innkcenti, Firenze, 1998, 27-72; G. Gulotta, P. Bestonso, C. Risso, M. Trevisan, Sindrome di alienazione genitoriale, in Aiaf Osservatorio, n. 3-4, luglio-dicembre 1998, 32-38; G. Gulotta, Elementi di psicologia giuridica e diritto psicologico, Giuffrè, Milano, 2004; G. Gulotta, A. Cavedon, M. Liberatore, La sindrome da alienazione parentale, Milano, Giuffrè, 2008; A. Lubrano Lavadera, M. Marasco, M. Malagoli Togliatti, M. Franci La sindrome di alienazione genitoriale nelle consulenze tecniche d’ufficio, in Maltrattamenti e abuso all’infanzia, 2005, 3, p. 39-61.
genitore stesso ed allo scopo di sottolineare la propria lealtà nei confronti del genitore alienante dai quali i figli subiscono quindi una vera e propria violenza psicologica.
Che si tratti di una patologia (come il nome sindrome, nelle intenzioni di chi lo ha proposto, intende¬rebbe segnalare) o di una malevola disfunzione relazionale (come alcuni sono propensi a ritenere) ha per il giurista un interesse relativo, anche se ne restano evidentemente diversificate le strategie di recupero o di intervento. In verità molti autori individuano nella PAS una patologia relazionale che riguarda almeno tre soggetti (il genitore programmatore, il genitore alienato e il bambino).
Non si può parlare di PAS, come peraltro ha sottolineato lo stesso inventore dell’espressione, quan¬do le difficoltà relazionali e l’ostilità di un figlio verso uno dei genitori sono determinate più o meno intensamente da comportamenti di abuso verso il figlio commessi da quel genitore.
Quanto alla affidabilità scientifica o meno della sindrome in questione (determinata dalla sua ve¬rificabilità statistica), secondo alcuni esperti, dovrebbe essere ritenuto indizio di non scientificità il fatto che l’espressione ParentalAlienationSyndrome non sia presente nel DSM-5, (Diagnostic and Statistical Manual of MentalDisorders) cioè nel Manuale diagnostico statistico redatto dalla Ameri¬can PsychiatricAssociation aggiornato periodicamente (ultima edizione in lingua italiana del 2014) ed al quale fanno riferimento in genere gli psichiatri italiani. Il motivo è che la PAS non soddisfa i criteri statistici di ammissibilità della individuazione della patologia per l’inserimento nel manuale. Tuttavia l’inclusione o l’esclusione di una determinata patologia o sintomatologia nel DSM non è di per sé – per riconoscimento concorde degli esperti – un segnale di maggiore o minore scien¬tificità trattandosi appunto di manuali redatti da associazioni private sia pure riconosciute come importanti e significative. Nemmeno compare il riferimento a questa sindrome nell’International Classification of Diseases (ICD 9 anche in uso in Italia e ICD 10, utilizzato in USA dall’ottobre 2014) compilati dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità).
In in ogni caso se la PAS non compare nel DSM-5, tuttavia nell’ambito di problemi relazionali tra genitori e e figli, il manuale in questione include una spiegazione esemplificativa di condizioni e problemi che si incontrano nella pratica clinica di routine. Si tratta in primo luogo di problemi re¬lazionali per i quali si legge nel manuale che “Le relazioni più importanti, specialmente le relazioni intime tra partner adulti e relazioni genitore/caregiver bambino hanno un impatto significativo sulla salute degli individui in queste relazioni. Tali relazioni possono essere protettive e promotrici di salute, neutrali oppure dannose per gli esiti della salute. All’eccesso, queste relazioni strette possono essere associate a maltrattamento o a trascuratezza, che hanno conseguenze significati¬ve a livello psicologico e medico per l’individuo coinvolto. Un problema può arrivare a presentarsi all’attenzione clinica sia come la ragione per la quale l’individuo richiede assistenza sanitaria op¬pure come un problema che influenza il decorso, la prognosi, oppure il trattamento del disturbo mentale o di un altro disturbo medico dell’individuo”.
Sotto l’espressone “Problemi correlati all’educazione dei figli” si parla di “Problema relazionale genitore-bambino” indicando che “Per questa categoria il termine genitore viene utilizzato per riferirsi a uno dei caregiver primari del bambino che può essere biologico, adottivo o genitore affi¬datario, oppure può essere un altro parente (come un/a nonno/a) che adempie al ruolo genitoriale per il bambino. Questa categoria dovrebbe essere utilizzata quando il principale oggetto di atten¬zione clinica è indirizzare la qualità della relazione genitore bambino oppure quando la qualità della relazione genitore-bambino influenza il decorso, la prognosi o il trattamento di un disturbo mentale o medico. Tipicamente, il problema relazionale genitore-bambino viene associato a una compro¬missione del funzionamento in ambito comportamentale, cognitivo o affettivo. Esempi di problemi comportamentali comprendono inadeguato controllo genitoriale, supervisione e coinvolgimento del bambino; iperprotezione genitoriale; eccessiva pressione genitoriale; discussioni che possono sfociare in minacce di violenza fisica ed evitamento senza soluzione di problemi. Problemi cognitivi possono comprendere attribuzioni negative alle intenzioni altrui, ostilità verso gli altri o rendere gli altri capro espiatorio, e sentimenti non giustificati di alienazione. Problemi affettivi possono comprendere sensazioni di tristezza, apatia o rabbia verso gli altri individui nelle relazioni. I clinici dovrebbero tenere in considerazione le necessità di sviluppo del bambino e il contesto culturale”.
In altri punti il DSM-5 descrive ulteriori aspetti significativi:
Child psychological abuse ”nonaccidental verbal or symbolic acts by a child’s parent or caregiv¬er that result, or have reasonable potential to result, in significant psychological harm to the child.”
Child affected by parental relationship distress ”when the focus of clinical attention is the negative effects of parental relationship discord (e.g., high levels of conflict, distress, or disparage¬ment) on a child in the family, including effects on the child’s mental or other physical disorders.”
Factitious disorder imposed on another ”falsification of physical or psychological signs or symptoms, or induction of injury or disease, in another, associated with identified deception.”
Delusional symptoms in partner of individual with delusional disorder ”In the context of a relationship, the delusional material from the dominant partner provides content for delusional belief by the individual who may not otherwise entirely meet criteria for delusional disorder.”
La frequenza dei problemi relazionali tra genitori e figli ha indotto anche la giurisprudenza ad interrogarsi sulle strategie di contrasto da mettere in campo. E in giurisprudenza si riscontrano atteggiamenti che vanno dalla rinuncia ad intervenire fino all’intervento drastico: segnale evidente di una difficoltà delle modalità di reazione giudiziaria a tale fenomeno.
Destò per esempio, all’epoca, molto stupore la decisione con cui la Corte di cassazione ritenne (in una vicenda che di fatto costituiva uno dei primi casi di alienazione genitoriale trattati in giurispru¬denza) che la circostanza che un figlio minore, divenuto ormai adolescente e perfettamente consa¬pevole dei propri sentimenti e delle loro motivazioni, provi nei confronti del genitore non affidatario sentimenti di avversione o, addirittura, di ripulsa costituisce fatto idoneo a giustificare anche la totale sospensione degli incontri tra il minore stesso ed il coniuge non affidatario. Tale sospensio¬ne può essere disposta indipendentemente dalle eventuali responsabilità di ciascuno dei genitori rispetto all’atteggiamento del figlio ed indipendentemente anche dalla fondatezza delle motivazioni addotte da quest’ultimo per giustificare detti sentimenti, dei quali vanno solo valutate la profondità e l’intensità, al fine di prevedere se disporre il prosieguo degli incontri con il genitore avversato potrebbe portare ad un superamento senza gravi traumi psichici della sua animosità iniziale ovve¬ro ad una dannosa radicalizzazione della stessa (Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 1998, n. 317).
Recentemente Trib. Cosenza, sez. II, 29 luglio 2015 n. 778 ha disposto il collocamento di due minori per sei mesi in una struttura protetta sul presupposto che la madre dei minori ha “mani¬polato i figli allontanandoli fisicamente e psicologicamente dal padre verso cui ostentano entrambi plateali manifestazioni di rifiuto e negazione” evidenziata da una CTU in cui si descrive l’esistenza di un ‘condizionamento programmato’ della madre nei confronti dei figli teso a “logorare” la figura paterna, compresi anche i familiari [del padre] ed il posto in cui vive”. Il Tribunale mediante l’ascol¬to diretto dei minori ha constatato la sussistenza di un vero e proprio disturbo relazionale, avente le caratteristiche dell’alienazione parentale.
IV I danni endofamiliari e la giurisprudenza civile sull’art. 709-ter c.p.c.
Il tema dell’alienazione genitoriale – con cui ci si riferisce sostanzialmente sia al comportamento ostruzionistico sia all’esito di tale comportamento – comincia a comparire con frequenza nelle de¬cisioni della giurisprudenza civile solo nell’ultimo decennio, in conseguenza dell’estensione anche alle relazioni familiari delle problematiche della responsabilità civile (fortemente indotta da Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2005, n. 9801) e dell’acquisizione che i comportamenti ostruzionistici tra genitori, per il danno che causano ai figli, avrebbero necessità (anche in chiave di prevenzione generale) di risposte in senso ampio sanzionatorie più incisive di quelle tradizionali attribuite al giudice della separazione o al tribunale per i minorenni.
Decisivi per il cambio di prospettiva sono stati l’introduzione dell’affidamento condiviso con la legge 8 febbraio 2006, n. 54 – come si è detto all’inizio – e la riforma processuale, operata con la medesima legge, che ha coniato l’art. 709-ter nel codice di procedura civile3 – con il quale si attri¬buisce al giudice il potere di sanzionare con misure risarcitorie il comportamento dei genitori lesivo dei diritti del minore – dando spazio ad una riflessione sull’uso anche delle strategie sanzionatorie finalizzato all’adempimento delle responsabilità genitoriali.
È quasi superfluo aggiungere che un importantissimo, più recente, contributo è stato anche quello offerto dalla riforma della filiazione operata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 con cui si è data centralità ai diritti del figlio è che ha unificato gli strumenti processuali a disposizione del giudice della separazione attribuendogli (per vis actrac¬tiva) la funzione esclusiva di giudice delle responsabilità genitoriali 4.
3 Art. 709-ter Codice di procedura civile (Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni)
Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’ar¬ticolo 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore.
A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempien¬ze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:
1) ammonire il genitore inadempiente;
2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;
3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;
4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.
I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari.
4 Art. 38 Disposizioni di attuazione del codice civile (testo modificato dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154)
Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, del codice civile. Per i procedimenti di cui all’articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario. Sono, altresì, di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 251 e 317-bis del codice civile.
Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria. Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.
Fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente. Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni, il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni.
In molte decisioni inizialmente il danno era prospettato quasi unicamente nei confronti del genitore vittima dei comportamenti ostruzionistici.
Così per esempio, prima delle riforme di cui si è detto, Trib. Monza Sez. IV, 5 novembre 2004 aveva affermato che ha diritto al risarcimento del danno il genitore non affidatario che non aveva potuto esercitare per lungo tempo il diritto di visita al figlio per effetto, oltre che di problemi personali dello stesso non affidatario, delle condotta ostruzionistica del genitore affidatario.
Nella stessa linea la decisione di Trib. Reggio Emilia Sez. I, 6 novembre 2007 secondo cui Il diritto di visita attribuito ad un coniuge assume altresì la connotazione di dovere anche nei con¬fronti dell’altro coniuge; deve pertanto ravvisarsi una lesione del diritto di quest’ultimo qualora il mancato rispetto del regime di affidamento e visita da parte di un genitore, per la sua gravità, per la sua dolosa reiterazione e per la sua diretta incidenza anche sulla vita dell’altro coniuge, arrechi direttamente un pregiudizio a quest’ultimo determinandone l’impossibilità o la grave difficoltà ad organizzare la propria vita in assenza di quel supporto che la regolamentazione della visita inten¬deva dare. Il danno deve essere commisurato, anzitutto, alla gravità delle violazioni commesse.
Quasi tutte le decisioni successive – influenzate dal testo molto chiaro dell’art. 709 tre c.p.c. che prevede il risarcimento dei danni anche nei confronti del figlio minore – introducono il tema del danno cagionato non solo al genitore vittima del comportamento ostruzionistico ma anche diret¬tamente anche al minore
Importante in questa direzione, anche per l’interpretazione in chiave sanzionatoria più che risarci¬toria del risarcimento previsto nell’art. 709 ter c.p.c. e per l’attribuzione di una funzione deterren¬te al risarcimento dei danni, è stato Trib. Messina 5 aprile 2007 secondo cuil’art. 709-ter c.p.c., nei punti nn. 2 e 3, prevede un tipo di risarcimento dei danni che rientra nell’ambito dei punitive damages, aventi natura sanzionatoria, non riconducibile al paradigma degli artt. 2043 e 2059 c.c.. ed a tale proposito si precisa che non è ostativa l’osservazione che il nostro sistema giuridico non conosce la categoria dei danni punitivi, perché la legge n. 54/2006 in tema di affidamento recepi¬sce largamente l’esperienza anglosassone e nordamericana e di conseguenza ben può introdurre un quid novum, segnatamente quella condanna al risarcimento del danno che non è diretta a compensare ma a punire, al fine di dissuadere (to deter) chi ha commesso l’atto illecito dal com¬metterne altri. Si tratta di un sistema di poteri di coercizione, volti a rendere il provvedimento di affidamento attuale e in ultima analisi a realizzare l’interesse del minore a conservare un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori.
Dello stesso identico avviso Trib. Vallo della Lucania, 7 marzo 2007 (L’art. 709-terc.p.c. – nel prevedere in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore o impediscano il corretto svolgimento dell’affidamento condiviso una sanzione irrogabile per il comportamento lesivo posto in essere all’interno del nucleo familiare – ha introdotto nel nostro ordinamento una figura di danni c.d. punitivi derivanti dall’esperienza dell’ordinamento giuridico statunitense, i quali svolgono la chiara funzione pubblicistica della deterrenza e della punizione). Dello stesso avviso, ma riferito non a condotte ostruzionistiche ma al disinteresse di un genitore, Trib. Verona, 11 febbraio 2009 secondo cui il totale disinteresse manifestato dal padre nei con¬fronti della figlia è presupposto per l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 709-ter, 2° co., c.p.c., ed in particolare di quelle di cui ai numeri 2 e 3 (che introducono nel nostro ordinamento la categoria dei c.d. “danni punitivi”, con finalità, cioè, non compensative, ma deterrenti e sanzio¬natorie): tale condotta, infatti, non solo arreca un pregiudizio alla minore, ma costringe la madre a sostenere tutto il peso della responsabilità nella gestione della figlia (nella specie, il collegio ha ammonito il padre ad un puntuale adempimento delle prescrizioni, anche patrimoniali, contenute nella sentenza di divorzio e lo ha condannato a pagare, a titolo di risarcimento dei danni, la som¬ma di euro 10.000,00 alla figlia e l’ulteriore somma di euro 10.000,00 alla madre).
In altre decisioni si dà una interpretazione (non condivisa tuttavia dal suo insieme della giurispru¬denza) in chiave di responsabilità civile risarcitoria tradizionale Per esempio in App. Firenze, 29 agosto 2007 si legge che Il genitore che, in violazione delle statuizioni del giudice del divorzio, im¬pedisca la frequentazione tra il figlio minore e l’altro genitore, e che in tal modo arrechi nocumento alla corretta crescita della personalità del minore e leda il diritto dell’altro genitore al rapporto con il figlio, va condannato, nell’ambito del procedimento ex art. 709-ter c.p.c., al risarcimento, in favore del figlio e dell’altro genitore, del solo danno non patrimoniale, individuato in re ipsa e quantificato in via equitativa. Ugualmente in Trib. Pavia Sez. I, 23 ottobre 2009 secondo cui l’art. 709-ter c.p.c. prevede che in caso di gravi inadempienze o di atti che arrechino pregiudizio al minore o ne ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, il giudice possa disporre il risarci¬mento del danno a carico di uno dei genitori e nei confronti del minore. Tale previsione configura una ipotesi di responsabilità ordinaria ex art. 2043 c.c. con risarcimento del danno non patrimoniale arrecato dal genitore al minore. Ugualmente in Trib. Salerno Sez. I, 22 dicembre 2009 secondo cui il provvedimento di condanna di uno dei genitori a risarcire i danni all’altro – provvedimento compreso tra quelli che il giudice può pronunciare ai sensi dell’art. 709-ter c.p.c. – ha natura risarci¬toria in senso proprio. Nella stessa direzione interpretativa Trib. Roma, 13 settembre 2011 dove si è ritenuto che la madre, separata dal coniuge e collocataria del figlio, la quale, per diversi mesi, impedisce senza giustificato motivo al padre di frequentare il figlio stesso, è tenuta al risarcimento del danno non patrimoniale ex artt. 2043 e 2059 c.c. a favore del padre per ingiusta lesione del diritto ad avere rapporti con la prole protetto dagli artt. 2 e 30 Costituzione.
Prevale però, negli anni più recenti l’interpretazione in termini di danno punitivo. Così Trib. No¬vara, 21 luglio 2011 (In ordine alla natura del provvedimento di condanna al risarcimento del danno nei confronti del minore del genitore inadempiente agli obblighi inerenti il diritto di visita, deve condividersi l’indirizzo interpretativo che ricostruisce tale istituto in termini di danno punitivo, riconducibile alla categoria delle c.d. astreintes, con la conseguenza che la valutazione del giudice prescinde dall’accertamento dell’effettiva sussistenza degli elementi richiesti dall’art. 2043 c.c.e deve essere improntata a criteri equitativi), Trib. Messina Sez. I, 8 ottobre 2012 (Il disposto normativo di cui all’art. 709-ter c.p.c., nella parte in cui prevede la condanna al risarcimento dei danni in favore del figlio minore e/o dell’altro genitore nei casi di gravi inadempienze, di violazioni dei doveri genitoriali ovvero di comportamenti ostacolanti le modalità dell’affidamento, introduce nell’ordinamento un’ipotesi a sé stante di c.d. danno punitivo. A sostengo di tale argomentazione milita la circostanza che nella individuazione della misura del risarcimento occorre in primo luogo guardare alla gravità della condotta del genitore inadempiente, anche in considerazione del fatto che i rimedi di cui all’art. 709-ter c.p.c. hanno essenzialmente finalità punitiva, e non occorre una prova specifica sulla esistenza ed entità del danno, che può considerarsi naturale conseguenza del deprecabile comportamento di uno dei genitori. Così interpretata, la previsione dell’art. 709-ter c.p.c. risulta assolvere ad una funzione sanzionatoria deterrente della condotta del genitore per evitare che nel futuro lo stesso continui a rendersi inadempiente rispetto ai propri obblighi nei confronti della prole e rispetto al contenuto dei provvedimenti).
Trib. Minorenni Trieste, 23 agosto 2013 ha condannato al risarcimento dei danni a favore dell’ex partner la madre affidataria esclusiva che ostacolava i contatti tra il padre detenuto e il figlio minore.
