Tutela del possesso sulla casa coniugale nei confronti del terzo proprietario.

TRIBUNALE DI RAVENNA
Il Collegio, in camera di consiglio, composto dai magistrati
Dott. ROBERTO SERENI LUCARELLI – Presidente
Dott. ALESSIA VICINI – Giudice
Dott. ALESSANDRO FAROLFI – Giudice rel.
nei procedimenti ex art. 669 terdecies c.p.c. riuniti al N.1839/2016 R.G.
promosso da
I. s.r.l. ,
B. G.,
-RECLAMANTIcontro
G. F.,
-RESISTENTEAvverso
provvedimento possessorio ex art. 703 c.p.c. emesso in data
30/04/2016
A scioglimento della riserva che precede,
Osserva
1.
La società I. reclama il provvedimento in epigrafe rilevando che la
stessa è proprietaria dell’immobile posto in Faenza, Via____, già concesso in
godimento gratuito al sig. G. B., coniuge di G. F., e con pieno diritto di
riottenerne il godimento esclusivo dopo che, con verbale di mediazione
positivamente raggiunto, G. B. ha riconosciuto di non avere altro titolo per
continuare a godere del bene ed acconsentito alla sua restituzione in favore
della stessa reclamante.
Secondo la predetta società, l’assegnazione di detta casa alla sig.ra G.,
operata dal giudice della separazione in data 19/11/2015, dovrebbe ritenersi
irrilevante ed essendo venuto meno il titolo di godimento di quest’ultima,
neppure la stessa potrebbe fruire della invocata e concessa tutela possessoria.
1
IL CASO.it
Da qui la richiesta di revoca dell’ordinanza 30/04/2016 con cui è stata
disposta la reintegra della sig.ra G. e dei figli minori nel possesso
dell’immobile, disponendo altresì la rimessione in pristino dello stato dei
luoghi.
Con parallelo reclamo, anche il sig. B. G., contesta il citato
provvedimento di reintegra possessoria, ritenendo non dimostrato un presunto
consilium fraudis fra l’esponente e la I. s.r.l. e l’ingiustizia della disposta
condanna alle spese della prima fase cautelare, in solido con la predetta
società.
Si è costituita la sig.ra G. F. in entrambi i procedimenti di reclamo,
chiedendone il rigetto, mentre gli stessi all’udienza del 06/07/2016 sono stati
riuniti, in base a quanto dispone l’art. 335 c.p.c.
2.
Si deve iniziare la trattazione, in ordine logico-giuridico, dal reclamo
proposto dalla I. s.r.l. A tale riguardo, pur con tutte le cautele imposte da una
valutazione prima facie e limitata alla dimensione possessoria e fattuale della
controversia, senza alcun pregiudizio per un eventuale merito petitorio,
occorre rilevare come il tema della tutela possessoria in ambito endo familiare
sia ormai da tempo riconosciuto.
Cass. 21/03/2013, n. 7241, ha concesso questo tipo di tutela anche al
convivente more uxorio non proprietario della casa in cui ha avuto luogo il
menage familiare, stabilendo che “la convivenza “more uxorio”, quale
formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina,
sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in
comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente
ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere
i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio
giuridico di tipo familiare. Ne consegue che l’estromissione violenta o
clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno
del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria,
consentendogli di esperire l’azione di spoglio”.
A maggior ragione tale principio deve essere applicato fra coniugi,
rispetto al quale – pur se non proprietario – può sicuramente ricostruirsi una
posizione di compossesso del bene, come indirettamente risulta dall’art. 144
2
IL CASO.it
c.c. sul potere spettante in modo paritario ad entrambi i coniugi di fissare la
residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti
della famiglia stessa, senza dare alcun rilievo ai diritti di godimento, personali
o reali, dei coniugi stessi.
Venuta meno la vita coniugale con la separazione, se vi sono figli
minori o non autosufficienti, in mancanza di accordo è il giudice della
separazione stessa, pur non innovando il titolo di godimento o i diritti reali
delle parti, a concentrare la situazione possessoria in capo al coniuge in favore
del quale venga disposta l’assegnazione della casa familiare.
Sulla scorta di tale principio si è così condivisibilmente affermato:
“il comportamento del coniuge separato non assegnatario dell’immobile
che si riappropri in tutto in parte dell’immobile stesso senza previo ricorso
alle procedure di modifica previste dalla legge ovvero in mancanza di
consenso dell’altro coniuge costituisce turbativa e spoglio del possesso, a
nulla rilevando la convinzione di agire secondo il diritto, la quale non è infatti
idonea ad escludere l’“animus spoliandi”, che si concreta nella semplice e
generica volontarietà di un comportamento, ed è insito nel fatto stesso di
privare del godimento della cosa il possessore, il compossessore o il detentore
(Nel caso di specie, dopo l’assegnazione dell’abitazione coniugale alla moglie
in sede di separazione personale, il marito ne modificava lo stato di fatto,
innalzando una parete divisoria, così impedendole l’accesso ad alcuni locali al
piano terra. La moglie agiva pertanto per la reintegrazione nel possesso
esclusivo dell’immobile. In applicazione del principio di cui in massima, il
tribunale ha accolto la domanda)” (Trib. Modena, 16/05/2014, n. 4868).