V L’alienazione genitoriale nelle sentenze della prima sezione civile della Corte di cassazione
a) Le prime sbrigative sentenze (Cass. 7452/2012 e Cass. 5847/2013)
L’espressione alienazione genitoriale compare per la prima volta nelle sentenze della Corte di cas¬sazione civile in Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2012, n. 7452 in una vicenda giudiziaria molto conflittuale concernente l’affidamento in sede di separazione di una minore. Il tribunale di Mantova aveva disposto la sospensione della frequentazione con il padre, avendo la minore manifestato un fermo rifiuto di incontrarlo, ma aveva anche condannato la madre – ritenuta responsabile della sindrome di alienazione genitoriale riscontrata – a corrispondere un risarcimento del danno, liqui¬dato in euro 15.000,00 in favore del marito e in euro 20.000,00 in favore della figlia. La decisione veniva sostanzialmente confermata dalla Corte d’appello di Brescia (dove venivano solo ridotti gli importi del risarcimento) e pertanto la madre della minore ricorreva per cassazione lamentando che la diagnosi di alienazione genitoriale non solo era stata recepita acriticamente dal giudice ma era stata effettuata da una psicologa (e non da uno psichiatra) la quale non aveva tenuto in con¬siderazione i rilievi critici del suo consulente di parte. La madre della minore lamentava anche che la sindrome da alienazione parentale, allorché sussiste, deriva da una situazione di grave conflit¬tualità fra i genitori, onde le relative responsabilità vanno ascritte a entrambi e non a uno solo di essi. La Corte di cassazione rigettava il ricorso affermando che nessuna norma impone di affidare a medici piuttosto che a psicologi le consulenze tecniche riguardanti disturbi psicologici essendo la verifica della concreta qualificazione dell’esperto chiamato a rendere la consulenza compito esclu¬sivo del giudice di merito il quale peraltro, nella sua decisione, ben può motivare per relationem richiamando il contenuto della consulenza tecnica di ufficio. Per il resto riteneva che le censure della ricorrente integravano pure e semplici critiche di merito, inammissibili in sede di legittimità.
Indubbiamente la ricorrente aveva sollevato questioni di grande interesse, come quella relativa al recepimento per relationem da parte del giudice delle conclusioni peritali sulla sindrome di alie¬nazione genitoriale e quella relativa alla plausibilità in tale evenienza di una colpevolizzazione di uno solo dei genitori, ma la Corte di cassazione non ha ritenuto di accettare la sfida e ha di fatto lasciato senza risposte il problema della verifica da parte del giudice di quelle questioni.
Neanche una successive sentenza ritenne di approfondire la questione dell’alienazione genitoriale nonostante che ve ne fossero tutte le opportunità. Si fa riferimento a Cass. civ. Sez. I, 8 mar¬zo 2013, n. 5847 intervenuta in un giudizio di separazione in cui la Corte di appello di Catania aveva affidato i due figli minori (di 15 e 9 anni) alla madre, con divieto provvisorio di contatti con il padre. Il tribunale di Catania aveva invece con la sentenza riformata in appello disposto l’affida¬mento condiviso dei figli collocandoli presso il padre disciplinando la frequentazione con la madre, limitandone poi anche gli incontri con i figli. I giudici di appello, anche sulla base di una relazione del servizio di psichiatria della ASL avevano ritenuto che il comportamento negativo dei figli verso la madre fosse stato provocato dalla condotta ostruzionistica del marito che aveva ostacolato gli incontri e ingiustificatamente screditato la figura della madre nei loro confronti, in tal modo dan¬neggiandone l’equilibrio psichico. Ritenendo l’affidamento condiviso pregiudizievole per i minori, li avevano affidato alla madre in via esclusiva. La Corte di cassazione alla quale il padre dei minori si rivolgeva riteneva il ricorso infondato in quanto la corte di appello, utilizzando la relazione della Asl che diagnosticava una sindrome da alienazione parentale dei figli ed evidenziava il danno ir¬reparabile da essi subito per la privazione del rapporto con la madre, ”si è limitata a fare uso del potere, attribuito al giudice dall’art. 155-sexies c.c., comma 1, di assumere mezzi di prova anche d’ufficio ai fini della decisione sul loro affidamento esclusivo alla madre. Essa, inoltre, ha fondato la decisione anche su altri elementi non specificamente censurati dal ricorrente, concernenti il giudizio negativo circa le attitudini genitoriali del padre (desunto anche dalla reiterata condotta ostruzionistica posta in essere al fine di ostacolare in ogni modo gli incontri dei figli con la madre), dandone conto in una motivazione priva di vizi logici e quindi incensurabile in questa sede.
b) L’orientamento utopistico: il giudice deve verificare l’attendibilità scientifica della PAS (Cass. 7041/2013)
Una sentenza immediatamente successiva (Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2013, n. 7041) affer¬mava il principio utopistico – recepito con grande clamore dalla dottrina e nel dibattito tra i giuristi – che spetta al giudice, ricorrendo alle proprie cognizioni, ovvero avvalendosi di idonei esperti, verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti aspetti difformi dagli orientamenti tradizionali, talvolta criticati e comunque non da tutti condivisi, come nel caso della sindrome di alienazione genitoriale.
La sentenza in questione si occupò di una vicenda nella quale, nell’ambito di accordi tra coniugi omologati dal Tribunale di Padova, era stato concordato l’affidamento in via esclusiva del minore alla madre, con una regolamentazione dei rapporti del figlio minore con il padre che prevedeva una loro progressiva intensificazione in relazione alla crescita del bambino.I rapporti tra il minore e il padre si rivelavano presto soggetti ad involuzione, tanto che il padre del bambino, attribuendone la causa alla condotta della moglie, adiva il tribunale per i minorenni di Venezia che, nel contrad¬dittorio fra le parti prendeva atto che il figlio si rifiutava categoricamente di incontrare il padre (il quale escludeva una propria responsabilità a tale riguardo) e, all’esito dell’espletamento di con¬sulenza tecnica d’ufficio, con decreto del 2 ottobre 2009 pronunciava la decadenza dalla potestà genitoriale della madre sul minore, che veniva affidato al servizio sociale comunale pur rimanendo collocato presso la stessa madre.Alcuni mesi dopoil padre presentava ricorso al medesimo tribu¬nale per i minorenni di Venezia, chiedendo l’allontanamento del figlio dalla famiglia materna, con collocamento presso di sé, ovvero presso propri congiunti o i servizi sociali, diversi da quelli già individuati, rivelatisi inadeguati, e chiedeva comunque l’adozione di provvedimenti idonei a favori¬re il ripristino dei rapporti con il figlio. La madre, chiedeva la revoca della decadenza della potestà che era stata dichiarata nei suoi confronti. Il tribunale rigettava tanto la domanda di modifica del collocamento del minore, tanto quella di revoca della dichiarazione della decadenza dalla potestà e disponeva che il bambino fosse affidato al Servizio sociale comunale cui demandava, anche in collaborazione con altre istituzioni, di sostenere il percorso di riavvicinamento del minore al padre, da attuarsi mediante sostegno specialistico sia per il figlio che per ciascun genitore. Avverso tale provvedimento il padre e la madre proponevano reclamo. Il padre deduceva che, poiché la perma¬nenza del figlio presso la famiglia materna comportava un inasprimento della situazione patologi¬ca, già diagnosticata in precedenza dal consulente tecnico d’ufficio, e definita come “sindrome da alienazione parentale”, il bambino doveva essere collocato in un ambiente diverso e maggiormente idoneo a favorire il riavvicinamento alla figura paterna. La madre insisteva per essere reintegrata nella potestà.
La Corte di appello di Venezia, disponeva una consulenza tecnica d’ufficio, affidata allo psichiatra già nominato in precedenza, prendeva atto che il miglioramento dell’atteggiamento del figlio nei confronti del padre era meramente effimero. Constatava quindi che, nonostante fossero state ri¬spettate le prescrizioni circa i percorsi terapeutici già stabiliti, l’equilibrio psicofisico del minore ri¬sultava minato ed esposto a grave pericolo in relazione alla condizione in cui versava, determinata da un forte conflitto di fedeltà nei confronti della madre. Veniva evidenziato come l’immotivato e comunque ingiustificato rifiuto di rapporti con il padre fossero da attribuirsi a un’evidente alleanza collusiva tra la madre e il bambino e che, ad onta della già dichiarata decadenza dalla potestà ge¬nitoriale, la madre aveva mantenuto un potere assoluto sul figlio, che non risultava in alcun modo utilizzato per rivalutare la figura paterna e per favorire la ricostruzione di un rapporto con il padre evidentemente ritenuto “inutile e dannoso”.
Si riteneva, pertanto, che soltanto una diversa collocazione del minore potesse scongiurare l’ormai quasi cristallizzato rifiuto e odio dello stesso verso la figura paterna, e si rilevava altresì come l’età ormai adolescenziale del minore da un lato accrescesse il pericolo di uno sviluppo alterato irrever¬sibilmente dalla situazione patogenetica sopra indicata; dall’altro consentisse, senza gravi traumi, una collocazione in un ambiente scolastico/educativo dotato della necessaria specializzazione ed equidistante dai genitori. Si disponeva quindi, riservando ogni decisione sulle domande proposte con il ricorso incidentale all’esito della verifica, dopo un anno, della nuova regolamentazione, che il minore fosse affidato al padre ed inserito in una struttura residenziale educativa, prescrivendo la programmazione di incontri con entrambi i genitori, sulla base di uno specifico e dettagliato programma psicoterapeutico.
La madre ricorreva per cassazione. Preso atto che si trattava nella sostanza di una domanda di revisione delle condizioni di affidamento che sarebbe stata di competenza del tribunale ordinario il collegio rilevava come la questione non era stata sollevata nel corso del giudizio e che pertanto poteva procedersi ugualmente all’esame del ricorso. La ricorrente aveva censurato il fatto che la Corte d’appello di Venezia, pur recependo integralmente le conclusioni cui era pervenuto il consu¬lente tecnico d’ufficio, fondate sull’accertamento diagnostico, nei confronti del minore, della “sin¬drome da alienazione parentale” (PAS), non aveva esaminato le censure, specificamente proposte, sia in relazione alla validità, sul piano scientifico, di tale controversa patologia, sia in merito alla sua reale riscontrabilità nel minore e nella madre.
La Corte di cassazione riteneva il ricorso pienamente fondato, constatando in via preliminare come nella motivazione della sentenza impugnata la Corte territoriale, che pure aveva citato testual¬mente numerosi brani della consulenza tecnica d’ufficio, alla quale, a un certo punto, operava un richiamo nella sua integralità (pag. 4), aveva eluso di affrontare la questione centrale che era stata posta dalla madre del minore e che consisteva nel fatto che la condizione patologica del mi¬nore (nella stessa CTU, alla quale la Corte d’appello di era ampiamente richiamata) veniva riferita
unicamente alla condotta della madre “alienante”. Effettivamente nella CTU era scritto nella parte conclusiva che “L’attento accertamento commissionato dalla Corte di appello di Venezia, Sezione per i Minorenni porta inequivocabilmente a confermare, nella vicenda in attenzione di causa, la sussistenza di PAS, disfunzione ad intensa connotazione psicopatologica, che deve essere al più presto delimitata e interrotta al fine di tutelare il processo evolutivo del minore in attenzione, oggi già compromesso e prodromico, rebus sic stantibus, di futuro sviluppo psicopatologico”.
Ebbene, rilevava la Corte di cassazione che il decreto della Corte d’appello, richiamando le valu¬tazioni del consulente tecnico d’ufficio, affermava che il mantenimento dell’attuale collocamento del minore “non garantirà in termini certi ed irreversibili lo scioglimento di quel legame patogeno esistente fra madre e figlio, legame alla base del rilevato conflitto di fedeltà che sul piano tecnico urge risolvere”. Ben si vede – scrive il relatore della sentenza – come il provvedimento adottato as¬sume, proprio nell’ottica della teoria incentrata sulla PAS, una valenza clinica e giuridica assieme, nel senso che l’interesse del minore viene perseguito, al di là dei principi della bigenitorialità e della necessità dell’ascolto del minore (inteso non solo come mero recepimento delle sue istanze, anche affettive, ma come necessità di motivare adeguatamente provvedimenti adottati in difformità alle sue esternazioni), attraverso una serie di misure intese a prevenire, in funzione terapeutica, l’ag¬gravamento di una patologia in atto.
Deve quindi ritenersi che, come si afferma nel ricorso, il provvedimento impugnato sia intima¬mente correlato alla diagnosi di PAS formulata dal consulente tecnico d’ufficio, e che, essendo la statuizione adottata dalla Corte di appello rispondente a pretese esigenze terapeutiche, la sua validità, sotto il profilo non della scelta di merito, bensì del percorso motivazionale che la sorregge, dipenda esclusivamente da quella della valutazione clinica, posto che da una diagnosi in tesi errata non può derivare una terapia corretta.
La fondatezza delle censure della madre discende – secondo i giudici della Cassazione – dall’intrec¬cio di principi, parimenti disattesi, costantemente affermati in presenza di elaborati peritali che, interamente recepiti dal giudice del merito, siano stati sottoposti a specifiche censure, soprattutto quando, come nel caso in esame, venga in considerazione una teoria non ancora consolidata sul piano scientifico, ed anzi, molto controversa. Deve invero evidenziarsi che la ricorrente, nel pieno rispetto del principio di autosufficienza, ha richiamato le critiche mosse alla relazione depositata dal consulente tecnico d’ufficio, alla diagnosi dallo stesso formulata e, soprattutto, alla validità, sul piano scientifico, della PAS. Sono stati altresì richiamati i rilievi in base ai quali, anche volendo accedere alla validità scientifica della PAS, molti dei suoi caratteri, non sarebbero riscontrabili nel caso di specie.
Le esposte critiche non sono state esaminate nel provvedimento impugnato, così violandosi il prin¬cipio secondo cui il giudice del merito non è tenuto ad esporre in modo puntuale le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, potendo limitarsi ad un mero richiamo di esse, soltanto nel caso in cui non siano mosse alla consulenza precise censure, alle quali, pertanto, è tenuto a rispondere per non incorrere nel vizio di motivazione (Cass. 6 settembre 2007, n. 18688; Cass. 1 marzo 2007, n. 4797; Cass. 13 dicembre 2006, n. 28694).
Tale vizio è correttamente denunciato – come nel caso di specie – in sede di legittimità, attraverso una indicazione specifica delle censure non esaminate dal medesimo giudice (e non già tramite una critica diretta della consulenza stessa), censure che, a loro volta, devono essere integralmente trascritte nel ricorso per cassazione al fine di consentire, su di esse, la valutazione di decisività (Cass. 28 marzo 2006, n. 7078).
L’altro principio, parimenti disatteso e non meno importante, riguarda la necessità che il giudice del merito, ricorrendo alle proprie cognizioni scientifiche (Cass. 14759 del 2007; Cass. 18 no¬vembre 1997, n. 11440), ovvero avvalendosi di idonei esperti, verifichi il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale (Cass. 3 febbraio 2012, n. 1652; Cass. 25 agosto 2005, n. 17324)
Il rilevo secondo cui in materia psicologica, anche a causa della variabilità dei casi e della natura induttiva delle ipotesi diagnostiche, il processo di validazione delle teorie, in senso popperiano, può non risultare agevole, non deve indurre a una rassegnata rinuncia, potendosi ben ricorrere alla comparazione statistica dei casi clinici.
Di certo non può ritenersi che, soprattutto in ambito giudiziario, possano adottarsi delle soluzioni prive del necessario conforto scientifico, come tali potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che le teorie ad esse sottese, non prudentemente e rigorosamente verificate, pre¬tendono di scongiurare.
c) L’orientamento realistico: il giudice deve limitarsi ad accertare in concreto l’esistenza di una alienazione genitoriale (Cass. 6919/2016 e Cass. 13274/2019)
L’orientamento sopra segnalato ha trovato anche critiche, orientate a denunciarne la natura irrea¬listica, nella giurisprudenza di merito. Trib. Milano Sez. IX 13 ottobre 2014 dichiarava l’inam¬missibilità di un accertamento tecnico d’ufficio su un minore avente ad oggetto la verifica della P.A.S. in quanto non inserita tra le patologie nel Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali c.d. DSM-V. Ugualmente in Tribunale Milano, 11 marzo 2017 in cui si afferma che il termine alienazione genitoriale – se non altro per la prevalente e più accreditata dottrina scientifica e per la migliore giurisprudenza – non integra una nozione di patologia clinicamente accertabile, bensì un insieme di comportamenti posti in essere dal genitore collocatario per emarginare e neutra¬lizzare l’altra figura genitoriale; condotte che non abbisognano dell’elemento psicologico del dolo essendo sufficiente la colpa o la radice anche patologia delle condotte medesime. Corte d’Appello Brescia, 17 maggio 2013 ha ritenuto che la mancanza di fondamento scientifico della PAS non esclude che essa possa essere utilizzata, ai fini del processo, per individuare un problema relazio¬nale in situazione di separazione dei genitori, pur non assumendo i connotati di una malattia vera e propria. Infatti, l’atteggiamento del bambino che rifiuta l’altro genitore, per un patto di lealtà con il genitore ritenuto più debole, può condurlo ad una forma di invischiamento capace di produrre nella sua crescita non solo una situazione di sofferenza, ma anche una serie di problemi psicologici alienanti. Il punto del processo è allora stabilire se i disturbi a carico del minore siano o non ricon¬ducibile alla responsabilità del genitore convivente, in quanto generati dal suo comportamento nei confronti dell’altro genitore.
Anche nella giurisprudenza di legittimità si è poi venuto a creare un orientamento più realistico che non attribuisce al giudice compiti implausibili di verifica dell’attendibilità scientifica di una tesi esposta in un ambito specialistico.
La decisione che ha impresso questa svolta realistica è Cass. civ. Sez. I, 8 aprile 2016, n. 6919 nella quale si chiarisce che “non compete a questa Corte dare giudizi sulla validità o invalidità delle teorie scientifiche e, nella specie, della controversa PAS”. Compete invece al giudice provare la eventuale alienazione genitoriale prescindendo dalla verifica della validità scientifica o meno della sindrome, affermando che qualora il genitore non affidatario o collocatario, per conseguire la modifica delle modalità di affidamento del figlio minore, denunci l’allontanamento morale e mate¬riale di quest’ultimo, attribuendolo a condotte dell’altro genitore, a suo dire espressive di una Pas (sindrome di alienazione parentale), il giudice di merito (prescindendo dalla validità o invalidità teorica di detta patologia) è tenuto ad accertare, in concreto, la sussistenza di tali condotte, alla stregua dei mezzi di prova propri della materia, quali l’ascolto del minore, nonché le presunzio¬ni, ad esempio desumendo elementi anche dalla eventuale presenza di un legame simbiotico e patologico tra il figlio ed il genitore collocatario, motivando quindi adeguatamente sulla richiesta di modifica, tenendo conto che, a tale fine, e a tutela del diritto del minore alla bigenitorialità ed alla crescita equilibrata e serena, tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali del figlio con l’altro genitore, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa su quest’ultimo Nell’affermare questo principio la Corte ha annullato la decisione di merito che, pur in regime di affidamento condiviso, aveva confermato il divieto di incontri del padre, non collocatario, con la figlia minore, preadolescente, in ragione del rifiuto da parte di quest’ultima, senza procedere agli accertamenti richiesti da tale genitore, che lamentava l’insorgenza di una PAS, determinata dalla madre collocataria).
Si trattava di una minore nata nel 2000 per la quale, dopo l’interruzione della convivenza dei genitori, il Tribunale per i minorenni di Milano con decreto del 27 marzo 2006, aveva disposto l’affidamento condiviso con collocazione presso la madre. Con successivo decreto del 18 novembre 2008, tenuto conto dell’atteggiamento della figlia di rifiuto del padre, il tribunale aveva vietato a quest’ultimo di frequentarla, prescrivendo però alla ragazza un percorso psicoterapeutico finaliz¬zato a fare riprendere i rapporti con il padre e a consentire ad entrambi i genitori di rivolgersi ai servizi psico-sociali per un sostegno allo svolgimento dei compiti genitoriali; con decreto 10 dicem¬bre 2011, rispondendo negativamente alle istanze con le quali il padre aveva dedotto l’esistenza di una “sindrome di alienazione genitoriale” determinata dalla campagna di denigrazione posta in essere dalla madre della minore nei suoi confronti, il Tribunale confermava il precedente decreto, respingendo le istanze del padre di nuovi accertamenti peritali.
La Corte d’appello di Milano, Sezione Minorenni, con decreto del 17 dicembre 2013, confermava l’affido condiviso della figlia ai due genitori nonché la residenza della ragazza presso la madre. Il padre ricorreva per cassazione denunciando la violazione del principio della bigenitorialità. Se¬condo il padre della ragazza la Corte d’appello avrebbe omesso del tutto di considerare che la madre della minore aveva ostacolato in ogni modo il suo rapporto con la ragazza e non era mai intervenuta efficacemente quando manifestava atteggiamenti ostili verso il padre. Inoltre lamen¬tava che era stato omesso l’espletamento di indagini specifiche volte ad individuare l’esistenza di una PAS (ParentalAlienationSyndrome), con ciò rivelando una ingiustificata posizione ideologica e negazionista che, in definitiva, aveva l’effetto di precludere la tutela dei suoi diritti di padre e dei diritti della figlia.
La Corte riteneva questo motivo fondato facendo rilevare che la decisione impugnata aveva con¬fermato il regime di affidamento condiviso con il contestato collocamento della figlia minore pres¬so la madre, sulla base delle seguenti proposizioni: “ S. è una ragazzina a rischio evolutivo, nel senso che il suo rifiuto del padre può precluderle relazioni mature e soddisfacenti e che lo stesso rapporto con la madre è contraddistinto da ambivalenza e aggressività”; il CTU. si era dichiarato contrario alla possibilità di incontri con il padre a breve, poiché si era verificato che la ragazza ave¬va avuto una crisi di panico alcuni giorni prima di uno di questi incontri; l’eziopatogenesi del suo atteggiamento era da rinvenire “nella relazione non particolarmente coinvolgente della coppia”, il che farebbe “implicitamente” escludere la configurabilità della sindrome di alienazione genitoriale (PAS) imputata dal ricorrente alla madre della minore.
Secondo la Cassazione la motivazione riportata è da considerare insufficiente ed anzi apparente, quindi censurabile anche alla luce del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato dalle Sezioni Unite (v. sent. n. 8053 e 8054/2014). La Corte d’appello, infatti, ha disposto l’interruzione della frequentazione del padre con la figlia in ragione della indisponibilità o avversione manife¬stata nei suoi confronti dalla ragazza, senza una approfondita indagine sulle reali cause del suo atteggiamento e seguendo l’indicazione finale del c.t.u., sebbene questi avesse evidenziato anche
i rischi che la distanza dalla figura paterna potesse nel tempo arrecare alla ragazza e, soprattutto, le analoghe criticità dei rapporti della ragazza con la madre, caratterizzati da “ambivalenza e ag¬gressività”, e tra gli stessi genitori. La decisione di escludere, in sostanza, il padre dalla vita della figlia appare come il risultato di una acritica adesione alle conclusioni finali del c.t.u., piuttosto che essere determinata da suoi non precisati comportamenti riprovevoli (cui la stessa Corte mostra di non attribuire rilievo, non soffermandosi su di essi e sulle relative fonti di prova, tenuto conto delle specifiche contestazioni mosse al riguardo dal ricorrente), con l’effetto di trascurare le specifiche censure avanzate e trascritte nel ricorso per cassazione (è noto che il giudice può aderire alle con¬clusioni del c.t.u., senza essere tenuto a una specifica motivazione, salvo che non formino oggetto di specifiche censure, v. Cass. n. 1149/2011). In particolare, il CTU nominato in primo grado aveva rilevato che “la madre limita di fatto la relazione tra padre e figlia attraverso un controllo continuo su ogni atto direttamente o tramite persone di sua fiducia. L’atteggiamento (…) trova una ragione nella particolare caratteristica di personalità strutturata secondo schemi rigidi”; lo stesso Tribuna¬le, nel decreto del 28 marzo 2007, aveva dato atto che “la madre sta arrecando gravi e irreparabili danni alla minore, inducendole paure e sospetti nei confronti della figura paterna” e le aveva pre¬scritto “di non ostacolare i rapporti tra la minore e il padre, dovendosi in caso contrario valutare un diverso collocamento d Questa Corte – conclude la sentenza – ha avuto occasione di osservare che, in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetu¬dine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione.
Pertanto, la conclusione realistica è che “non compete a questa Corte dare giudizi sulla validità o invalidità delle teorie scientifiche e, nella specie, della controversa PAS, ma è certo che i giudici di merito non hanno motivato sulle ragioni del rifiuto del padre da parte della figlia e sono venuti meno all’obbligo di verificare, in concreto, l’esistenza dei denunciati comportamenti volti all’allon¬tanamento fisico e morale del figlio minore dall’altro genitore. Il giudice di merito, a tal fine, può utilizzare i comuni mezzi di prova tipici e specifici della materia (incluso l’ascolto del minore) e an¬che le presunzioni (desumendo eventualmente elementi anche dalla presenza, laddove esistente, di un legame simbiotico e patologico tra il figlio e uno dei genitori). Tali comportamenti, qualora accertati, pregiudicherebbero il diritto del figlio alla bigenitorialità e, soprattutto, alla sua crescita equilibrata e serena.
A questa decisione ha fatto seguito, richiamandosi ad essa espressamente, Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2019, n. 13274 nella quale, in una vicenda in cui una preadolescente aveva manifestato un forte rifiuto verso il padre ed in cui i giudici di merito, avvalendosi delle conclusioni di una CTU che aveva evidenziato una PAS, avevano collocato la minore in una casa famiglia disponendo che dopo sei mesi sarebbe stata affidata al padre, ha messo in rilievo il fatto che il giudice può dare risalto alla diagnosi di sindrome da alienazione parentale formulata dai consulenti tecnici, fondata sul comportamento materno, ritenuto idoneo a generare un conflitto di lealtà nella prole, che può dare fondamento alla diagnosi di alienazione del figlio nei confronti del padre, ma ha anche chiarito che al di là della scelta di una o altra classificazione scientifica, ciò che rileva è l’individuazione di condotte tendenti ad escludere l’altro genitore e sovrapporre gli ambiti dell’affettività propria a quella del minore.
La Corte territoriale – afferma la orte di cassazione in questa sentenza – si è soffermata poi sui rapporti del minore con il padre, definito dallo stesso “bugiardo, violento e viscido” (così espri¬mendo però il vissuto degli adulti che hanno accesso alle sue emozioni), sulla sua situazione per¬sonale di sofferenza, conseguente alle vicende legate al conflitto genitoriale, di vittimismo (nella relazione con il padre e con i nonni paterni), richiamando gli episodi verificatisi anche nel contesto scolastico, di autolesionismo e lo stile generale di evitamento, concludendo per la sussistenza di un conseguente serio rischio di una compromissione importante dello sviluppo emotivo. La Corte territoriale ha poi escluso che vi fossero stati significativi episodi di violenza psichica o fisica del padre sul minore.
Tuttavia – conclude la sentenza – la decisione di escludere, per un semestre, la madre dalla vita del figlio (salvo la programmazione di incontri periodici del minore con i due genitori in ambiente controllato) appare come il risultato di una adesione alle conclusioni finali del C.T.U. (è noto che il giudice può aderire alle conclusioni del c.t.u., senza essere tenuto a una specifica motivazione, salvo che non formino oggetto di specifiche censure, v. Cass. n. 1149/2011).
E’ pur vero quindi che, qualora la consulenza tecnica presenti devianze dalla scienza medica ufficiale come avviene nell’ipotesi in cui sia formulata la diagnosi di sussistenza della PAS, non essendovi certezze nell’ambito scientifico al riguardo il Giudice del merito, ricorrendo alle proprie cognizioni scientifiche (Cass. n. 11440/1997) oppure avvalendosi di idonei esperti, è tenuto a ve¬rificarne il fondamento (Cass. 1652/2012; Cass. 17324/2005), ma questa Corte ha osservato che, in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale pre¬senza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione (v. Cass. n. 18817/2015, conf. Cass. 22744/2017).
Richiamando quindi i principi di diritto indicati nella decisione n. 6919/2016, la Corte conclude che, “ella specie, i giudici di merito hanno motivato sulle ragioni del rifiuto del padre da parte del figlio ed hanno dato rilevo ad alcuni comportamenti della madre, ritenuti come unicamente volti all’al¬lontanamento fisico e morale del figlio minore dall’altro genitore. In ordine all’affidamento esclusi¬vo (e non condiviso) del figlio al padre, la Corte d’appello ha motivato sull’inidoneità della madre, essenzialmente a causa dei predetti comportamenti, richiamando comunque il giudizio espresso dai consulenti tecnici (anche sull’idoneità dell’altro genitore, affidatario esclusivo), ed ha inoltre disposto l’allontanamento della figura materna per un semestre e, per il periodo successivo, ha incaricato i servizi Sociali di programmare e garantire il rientro del minore presso la casa del padre e la gestione dei turni di responsabilità dei due genitori. La sentenza di appello non sviluppa ade¬guate e convincenti argomentazioni sull’inidoneità della madre all’affidamento, in una situazione di forte criticità dei rapporti tra la R. ed i Servizi sociali; in un tale contesto, la rinnovata richiesta di una consulenza tecnica è stata dalla corte territoriale respinta, stante la sufficienza della relazione svolta dai consulenti tecnici nominati e l’atteggiamento non collaborativo tenuto dalla madre. La decisione impugnata non spiega dunque per quale ragione l’affidamento in via esclusiva al padre, previo collocamento temporaneo dello stesso in una comunità o casa – famiglia, costituirebbe l’u¬nico strumento utile ad evitare al minore un più grave pregiudizio ed ad assicurare al medesimo assistenza e stabilità affettiva, sempre nell’ottica di assicurare l’esercizio del diritto del minore ad una effettiva bigenitorialità”.
VI Il punto di vista della Corte europea dei diritti dell’uomo
Tra i requisiti di idoneità genitoriale, ai fini dell’affidamento o anche del collocamento di un figlio minore presso uno dei genitori, rileva la capacità di questi di riconoscere le esigenze affettive del figlio, che si individuano anche nella capacità di preservargli la continuità delle relazioni parentali attraverso il mantenimento della trama familiare, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa sull’altro genitore.
L’importanza di tale diritto è testimoniata dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uo¬mo 9 gennaio 2013, n. 25704 (L. c. Italia) che ha affermato la violazione dell’art. 8 della con¬venzione da parte dello Stato italiano, in un caso in cui le autorità giudiziarie, a fronte degli ostacoli opposti dalla madre affidataria, ma anche dalla stessa figlia minorenne, a che il padre esercitasse effettivamente e con continuità il diritto di visita, non si erano impegnate a mettere in atto tutte le misure necessarie a mantenere il legame familiare tra padre e figlia minore, attraverso un concreto ed effettivo esercizio del diritto di visita nel contesto di una separazione legale tra i genitori. In particolare, quelle autorità si erano limitate reiteratamente e con formule stereotipate a conferma¬re i propri provvedimenti, nonché a prescrivere l’intervento dei servizi sociali, cui erano richieste di volta in volta informazioni e delegata una generica funzione di controllo, così determinandosi il consolidamento di una situazione di fatto pregiudizievole per il padre, mentre avrebbero dovuto rapidamente adottare misure specifiche per il ripristino della collaborazione tra i genitori e dei rap¬porti tra il padre e la figlia, anche avvalendosi della mediazione dei servizi sociali.
Il principio affermato dalla Corte è che In caso di separazione personale conflittuale tra coniugi, l’affidamento del figlio minorenne implica un diritto effettivo e concreto di visita del genitore presso il quale il minore non sia collocato. L’assenza di collaborazione tra i genitori in conflitto e, talora, l’atteggiamento ostile (da dimostrare nel caso concreto) del genitore collocatario nei confronti dell’altro genitore che impedisca di fatto al minore di frequentarlo, comporta una grave violazione del diritto del figlio al rispetto della vita familiare e non dispensa le autorità nazionali dall’obbligo di ricercare ogni mezzo efficace al fine di garantire il diritto del minore di frequentare adeguatamente e tempestivamente entrambi i genitori.
La vicenda
I fatti della causa, così come esposti dalle parti, si possono riassumere come segue. Dalla relazione del ricorrente con una donna il 31 marzo 2001 nasceva una bambina. Il 29 gennaio 2003, a causa dei continui conflitti che laceravano la coppia, la donna lasciava la città di Roma, portando con sé la figlia a vivere presso la sua famiglia, in una cittadina del Molise. Dal momento della sua par¬tenza, la madre – secondo quanto prospettato dal ricorrente – manifestava una netta opposizione a qualsiasi relazione tra il padre e la figlia.Il 26 febbraio 2003 l’uomo chiedeva al tribunale per i minorenni di Roma l’affidamento della figlia.
Con decisione del 9 luglio 2003, il tribunale disponeva l’affidamento esclusivo della minore alla ma¬dre e concedeva al padre un diritto di visita da esercitarsi due pomeriggi a settimana, un week-end su due senza alloggio fino ai tre anni di età della minore, tre giorni a Pasqua, sei giorni a Natale e dieci giorni durante le vacanze estive.Il 20 agosto 2003, a causa delle difficoltà incontrate nell’e¬sercizio del diritto di visita, il ricorrente adiva il giudice tutelare della città in cui madre e figlia si erano trasferite. Egli lamentava di aver potuto incontrare la figlia una sola volta, il 25 luglio 2003,
per qualche minuto ed alla presenza della madre e dello zio della minore, e chiedeva il rispetto del suo diritto di visita.
Il 13 ottobre 2003 il giudice tutelare confermava il decreto del tribunale di Roma e precisava che gli incontri dovevano aver luogo nella sede dei servizi sociali alla presenza di un assistente sociale e della madre della bambina.Il 27 novembre 2003 il ricorrente adiva nuovamente il giudice tutelare per chiedere l’effettivo svolgimento degli incontri protetti. Il 23 dicembre 2003 il giudice tutelare confermava la decisione del 13 ottobre 2003. Il 26 gennaio 2004, sempre a causa delle difficoltà incontrate nell’esercizio del diritto di visita, il ricorrente adiva una terza volta il giudice tutelare, il quale, con decisione del 13 marzo 2004, confermava le decisioni precedenti. Il ricorrente afferma¬va che, tra il 2003 ed il 2004, la madre, che sarebbe stata presente agli incontri, aveva minacciato la figlia di abbandono, qualora la minore avesse detto di preferire restare sola con il padre.
Frattanto, il ricorrente aveva impugnato il decreto del tribunale di Roma del 9 luglio 2003 dinanzi alla corte d’appello di Roma, chiedendo l’affidamento della figlia, in subordine, un ampliamento del diritto di visita. Il perito nominato dalla corte d’appello osservava che la madre aveva opposto una forte resistenza agli incontri tra il ricorrente e la minore e che grazie al perito stesso ed ai suoi collaboratori era stato possibile che alcuni incontri si svolgessero in modo positivo senza la presenza della madre. Egli affermava, per contro, che i servizi sociali non avevano mai lavorato al fine di facilitare gli incontri menzionati ed avevano lasciato che la madre assistesse agli incontri tra padre e figlia. Con decreto del 19 ottobre 2004, la corte d’appello disponeva che gli incontri aves¬sero luogo sotto sorveglianza nella sede dei servizi sociali del capoluogo per tre pomeriggi al mese.
Il 30 marzo 2005 il ricorrente presentava un ricorso al tribunale della città, in cui affermava di aver potuto incontrare la figlia solo in rare occasioni, sosteneva che il decreto della corte d’appello non era stato rispettato e chiedeva l’affidamento della minore. Con decreto del 19 luglio 2005, il tribunale limitava la potestà genitoriale della madre, disponeva l’affidamento della minore ai servi¬zi sociali, confermando la collocazione della stessa presso il domicilio della madre, per consentire ai servizi sociali di vigilare affinché la minore costruisse una relazione equilibrata con il padre. Il tribunale osservava altresì che alla data del 3 giugno 2005 avevano avuto luogo solo sette incontri sui diciannove previsti, che la madre non aveva permesso allo psicologo nominato dal tribunale di vedere la minore, che il suo comportamento era finalizzato alla cancellazione della figura paterna e che i servizi sociali, nella relazione del 6 giugno 2005, avevano preso in considerazione solo le dichiarazioni della madre, ignorando la versione dei fatti fornita dal ricorrente. Dai documenti presentati risulta che, tra agosto 2005 e dicembre 2005, sui sedici incontri organizzati dai servizi sociali, il ricorrente ha incontrato la figlia solo dieci volte. Tra gennaio e febbraio 2006, gli incontri programmati non avevano avuto luogo, in quanto la madre non si era presentata. Con decreto dell’8 marzo 2006, il tribunale ordinava alla donna di non ostacolare l’esercizio del diritto di visita da parte del ricorrente e ordinava che i servizi sociali organizzassero nella loro sede, in presenza di un altro psicologo, gli incontri che non avevano avuto luogo tra il 2005 ed il 2006. In data 11 aprile 2006 i servizi sociali informavano il tribunale che, tra il 10 gennaio ed il 21 marzo, lo psico¬logo aveva potuto incontrare la minore solo cinque volte, sempre in presenza della madre, e che la bambina non voleva sentir parlare di suo padre. Il 27 maggio 2006 il tribunale constatava che il decreto dell’8 marzo 2006 non era stato rispettato e che la madre aveva scientemente operato al fine di troncare qualsiasi relazione tra il padre e la minore. Esso ordinava ai servizi sociali di prov¬vedere ad organizzare gli incontri che il tribunale aveva disposto e che i servizi stessi non avevano effettuato. Nel giugno 2006 il ricorrente incontrava lo psicologo dei servizi sociali, ma la madre non si presentava all’incontro e non vi conduceva la figlia. Il 26 settembre 2006 lo psicologo dei servizi sociali depositava una relazione sulla situazione della minore, in cui riferiva che, tra giugno e settembre, sui diciassette incontri previsti se ne erano tenuti solo undici. Egli osservava che la minore non accettava il padre e che questi si mostrava molto critico e rigido nei suoi rapporti con i servizi sociali. La madre della minore avrebbe confessato di non parlare mai del padre alla figlia, in quanto non voleva traumatizzare la minore, troppo giovane per comprendere la situazione. Lo psicologo aggiungeva che, pur manifestando grande empatia e grande attenzione nei confronti della bambina, la madre non collaborava allo sviluppo della relazione fra padre e figlia. Il 6 no¬vembre 2006 lo psicologo nominato dal tribunale in qualità di perito redigeva una relazione, nella quale suggeriva che la madre della minore seguisse un programma di sostegno psicologico e che, qualora il diritto di visita del ricorrente non venisse rispettato, dovessero essere modificate le mo¬dalità di affidamento della minore. Il 15 dicembre 2006 il tribunale, basandosi su detta relazione, ordinava alla madre della minore di seguire il programma consigliato dallo psicologo. Tra il 2006 ed il 2007, il ricorrente incontrava la minore solo qualche volta e solo per pochi minuti alla volta, a causa dell’ostilità della madre nei confronti di tali incontri. Con decreto del 9 febbraio 2007 il tri¬bunale ordinava alla donna di proseguire il suo programma di sostegno psicologico e di consentire gli incontri tra il ricorrente e la figlia.