Ciò considerato, occorre rilevare che la reclamante non nega la qualità
di possessore della casa familiare in capo alla sig.ra G. (allo stato comunque
dimostrata sino a prova contraria proprio dal provvedimento di assegnazione
reso dal giudice della separazione il 19/11/2015). La I. s.r.l., invece, in
sostanza fa applicazione del vieto brocardo feci sed iure feci, che come noto
non è opponibile in questa sede al possessore, così come anche recentemente
riconosciuto dal S.C.:
“Nel giudizio possessorio, l’eccezione “feci, sed iure feci” è ammessa
solo ove tenda a far valere lo “ius possessionis” (e, cioè, l’esistenza di un
possesso nello spogliatore) e non anche lo “ius possidendi” (e, cioè, il diritto,
in capo al medesimo, di possedere), non potendosi la prova del possesso
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IL CASO.it
desumere, in seno a tale procedimento, dal regime, legale o convenzionale,
del corrispondente diritto reale” (Cass. 03/03/2016, n. 4198).
Né, certamente, occorre aggiungere, lo ius possessionis della G. può
essere posto nel nulla attraverso un negozio transattivo cui la stessa è rimasta
estranea ed è alla medesima di per sé inopponibile.
Da questo punto di vista, quindi, l’ordinanza gravata deve essere
confermata.
3.
Va invece accolto, limitatamente al punto delle spese del procedimento,
il reclamo svolto dal sig. B. G., considerato che, seppure il raggiungimento
dell’accordo transattivo fra il medesimo e la I. s.r.l. può apparire come un
sintomo di un possibile accordo di dette parti volto a privare del possesso
della casa di abitazione la sig.ra G., allo stato degli atti, non risultando il B.
socio né amministratore della medesima società, non può dirsi raggiunta una
prova sufficiente dell’esistenza di un asserito consilium fraudis o dolosa
preordinazione delle stesse in danno della reclamata.
Del resto nessuna contraddittorietà può sul punto sorgere rispetto alla
conferma integrale del provvedimento quanto alla società I. s.r.l., considerato
che per pacifica giurisprudenza lo spoglio non richiede un vero e proprio
animus nocendi, né è escluso dalla convinzione (contestata) di agire secondo
diritto:
“L’ animus spoliandi può ritenersi insito nel fatto stesso di privare del
godimento della cosa il possessore contro la sua volontà, espressa o tacita,
indipendentemente dalla convinzione dell’agente di operare secondo diritto
ovvero di ripristinare la corrispondenza tra situazione di fatto e situazione di
diritto, mentre la volontà contraria allo spoglio, da parte del possessore, può
essere esclusa solo da circostanze univoche e incompatibili con l’intento di
contrastare il fatto illecito come il suo consenso, l’onere della cui prova grava
sul soggetto autore dello spoglio medesimo” (Cass. 11/01/2016, n. 233).
Pertanto l’ordinanza impugnata, del 30/04/2016, va unicamente
riformata nella parte in cui ha condannato in solido il B. G. alle spese del
procedimento, dovendo invece la stessa confermarsi quanto alla posizione
della I. s.r.l.
4
IL CASO.it
Del pari, le spese del reclamo vanno poste a carico della I. s.r.l., autore
dello spoglio e soccombente anche in questo procedimento, dovendosi invece
compensare quanto al sig. B., atteso il comportamento stragiudiziale delle
parti, la particolarità della vicenda, e la limitata rilevanza del gravame dallo
stesso avanzato ed accolto rispetto alla più generale controversia.
P.Q.M.
Il Tribunale di Ravenna, in composizione collegiale, decidendo ex art.
669 terdecies c.p.c.,
respinge il reclamo sub R.G. 1839/2016 e, conseguentemente,
condanna la società I. s.r.l. alla rifusione delle spese di questo procedimento
in favore della sig.ra G. F., che liquida in complessivi Euro 2.500 oltre spese
generali del 15%, IVA e CPA come per legge;
quanto al reclamo sub R.G. 1840/2016, in parziale riforma
dell’ordinanza 30/04/2016 e fermo il resto, dispone la compensazione delle
spese per entrambi i gradi del procedimento cautelare rispetto alla posizione
processuale del solo sig. B. G.

Riparto di competenza tra TO e TM

Cass. Civ., sez. VI-1, ordinanza 12 settembre 2016, n. 17931 (Pres.
Ragonesi, rel. Genovese)
Responsabilità genitoriale – Art. 38 disp. att. c.c. – Riparto di
competenza – Azione di decadenza promossa insieme
all’azione di competenza del TO o dopo – Competenza TO –
Azione di decadenza promossa prima del giudizio davanti al
TO – Competenza del TM– Persiste
L’art. 38, primo comma, disp. alt. cod. civ. (come modificato
dall’art. 3, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219,
applicabile ai giudizi instaurati a decorrere dall’9 gennaio 2013),
si interpreta nel senso che, per i procedimenti di cui agli arti. 330
e 333 cod. civ, la competenza è attribuita in via generale al
tribunale dei minorenni, ma, quando sia pendente un giudizio di
separazione, di divario o ex art. 316 cod. civ., e fino alla sua
definitiva conclusione, in deroga a questa attribuzione, le azioni
dirette ad ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della
responsabilità genitoriale, proposte successivamente e richieste
con unico atto introduttivo dalle parti (così determinandosi
un’ipotesi di connessione oggettiva e soggettiva), spettano al
giudice del conflitto familiare, individuabile nel tribunale
ordinario, se sia ancora in corso il giudizio di primo grado,
ovvero nella corte d’appello in composi-ione ordinaria, se penda il
termine per l’impugnazione o sia stato interposto appello. Con
riferimento al diverso caso in cui il procedimento diretto ad
ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità
genitoriale sia proposto prima di quello di separazione, di
divorzio o ex art. 316 cod. civ., va affermato il principio,
complementare a quello sopra enunciato secondo cui «il tribunale
per i minorenni resta competente a conoscere della domanda
diretta ad ottenere la declaratoria di decadenza o la limitazione
della potestà dei genitori ancorché, nel corso del giudizio, sia
stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di
separa ione personale dei coniugi o di divorzio, trattandosi di
interpretazione aderente al dato letterale della norma, rispettosa
del principio della perpetuatio jurisdictionis” di cui all’art 5 cod.
proc. civ., nonché coerente con ragioni di economia processuale e
di tutela dell’interesse superiore del minore, che trovano
fondamento nell’art. 111 Cost., nell’art. 8 CEDU e nell’art. 24 della
Carta di Nizza»
(Massima a cura di Giuseppe Buffone – Riproduzione riservata)
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Fatto e diritto
Rilevato che la signora E.M. ha proposto regolamento di competenza, con
atto notificato il 22 dicembre 2015, avverso il decreto del Tribunale per i
minorenni di Palermo del 4 novembre 2015 (comunicato il 23 novembre
2015) con la quale, decidendo sulla domanda, proposta ai sensi dell’art.
330 c.c. (con atto depositato il 26 febbraio 2014), per la pronuncia della
decadenza dalla responsabilità genitoriale del padre dei minori [M.T.
(2003) e A.L.C. (2011)], signor F. C., la propria incompetenza, per esserlo
il Tribunale ordinario, essendo ivi già pendente il procedimento per la
separazione dei genitori;
che avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per regolamento
necessario di competenza la signora M., deducendo che il Tribunale per i
Minorenni avrebbe deciso erroneamente e perciò chiedendo
l’annullamento del decreto impugnato e l’affermazione della competenza
del Tribunale minorile, emettendo i provvedimenti per la prosecuzione
del processo innanzi a quest’ultimo giudice; che la controparte non ha
svolto difese in questa fase; che nelle conclusioni scritte, ai sensi dell’art.
380-ter c.pc.., il pubblico ministero ha concluso per l’accoglimento del
ricorso e la dichiarazione di competenza del Tribunale ordinario.
Considerato che
questa Corte (Sez. 6 – 1, Ordinanze nn. 1349 del 2015 e 432 del 2016) ha
già risolto la questione di competenza sollecitata dalla ricorrente nel
senso che « l’art. 38, primo comma, disp. alt. cod. civ. (come modificato
dall’art. 3, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, applicabile ai
giudizi instaurati a decorrere dall’9 gennaio 2013), si interpreta nel senso
che,
per i procedimenti di cui agli arti. 330 e 333 cod. civ, la competenza è
attribuita in via generale al tribunale dei minorenni, ma, quando sia
pendente un giudizio di separazione, di divario o ex art. 316 cod. civ., e
fino alla sua definitiva conclusione, in deroga a questa attribuzione, le
azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della
responsabilità genitoriale, proposte successivamente e richieste con
unico atto introduttivo dalle parti (così determinandosi un’ipotesi di
connessione oggettiva e soggettiva), spettano al giudice del conflitto
familiare, individuabile nel tribunale ordinario, se sia ancora in corso il
giudizio di primo grado, ovvero nella corte d’appello in composi-ione
ordinaria, se penda il termine per l’impugnazione o sia stato interposto
appello» ;
che, le pur rilevanti osservazioni della parte ricorrente, condivise dal PG,
non sono idonee al mutamento dell’indirizzo adottato con regolarità, e
con beneficio per la certezza del diritto, da questa Corte che, con
riferimento al diverso caso in cui il procedimento diretto ad ottenere
provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale sia
proposto prima di quello di separazione, di divorzio o ex art. 316 cod. civ.,
ha affermato il principio, complementare a quello sopra enunciato (ed
applicabile al caso in esame) secondo cui « il tribunale per i minorenni
resta competente a conoscere della domanda diretta ad ottenere la
declaratoria di decadenza o la limitazione della potestà dei genitori
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ancorché, nel corso del giudizio, sia stata proposta, innanzi al tribunale
ordinario, domanda di separa ione personale dei coniugi o di divorzio,
trattandosi di interpretazione aderente al dato letterale della norma,
rispettosa del principio della perpetuatio jurisdictionis” di cui all’art 5
cod. proc. civ., nonché coerente con ragioni di economia processuale e di
tutela dell’interesse superiore del minore, che trovano fondamento
nell’art. 111 Cost., nell’art. 8 CEDU e nell’art. 24 della Carta di Nizza.»;
che, tuttavia, nel caso esaminato tale ultima regola non può trovar
applicazione, essendo stato proposto dapprima il giudizio avanti al
tribunale ordinario;
che, di conseguenza, va respinto il ricorso, per essere stata correttamente
dichiarata la competenza del Tribunale ordinario;
che non vi è luogo a pronuncia sulle spese, trattandosi di regolamento L
di competenza nel quale l’altra parte non ha svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.

Natura giuridica del provvedimento di assegnazione della casa

Cass. Civ., sez. II, sentenza 9 settembre 2016, n. 17843 (Pres.
Bianchini, rel. D’Ascola)
Giudizio di Divisione – Bene oggetto di assegnazione in sede di
separazione – Assegnazione della casa familiare – Natura
giuridica del diritto – Diritto atipico di godimento – Rilevanza
in sede di divisione – Esclusione
Il diritto di abitazione della casa familiare è un atipico diritto
personale di godimento (e non un diritto reale), previsto
nell’esclusivo interesse dei figli e non nell’interesse del coniuge
affidatario, che viene meno con l’assegnazione della casa
familiare in proprietà esclusiva al coniuge affidatario dei figli,
non avendo più ragione di esistere. L’assegnazione del godimento
della casa familiare, ex art. 337-sexies c.c., non può essere presa
in considerazione in occasione della divisione dell’immobile in
comproprietà tra i coniugi, al fine di determinare il valore di
mercato de/l’immobile, allorquando l’immobile venga attribuito
al coniuge che sia titolare del diritto al godimento stesso.