Il 30 maggio 2007 il ricorrente depositava un nuovo ricorso presso il tribunale denunciando il mancato rispetto del suo diritto di visita, attribuendolo all’opposizione della madre ed all’inerzia dei servizi sociali. Sottolineava il mutamento di atteggiamento della bambina, la quale, in prece¬denza disponibile ad incontrarlo, sarebbe in seguito divenuta aggressiva nei suoi confronti. Inoltre chiedeva l’affidamento della minore. Il 17 luglio 2007 il tribunale confermava che gli incontri tra il ricorrente e la bambina dovevano tenersi che la madre doveva proseguire il suo programma di sostegno psicologico. Nel mese di agosto 2007, il ricorrente incontrava la figlia quattro volte. Il 10 dicembre 2007 il tribunale rilevava che la donna stava seguendo un programma di sostegno psico¬logico e la invitava a proseguire. Esso disponeva l’affidamento congiunto della minore ed incarica¬va i servizi sociali di organizzare tre incontri al mese uno in Molise ed uno a Roma in presenza di un assistente sociale. Ordinava alla madre della bambina di esortare la figlia minore ad incontrare il ricorrente. I servizi sociali organizzavano uno solo degli incontri previsti a Roma.
Il 1° luglio 2008, il ricorrente impugnava il decreto del 10 dicembre 2007 dinanzi alla corte d’ap¬pello nel quale affermava che la bambina aveva subito un danno irreparabile dovuto all’ostinata resistenza opposta dalla madre e chiedeva che la minore potesse vivere a Roma. La corte d’appello incaricava un perito di riesaminare la situazione della minore. Il perito giungeva alla conclusione che la minore soffrisse di una depressione infantile e sottolineava la necessità che la medesima riallacciasse i legami con il padre. Con decreto del 27 giugno 2009, la corte d’appello del Molise confermava il decreto del tribunale ed ordinava ai servizi sociali di dare attuazione al diritto di visita secondo le modalità stabilite. Durante l’estate 2009 il ricorrente trascorreva un pomeriggio in spiaggia con la bambina, in presenza del perito nominato dalla corte d’appello per convincere la madre. In seguito avevano luogo alcuni incontri in presenza della madre.
In data 20 agosto 2009 i servizi sociali informavano la corte d’appello che a Roma non era stato or¬ganizzato nessun incontro e che il padre aveva trascorso dei week-end in Molise per poter stare vici¬no alla figlia. Essi spiegavano che la minore temeva che il padre potesse allontanarla dalla madre e chiedevano al tribunale di vigilare sul benessere della minore, la quale sarebbe stata traumatizzata da una presunta aggressione del ricorrente, in occasione di uno degli incontri. Con decreto del 5 novembre 2009, il tribunale del capoluogo molisano richiamava ancora una volta l’attenzione sulla necessità che tutte le parti si conformassero al precedente decreto del 27 giugno 2009, suggerendo di prevedere un sostegno psicologico per la minore, al fine di superare la sua resistenza agli incon¬tri con il padre. Il ricorrente contattava i servizi sociali per lamentare l’assenza di assistenti sociali durante gli incontri. In una relazione, depositata il 14 gennaio 2010, i servizi sociali affermavano che, per carenza di personale disponibile il sabato e la domenica, non avevano potuto assicurare lo svolgimento degli incontri. Il 24 febbraio 2010 il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni del Molise chiedeva la sospensione degli incontri tra il ricorrente e la minore.
Il 13 maggio 2010 il tribunale di Campobasso rigettava la richiesta del procuratore, argomentando che una siffatta decisione avrebbe avuto l’effetto di annullare il lavoro svolto per vari anni e di peggiorare il conflitto fra i genitori. Esso incaricava i servizi sociali di predisporre un programma di sostegno psicologico per la bambina e di assicurare il rispetto del diritto di visita. Tra maggio e no¬vembre 2010, malgrado le richieste rivolte dal ricorrente ai servizi sociali, non veniva organizzato alcun incontro. Il 9 agosto 2010, il ricorrente chiedeva al tribunale di far rispettare il precedente decreto e di intervenire per far sì che egli potesse incontrare la figlia. Con nota del 24 agosto 2010, il tribunale confermava ai servizi sociali che non era stata decisa alcuna sospensione degli incontri e che, di conseguenza, i medesimi dovevano aver luogo secondo le modalità già stabilite dalla corte d’appello nel giugno 2009. Con decreto del 27 ottobre 2010, il tribunale osservava che i rap¬porti tra il ricorrente e la figlia minore erano interrotti de facto, e che ciò nuoceva alla minore, ma constatava che il precedente decreto emesso dalla corte d’appello il 25 giugno 2009 in relazione al diritto di visita non era stato modificato. In data 3 gennaio 2011 i servizi sociali della residenza della minore inviavano al tribunale una relazione aggiornata sulla situazione della minore, riferen¬do in particolare che la madre era disposta a collaborare e che il padre mostrava un atteggiamento polemico, che risultava nefasto per la minore. Il 17 gennaio 2011 i servizi sociali comunicavano al tribunale che la minore proseguiva il programma di sostegno psicologico e che rifiutava di parlare con il padre. Lo psicologo informava altresì il tribunale che non era stato possibile organizzare un incontro con il padre, nonostante le convocazioni scritte indirizzate al medesimo. Il 21 gennaio 2011 i servizi sociali invitavano i due genitori della minore a fissare il calendario degli incontri. Il ricorrente, che aveva subito un’operazione, non si presentava. Il 12 aprile 2011 i servizi sociali informavano il tribunale che nel mese di marzo 2011 il ricorrente non si era presentato agli incontri fissati. Con relazione depositata il 3 ottobre 2011, i servizi sociali comunicavano al tribunale che la minore accettava di vedere il padre e che, durante l’estate, gli incontri previsti avevano effettiva¬mente avuto luogo. Con decreto del 17 novembre 2011 il tribunale rilevava che nell’ultimo periodo la madre non si era opposta agli incontri e che il percorso psicologico seguito dalla minore era po¬sitivo. Constatando che i genitori non avevano presentato nessun’altra richiesta, ordinava ai servizi sociali di vigilare affinché la minore proseguisse il programma di sostegno psicologico ed archiviava il procedimento. Il 28 maggio 2007 la madre della minore veniva condannata ad un mese di reclu¬sione con la sospensione condizionale per inosservanza delle decisioni del tribunale concernenti il diritto di visita. Il 12 ottobre 2010 la suddetta veniva condannata per calunnia e diffamazione ad un anno e sei mesi di reclusione con la sospensione condizionale. Il 17 gennaio 2011 veniva altresì condannata ad una multa per inosservanza delle decisioni emesse dal tribunale per i minorenni.
Il ricorrente lamentava una violazione del suo diritto al rispetto della vita familiare in quanto, nonostante le molteplici decisioni emesse dal tribunale per i minorenni sulle modalità di esercizio del diritto di visita, non avrebbe potuto esercitare pienamente tale diritto dopo l’allontanamento della figlia e della madre della minore avvenuto nel 2003. Egli contestava ai servizi sociali di aver usufruito di un’eccessiva autonomia nell’esecuzione delle decisioni del tribunale per i minorenni ed a quest’ultimo di non aver esercitato, come avrebbe dovuto, un controllo costante sul lavoro dei servizi sociali, affinché la condotta dei medesimi non inficiasse le decisioni del tribunale. De¬nunciava, inoltre, la totale inerzia dimostrata, talvolta per lunghi periodi, dai servizi sociali, i quali avrebbero demandato alla madre della minore il compito che spettava loro, ossia la gestione degli incontri. Infine, il ricorrente sottolineava che il tempo trascorso aveva avuto conseguenze molto gravi per la sua relazione con la figlia ed Invocava l’articolo 8 della Convenzione, secondo cui ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita familiare.
La valutazione della Corte europea
La valutazione della Corte è stata la seguente. Come la Corte ha più volte rammentato, se l’articolo 8 ha essenzialmente per oggetto la tutela dell’individuo dalle ingerenze arbitrarie dei poteri pubbli¬ci, esso non si limita ad ordinare allo Stato di astenersi da tali ingerenze: a tale obbligo negativo possono aggiungersi obblighi positivi attinenti ad un effettivo rispetto della vita privata o familiare. Essi possono implicare l’adozione di misure finalizzate al rispetto della vita familiare, incluse le relazioni reciproche fra individui, e la predisposizione di strumenti giuridici adeguati e sufficienti ad assicurare i legittimi diritti degli interessati, nonché il rispetto delle decisioni giudiziarie ovvero di misure specifiche appropriate. Tali strumenti giuridici devono permettere allo Stato di adottare misure atte a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti fra i genitori. Essa rammenta altresì che gli obblighi positivi non implicano solo che si vigili affinché il minore possa raggiungere il genitore o mantenere un contatto con lui, bensì comprendono anche tutte le misure propedeutiche che consentono di pervenire a tale risultato. Per essere adeguate, le misure volte a riunire genitore e figlio devono essere attuate rapidamente, in quanto il decorso del tempo può avere conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il minore ed il genitore non convivente.
La Corte precisava che il fatto che gli sforzi delle autorità siano stati vani non implica automati¬camente che lo Stato abbia disatteso gli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8 della Convenzio¬ne. In effetti, l’obbligo in capo alle autorità nazionali di adottare misure idonee a riavvicinare il genitore ed il figlio non conviventi non è assoluto e la comprensione e la cooperazione di tutte le persone coinvolte costituiscono sempre un fattore importante. Seppure le autorità nazionali devo¬no impegnarsi a facilitare tale collaborazione, l’obbligo in capo alle medesime di ricorrere alla co¬ercizione in materia non può che essere limitato: esse devono tener conto degli interessi, nonché dei diritti e delle libertà di dette persone ed in particolare dell’interesse superiore del minore e dei diritti conferiti al medesimo dall’articolo 8 della Convenzione. Come costantemente sancito dalla giurisprudenza della Corte, è necessaria grande prudenza prima di ricorrere alla coercizione in una materia così delicata e l’articolo 8 della Convenzione non autorizza i genitori a far adottare misure pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo del minore.
Il punto decisivo consiste dunque nell’appurare se le autorità nazionali abbiano adottato, allo sco¬po di facilitare il diritto di visita, ogni misura necessaria che si potesse ragionevolmente esigere da esse.
La Corte, esaminando la sequenza dei fatti, rilevava che invece di adottare misure atte a consen¬tire l’esercizio del diritto di visita del ricorrente, il tribunale si era limitato a prendere atto della situazione della minore e ad ordinare più volte ai servizi sociali la prosecuzione del programma di sostegno psicologico a beneficio dapprima della madre ed in seguito anche alla minore.
E benché non sia compito della Corte europea sostituirsi alla valutazione operata dalle competenti autorità nazionali sulle misure da adottare, in quanto tali autorità possono, in linea di principio, effettuare più efficacemente tale valutazione, tuttavia, “essa non può ignorare la circostanza che nel caso di specie il tribunale ha più volte osservato che il mancato esercizio del diritto di visita del ricorrente fosse imputabile alla madre”. Inoltre, essa osserva che il tribunale aveva atteso il 2006 per ordinare alla madre della minore di seguire un programma di sostegno psicologico e il 2009 per disporre che anche la minore seguisse detto programma.
La Corte riconosce che le autorità si trovavano nel caso di specie di fronte ad una situazione molto difficile, dovuta specificamente alle tensioni fra i genitori della minore. Essa ritiene tuttavia che una mancanza di collaborazione fra i genitori separati non possa dispensare le autorità competenti dall’adozione di ogni mezzo atto a mantenere il legame familiare. Nel caso di specie le autorità nazionali non hanno invece fatto tutto ciò che ci si poteva ragionevolmente attendere da esse, dal momento che il tribunale ha delegato la gestione degli incontri ai servizi sociali. Esse sono quindi venute meno al loro dovere di adottare misure pratiche al fine di indurre gli interessati ad una migliore collaborazione, tenendo comunque conto del superiore interesse della minore.
La Corte osservava, inoltre, che lo svolgimento del procedimento dinanzi al tribunale evidenziava piuttosto una serie di misure automatiche e stereotipate, quali le successive richieste di infor¬mazioni e la delega della funzione di controllo ai servizi sociali, ai quali veniva ordinato di far rispettare il diritto di visita. Le autorità hanno così lasciato che si consolidasse una situazione di fatto generata dall’inosservanza delle decisioni giudiziarie, mentre dal semplice decorso del tempo derivavano delle conseguenze sulla relazione del padre con la minore.
In queste circostanze, la Corte riteneva che, di fronte a tale situazione, le autorità avrebbero dovuto adottare misure più dirette e specifiche finalizzate a ristabilire il contatto tra il ricorrente e la figlia. In particolare, la mediazione dei servizi sociali avrebbe dovuto essere utilizzata per in¬coraggiare le parti a collaborare ed i servizi sociali avrebbero dovuto organizzare, secondo quanto disposto dai decreti del tribunale, gli incontri tra il ricorrente e la figlia, inclusi quelli che avrebbero dovuto tenersi a Roma. Le autorità giudiziarie nazionali non hanno invece adottato alcuna misura adeguata al fine di creare in futuro le condizioni necessarie all’effettivo esercizio del diritto di visita del ricorrente.
Tenuto conto di ciò che precede e nonostante il margine di apprezzamento dello Stato convenuto in materia, la Corte concludeva che le autorità nazionali avevano omesso di profondere un impegno adeguato e sufficiente a far rispettare il diritto di visita del ricorrente violando in tal modo il suo diritto al rispetto della vita familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione.
VII Alienazione genitoriale e diritto penale
a) Condotta alienante e sottrazione consensuale di minore (articoli 573 e 574 c.p.)
In linea di massima il comportamento del genitore che mette in atto consapevolmente una con¬dotta che ostacola sistematicamente il rapporto tra il figlio e l’altro genitore, può astrattamente integrare il reato di cui all’art. 574 c.p. (sottrazione consensuale di minorenne).
Nell’ambito dei delitti contro l’assistenza familiare il codice penale prevede alcune fattispecie (di¬stribuite negli articoli 573, 574 e 574-bis) caratterizzate da comportamenti di “sottrazione” di un minorenne ai genitori esercenti la responsabilità genitoriale.
Secondo l’impostazione del codice penale costituisce reato “sottrarre” un minore di età al genitore che esercita la responsabilità genitoriale, cioè – in linea di prima approssimazione e salvo a preci¬sare meglio l’elemento materiale del reato – allontanarlo dal genitore ovvero condurlo e trattenerlo lontano da lui in modo da impedire od ostacolare l’esercizio delle funzioni genitoriali.
Si tratta quindi di un delitto che vede innanzitutto leso l’esercizio della genitorialità e in questo senso è certamente coerente la collocazione dei reati di “sottrazione” nell’ambito di quelli contro la famiglia (titolo XI del libro secondo del codice penale). La lesione delle funzioni genitoriali appare sistematicamente richiamata nella giurisprudenza (Cass. pen. Sez. VI, 15 ottobre 2009, n. 42370; Cass. pen. Sez. VI, 4 marzo 2002, n. 11415).
Va, però, ricordato che i comportamenti di “sottrazione” hanno anche, e soprattutto, la loro vittima nello stesso minore sottratto all’esercizio delle funzioni di cura, di vigilanza di orientamento e di custodia per lui essenziali esercitate da ciascuno dei genitori. Il principio è stato molto opportuna¬mente ribadito da Cass. pen. Sez. VI, 6 febbraio 2014, n. 17799 che, con riferimento al reato di sottrazione di un minore infraquattordicenne ha osservato che “la sottrazione di un minore degli anni quattordici al genitore esercente la responsabilità genitoriale o la sua ritenzione contro la volontà di questi, come previste dall’art. 574, comma 1, c.p. proteggono lo stesso bene giuridico incentrato sulla protezione degli interessi del minore, interferendo sui suoi diritti e distogliendolo dalle direttive a lui impartite dal genitore”.
La natura plurioffensiva era stata già affermata molto chiaramente anche Cass. pen. Sez. V, 8 luglio 2008, n. 37321 e da Cass. pen. Sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 20950) sulla base della stessa considerazione e cioè che con tali reati si lede non soltanto il diritto di chi esercita le respon¬sabilità genitoriali, ma anche quello del figlio a crescere nel rapporto con entrambi i genitori. Anche la giurisprudenza di merito ha espresso le stesse valutazioni: per esempio Trib. Trento, 1 aprile 2011 ha affermato che le fattispecie di “sottrazione” si presentano come lesive sia dell’interesse del figlio a crescere con il sostegno e la guida di entrambi i genitori, sia del genitore stesso che vede, così, profondamente menomata la possibilità di esercitare pienamente la potestà genitoriale instaurando e coltivando un rapporto con la propria prole che sia connotato da cura, assistenza, affettività e supporto educativo.
È evidente che un comportamento sistematico che cagiona l’alienazione genitoriale può integrare il reato in questione. Eppure non vi sono precedenti specifici su questo aspetto che richiamano espressamente l’alienazione genitoriale.
A differenza di quanto per lo più avveniva in passato (allorché i comportamenti di “sottrazione” più frequenti erano per lo più posti in essere da estranei alla famiglia), il tema della sottrazione concerne oggi soprattutto l’ambito dei rapporti tra genitori e l’ambito delle relazioni del figlio mi¬nore con ciascuno dei genitori. Un contenzioso statisticamente significativo in materia di reati di “sottrazione” è costituito proprio dall’allontanamento (materiale ma anche psicologico) di un figlio “sottratto” da un genitore all’altro.
b) Inosservanza dei provvedimenti del giudice civile in materia di affidamento (art. 388 c.p.)
L’articolo 388 del codice penale (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) – delitto contro l’autorità delle decisioni giudiziarie – costituisce una tra le norme più ricorrenti nel contenzioso penale in diritto di famiglia. Il nucleo centrale della norma, per quanto almeno concer¬ne i comportamenti penalmente rilevanti nel diritto di famiglia (dal momento che la norma ha una portata molto più ampia riguardando molteplici altri comportamenti elusivi), è nel secondo comma che punisce con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 ad euro 1.032 “chiunque elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice… che concerne l’affidamento dei minori o di altre persone incapaci…”.