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Esposizione del fatto
1) Il Tribunale di Roma con sentenza depositata il 3.3.2004, disponeva lo
scioglimento della comunione ordinaria esistente tra le parti, coniugi
divorziati, relativa ad un appartamento ed un box siti in XXXX, in
“quartiere centrale”, mediante attribuzione diretta dell’intera proprietà
immobiliare all’attore M. D. R..
Poneva a suo carico un conguaglio di Euro 118.836,72.
Rilevava che l’immobile era gravato dal diritto di abitazione riconosciuto
al D.R. con la sentenza di divorzio, quale genitore con il quale conviveva il
figlio maggiorenne ma non autosufficiente, sicché il valore dei beni
doveva essere ridotto del 25%.
La Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 3088/2010 del 12.7.2011,
ha, in accoglimento parziale dell’appello principale, confermato
l’attribuzione al D.R. della proprietà del compendio immobiliare, nonché
i criteri di valutazione,ma ha aggiornato il conguaglio a Euro 161.618,00.
Per la cassazione della sentenza, M.A.L. ha proposto ricorso sulla base di
tre motivi.
D.R. ha resistito con controricorso.
In corso di causa parte ricorrente ha notificato a controparte elenco dei
documenti depositati, costituiti da decreto di revisione delle condizioni di
divorzio con attestazione di definitività.
Parte resistente ha nominato ritualmente nuovo difensore.
In vista dell’udienza sono state depositatememorie.
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Ragioni della decisione
2) Il ricorso consta di tre motivi.
Con il primo la ricorrente, delusa dalla stima dell’immobile, si duole della
mancata ammissione di nuova consulenza tecnica che, riconsiderando
quella assunta in tribunale. datata 2001, tenesse conto dei propri rilievi
circa il maggior valore del compendio immobiliare.
Il secondo motivo concerne la omessa considerazione dell’aumento dei
valori immobiliari verificatosi in Roma tra il 2001 e il 2011,
riduttivamente parametrato con riferimento alla banca dati dell’Agenzia
del Territorio, che per ammissione della stessa non indicherebbe stime
corrispondenti ai reali valori commerciali di un bene immobile.
Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 720 c.p.c.
e vizi di motivazione.
La ricorrente si duole del fatto che il valore del conguaglio sia stato
ridotto, e lo sia stato in misura ingente, in relazione alla circostanza che il
figlio, trentatrenne al momento della sentenza (2010) risultasse
convivente con il padre.
Osserva che il diritto di abitazione connesso alla convivenza con il figlio è
un diritto stabilito, ex art. 155 c.c., nell’interesse esclusivo dei figli e non
del genitore affidatario, e che quest’ultimo verrebbe per due volte
ingiustamente gratificato se, oltre a godere dell’immobile, potesse anche
acquistarlo con una riduzione del conguaglio.
2.1) In ricorso specifica che il figlio è già da qualche anno convivente con
sé in altra abitazione, sebbene tale modifica non sia stata ancora sancita
giudizialmente.
In memoria parte ricorrente ha aggiunto che nelle more (maggio 2012) è
intervenuta modifica delle condizioni di divorzio e ha prodotto il relativo
documento.
Parte resistente ha opposto, nel controricorso del gennaio 2012, che la
questione posta nel terzo motivo è stata decisa dalla Corte di appello in
conformità a Cass. 20319/04: che solo per “veder aumentato il valore
della propria quota”, controparte avrebbe inopportunamente coinvolto il
figlio, nato nel 1978, “ampiamente maggiorenne ed autosufficiente”; che
il ricorso “per revisione delle statuizioni divorzili” invocato dalla
ricorrente non era stato notificato.
In memoria D.R. si è opposto alla produzione dell’ordinanza 13 aprile
2012 di revisione del regolamento del divorzio. Ha dato atto però del
rafforzarsi, con la pubblicazione della sentenza n. 27128/2014 di questa
Corte, dell’orientamento secondo cui il conguaglio a favore del genitore
non affidatario non deve essere decurtato.
3) Il terzo motivo di ricorso, che pone questione giuridica di rilievo
preliminare, è fondato.
I giudici di merito hanno posto a confronto due sentenze di questa Corte.
Hanno aderito alla tesi esposta da Cass.20319/04 (cui ha aderito Cass.
22.4.2016 n. 8202) secondo la quale: “L’assegnazione della casa familiare
ad uno dei coniugi, cui l’immobile non appartenga in via esclusiva,
instaura un vincolo (opponibile anche ai terzi per nove anni, e, in caso di
trascrizione, senza limite di tempo) che oggettivamente comporta una
decurtazione del valore della proprietà, totalitaria o parziaria, di cui è
titolare l’altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane astretto, come i
suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento non venga
eventualmente modificato. Ne consegue che di tale decurtazione deve
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tenersi conto indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in
piena proprietà all’uno o all’altro coniuge, ovvero venduto a terzi in caso
di sua infrazionabilità in natura”.
In precedenza la Corte (Cass. 11630/01) aveva ritenuto che: “La
assegnazione della casa familiare, di cui i coniugi siano comproprietari, al
coniuge affidatario dei figli non ha più ragion d’essere e, quindi, il diritto
di abitazione, che ne scaturisce, viene meno nel momento in cui il
coniuge, cui la casa sia stata assegnata, ne chiede, nel corso del giudizio
per lo scioglimento della comunione conseguente (nel caso di specie) a
divorzio, l’assegnazione in proprietà, acquisendo così, attraverso detta
assegnazione, anche la quota dell’altro coniuge. In tal caso, il diritto di
abitazione (che è un atipico diritto personale di godimento e non un
diritto reale) non può essere preso in considerazione, al fine di
determinare il valore di mercato dell’immobile, sia perché è un diritto che
l’art. 155, comma quarto, c.c. prevede nell’esclusivo interesse dei figli e
non nell’interesse del coniuge affidatario degli stessi, sia perché,
intervenuto lo scioglimento della comunione a seguito di separazione
personale o di divorzio, non può più darsi rilievo, per la valutazione
dell’immobile, ad un diritto, che, con l’assegnazione della casa familiare
in proprietà esclusiva al coniuge affidatario dei figli, non ha più ragione
di esistere”.
Il Collegio ritiene superfluo investire del contrasto le Sezioni Unite,
poiché, rammentati i principi posti da Cass. 18-09-2013, n. 21334 in tema
di assegnazione della casa coniugale, reputa corretto l’orientamento
manifestatosi nel 2001 e rinvigorito dalla sentenza n. 27128/2014,
sempre di questa sezione, la quale ha osservato che: “Il diritto di
abitazione della casa familiare è un atipico diritto personale di godimento
(e non un diritto reale), previsto nell’esclusivo interesse dei figli (art. 155
c.c., comma 5) e non nell’interesse del coniuge affidatario, che viene
meno con l’assegnazione della casa familiare in proprietà esclusiva al
coniuge affidatario dei figli, non avendo più ragione di esistere”.
Ha aggiunto che “ove si operasse la decurtazione dal valore in
considerazione del diritto di abitazione, il coniuge non assegnatario
verrebbe ingiustificatamente penalizzato con la corresponsione di una
somma che non sarebbe rispondente alla metà dell’effettivo valore venale
del bene: il che è comprovato dalla considerazione che, qualora
intendesse rivenderlo a terzi, l’assegnatario in proprietà esclusiva
potrebbe ricavare l’intero prezzo di mercato, pari al valore venale del
bene, senza alcuna diminuzione”.
3.1) Quest’ultima considerazione appare decisiva nel caso di specie,
caratterizzato dalla circostanza che l’immobile viene attribuito proprio al
coniuge che al momento della decisione risultava essere assegnatario
dell’alloggio nel quale conviveva con il figlio maggiorenne, alloggio che
dopo la divisione il D.R. potrebbe alienare a terzi senza alcun vicolo,
conseguendo integralmente il prezzo, corrispondente al valore pieno del
bene. È stato osservato in dottrina che l’immobile dovrebbe essere
valutato “oggettivamente”, tenendo conto della opponibilità ai terzi di un
provvedimento di assegnazione, ancorché reso in favore del coniuge non
destinatario dell’attribuzione immobiliare.
Trattasi di una fictio iuris intrinsecamente iniqua. Implica infatti una
locupletazione in favore di quel coniuge che sia a un tempo beneficiario
dell’immobile presso cui il figlio risiede e condividente che ottiene
l’attribuzione.
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Pertanto per decidere sul terzo motivo di ricorso è sufficiente già
l’affermazione del principio secondo cui l’assegnazione del godimento
della casa familiare, ex art. 155 c.c. previgente e art. 155 guater c.c., o in
forza della legge sul divorzio, non può essere presa in considerazione in
occasione della divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi, al
fine di determinare il valore di mercato de/l’immobile, allorquando
l’immobile venga attribuito al coniuge che sia titolare del diritto al
godimento stesso.
Ne consegue che la decurtazione del 25% è stata nella specie, nel cui
perimetro il Collegio limita l’esame, indebitamente applicata.
3.2) Mette conto aggiungere, per completare l’esame e meglio
comprendere la soluzione prescelta, che al medesimo risultato si perviene
sulla base della contrastata produzione del provvedimento giurisdizionale
definitivo che ha rivisto le condizioni di divorzio.
Esso ha fatto venir meno l’assegnazione della casa familiare al resistente
ed è acquisibile in sede di legittimità, perché: a) formatosi a seguito di
istanza di modifica successiva al deposito del ricorso per cassazione (SU
13916/06; 24664/07; 1883/11; 12159/11); b) concernente una statuizione
che ha effetto diretto sul presupposto (ora venuto meno) della decisione
di appello in punto di decurtazione del conguaglio.
4) L’accoglimento del terzo motivo di ricorso determina la cassazione con
rinvio della sentenza impugnata.
Non sarebbe agevole infatti la decisione di merito, atteso che è
controverso (cfr. i primi due motivi) il valore del bene da dividere,
questione da risolvere con stretto riferimento, per quanto possibile, alla
data di definizione della lite.
I due motivi relativi alla stima dell’immobile vanno considerati assorbiti,
rimettendosi il tutto al giudice di rinvio, individuato in altra sezione della
Corte di appello di Roma, la quale provvederà anche alla liquidazione
delle spese di questo giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso.
Assorbiti gli altri.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di
appello di Roma, che provvederà anche sulla liquidazione delle spese del
giudizio di legittimità.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano
omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196
del 2003, art. 52.