L’elusione dei provvedimenti del giudice in materia di affidamento di minori (art. 388, secondo comma, c.p.) assicura pacificamente tutela a qualsiasi statuizione in materia di affidamento, anche contenuta nell’ordinanza presidenziale di separazione o in un decreto camerale di modifica o di regolamentazione dell’affidamento di figli nati fuori dal matrimonio.
Il reato è perseguibile a querela della persona offesa da identificarsi non nel minore (che certa¬mente è anche da considerare destinatario della tutela penale, come si desume anche dall’art. 709-terc.p.c. che prevede anche a suo favore, in caso di violazioni del regime di affidamento, la possibilità di un risarcimento dei danni) ma nel soggetto al quale il provvedimento attribuisce il diritto di pretendere l’adempimento dell’obbligazione. Nel caso di elusione di provvedimenti con¬cernenti l’affidamento questo soggetto è in genere uno dei genitori.
Tutte le questioni che si pongono in tema di mancata esecuzione dolosa dei diversi provvedimenti del giudice richiamati dalla norma penale possono essere risolte se si chiarisce esattamente la ratio di questa norma. Bisogna cioè verificare se l’art. 388 del codice penale è teso a sanzionare penalmente la semplice inottemperanza ai provvedimenti del giudice indicati (che il legislatore ha selezionato come più bisognosi di tutela) ovvero se l’obiettivo della norma penale è diverso.
La scelta della soluzione interpretativa è stata fatta da Cass. pen. Sez. Unite, 27 settembre 2007, n. 36692 dove – in una vicenda relativa all’inottemperanza ad un provvedimento posses¬sorio – si è affermato molto chiaramente che l’interesse tutelato dall’art. 388 c.p., non è l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali (e quindi l’inottemperanza non costituisce di per sé reato), bensì l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione Entrambe le fattispecie previste dai primi due commi dell’art. 388 c.p. hanno in realtà per oggetto giuridico l’interesse all’effettività della tutela giurisdizionale. Con la conseguenza che costituiscono reato solo quei comportamenti che frustrano l’attuazione del provvedimento. E perciò, quando – come avviene nel diritto di fa¬miglia – la natura personale e infungibile delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva del provvedimento giudiziale escludono che l’esecuzione possa prescindere dal contributo dell’ob¬bligato, il rifiuto di adempiere non si esaurisce in una mera inottemperanza all’ordine del giudice, ma impedisce o comunque ostacola l’esecuzione, incidendo così sull’interesse all’effettività della giurisdizione tutelato dalla norma incriminatrice. Quindi il rifiuto di ottemperare ai provvedimenti giudiziali previsti dall’art. 388 c.p., comma 2 non costituisce comportamento elusivo penalmente rilevante, a meno che la natura personale delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento esigano per l’esecuzione il contributo dell’obbligato.
È questa interpretazione perciò che deve essere tenuta presente per la soluzione dei problemi che la norma pone, a cominciare da quello sul significato dell’espressione “eludere il provvedimento del giudice”.
È diventata assolutamente uniforme in giurisprudenza negli ultimi anni – a partire dalla sopra richiamata decisiva e articolata decisione delle Sezioni Unite – l’interpretazione che riferisce il termine “elusione” a un significato che fa leva non tanto sulla condotta subdola, fraudolenta o meno, quanto sul concetto di collaborazione dell’obbligato. Sussiste l’inottemperanza penalmente sanzionata tutte le volte in cui, a prescindere da comportamenti omissivi o commissivi, l’adempi¬mento dell’obbligazione presuppone la collaborazione dell’obbligato. L’inottemperanza non costitu¬isce reato, invece, allorché l’attuazione del provvedimento non richiede un intervento agevolatore del soggetto obbligato.
Ebbene, nell’ambito dell’attuazione delle decisioni relative all’affidamento di minori, è difficile se non impossibile ipotizzare comportamenti che non presuppongano la collaborazione dell’obbliga¬to. Pertanto l’inadempimento ai provvedimenti in materia di affidamento di minori finisce è, in sostanza, sempre penalmente sanzionato. Perciò quando l’obbligato deve prestare una qualche collaborazione affinché il provvedimento sia attuato correttamente, l’inadempimento, costituisce reato. Questo è il contenuto precettivo vivente dell’art. 388 del codice penale.
Anche per i provvedimenti che riguardano l’affidamento di un minore il principio in base al quale sussiste l’inadempimento penalmente sanzionato tutte le volte in cui l’adempimento dell’obbli¬gazione presuppone la collaborazione dell’obbligato si è da tempo consolidato in giurisprudenza (Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2004, n. 37118; Cass. pen. Sez. VI, 11 maggio 2010, n. 33719; Cass. pen. Sez. III, 7 aprile 2010, n. 24294; Cass. pen. Sez. VI, 11 giugno 2009, n. 32846; Cass. pen. Sez. VI, 5 marzo 2009, n. 27995). Il principio generale che emerge da queste decisioni è che l’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che concer¬ne l’affidamento di minori può connettersi ad un qualunque comportamento da cui derivi la fru¬strazione delle legittime pretese altrui, compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo, in quanto l’ottemperanza al provvedimento richiede necessariamente la collaborazione dell’obbligato.
Molto chiaro in proposito Trib. Napoli Portici, 10 giugno 2013 in un caso di affidamento con¬diviso secondo cui l’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che riguardi l’affidamento di minori può concretarsi in qualunque comportamento da cui derivi la “frustrazione” delle legittime pretese altrui, ivi compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo e quando per l’esercizio delle facoltà attribuite al genitore non affidatario in via prevalente sia necessaria la collaborazione di quello prevalente. Analogamente Trib. Bari Sez. I, 10 maggio 2013 secondo cui “il concetto di elusione presuppone una forma di scaltrezza, sotterfugio o raggiro che non può che manifestarsi in forma commissiva, tanto che, laddove la legge ha ritenuto sufficiente, ai fini della sanzione penale, una mera condotta omissiva, lo ha espressamente sancito. La norma in oggetto mira a tutelare non tanto l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza di ispirazione costituzionale, dell’effettività della giurisdizione. Il mero rifiuto o l’omissione di ottem¬perare ai provvedimenti di cui all’art. 388, comma 2°, c.p., non costituisce condotta elusiva penal¬mente rilevante, a meno che la natura personale delle prestazioni imposte o la natura interdittiva del provvedimento non implichino il contributo dell’obbligato all’esecuzione”.
In senso sostanzialmente analogo sulla sussistenza del reato in caso di violazione di obbligazioni di collaborazione di sono espressi Trib. Bari Sez. I, 23 ottobre 2012; App. Taranto, 24 ottobre 2011; Trib. Arezzo, 12 settembre 2011; Trib. Rieti, 15 giugno 2011; Trib. Napoli Sez. IV, 15 ottobre 2008.
Si deve, quindi, attribuire rilevanza non alla differenza tra comportamenti commissivi e comporta¬menti omissivi, quanto all’esistenza o meno di un onere di collaborazione da parte di chi è obbli¬gato all’adempimento del provvedimento. Tutte le volte in cui questa collaborazione sia richiesta oggettivamente dal provvedimento, l’inadempimento sarà penalmente sanzionabile a prescindere dalla natura commissiva od omissiva della condotta.
È possibile selezionare nell’ambito del diritto di famiglia comportamenti per i quali è necessaria la collaborazione dell’obbligato da quelli per i quali tale collaborazione non è richiesta? E’ praticabile, cioè, nell’ambito dei provvedimenti di affidamento, una distinzione o tutti i provvedimenti di affida¬mento richiedono necessariamente la collaborazione dell’obbligato? In verità tutti i comportamenti in materia di affidamento presuppongano la collaborazione dell’obbligato dal momento che i prov¬vedimenti in questione sono oggettivamente infungibili.La conclusione è, dunque, che in materia di affidamento di minori la infungibilità della prestazione e quindi la necessaria collaborazione dell’obbligato all’adempimento rendono sanzionabile sempre ai sensi dell’art. 388 codice penale la mancata ottemperanza al provvedimento del giudice.
È questa l’interpretazione severa ormai adottata dalla giurisprudenza in materia di inottemperanza alle disposizioni in materia di diritto di visita dei figli (Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 2014, n. 31712chiarisce in proposito che “è sufficiente la realizzazione di un›omissione contrastante con l›obbligo stabilito nel provvedimento giudiziale, rientrando tale comportamento omissivo antido¬veroso nel concetto di “elusione” impiegato dal legislatore per la descrizione della ipotesi delit¬tuosa”. Nella giurisprudenza di merito Trib. Ivrea, 23 maggio 2014; Trib. Firenze Sez. II, 10 febbraio 2014.
Trib. Monza, 26 novembre 2012 ha confermato la condanna di un genitore che, impedendo al coniuge separato di ricevere e tenere con sé la figlia minore, eludeva l’ordinanza del Tribunale civile con la quale si attribuiva all’altro genitore il diritto di vedere la figlia, attuando comporta¬menti pretestuosi, volti a non consentire l’espletamento degli incontri o comunque finalizzati a renderli oltremodo difficili. App. Milano Sez. II, 9 giugno 2011 ha ritenuto applicabile la san¬zione penale nei confronti di chi con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi, omettendo di far trovare in casa i figli per le preannunciate ferie estive con il padre, ostacolava il diritto di visita di quest’ultimo, contravvenendo ad un ordine del giudice. Il comporta¬mento del genitore separato che ostacoli o non si attivi affinché il minore maturi un atteggiamento psicologico di favore nei confronti del genitore non affidatario, assume rilevanza penale. Secondo Trib. Roma, 30 maggio 2005 la previsione penale dell’articolo 388, comma 2, del c.p. è posta a tutela dell’interesse del minore a vedere salvaguardata la relazione con entrambi i genitori; pertanto il reato di cui all’articolo 388, comma 2, del c.p. è integrato qualora emerga un rifiuto da parte dell’altro genitore di consegnare il bambino secondo i tempi e le modalità stabilite, che deve assumere carattere continuativo e sistematico, in modo da porsi in contrasto con l’interesse del minore e integrare il concetto di elusione previsto dalla fattispecie. L’inadempimento continuato e ingiustificato al dovere di favorire gli incontri del figlio con l’altro genitore è stato ritenuto fonte di responsabilità civile non trascurabile (Trib. Roma, 13 giugno 2000).
Per quanto concerne la giurisprudenza di legittimità, Cass. pen. Sez. VI, 5 marzo 2009, n. 27995 ha confermato la condanna per un genitore che aveva impedito all’altro genitore di tra¬scorrere con il figlio il periodo di vacanza prestabilito. Nella stessa direzione Cass. pen. Sez. VI, 6 ottobre 2005, n. 41003, nel confermare la condanna per la madre che si era allontanata dal luogo di residenza nei giorni concordati per gli incontri dei figli minori con il padre, ha affermato il principio che qualora in sede di separazione fra i coniugi il giudice civile abbia disposto l’affi¬damento dei figli minori alla madre con la possibilità per il padre di incontrarli periodicamente, l’allontanamento della madre dal luogo di residenza nei giorni concordati per gli incontri integra il reato di cui all’ art. 388 cod. pen. senza che a tale scopo abbia rilevanza che tale allontanamento fosse stato preventivamente annunciato.
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2004, n. 37118 l’’elusione dell’esecuzione di un prov¬vedimento del giudice civile che concerna l’affidamento di minori può connettersi ad un qualunque comportamento da cui derivi la frustrazione delle legittime pretese altrui, compresi gli atteggia¬menti di mero carattere omissivo. Ne consegue la rilevanza penale della condotta del genitore affidatario il quale, esternando al figlio un atteggiamento di rifiuto a proposito degli incontri con il genitore separato, non si attivi affinché il minore maturi un atteggiamento psicologico favorevole allo sviluppo di un equilibrato rapporto con l’altro genitore. Analogamente Cass. pen., Sez. fe¬riale, 12 settembre 2003 ha stabilito che il rifiuto del minore di vedere il padre non esonera la madre dal dovere di adottare i comportamenti strettamente indispensabili a consentire l’esercizio effettivo del diritto di visita al padre, non fornendo sul piano materiale e su quello del rapporto con la figlia minore, quell’apporto minimo in termini di coordinamento e cooperazione che è sem¬pre necessario per garantire l’esecuzione secondo buona fede dei provvedimenti del giudice civile concernenti i minori.
c) Il che modo il consenso del minore può avere rilevanza per escludere i reati?
Poiché il reato di sottrazione (che altrimenti sarebbe un sequestro di persona) si consuma sostan-zialmente con il consenso del minore (anche se esigenze di protezione hanno indotto il legislatore a prevedere espressamente il consenso solo per il figlio ultra-quattordicenne), e poiché anche in sede di inosservanza dei provvedimenti del giudice civile in materia di affidamento non può farsi ameno di considerare il comportamento e la volontà del minore, si pone il problema di compren¬dere quale libertà può essere oggi riconosciuta al minore nella relazione con i propri genitori anche separati. In che termini il comportamento di “sottrazione” del figlio effettuato da un genitore in danno dell’altro o quello di “violazione” delle regole dell’affidamento può essere influenzato dal consenso o dal dissenso del minore. Sussistono, insomma, i reati in questione se è il figlio che rifiuta il rapporto con l’altro genitore?
Nella giurisprudenza penale sulla “sottrazione” del minore ultraquattordicenne consenziente (art. 573 c.p.) e sulla “sottrazione” del minore infra-quattordicenne (art. 574 c.p.) il problema non emerge in modo significativo. Pur tuttavia non è pensabile che il consenso o il dissenso del mi¬nore non abbiano influenza sulla sussistenza del reato o sulla sua punibilità. Avviene spesso, per esempio, che un genitore si difenda dall’accusa di aver sottratto il figlio all’altro assumendo che il figlio stesso avrebbe espresso il desiderio o addirittura avrebbe chiesto esplicitamente di non frequentare l’altro genitore. In che modo l’opinione del figlio minore deve essere tenuta in consi¬derazione? Può il genitore imputato di sottrazione o di inosservanza invocare lo stato di necessità o l’assenza di dolo?
Di un certo aiuto potrebbe essere invece la giurisprudenza che si è formata sull’art. 388 del codice penale in ordine alla valutazione dell’elusione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria in materia di affidamento di minori. Qui spesso il problema ricorrente è proprio quello in cui uno dei genitori assume di non essere responsabile del reato in quanto è il figlio che rifiuta di incontrare o di avere contatti con l’altro genitore.
Anche in questo caso – per il quale evidentemente non può prescindersi dall’età del minore – la giurisprudenza ha richiamato il tema di fondo della collaborazione dell’obbligato riconoscendo in alcuni casi la mancanza di dolo (App. Campobasso, 16 aprile 2013) ed in altri più numerosi, invece, che il dolo sussiste sotto il profilo che è dovere di un genitore attivarsi concretamente “af¬finché il figlio minore maturi un atteggiamento psicologico di favore nei confronti del genitore non affidatario” (App. Milano, Sez. II, 9 giugno 2011).
Quest’ultimo punto di vista è stato spesso richiamato anche dalla giurisprudenza di legittimità. Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 26810 ha confermato una decisione di merito ritenendo sempre necessaria “una attiva e doverosa collaborazione da parte del genitore affida¬tario alla riuscita delle visite e degli incontri con l’altro genitore stabiliti con il provvedimento del giudice”. Ugualmente Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2004, n. 37118 ha precisato che sussiste il reato di cui all’art. 388 c.p. “se risulta che il genitore affidatario non si attivi affinché il minore maturi un atteggiamento psicologico favorevole allo sviluppo di un equilibrato rapporto con l’altro genitore”. Cass. pen. Sez. feriale, 12 settembre 2003 ha ritenuto che il rifiuto del minore di incontrare il padre non esonera la madre dal dovere di adottare i comportamenti indispensabili a consentire gli incontri.
Nell’ipotesi che qui si affronta della rilevanza da attribuire alla volontà del minore nella valutazione della sussistenza o meno a carico di uno dei genitori del reato di “sottrazione” in danno dell’altro o di “inosservanza dei provvedimenti del giudice” il figlio minore non potrebbe che essere ascoltato come teste nell’ambito cioè delle “prove” cui si riferisce il terzo libro del codice di procedura penale e specificamente della testimonianza (art. 194 e ss. c.p.p.) – ammissibile qualunque sia l’età del testimone (art. 196 c.p.p.) – anche ove gli si riconoscesse la qualità di persona offesa. Si compren¬de come questa qualificazione del minore come testimone sia di particolare problematicità per il coinvolgimento che in questa veste il minore finirebbe per avere nel processo a carico di uno dei genitori. Invero manca nel processo penale un sistema di acquisizione del punto di vista del minore che le convenzioni internazionali e lo stesso art. 315-bis del codice civile prevedono come obbligo generale ma anche come diritto del minore “in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano”. La testimonianza formale del figlio minore finisce per supplire, quindi, alla mancanza di una prassi diversa dell’ascolto del figlio nel processo penale.
Per quanto concerne il consenso del minore nei casi di inosservanza dei provvedimenti del giu¬dice in materia di affidamento, è molto ricorrente il caso in cui uno dei genitori assume di non essere responsabile del reato in quanto è il figlio che rifiuta di incontrare o di avere contatti con l’altro genitore.
Anche in questo caso – per il quale evidentemente non può prescindersi dall’età del minore – la giurisprudenza ha richiamato il tema di fondo della collaborazione dell’obbligato riconoscendo in alcuni casi la mancanza di dolo (App. Campobasso, 16 aprile 2013) ed in altri più numerosi, invece, che il dolo sussiste sotto il profilo che è dovere di un genitore attivarsi concretamente “af¬finché il figlio minore maturi un atteggiamento psicologico di favore nei confronti del genitore non affidatario” (App. Milano, Sez. II, 9 giugno 2011).
Quest’ultimo punto di vista è stato spesso richiamato anche dalla giurisprudenza di legittimità. Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 26810 ha confermato una decisione di merito ritenendo sempre necessaria “una attiva e doverosa collaborazione da parte del genitore affida¬tario alla riuscita delle visite e degli incontri con l’altro genitore stabiliti con il provvedimento del giudice”; ugualmente Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2004, n. 37118 ha precisato che sussiste il reato di cui all’art. 388 c.p. “se risulta che il genitore affidatario non si attivi affinché il minore maturi un atteggiamento psicologico favorevole allo sviluppo di un equilibrato rapporto con l’altro genitore”; Cass. pen. Sez. feriale, 12 settembre 2003 ha ritenuto che il rifiuto del minore di incontrare il padre non esonera la madre dal dovere di adottare i comportamenti indispensabili a consentire gli incontri.
Se non vi sono specifici contegni di impedimento all’esercizio dei diritti dell’altro genitore non sus¬siste il reato (Cass. pen. Sez. feriale, 14 settembre 2010, n. 34024; Cass. pen. Sez. VI, 4 aprile 2003, n. 25899).
d) I maltrattamenti psicologici quasi assenti in giurisprudenza (art. 572 c.p.)