Matrimonio straniero in forma telematica

Cass. Civ., sez. I, sentenza 25 luglio 2016, n. 15343 (Pres. Di Palma,
est. Lamorgese)
Matrimonio contratto con cittadino straniero per forma
telematica – Compatibilità con l’ordine pubblico interno –
Sussistenza
E’ compatibile con l’ordine pubblico interno il matrimonio
celebrato in Pakistan da una cittadina italiana e da un cittadino
pakistano e contratto, secondo la legge straniera, in forma
telematica e, dunque, senza la contestuale presenza dei nubendi.
(Massima a cura di Giuseppe Buffone – Riproduzione riservata)
Svolgimento del processo
L’Ufficiale dello Stato civile del Comune di San Giovanni in Persiceto ha
rifiutato la trascrizione dell’atto di matrimonio, celebrato da F.S. con
M.Z.B., in data (OMISSIS), registrato il (OMISSIS) dall’autorita’ del
Pakistan, in considerazione delle modalita’ di celebrazione, in via
telefonica o telematica, ritenute contrarie all’ordine pubblico, sul
presupposto che costituisca principio fondamentale dell’ordinamento
italiano, derogabile solo in casi del tutto eccezionali, la contestuale
presenza dei nubendi dinanzi a colui che officia il matrimonio, anche al
fine di assicurare la loro liberta’ nell’esprimere la volonta’ di sposarsi.
Nel contraddittorio con il Ministero dell’interno ed il Comune di San
Giovanni in Persiceto, il ricorso della F. e’ stato accolto dal Tribunale di
Bologna, con decreto in data 13 gennaio 2014. Secondo il Tribunale, il
matrimonio era valido secondo la legge pakistana e, quindi, anche per
l’ordinamento italiano, in virtu’ del richiamo operato dalla L. n. 218 del
1995, art. 28, essendo stato celebrato secondo le modalita’ e nelle forme
previste dalla legge pakistana. Infatti, in data (OMISSIS), la F. aveva
prestato il proprio consenso al matrimonio per via telematica, alla
presenza di due testimoni; lo sposo era presente alla celebrazione,
officiata dall’autorita’ pakistana, ed erano presenti i suoi testimoni;
l’assenza di un procuratore della sposa era superata dalla sua
partecipazione diretta, in via telematica, alla celebrazione del
matrimonio; l’autorita’ pakistana aveva registrato l’atto il (OMISSIS).
Pertanto, il rifiuto di trascriverlo da parte dell’Ufficiale di Stato Civile
italiano era illegittimo, non sussistendo alcuna violazione dell’ordine
pubblico internazionale, atteso che la contestuale presenza dei nubendi
dinanzi all’autorita’ officiante, a norma dell’art. 107 c.c., non costituisce
un principio irrinunciabile per la stessa legge italiana, la quale prevede
eccezioni, a norma dell’art. 111 c.c., essendo irrinunciabile il solo
principio, rispettato nella fattispecie, della libera, genuina e consapevole
espressione del consenso alla formazione del vincolo matrimoniale.
Il reclamo del Ministero dell’interno e’ stato rigettato dalla Corte
d’appello della stessa citta’, con decreto in data 20 giugno 2014, la quale
ha ritenuto che ad integrare il principio di ordine pubblico e’
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l’espressione del consenso libero e consapevole da parte dei nubendi, che
nella fattispecie vi era stata, anche se a distanza.
Avverso questo decreto il Ministero dell’interno ricorre per cassazione, a
norma dell’art. 111 Cost., sulla base di un motivo, cui si oppone la F. con
controricorso e memoria.
Motivi della decisione
La F. ha eccepito l’inammissibilita’ del ricorso per cassazione perche’, a
suo avviso, tardivamente notificato (il 24 novembre 2014), senza
rispettare il termine di sessanta giorni dalla comunicazione del decreto
impugnato, avvenuta in data 23 giugno 2014. L’eccezione e’ infondata.
Premesso che il decreto impugnato non e’ stato notificato ad istanza di
parte, trova applicazione il principio enunciato da questa Corte (n.
10450/2014, 24000/2011, sez. un. 5615/1988) che non v’e’ ragione di
mettere in discussione – secondo il quale il termine di sessanta giorni per
la proposizione del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost.,
avverso i provvedimenti aventi contenuto decisorio e carattere di
definitivita’, decorre solo a seguito della notificazione ad istanza di parte,
mentre e’ irrilevante, al predetto fine, che gli stessi siano stati pronunciati
in udienza o, se pronunciati fuori udienza, siano stati comunicati alle
parti dal cancelliere, con la conseguenza che, in tali ipotesi, e’ applicabile
il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., che nella fattispecie e’ stato
rispettato.
Nell’unico motivo di ricorso il Ministero dell’interno denuncia la
violazione o falsa applicazione del D.Lgs. 31 maggio 1995, n. 218, artt. 16
e 65, e D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 18, per avere accolto la
richiesta di riconoscimento di un atto matrimoniale contrario all’ordine
pubblico italiano, inteso come nucleo essenziale delle regole inderogabili
e immanenti all’istituto matrimoniale, in una situazione in cui per le
modalita’ in cui il matrimonio era stato celebrato, senza la presenza fisica
dei nubendi e grazie all’ausilio del mezzo di comunicazione via Internet,
non vi era alcuna garanzia che i nubendi avessero espresso liberamente e
reciprocamente un consenso consapevole, anche per le difficolta’ che
caratterizzano l’uso di una lingua diversa dalla propria, in considerazione
dell’alto valore dell’unione nuziale secondo la Carta costituzionale.
Il motivo e’ infondato.
La Corte bolognese ha correttamente premesso che, ai sensi della L. n.
218 del 1995, art. 28, il matrimonio celebrato all’estero e’ valido nel
nostro ordinamento, quanto alla forma, se e’ considerato tale dalla legge
del luogo di celebrazione, o dalla legge nazionale di almeno uno dei
nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato di
comune residenza in tale momento (v. in tal senso Cass. n. 17620/2013).
Pertanto, essendo il matrimonio tra la F. e Z.B. stato celebrato in
Pakistan e validamente secondo la legge di quel paese (circostanza
incontestata), esso e’ stato ritenuto valido per l’ordinamento italiano, non
ostandovi alcun principio di ordine pubblico. Il Ministero ha opposto che
la modalita’ di celebrazione del matrimonio, da parte dell’ufficiale
pakistano, con la presenza del solo sposo, avendo la sposa partecipato al
rito in via telematica, non garantirebbe la genuinita’ dell’espressione del
consenso, rendendo l’atto non riconoscibile come matrimonio. Questa
tesi e’ errata in diritto per due ragioni.
La prima, perche’ pretende, in sostanza, di ravvisare una violazione
dell’ordine pubblico tutte le volte che la legge straniera, in base alla quale
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sia stato emanato l’atto di cui si chiede il riconoscimento, contenga una
disciplina di contenuto diverso da quella dettata in materia dalla legge
italiana. Tuttavia, ravvisando l’ordine pubblico nelle norme, seppure
inderogabili, presenti nell’ordinamento interno, sarebbero cancellate le
diversita’ tra i sistemi giuridici e rese inutili le regole del diritto
internazionale privato (v., in modo chiaro, Cass. n. 10215 del 2007 e, in
motiv., n. 14662 del 2000; nel senso che le norme espressive dell’ordine
pubblico non coincidono con quelle, di genere piu’ ampio, imperative o
inderogabili, Cass. n. 4040 del 2006, n. 13928 del 1999, n. 2215 del
1984). Il giudizio di compatibilita’ con l’ordine pubblico dev’essere
riferito, invece, al nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento che
non sarebbe consentito nemmeno al legislatore ordinario interno di
modificare o alterare, ostandovi principi costituzionali inderogabili.
La seconda, perche’ il rispetto dell’ordine pubblico dev’essere garantito,
in sede di delibazione, avendo esclusivo riguardo “agli effetti” dell’atto
straniero (come ribadito da Cass. n. 9483 del 2013), senza possibilita’ di
sottoporlo ad un sindacato di tipo contenutistico o di merito ne’ di
correttezza della soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o
di quello italiano. Ne consegue che se l’atto matrimoniale e’ valido per
l’ordinamento straniero, in quanto da esso considerato idoneo a
rappresentare il consenso matrimoniale dei nubendi in modo
consapevole, esso non puo’ ritenersi contrastante con l’ordine pubblico
solo perche’ celebrato in una forma non prevista dall’ordinamento
italiano.
Inoltre, i giudici di merito hanno correttamente rilevato che la forma
matrimoniale descritta dall’art. 107 c.c., non e’ considerata inderogabile
neppure dal legislatore italiano, il quale ammette la celebrazione inter
absentes (art. 111 c.c.) in determinati casi, nei quali non puo’ ritenersi che
siano inesistenti i requisiti minimi per la giuridica configurabilita’ del
matrimonio medesimo, e cioe’ la manifestazione di una volonta’
matrimoniale da parte di due persone di sesso diverso, in presenza di un
ufficiale celebrante (come, nella fattispecie in esame, l’autorita’
pakistana).
Da ultimo, questa Corte si e’ espressa implicitamente in senso analogo,
affermando il diritto al ricongiungimento familiare a coniugi pakistani
che avevano celebrato il matrimonio in forma telefonica in presenza di
testimoni (Cass. n. 20559 del 2006, in motiv.).
In conclusione, il ricorso e’ rigettato. Sussistono giusti motivi per
compensare le spese del giudizio, in considerazione della novita’ della
questione esaminata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese del giudizio di cassazione.
Cosi’ deciso in Roma, il 20 giugno 2016.
Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2016.

Il Collocamento del minore in comunità va motivato

Cass. Civ., sez. I, sentenza 3 agosto 2016, n. 16271 (Pres. Dogliotti,
rel. Bisogni)
Collocamento del minore in ambiente comunitario –
Motivazione – Spiegazione delle ragioni per cui non può
rientrare dai genitori – Necessità – Sussiste
Il Giudice della famiglia è tenuto sempre ad adottare una
decisione corrispondente all’interesse del minore in merito al suo
affidamento e, in caso di collocamento in ambiente diverso da
quello familiare di appartenenza, verificando la possibilità di un
rientro del minore presso uno dei genitori ovvero, in presenza di
motivate ragioni, confermando l’affidamento ai servizi sociali e la
sua collocazione nella comunità che lo ospita. A tal fine il giudice
deve offrire congrua motivazione.
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Rilevato che:
1. Il Tribunale di Monza, dopo aver dichiarato, con sentenza non
definitiva n. 2540/2010, la separazione dei coniugi M.G. e P.P. e respinto
le domande di addebito proposte da entrambe le parti, ha pronunciato
sentenza definitiva n. 1691/2011 con la quale ha affidato il figlio minore
M.S., nato il (omissis), al servizio sociale del Comune di (…), con
collocamento in comunità terapeutica individuata dall’ente affidatario, ha
posto a carico del P. un assegno di 500 Euro a titolo di contributo al
mantenimento del figlio.