La legge 1 ottobre 2012, n. 172 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale) ha modificato il primo comma dell’art. 572 che veniva così riscritto: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sot¬toposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni” e inseriva un secondo comma del tenore seguente: “La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici”. La novità stava nella più ampia tutela offerta ai minori degli anni quattordici, nell’inasprimento della sanzione e – cosa certamente non di poco conto – nell’introduzione delle persone comunque “conviventi” tra i soggetti passivi del reato. Ed infatti anche la rubrica originaria della disposizione (”Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”) veniva modificata in “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”.
Il decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 (contenente norme per il contrasto della violenza di genere) convertito dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, inseriva all’art. 61 del codice penale (“circostanze aggravanti”) un numero 11-quinquies il cui testo prevede come aggravante comune “l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza” e abrogava conseguentemente il secondo com¬ma dell’art. 572 (dove si aggravava la pena nel caso di persona offesa minore di anni quattordici) reso inutile dall’aggravamento generale previsto in caso di reati contro minori di diciotto anni.
In seguito a queste modifiche, il testo oggi vigente dell’art. 572 del codice penale (“Maltrattamenti contro familiari e conviventi”) prevede: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente [cioè fuori dei casi di “abuso dei mezzi di correzione o di disciplina” di cui all’art. 571 c.p.], maltrat¬ta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni”
Alla condanna per il delitto di maltrattamenti commessa dai genitori consegue, ai sensi dell’art. 34 cod. pen., la sospensione e la decadenza della responsabilità genitoriale.
Lo spettro dei comportamenti sanzionati dal reato di maltrattamenti è praticamente illimitato (per¬cosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche in atti di di¬sprezzo e di offesa alla sua dignità, fatti lesivi dell’integrità anche solo morale del soggetto passivo.
Secondo la definizione fornita dal Consiglio d’Europa nel 1978, il maltrattamento “si concretizza negli atti e nelle carenze che turbano gravemente i bambini e le bambine, attentano alla loro in¬tegrità corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di un terzo”.
Nel 1999 la Consulta sulla prevenzione dell’abuso sui bambini dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha indicato la seguente definizione: “l’abuso o il maltrattamento sull’infanzia è rappresen¬tato da tutte le forme di cattivo trattamento fisico e/o affettivo, abuso sessuale, incuria o tratta¬mento negligente nonché sfruttamento sessuale o di altro genere che provocano un danno reale o potenziale alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo o alla dignità del bambino, nell’ambito di una relazione di responsabilità, fiducia o potere”.
Come sottolineato nel rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, “per maltrattamento psicologico si intende una relazione emotiva caratterizzata da ripetute e continue pressioni psico¬logiche, ricatti affettivi, indifferenza, rifiuto, denigrazione e svalutazioni che danneggiano o inibi¬scono lo sviluppo di competenze cognitivo-emotive fondamentali quali l’intelligenza, l’attenzione, la percezione, la memoria.”
Nell’ordinamento giuridico italiano né la trascuratezza né l’abuso psicologico sono previsti espres¬samente quali fattispecie specifiche di reato. I reati nei quali questi comportamenti possono rien¬trare sono oggi sparsi all’interno del codice penale in modo disordinato come per esempio, ove ve ne siano i presupposti, quello di abbandono (art. 591 c.p.), di ingiuria (art.594 c.p.), di violenza privata (art. 610 c.p.), di minaccia (art. 612 c.p.), di lesioni (nei quali ultimi rientrano i compor¬tamenti che provocano “una malattia nel corpo o nella mente” secondo la definizione che ne dà l’art. 582 c.p.).
Qui va osservato che l’abuso psicologico contro bambini e adolescenti consiste in atti omessi o commessi che vengono ritenuti psicologicamente dannosi. Tali comportamenti vengono messi in atto individualmente da persone che, per particolari caratteristiche come l’età o la condizione sociale, sono in posizione di potere rispetto al bambino. Si tratta di comportamenti che possono danneggiare anche in modo irreversibile lo sviluppo affettivo, cognitivo, relazionale e fisico del minore. L’abuso o maltrattamento psicologico include gli atti di rifiuto, terrorismo psicologico, minaccia, sfruttamento, isolamento e allontanamento del bambino dal contesto sociale e nei casi di conflittualità fra coniugi anche il mettere il figlio contro l’altro genitore. L’abuso psicologico, se perpetuato nel tempo e qualora assuma connotazioni particolarmente gravi può produrre diverse conseguenze nella crescita del bambino: scarsa autostima e assertività, incapacità di avere fiducia negli altri, instabilità o disadattamento emozionale, disturbi del sonno e inibizione del gioco.
La giurisprudenza non ha finora operò saputo cogliere se non alcuni pochi aspetti legati specifica¬mente all’abuso psicologico sui minori soprattutto affrontando il tema dell’abuso dei mezzi di cor¬rezione ma non ha quasi mai collocato l’abuso psicologico all’interno del reato di maltrattamenti.
Solo Cass. pen. Sez. VI, 23 settembre 2011, n. 36503 ha ritenuto che il delitto di maltratta¬menti può essere integrato anche da atteggiamenti nei confronti del minore che si concretizzano nel non fargli frequentare con regolarità la scuola, nell’impedirne la socializzazione, nell’impartire regole di vita tali da incidere sul suo sviluppo psichico e nel prospettargli la figura paterna come negativa e violenta. Cass. pen. Sez. VI, 13 luglio 2007, n. 38962 precisa che il reato di maltrat¬tamenti in famiglia, essendo a forma libera, può sicuramente essere integrato anche da condotte consapevolmente perturbatrici dell’equilibrio e dell’evoluzione psichica di un soggetto minore.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2019, n. 13274 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice può dare risalto alla diagnosi di sindrome da alienazione parentale formulata dai consulenti tecnici, fondata sul comportamento materno, ritenuto idoneo a generare un conflitto di lealtà nella prole, che può dare fondamento alla diagnosi di alienazione del figlio nei confronti del padre rilevando, peraltro, che al di là della scelta di una o altra classificazione scientifica, ciò che rileva è l’individuazione di condotte tendenti ad escludere l’altro genitore e sovrapporre gli ambiti dell’affettività propria a quella del minore.
A prescindere dalle obiezioni sollevate dalle parti, qualora la consulenza tecnica presenti devianze dalla scienza medica ufficiale come avviene nell’ipotesi in cui sia formulata la diagnosi di sussistenza della PAS, non essendovi certezze nell’ambito scientifico al riguardo il Giudice del merito, ricorrendo alle proprie cognizioni scientifiche (Cass. n. 11440/1997) oppure avvalendosi di idonei esperti, è comunque tenuto a verificarne il fondamento (Cass. 1652/2012; Cass. 17324/2005). Tuttavia questa Corte ha osservato che, in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgrega¬zione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione (v. Cass. n. 18817/2015, conf. Cass. 22744/2017).
In particolare nella pronuncia n. 6919/2016, questa Corte ha affermato poi il seguente principio di diritto, con riguardo ad un’ipotesi di alienazione parentale: in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una PAS (sindrome di alienazione parentale), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comporta¬menti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena. Al giudice di merito, a tal fine, può utilizzare i comuni mezzi di prova tipici e specifici della materia (incluso l’ascolto del minore) e anche le presunzioni (desumendo eventualmente elementi anche dalla presenza, laddove esistente, di un legame simbiotico e patologico tra il figlio e uno dei genitori).
L’audizione del minore è un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che lo riguardano e in partico¬lare in quelle relative all’affidamento ai genitori, salvo che tale adempimento possa essere in contrasto con gli interessi del minore stesso, con la conseguenza che il mancato ascolto non sorretto da una espressa motivazione sulla contrarietà all’interesse del minore, sulla sua superfluità o sulla assenza di discernimento del soggetto in¬teressato è fonte di nullità della sentenza, in quanto si traduce in una violazione dei principi del giusto processo e del contraddittorio.
Tribunale Milano, 11 marzo 2017
Il termine alienazione genitoriale – se non altro per la prevalente e più accreditata dottrina scientifica e per la migliore giurisprudenza – non integra una nozione di patologia clinicamente accertabile, bensì un insieme di comportamenti posti in essere dal genitore collocatario per emarginare e neutralizzare l’altra figura genitoriale; condotte che non abbisognano dell’elemento psicologico del dolo essendo sufficiente la colpa o la radice anche patologia delle condotte medesime.
Cass. civ. Sez. I, 8 aprile 2016, n. 6919 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di affidamento di figli minori, qualora il genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una PAS (sindro¬me di alienazione parentale), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice del merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia.
Cass. civ. Sez. VI, 23 settembre 2015, n. 18817 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e ma¬teriale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, non¬ché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde re¬lazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione.
Trib. Cosenza, sez. II, 29 luglio 2015 n. 778 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va disposto il collocamento di due minori per sei mesi in una struttura protetta avendo la madre dei minori “manipolato i figli allontanandoli fisicamente e psicologicamente dal padre verso cui ostentano entrambi plateali manifestazioni di rifiuto e negazione” evidenziata da una CTU in cui si descrive l’esistenza di un ‘condizionamento programmato’ della madre nei confronti dei figli teso a “logorare” la figura paterna, compresi anche i familiari [del padre] ed il posto in cui vive”. Il Tribunale mediante l’ascolto diretto dei minori ha constatato la sussistenza di un vero e proprio disturbo relazionale, avente le caratteristiche dell’alienazione parentale.
Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2015, n. 9632 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla regola dell’affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori può derogarsi se la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse del minore, con la duplice conseguenza che la pronuncia di affidamento esclusivo deve essere sorretta da una motivazione non solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero sulla manifesta carenza dell’altro genitore.
Trib. Milano Sez. IX 13 ottobre 2014 (Quotidiano Giuridico, 2014 nota di MANCUSO)
È inammissibile un accertamento tecnico d’ufficio su un minore avente ad oggetto la verifica della P.A.S. in quan¬to non inserita tra le patologie nel Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali c.d. DSM-V. La pronuncia si dimostra alquanto restrittiva non tenendo in debita considerazione il riconoscimento che la letteratura scientifica internazionale e la giurisprudenza hanno dato alla questione.
Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 2014, n. 31712 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 388 c.p., nell’ipotesi di rifiuto ad ottemperare alle disposizioni in materia di visita dei figli, è sufficiente la realizzazione di un’omissione contrastante con l’obbligo stabilito nel provvedimento giudiziale, rientrando tale comportamento omissivo antidoveroso nel concetto di “elusione” im¬piegato dal legislatore per la descrizione della ipotesi delittuosa.
Trib. Ivrea, 23 maggio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sussiste il reato ex art. 388 c.p. allorché il soggetto agente, con coscienza e volontà, non ottemperi, in assenza di giustificati motivi, agli obblighi imposti con il provvedimento dell’Autorità giudiziale in ordine alla regolamen¬tazione delle visite dell’altro genitore alla propria figlia.
Trib. Firenze Sez. II, 10 febbraio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che concerne l’affidamento di minori ed inte¬grante il reato di cui all’art. 388, comma 2, c.p. può ravvisarsi in un qualunque comportamento da cui derivi la frustrazione delle legittime pretese altrui, compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo.
Cass. pen. Sez. VI, 6 febbraio 2014, n. 17799 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di sottrazione di persone incapaci, previsto dall’art. 574 cod. pen., ha natura di reato permanente ed è caratterizzato: a) da un’azione iniziale costituita dalla sottrazione del minore; b) dalla protrazione della situazione antigiuridica mediante la ritenzione, attuata attraverso una condotta sempre attiva, perché intesa a mantenere il controllo sul minore e spesso ad utilizzare tale situazione per i fini più diversi; c) dalla possibilità, per il reo, di porre fine alla situazione antigiuridica fino a quando la cessazione di tale situazione non intervenga per sopravvenuta impossibilità o per la pronunzia della sentenza di primo grado.
Trib. Minorenni Trieste, 23 agosto 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va condannato al risarcimento dei danni a favore dell’ex partner la madre affidataria esclusiva che ostacola i contatti tra il padre detenuto e il figlio minore.
Trib. Napoli Portici, 10 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dolo, richiesto per la configurabilitàdel delitto di mancata esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di un figlio minore (art. 388, comma secondo, cod. pen.), non è integrato nel solo caso in cui ricorra un plausibile e giustificato motivo che abbia determinato l’azione del genitore affidatario a tutela esclusiva dell’interesse del minore.
L’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che riguardi l’affidamento di minori può concre¬tarsi in qualunque comportamento da cui derivi la “frustrazione” delle legittime pretese altrui, ivi compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo e quando l’esercizio delle facoltà attribuite al genitore non affidatario in via prevalente sia necessaria la collaborazione di quello prevalente.
Trib. Novara, 31 maggio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla regola dell’affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”, con la duplice conseguenza che l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non sono più in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla idoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore.
Corte d’Appello Brescia, 17 maggio 2013 (Corriere del Merito, 2013, 11, 1051 nota di SPANGARO)
La mancanza di fondamento scientifico della PAS non esclude che essa possa essere utilizzata, ai fini del pro¬cesso, per individuare un problema relazionale in situazione di separazione dei genitori, pur non assumendo i connotati di una malattia vera e propria. Infatti, l’atteggiamento del bambino che rifiuta l’altro genitore, per un patto di lealtà con il genitore ritenuto più debole, può condurlo ad una forma di invischiamento capace di produr¬re nella sua crescita non solo una situazione di sofferenza, ma anche una serie di problemi psicologici alienanti. Il punto del processo è allora stabilire se i disturbi a carico del minore siano o non riconducibile alla responsabilità del genitore convivente, in quanto generati dal suo comportamento nei confronti dell’altro genitore.
Trib. Bari Sez. I, 10 maggio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito all’imputazione per il reato p. e p. dall’art. 388 c.p. per avere la prevenuta, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, quale affidataria del minore, eluso l’esecuzione del provvedimento della Corte di Appello, il concetto di “elusione” presuppone una forma di scaltrezza, sotterfugio o raggiro che non può che manifestarsi in forma commissiva, tanto che, laddove la legge ha ritenuto sufficiente, ai fini della sanzione pe¬nale, una mera condotta omissiva, lo ha espressamente sancito. La norma in oggetto mira a tutelate non tanto l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza di ispirazione costituzionale, dell’effettività della giurisdizione. Il mero rifiuto o l’omissione di ottemperare ai provvedimenti di cui all’art. 388, comma 2°, c.p., non costituisce condotta elusiva penalmente rilevante, a meno che la natura personale delle prestazioni imposte o la natura interdittiva del provvedimento non implichino il contributo dell’obbligato all’esecuzione.
App. Campobasso, 16 aprile 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La previsione incriminatrice contemplata dall’art. 388, comma secondo, c.p. non può ritenersi integrata, in punto di elemento soggettivo, costituito dal dolo generico, nell’ipotesi in cui il genitore affidatario del minore, nell’impedire al genitore non affidatario, ricusato dal minore, il diritto di visita con lo stesso, sia stato mosso dalla necessità di tutelare l’interesse morale e materiale del minore medesimo, soggetto di diritti e non mero oggetto di finalità esecutive perseguite da altri.
Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2013, n. 7041 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei giudizi in cui sia stata esperita c.t.u. medico-psichiatrica (nella specie, allo scopo di verificare le condizioni psico-fisiche del minore e conclusasi con un accertamento diagnostico di sindrome da alienazione parentale), il giudice di merito, nell’aderire alle conclusioni dell’accertamento peritale, non può, ove all’elaborato siano state mosse specifiche e precise censure, limitarsi al mero richiamo alle conclusioni del consulente, ma è tenuto – sulla base delle proprie cognizioni scientifiche, ovvero avvalendosi di idonei esperti e ricorrendo anche alla compara¬zione statistica per casi clinici – a verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale, dovendosi escludere la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare.
Il giudice del merito, ricorrendo alle proprie cognizioni scientifiche (Cass., 14759 del 2007; Cass., 18 novembre 1997, n. 11440), ovvero avvalendosi di idonei esperti, deve verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale (Cass. 3 febbraio 2012, n. 1652; Cass., 25 agosto 2005, n. 17324). Ciò, ad esempio, nel caso in cui il CTU sostenga la presenza di una cd. PAS (sindrome di alienazione genitoriale), ripudiata dalla letteratura scientifica internazionale di maggioranza.
Cass. civ. Sez. I, 8 marzo 2013, n. 5847 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel decidere sull’affidamento il giudice, utilizzando le relazioni dei servizi specialistici della Asl in cui si effettua la diagnosi di una alienazione parentale dei figli evidenziando il danno irreparabile da essi subito per la privazione del rapporto con la madre, fa legittimamente uso del potere, attribuito al giudice dall’art. 155 sexies c.c., comma 1, di assumere mezzi di prova anche d’ufficio ai fini della decisione sul loro affidamento esclusivo alla madre. Il giudice può fondare la decisione anche su elementi concernenti il giudizio negativo circa le attitudini genitoriali del padre (desunto anche dalla reiterata condotta ostruzionistica posta in essere al fine di ostacolare in ogni modo gli incontri dei figli con la madre), dandone conto in una motivazione.
Cass. civ. Sez. I, 11 gennaio 2013, n. 601 (Foro It., 2013, 4, 1, 1193)
È inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione – per violazione di legge – avverso la sentenza di separazione giudiziale dei coniugi che aveva confermato l’affidamento esclusivo di un minore alla madre, la quale intratteneva una relazione con la convivente, in mancanza di concreti riferimenti alle ripercussioni negative per il minore stesso, sul piano educativo e della crescita, in ragione del suo inserimento in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale.
Corte europea dei diritti dell’uomo, 9 gennaio 2013, n. 25704 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Costituisce violazione dell’art. 8 della convenzione europea dei diritti dell’uomo da parte dello Stato italiano, il fatto che le autorità giudiziarie, a fronte degli ostacoli opposti dalla madre affidataria, ma anche dalla stessa figlia minorenne, a che il padre esercitasse effettivamente e con continuità il diritto di visita, non si sono impe¬gnate a mettere in atto tutte le misure necessarie a mantenere il legame familiare tra padre e figlia minore, at¬traverso un concreto ed effettivo esercizio del diritto di visita nel contesto di una separazione legale tra i genitori.
Trib. Monza, 26 novembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato p. e p. dall’art. 388 c.p. la condotta della prevenuta che, impedendo al coniuge separato di rice¬vere e tenere con se la figlia minore, eludeva l’ordinanza del Tribunale civile con la quale si attribuiva al padre il diritto di vedere la figlia, attuando comportamenti pretestuosi, volti a non consentire l’espletamento degli incon¬tri o comunque finalizzati a renderli oltremodo difficili. Nei confronti dell’imputata, tuttavia, si impone la pronun¬cia di una sentenza di assoluzione, per insussistenza dei fatti, laddove risulti dimostrato che, avendo il Tribunale lasciato gli ex coniugi sostanzialmente privi di specifiche indicazioni circa il numero dei giorni settimanali in cui la bimba poteva restare presso il padre e circa l’orario di inizio della visita di tre ore, ed avendo quest’ultimo preteso di vedere la bambina ogni volta che lo voleva, anche in orario non pomeridiano e per più di due ore, provocando uno scombussolamento nei ritmi di vita della piccola, che veniva prelevata da scuola ad ogni ora e senza regola, appare evidente come le rimostranze dell’imputata non possono configurare il reato contestato, sostanziandosi sempre in reazioni a pretese non fondate del padre.
Trib. Bari Sez. I, 23 ottobre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È imputabile per il reato p. e p. dall’art. 388 c.p. il prevenuto che eluda l’esecuzione del provvedimento del Tri¬bunale civile concernente l’affidamento della figlia, omettendo di incontrarla nei giorni stabiliti. La finalità della norma de qua non è quella di tutelare l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza di ispirazione costituzionale dell’effettività della giurisdizione. E così il mero rifiuto di ottemperare ai provvedimenti del giudice non costituisce condotta elusiva penalmente rilevante a meno che la natura personale delle prestazioni imposte o la natura interdittiva del provvedimento non implichino il contributo dell’obbligato all’esecuzione.
Trib. Roma, Sez. I, 11 ottobre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla regola dell’affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”, con la duplice conseguenza che l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non più soltanto in positivo sull’idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore.
Trib. Messina Sez. I, 8 ottobre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disposto normativo di cui all’art. 709-ter c.p.c., nella parte in cui prevede la condanna al risarcimento dei danni in favore del figlio minore e/o dell’altro genitore nei casi di gravi inadempienze, di violazioni dei doveri genitoriali ovvero di comportamenti ostacolanti le modalità dell’affidamento, introduce nell’ordinamento un’ipotesi a sé stante di c.d. danno punitivo. A sostengo di tale argomentazione milita la circostanza che nella individuazione della misura del risarcimento occorre in primo luogo guardare alla gravità della condotta del genitore inadem¬piente, anche in considerazione del fatto che i rimedi di cui all’art. 709-ter c.p.c. hanno essenzialmente finalità punitiva, e non occorre una prova specifica sulla esistenza ed entità del danno, che può considerarsi naturale conseguenza del deprecabile comportamento di uno dei genitori. Così interpretata, la previsione dell’art. 709-ter c.p.c. risulta assolvere ad una funzione sanzionatoria deterrente della condotta del genitore per evitare che nel futuro lo stesso continui a rendersi inadempiente rispetto ai propri obblighi nei confronti della prole e rispetto al contenuto dei provvedimenti.
Trib. Roma,Sez. I, 2 agosto 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso, occorre che risulti, nei confronti di uno dei genitori, una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale appunto da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore, con la conseguenza che l’esclusione della modalità dell’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale e sulla non rispondenza, quindi, all’interesse del figlio dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di affidamento.
Trib. Milano, Sez. IX, 11 giugno 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi, alla regola dell’affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse del minore, con la duplice conseguenza che l’e¬ventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non solo più in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore, e che l’affidamento condiviso non può ragionevolmente ritenersi precluso dalla mera conflit¬tualità esistente tra i coniugi, poiché avrebbe altrimenti una applicazione solo residuale, finendo di fatto con il coincidere con il vecchio affidamento congiunto.
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2012, n. 7452 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nessuna norma impone di affidare a medici piuttosto che a psicologi le consulenze tecniche riguardanti disturbi psicologici; la verifica della concreta qualificazione dell’esperto a rendere la consulenza è compito esclusivo del giudice di merito che, peraltro, nella sua decisione, ben può motivare per relationem richiamando il contenuto della consulenza tecnica di ufficio.
App. Taranto, 24 ottobre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’interesse tutelato dall’art. 388, comma secondo, c.p. non è l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì la esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione, con la conseguenza che il mero rifiuto di ottemperare al provvedimento giudiziale non costituisce, di norma, comportamento elusivo rilevante per la configurabilità del reato di cui innanzi, a meno che la natura personale delle prestazioni imposte, ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento, esigano per l’esecuzione il contributo dell’obbligato. In tali ipotesi, infatti, l’inadempimen¬to dell’obbligato contraddice di per sé la decisione giudiziale e ne pregiudica la eseguibilità ed, in particolare, ove si tratti di un provvedimento prescrittivo di prestazioni personali o comunque di un comportamento agevo¬latore dell’obbligato, il rifiuto di adempiere non si esaurisce in una mera inottemperanza all’ordine del Giudice, ma tende a impedirne o comunque a ostacolarne l’esecuzione, incidendo così sull’interesse all’effettività della giurisdizione tutelato dalla norma incriminatrice.
Trib. Novara,21 ottobre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La normativa di cui alla legge 54/2006 prevede l’affidamento dei figli minori ad entrambi genitori quale regola “generale”, derogabile solo laddove tale affidamento sia contrario agli interessi dei minori e ciò in considerazione del primario interesse dei figli a continuare ad avere stabili rapporti sia con il padre che con la madre, i quali devono entrambi farsi carico degli oneri inerenti alla prole. Il legislatore, tuttavia, non ha tipizzato le circostanze ostative all’affidamento condiviso, rimettendo così la loro individuazione al giudice del merito, che adotterà la relativa decisione con provvedimento motivato, tenendo conto delle peculiarità del caso concreto. Conseguente¬mente, secondo l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità, alla regola del affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”, con la duplice conseguenza che l’eventuale pronunzia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazio¬ne non solo più in positivo sulla idoneità dei genitori affidatario, ma anche in negativo sull’inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore.
Cass. pen. Sez. VI, 23 settembre 2011, n. 36503 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’oggetto della tutela penale nel reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. non è rappresentato soltanto dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla tutela dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma.
Trib. Roma, 13 settembre 2011 (Famiglia e Diritto, 2012, 8-9, 817 nota di LONGO)
La madre, separata dal coniuge e collocataria del figlio, la quale, per diversi mesi, impedisce senza giustificato motivo al padre di frequentare il figlio stesso, è tenuta al risarcimento del danno non patrimoniale ex artt. 2043 e 2059 c.c.a favore del padre per ingiusta lesione del diritto ad avere rapporti con la prole protetto dagli artt. 2 e 30 Cost..
Trib. Arezzo, 12 settembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il mero rifiuto di ottemperare ai provvedimenti giudiziali previsti dall’articolo 388, co. 2, c.p., non costituisce comportamento elusivo penalmente rilevante, quando il provvedimento violato abbia ad oggetto obblighi la cui esecuzione coattiva non richieda necessariamente un intervento agevolatore del soggetto obbligato. Affinché si configuri il reato in considerazione, infatti, è necessario che l’obbligo imposto sia coattivamente ineseguibile, ri¬chiedendo la sua attuazione la necessaria collaborazione dell’obbligato, ciò in quanto l’interesse tutelato dall’art. 388 c.p. non è l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione.
Trib. Novara, 21 luglio 2011 (Famiglia e Diritto, 2012, 6, 612 nota di DE SALVO)
In ordine alla natura del provvedimento di condanna al risarcimento del danno nei confronti del minore del genitore inadempiente agli obblighi inerenti il diritto di visita, deve condividersi l’indirizzo interpretativo che ricostruisce tale istituto in termini di danno punitivo, riconducibile alla categoria delle c.d. astreintes, con la conseguenza che la valutazione del giudice prescinde dall’accertamento dell’effettiva sussistenza degli elementi richiesti dall’art. 2043 c.c.e deve essere improntata a criteri equitativi.
Trib. Rieti, 15 giugno 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elusione dolosa dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che riguardi l’affidamento di minori può concretarsi in qualsiasi comportamento da cui derivi la “frustrazione” delle legittime pretese altrui, compreso il mero atteggiamento omissivo. Tuttavia, nell’ipotesi in cui la frustrazione del diritto dell’altro genitore non derivi dalla violazione di un provvedimento del giudice civile, bensì dalla violazione dell’art. 143, comma 2, c.c., non è configurabile il delitto di cui all’art. 388, comma 2, c.p..
App. Milano Sez. II, 9 giugno 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È imputabile per il reato p. e p. dall’art. 388 c.p. la prevenuta che, con più azioni esecutive del medesimo dise¬gno criminoso ed in tempi diversi, omettendo di far trovare in casa i figli per le preannunciate ferie estive con il padre, ostacolava il diritto di visita di quest’ultimo, contravvenendo ad un ordine del giudice. Il comportamento del genitore separato che ostacoli o non si attivi affinché il minore maturi un atteggiamento psicologico di favore nei confronti del genitore non affidatario, assume rilevanza penale. L’unico motivo idoneo a giustificare l’omessa esecuzione del provvedimento del giudice, risiede nell’esigenza di dover tutelare l’interesse del minore in una particolare situazione di emergenza che per i tempi ed i modi in cui si è manifestata, non sia stato possibile fron¬teggiare tempestivamente attraverso la sollecitazione della modifica del provvedimento giudiziale.
Cass. pen. Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 26810 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’esclusione del dolo, quale elemento soggettivo del reato di cui all’art. 388, comma 2, c.p. occorre dimostrare che il genitore affidatario, nell’impedire al genitore non affidatario il diritto di visita ricusato dal figlio minore, è stato concretamente mosso dalla necessità di tutelare l’interesse morale e materiale del minore stes¬so. (Nel caso concreto si è, dunque, annullata la sentenza gravata avendo la stessa escluso la sussistenza del predetto elemento, sebbene lo stesso era, invero, ravvisabile, anche se in forma attenuata, dal momento che non vi era stata alcuna attiva e doverosa collaborazione da parte del genitore affidatario alla riuscita delle visite e degli incontri con l’altro genitore stabiliti con provvedimento del giudice civile).
Trib. Trento, 1 aprile 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disposto normativo di cui all’art. 614-bis c.p.c. introdotto dalla legge n. 69 del 2009, in tema di attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare, consente al Giudice di fissare, con il provvedimento di condanna, su istanza di parte e salva la ipotesi in cui a misura appaia manifestamente iniqua, una misura di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nella esecuzione del prov¬vedimento medesimo. La norma, in particolare, individua la propria ratio nell’esistenza di una serie di obbliga¬zioni di facere caratterizzate dalla presenza di un nucleo di incoercibilità della prestazione, cioè da una quota di prestazione non attuabile mediante i mezzi di esecuzione forzata previsti nell’ordinamento, richiedendosi una non surrogabile attività di collaborazione o cooperazione ad opera del soggetto obbligato o di un soggetto terzo.
Trib. Pistoia 13 gennaio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla regola dell’affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”, con la duplice conseguenza che l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non solo più in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore.
Cass. civ. Sez. VI, 2 dicembre 2010, n. 24526 (Nuova Giur. Civ., 2011, 5, 1, 412, nota di BUGETTI)
Alla regola dell’affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”, con la duplice conseguenza che l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non solo più in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore, e che l’affidamento condiviso non può ragionevolmente ritenersi precluso dalla oggettiva distanza esistente tra i luoghi di residenza dei geni¬tori, potendo detta distanza incidere soltanto sulla disciplina dei tempi e delle modalità della presenza del minore presso ciascun genitore.
Cass. pen. Sez. feriale, 14 settembre 2010, n. 34024(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non integra il reato di elusione del provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento dei figli la condotta del coniuge separato che – quale affidatario dei figli minori, e obbligato a far sì che l’altro coniuge possa incon¬trare e tenere con sé i figli nei giorni e nelle settimane predeterminate nel provvedimento giudiziale – trasferisca in altra città la residenza propria e dei figli, ma astenendosi da specifici contegni di impedimento all’esercizio del diritto di questi di far visita e incontrare i figli.
Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12308 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La decisione sull’affidamento dei figli è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice del merito e la regola dell’affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori, prevista dall’art. 155 c.c., è derogabile quando la sua applicazione risulti pregiudizievole nell’interesse del minore (Cass. 26587/2009, Cass.16593/2008).
Dunque, laddove la prole versi in una situazione di gravissimo disagio psicologico, per effetto dell’aspra conflit¬tualità esistente fra i coniugi, il giudice può disporne l’affidamento ai servizi sociali, al fine di assicurare al minore condizioni di vita consone alla sua età ed alle sue risorse psichiche.
Cass. pen. Sez. VI, 11 maggio 2010, n. 33719 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che riguardi l’affidamento di minori può concre¬tarsi in un qualunque comportamento da cui derivi la “frustrazione” delle legittime pretese altrui, ivi compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo. (Fattispecie in cui il genitore affidatario, cambiando continuamente il luogo di dimora senza darne preavviso al marito separato, gli aveva di fatto impedito l’esercizio del diritto di visita e di frequentazione dei figli).
Cass. pen. Sez. III, 7 aprile 2010, n. 24294 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di minori si sostanzia in qualunque comportamento che ponga nel nulla o aggiri le finalità cautelari, il cui contenuto ed i relativi obbli¬ghi devono essere valutati non in termini letterali ma alla luce dell’interesse del minore che vi è sotteso e che ne costituisce la ragion d’essere. (Nella specie si trattava di un’ordinanza del Tribunale dei Minorenni che imponeva al genitore il divieto di non vedere il figlio minore).
Cass. pen. Sez. VI, 15 ottobre 2009, n. 42370 (Foro It., 2010, 3, 1, 130)
Risponde del delitto di sottrazione di persona incapace il genitore che, senza consenso dell’altro, porti via con sé il figlio minore, allontanandolo dal domicilio stabilito, ovvero lo trattenga presso di sé, quando tale condotta – posta in essere con la coscienza e la volontà di sottrarre il minore contro la volontà dell’altro genitore – deter¬mini un impedimento all’esercizio delle diverse manifestazioni della potestà dell’altro genitore, quali le attività di assistenza e di cura, la vicinanza affettiva, la funzione educativa.
App. Napoli, 19 marzo 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione coniugale, il principio generale previsto in merito all’affidamento dei figli è quello dell’affido condiviso, cui può derogarsi solo nell’ipotesi in cui esso si dimostri pregiudizievole per l’interesse dei figli minori. La mera conflittualità tra i due coniugi non può, dunque, costituire una motivazione valida perché sia disposto l’affido esclusivo ad uno dei coniugi. In tal senso, nel caso concreto, si è ritenuta erronea la decisione del Giudice di prime cure che, invece, aveva optato per l’affidamento esclusivo, in ragione dell’esclusiva conflit¬tualità tra i coniugi e della loro lontananza.
Cass. pen. Sez. VI, 11 giugno 2009, n. 32846 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che concerna l’affidamento di minori può sostan¬ziarsi in un qualunque comportamento da cui derivi la frustrazione delle legittime pretese altrui, ivi compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo.
Trib. Verona, 11 febbraio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il totale disinteresse manifestato dal padre nei confronti della figlia è presupposto per l’applicazione delle san¬zioni previste dall’art. 709-ter, 2° co., c.p.c., ed in particolare di quelle di cui ai numeri 2 e 3 (che introducono nel nostro ordinamento la categoria dei c.d. “danni punitivi”, con finalità, cioè, non compensative, ma deterrenti e sanzionatorie).
Trib. Salerno Sez. I, 22 dicembre 2009 (Famiglia e Diritto, 2010, 10, 924 nota di VULLO)
Il provvedimento di condanna di uno dei genitori a risarcire i danni all’altro – provvedimento compreso tra quelli che il giudice può pronunciare ai sensi dell’art. 709-ter c.p.c. – ha natura risarcitoria in senso proprio.
Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2009, n. 26587 (Giur. It., 2010, 8-9, 1797)
Affinché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso occorre che risulti, nei confronti di uno dei genito¬ri, una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore – come nel caso in cui il genitore non affidatario si sia reso totalmente inadempiente all’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento in favore dei figli minori ed abbia esercitato in modo discontinuo il suo diritto di visita (in quanto tali comportamenti sono sintomatici della sua inidoneità ad affrontare quelle maggiori responsabilità che l’affido condiviso comporta) – con la conseguenza che l’esclusione della modalità dell’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa del genitore e sulla non rispondenza all’interesse del figlio dell’adozione del modello legale prioritario di affidamento.
Trib. Pavia Sez. I, 23 ottobre 2009 (Famiglia e Diritto, 2010, 2, 149 nota di ARCERI)
L’art. 709-ter c.p.c. prevede che in caso di gravi inadempienze o di atti che arrechino pregiudizio al minore o ne ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, il giudice possa disporre il risarcimento del danno a carico di uno dei genitori e nei confronti del minore. Tale previsione configura una ipotesi di responsa¬bilità ordinaria ex art. 2043 c.c. con risarcimento del danno non patrimoniale arrecato dal genitore al minore.
Cass. pen. Sez. VI, 5 marzo 2009, n. 27995 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra una condotta elusiva dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di minori anche il mero rifiuto di ottemperarvi da parte del genitore affidatario, quando l’attuazione del provvedi¬mento richieda la sua necessaria collaborazione. (Fattispecie in cui è stato impedito all’altro genitore di trascor¬rere con il figlio il periodo di vacanza prestabilito).
Trib. Napoli Sez. IV, 15 ottobre 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 388 c.p. basta rilevare, da una parte, che la norma non fa distinzione tra provvedimenti di giurisdizione contenziosa e provvedimenti di giurisdizione volontaria, in quanto entrambi sono tutelati penalmente, quando riguardano l’affidamento, per ragioni di educazione, cura e custodia dei figli minori, e dall’altra, che l’elusione dell’esecuzione del provvedimento del Giudice Civile che concerne l’affidamento dei figli minori può connettersi ad un qualsiasi atteggiamento da cui derivi la frustrazione delle legittime pretese dell’altro coniuge, cui preclude la possibilità di esercitare il diritto di incontrare ed incidere sulla educazione e le scelte di vita del figlio.
Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2008, n. 19065 (Fam. Pers. Succ., 2008, 10, 843)
In sede di separazione personale dei coniugi o di divorzio, in caso di inidoneità dei genitori l’adozione di un prov¬vedimento di affidamento – condiviso o esclusivo – ai medesimi dei figli minori contrasta con l’interesse di questi ultimi, rendendosene pertanto necessario l’affidamento a terzi.
Cass. pen. Sez. V, 8 luglio 2008, n. 37321 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La condotta di uno dei genitori integra il reato di cui all’art. 574 cod. pen. qualora, contro la volontà dell’altro, egli sottragga il figlio per un periodo di tempo rilevante, impedendo l’altrui esercizio della potestà genitoriale e allontanando il minore dall’ambiente d’abituale dimora.
Cass. civ. Sez. I, 19 giugno 2008, n. 16593 (Nuova Giur. Civ., 2009, 1, 1, 68, nota di MANTOVANI)
Perché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso, occorre che risulti, nei confronti di uno dei geni¬tori, una sua condizione di manifesta carenza o di inidoneità educativa, o comunque tale da rendere quell’affi¬damento in concreto pregiudizievole per il minore. Ne consegue che l’esclusione della modalità dell’affidamento condiviso dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affida¬tario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale e sulla non rispondenza, quindi, all’interesse del figlio, dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di affidamento.
Nel quadro della nuova disciplina relativa ai “provvedimenti riguardo ai figli” dei coniugi separati, di cui ai ci¬tati articoli 155 e 155-bis del codice civile, come riscritti dalla legge n. 54 del 2006, l’affidamento “condiviso” (comportante l’esercizio della potestà genitoriale da parte di entrambi ed una condivisione, appunto, delle deci¬sioni di maggior importanza attinenti alla sfera personale e patrimoniale del minore) si pone non più (come nel precedente sistema) come evenienza residuale, bensì come regola; rispetto alla quale costituisce, invece, ora eccezione la soluzione dell’affidamento esclusivo. Alla regola dell’affidamento condiviso può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”. Non avendo, peraltro, il legislatore ritenuto di tipizzare le circostanze ostative all’affidamento condiviso, la loro individuazione resta rimessa alla decisione del giudice nel caso concreto da adottarsi con “provvedimento motivato”, con riferimento alla peculiarità della fattispecie che giustifichi, in via di eccezione, l’affidamento esclusivo. L’affidamento condiviso non può ragione¬volmente ritenersi comunque precluso, di per sé, dalla mera conflittualità esistente fra i coniugi, poiché avrebbe altrimenti una applicazione, evidentemente, solo residuale, finendo di fatto con il coincidere con il vecchio affi¬damento congiunto. Occorre viceversa, perché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso, che risulti, nei confronti di uno dei genitori, una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale appunto da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore. Per cui l’esclusione della modalità dell’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale e sulla non rispondenza, quindi, all’interesse del figlio dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di affidamento.
Trib. Reggio Emilia Sez. I, 6 novembre 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla visita attribuito ad un coniuge assume altresì la connotazione di dovere anche nei confronti dell’altro coniuge; deve pertanto ravvisarsi una lesione del diritto di quest’ultimo qualora il mancato rispetto del regime di affidamento e visita da parte di un genitore, per la sua gravità, per la sua dolosa reiterazione e per la sua diretta incidenza anche sulla vita dell’altro coniuge, arrechi direttamente un pregiudizio a quest’ultimo deter¬minandone l’impossibilità o la grave difficoltà ad organizzare la propria vita in assenza di quel supporto che la regolamentazione della visita intendeva dare. Il danno deve essere commisurato, anzitutto, alla gravità delle violazioni commesse. Ove si ritenga giustificato, nel caso concreto, il ricorso al rimedio risarcitorio, la decisione non può prescindere dall’accertamento concreto del verificarsi di un pregiudizio, non potendo ritenersi conforme ai principi la configurazione di un “danno in re ipsa”, sussistente per il solo fatto della violazione. Il pregiudizio risarcibile può essere anche di carattere non patrimoniale, a sensi dell’art. 2059 c.c..
Cass. pen. Sez. Unite, 27 settembre 2007, n. 36692 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il mero rifiuto di ottemperare ai provvedimenti giudiziali previsti dall’art. 388 comma 2 c.p. non costituisce comportamento elusivo penalmente rilevante, a meno che la natura personale delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento esigano per l’esecuzione il contributo dell’obbligato. Infatti l’interesse tutelato dal secondo come dal primo comma dell’art. 388 c.p. non è l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì; l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione.
Poiché l’interesse tutelato dal comma 2 dell’articolo 388 c.p., come quello tutelato dal comma 1 dello stesso articolo, non è l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione, il mero rifiuto di ottemperare al provvedimento giudiziale non costituisce, di norma, comporta¬mento “elusivo” rilevante per la configurabilità del reato di cui all’articolo 388, comma 2, c.p., a meno che la natura personale delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento esigano per l’esecuzione il contributo dell’obbligato. Solo in questi casi, infatti, l’inadempimento dell’obbligato contraddice di per sé la decisione giudiziale e ne pregiudica l’eseguibilità: in particolare, ove si tratti di un provvedimento prescrittivo di prestazioni personali o comunque di un comportamento agevolatore dell’obbligato, il rifiuto di adempiere non si esaurisce in una mera inottemperanza all’ordine del giudice, ma tende ad impedirne o co¬munque ad ostacolarne l’esecuzione, incidendo così sull’interesse all’effettività della giurisdizione tutelato dalla norma incriminatrice; mentre, ove si tratti di un provvedimento interdittivo (obbligo di non fare), la violazione dell’obbligo di astensione priva immediatamente di effettività la decisione giudiziale, che risulta appunto elusa nella sua esecuzione, perché contraddetta oltre che inadempiuta (da queste premesse, in una vicenda relativa all’elusione dell’esecuzione di un’ordinanza possessoria con la quale il giudice civile aveva ingiunto all’imputata la restituzione agli istanti di un’area pertinenziale ad un magazzino di loro proprietà, indebitamente occupata, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna, per insussistenza del fatto, sul rilievo che la condotta incriminata si era sostanziata nella mera inottemperanza al “dictum” giudiziale).
App. Firenze, 29 agosto 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il genitore che, in violazione delle statuizioni del giudice del divorzio, impedisca la frequentazione tra il figlio minore e l’altro genitore, e che in tal modo arrechi nocumento alla corretta crescita della personalità del minore e leda il diritto dell’altro genitore al rapporto con il figlio, va condannato, nell’ambito del procedimento ex art. 709- ter c.p.c., al risarcimento, in favore del figlio e dell’altro genitore, del solo danno non patrimoniale, individuato “in re ipsa” e quantificato in via equitativa.
Cass. pen. Sez. VI, 13 luglio 2007, n. 38962 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia, essendo a forma libera, può sicuramente essere integrato anche da con¬dotte consapevolmente perturbatrici dell’equilibrio e dell’evoluzione psichica di un soggetto minore.
Cass. civ. Sez. III, 26 giugno 2007, n. 14759 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Non è preclusa al giudice di merito la possibilità di utilizzare proprie conoscenze tecniche o scientifiche che non rientrano nella comune esperienza per la valutazione dei fatti di causa. E’ invero pacifico, in giurisprudenza che il potere di nomina del consulente tecnico, in quanto esercizio di una facoltà concessa al giudice (e da questo esercitabile di ufficio o su istanza di parte) per integrare le conoscenze tecniche che, non rientrando nelle nozioni di comune esperienza, egli non ha il dovere di conoscere e di cui, invece, il consulente è dotato, non preclude affatto al giudice la possibilità di avvalersi, oltre che delle massime di esperienza, che ha il dovere di conoscere, siccome patrimonio comune del cd, sapere laico, anche delle conoscenze tecniche e specialistiche di cui sia per avventura in possesso o delle quali acquisisca direttamente il possesso attraverso studi o ricerche personali (sent. n. 3891 del 27/11/1974; sent. n. 3247 del 25/10/1972; sent. n. 11440 del 18-11-1997). Tale conclusione non è contraddetta dal principio che vincola il giudice ad attenersi ai fatti ed alle allegazioni di parte (il giudice deve decidere iusta alligata et probata) perché tale principio si riferisce solo alla conoscenza privata dei fatti storici che non rientrino nella categoria dei fatti notori, e non anche al sistema generale delle conoscenze peritali come è inequivocamente dimostrato dalla possibilità, generalmente riconosciuta al giudice, di dissentire, con adeguata motivazione, dalle conclusioni del perito anche sulla base di teorie non prospettate dalla parti e perciò tratte dal bagaglio culturale del giudice o da suoi studi personali (sent. 18-11-1997 n. 11440; sent. 18 ottobre 1988 n. 5665; sent. 13 gennaio 1983 n. 245). Il principio è stato affermato in una vicenda in cui si addebitava al giudice di merito di avere acriticamente recepito le conclusione del consulente tecnico di ufficio (in tema di nesso causale tra un intervento chirurgico e lesioni riportate dal paziente) addirittura integrandole con argomenti tecnici che sfuggono alla competenza di un magistrato e perciò arrogandosi poteri che non competono al giudice, cui, per la soluzione di questioni di carattere tecnico o per la interpretazione di elementi di fatto comprensibili solo ad uno specialista, può riconoscersi esclusivamente il potere-dovere di avvalersi di un esperto formulando i quesiti necessari.
Trib. Messina 5 aprile 2007 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
L’art. 709-ter c.p.c., nei punti nn. 2 e 3, prevede un tipo di risarcimento dei danni che rientra nell’ambito dei “punitive damages”, aventi natura sanzionatoria. Il giudice istruttore può emanare tutti i provvedimenti previsti da tale disposizione, compresi quelli sanzionatori. Il risarcimento del danno previsto dai punti 2 e 3 dell’art. 709 ter c.p.c. costituisce una forma di “puntivedamages” ovvero di sanzione privata, non riconducibile al paradigma degli artt. 2043 e 2059 c.c.. Non è ostativa l’osservazione che il nostro sistema giuridico non conosce la categoria dei danni punitivi, perché la legge n. 54/2006 in tema di affidamento recepisce largamente l’esperienza anglo¬sassone e nordamericana e di conseguenza ben può introdurre un “quid novum”, segnatamente quella condanna al risarcimento del danno che non è diretta a compensare ma a punire, al fine di dissuadere (“to deter”) chi ha commesso l’atto illecito dal commetterne altri. Si tratta di un sistema di poteri di coercizione, volti a rendere il provvedimento di affidamento attuale e in ultima analisi a realizzare l’interesse del minore a conservare un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori.
Trib. Vallo della Lucania, 7 marzo 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 709-ter c.p.c. – nel prevedere in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore o impediscano il corretto svolgimento dell’affidamento condiviso una sanzione irrogabile per il compor¬tamento lesivo posto in essere all’interno del nucleo familiare – ha introdotto nel nostro ordinamento una figura di danni c.d. punitivi derivanti dall’esperienza dell’ordinamento giuridico statunitense, i quali svolgono la chiara funzione pubblicistica della deterrenza e della punizione.
Cass. pen. Sez. VI, 6 ottobre 2005, n. 41003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora in sede di separazione fra i coniugi il giudice civile abbia disposto l’affidamento dei figli minori alla madre con la possibilità per il padre di incontrarli periodicamente, l’allontanamento della madre dal luogo di residenza nei giorni concordati per gli incontri integra il reato di cui all’ art. 388 cod. pen. senza che a tale scopo abbia rilevanza che tale allontanamento fosse stato preventivamente annunciato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 agosto 2005, n. 17324 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Secondo il consolidato insegnamento di questa Corte Suprema (v., ex plurimis, Cass. nn. 751/1998, 225/2000, 3519/2001, 16392/2004), le valutazioni del CTU – alle quali il giudice di merito abbia aderito – possono essere censurate in sede di legittimità solo per vizi logico- formati che si concretino in una palese devianza dalle nozioni della scienza medica “(la cui fonte va indicata)…”, o per affermazioni illogiche o “scientificamente errate”. Ma la ricorrente, nel censurare, essa sì apoditticamente, i riferimenti scientifici della relazione del CTU, si guarda bene dall’indicare le “fonti”, che indicherebbero la “palese devianza” della predetta relazione dalle “nozioni della scienza medica”, limitandosi a mere considerazioni dell’Azienda, neppure sorrette da critiche di consulenti di parte medico-legali, che si traducono in una ‘inammissibile critica del convincimento del giudice di merito che si sia fondato sulla consulenza tecnica”.
Trib. Roma, 30 maggio 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La previsione penale dell’articolo 388, comma 2, del c.p. è posta a tutela dell’interesse del minore a vedere sal¬vaguardata la relazione con entrambi i genitori.
Il reato di cui all’articolo 388, comma 2, del c.p. è integrato solo qualora emerga un rifiuto da parte dell’altro genitore di consegnare il bambino secondo i tempi e le modalità stabilite, che deve assumere carattere conti¬nuativo e sistematico, in modo da porsi in contrasto con l’interesse del minore e integrare il concetto di elusione previsto dalla fattispecie.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2005, n. 9801 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché i doveri che derivano dal matrimonio hanno natura giuridica, la violazione di essi che si traduca in con¬dotte di intrinseca gravità tale da configurare aggressione ai diritti fondamentali della persona (fra i quali rientra il diritto alla sessualità) fa sorgere il diritto dell’altro coniuge al risarcimento del danno patrimoniale e non pa¬trimoniale, senza che possa ritenersi che la violazione di siffatti obblighi trovi la propria sanzione nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quali la separazione, il divorzio, l’addebito della separazione, l’assegno di divorzio, ecc. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda risarcitoria proposta contro un coniuge che prima delle nozze aveva taciuto all’altro la propria incapacità fisica a intrattenere normali rapporti sessuali, precisando che l’azione non era preclusa dalla mancata proposizione della domanda ex art. 129 bis c.c.).
Trib. Monza Sez. IV, 5 novembre 2004 (Danno e Resp., 2005, 8-9, 851 nota di RAMACCIONI)
Ha diritto al risarcimento del danno il genitore non affidatario che non aveva potuto esercitare per lungo tempo il diritto di visita al figlio per effetto, oltre che di problemi personali dello stesso non affidatario, delle condotta ostruzionistica del genitore affidatario.
Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2004, n. 37118 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che concerna l’affidamento di minori può con¬nettersi ad un qualunque comportamento da cui derivi la frustrazione delle legittime pretese altrui, compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo. Ne consegue la rilevanza penale della condotta del genitore affidatario il quale, esternando al figlio un atteggiamento di rifiuto a proposito degli incontri con il genitore separato, non si attivi affinché il minore maturi un atteggiamento psicologico favorevole allo sviluppo di un equilibrato rapporto con l’altro genitore. (Nella specie la Corte ha per altro rilevato la dipendenza dell’atteggiamento di rifiuto del minore dalla forte conflittualità espressa dal genitore affidatario nei confronti del coniuge, escludendo per tale ragione che potesse rilevare quale giustificato motivo per il comportamento dello stesso affidatario, pure impron¬tato ad un formale rispetto delle prescrizioni giudiziali).
Cass. pen., Sez. feriale, 12 settembre 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rifiuto del minore di vedere il padre non esonera la madre dal dovere di adottare i comportamenti strettamente indispensabili a consentire l’esercizio effettivo del diritto di visita al padre, non fornendo sul piano materiale e su quello del rapporto con la figlia minore, quell’apporto minimo in termini di coordinamento e cooperazione che
è sempre necessario per garantire l’esecuzione secondo buona fede (id est: la non elusione) dei provvedimenti del giudice civile concernenti i minori.
La mancata esecuzione dolosa del provvedimento del giudice in tema di affidamento dei minori richiede una condotta libera ed è sufficiente ad integrare la previsione criminosa il semplice dolo generico e, cioè, la coscienza e la volontà di disobbedire al provvedimento del giudice.
Cass. pen. Sez. VI, 4 aprile 2003, n. 25899 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di mancata esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di un figlio minore, pur essendo il genitore affidatario obbligato a sensibilizzare ed educare i figli a superare eventuali resistenze, determinate dalla crisi familiare, e a coltivare il rapporto affettivo col genitore non affidatario, tut¬tavia l’effettiva operatività di tale linea di condotta va sempre rapportata alla situazione concreta che l’agente si trova, di volta in volta, ad affrontare, per verificare se il comportamento tenuto integri o no, anche sotto il profilo soggettivo, l’elusione del provvedimento giudiziario de quo. (Nel caso di specie la Cassazione ha escluso la configurabilità del reato ex art. 388 c.p. a carico di una mamma per non aver incoraggiato le due figliolette a superare le loro resistenze ad uscire col padre solo due settimane dopo la formalizzazione della separazione).
Non risponde del delitto di dolosa inesecuzione dei provvedimenti del giudice la madre, affidataria della figlia minore, la quale nel giorno prefissato non la consegni al padre, a causa dell’ostinato rifiuto della figlia stessa.
Cass. pen. Sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 20950 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 574 c.p. configura un reato contro la famiglia, plurioffensivo in quanto lede non soltanto il diritto di chi esercita la patria potestà, ma anche quello del figlio a vivere secondo le indicazioni e determinazioni del genitore stesso. Ed infatti il reato si commette anche disponendo del minore in contrasto con l’autorità di chi esercita la potestà di genitore su di lui e con i connessi poteri di custodia e di vigilanza, conducendolo o trattenendolo in luogo non autorizzato, senza il consenso, espresso o tacito, dei genitori.
Cass. pen. Sez. VI, 4 marzo 2002, n. 11415 (Diritto e Giustizia, 2002, f. 17, 44 nota di FERRARI)
Commette il delitto di cui all’art. 574 c.p. il genitore che impedisca all’altro genitore di esercitare la potestà genitoriale, sia portando con sè il minore, sia impedendo all’altro di vederlo.
Trib. Roma, 13 giugno 2000 (Dir. Famiglia, 2001, 209)
Qualora il coniuge/genitore separato (o divorziato) ed affidatario della prole impedisca costantemente, continua¬tivamente e per lungo tempo, senza alcun vero, adeguato motivo, al genitore non affidatario di visitarla e di per¬manere con essa, malgrado questi abbia esperito ogni mezzo per instaurare e mantenere con i figli il necessario e doveroso rapporto parentale ed abbia sempre adempiuto all’obbligo di mantenimento, la condotta del genitore affidatario, riconducibile, peraltro, all’art. 388 c.p., non può non arrecare al genitore non affidatario danni morali e biologici di permanente, non trascurabile rilevanza (c.d. micro-permanente invalidità), danni risarcibili ex artt. 1226, 2043, 2057, 2059 e 2727 c.c. Ai fini della loro quantificazione monetaria, va utilizzata, come termine di riferimento, la tabella indicativa delle percentuali di invalidità (ex art. 2, L. n. 18 del 1980, nonché ex decreto Ministero della sanità D.M. 25 luglio 1980), con riguardo specifico ai casi di micro-permanente invalidità fisio-psichica, non incidente sulla capacità lavorativa del soggetto leso. In ogni caso, qualora dalla condotta di cui sopra del genitore affidatario abbia a derivare anche alla prole un danno certo e non indifferente, il genitore non affidatario, privo di “legitimatio ad processum”, non può chiedere per la propria prole alcun risarcimento, ritenuto che su quest’ultima esercita in via esclusiva la potestà parentale il genitore affidatario e che, sussistendo un palese conflitto di interesse, è necessaria la nomina di un curatore speciale. (Nella specie, il figlio era apparso con certezza gravato da una lacerante situazione di incertezza esistenziale e da un profondo, pernicioso conflitto interiore, combattuto, com’era, tra la paura di “perdere la madre” e la necessità di “conoscere il padre”).
Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 1998, n. 317 (Famiglia e Diritto, 1998, 3, 275)
In tema di provvedimenti relativi alla prole, conseguenti alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, ed anche in base ai principi sanciti dalla convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con l. n. 176 del 1991, la circostanza che un figlio minore, divenuto ormai adolescente e perfettamente consa¬pevole dei propri sentimenti e delle loro motivazioni, provi nei confronti del genitore non affidatario sentimenti di avversione o, addirittura, di ripulsa – a tal punto radicati da doversi escludere che possano essere rapidamente e facilmente rimossi, nonostante il supporto di strutture sociali e psicopedagogiche – costituisce fatto idoneo a giustificare anche la totale sospensione degli incontri tra il minore stesso ed il coniuge non affidatario. Tale so¬spensione può essere disposta indipendentemente dalle eventuali responsabilità di ciascuno dei genitori rispetto all’atteggiamento del figlio ed indipendentemente anche dalla fondatezza delle motivazioni addotte da quest’ul¬timo per giustificare detti sentimenti, dei quali vanno solo valutate la profondità e l’intensità, al fine di prevedere se disporre il prosieguo degli incontri con il genitore avversato potrebbe portare ad un superamento senza gravi traumi psichici della sua animosità iniziale ovvero ad una dannosa radicalizzazione della stessa.