2. La Corte di appello di Milano ha confermato tale decisione,
disponendo che il minore resti presso la comunità che attualmente lo
ospita sino al termine dell’anno scolastico 2013/2014 e che l’ente
affidatario riferisca all’autorità giudiziaria minorile competente almeno
tre mesi prima del predetto anno affinché siano assunti i provvedimenti
necessari a tutela del minore, anche in ordine al suo successivo affido e,
comunque, immediatamente in caso di pregiudizio per lo stesso. Ha
condannato la M. al pagamento delle spese del giudizio e della CTU.
3. Ricorre per cassazione M.G. CTU di secondo grado in luogo di quelle
esperite nel primo grado, con riferimento a un fatto decisivo per il
giudizio (art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.); b) omessa e insufficiente
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere
il giudice aderito acriticamente alle risultanze della perizia espletate nel
corso del procedimento di secondo grado e omesso ogni motivazione in
ordine alla mancata considerazione circa le critiche mosse a tale perizia
dalla difesa della signora M. e dalla perizia del consulente di parte
nominato dalla stessa.
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Ritenuto che:
I due motivi possono essere esaminati congiuntamente per la loro
evidente connessione fattuale e giuridica.
Il ricorso appare fondato in quanto la motivazione della Corte di appello
non analizza dettagliatamente, a causa del carattere interlocutorio della
decisione sul regime di affidamento del minore, le valutazioni compiute
nel corso del primo grado dal consulente tecnico rendendo così arduo il
confronto con le valutazioni compiute dal CTU nominato nel corso del
giudizio di appello. Confronto la cui mancata esplicitazione costituisce
proprio l’oggetto della impugnazione per cassazione. In particolare la
motivazione non presenta una compiuta rappresentazione delle
osservazioni effettuate, nel corso del giudizio, sul minore e sui suoi
genitori e non consente di rendere chiaramente comprensibili e di
confrontare le scelte indicate, come più confacenti all’interesse del
minore, dagli ausiliari nominati nel corso dei due gradi del giudizio di
merito e dai periti di parte. All’esito della riconsiderazione di tutti gli
elementi emersi dagli accertamenti svolti e potendo acquisire altresì
ulteriori elementi decisivi di valutazione derivanti della conclusione del
percorso terapeutico cui ha fatto cenno la motivazione della sentenza
impugnata/ la Corte di appello potrà quindi adottare una decisione
corrispondente all’interesse del minore in merito al suo affidamento
verificando la possibilità di un rientro del minore presso uno dei genitori
ovvero confermando l’affidamento ai servizi sociali e la sua collocazione
nella comunità che lo ospita.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla
Corte di appello diMilano, in diversa composizione anche per le spese del
giudizio di cassazione. Dispone che in caso di diffusione del presente
provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a
norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.

Divorzio e domanda di decadenza dalla responsabilità

Trib. Milano, sez. IX civ, sentenza 16 marzo 2016 (Pres. Ortolan,
rel. G. Buffone)
Procedimento di divorzio – Domanda di decadenza dalla
responsabilità genitoriale – Cumulo – Possibilità – Sussiste
Nel procedimento di divorzio, è ammissibile la domanda di
decadenza dalla responsabilità genitoriale, richiesta da uno dei
genitori ai sensi dell’art. 330 c.c.; la richiesta va esaminata dal
Collegio nella fase decisoria.
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In Fatto e Diritto
I coniugi ….., nata a … il …… e …, nato a .. il …, hanno contratto
matrimonio civile in Milano in data .. 2007 (…); dall’unione è nato … in
data .. 2008. Il Tribunale di Milano, con sentenza n. .. del 2012,
pronunciata già allora nella contumacia del resistente, irreperibile, ha
dichiarato la separazione giudiziale dei coniugi e affidato … in via
esclusiva alla mamma. Con il ricorso introduttivo dell’odierno processo
(del 22 dicembre 2014) la ricorrente richiede pronuncia divorzile.
L’udienza presidenziale è stata tenuta in data 23 giugno 2015. Con
ordinanza presidenziale del 25.6.2015, il Presidente f.f. ha affidato il
minore in via (super) esclusiva alla madre. All’udienza del 21 gennaio
2016, la parte attrice ha precisato le conclusioni.
La domanda diretta ad ottenere la pronuncia divorzile va accolta: rispetto
alla comparizione delle parti dinanzi al presidente nell’udienza ex art.
708 c.p.c. (.. dicembre 2011) sono decorsi oltre tre anni, dunque, un lasso
temporale ben superiore all’anno previsto per effetto della legge n. 55 del
2015, applicabile all’odierno procedimento; va quindi pronunciato lo
scioglimento del matrimonio civile celebrato dalle parti, ai sensi dell’art.
3, comma I, n. 2), lett. b), legge 10 dicembre 1970, n. 898, in conformità
alle istanze della parte attrice e del PM.
La domanda di decadenza del padre dalla responsabilità genitoriale è
infondata. Premessa la competenza dell’Ufficio a statuire in ordine alla
stessa, poiché promossa a procedimento pendente e con un unico atto
introduttivo (v. Cass. Civ., sez. VI-I, ordinanza 26 gennaio 2015 n. 1349,
Pres. Di PalMa, rel. Acierno; contra, il pregresso orientamento di questo
ufficio: cfr. Trib. Milano, sez. IX, sentenza 4 – 11 dicembre 2013, Pres.
Ortolan, rel. Buffone), giova ricordare come la recisione definitiva del
legame familiare tra padre e figlio costituisca una extrema ratio ossia un
intervento rimediale sussidiario e residuale che si rivela l’unico a
soddisfare il modo adeguato il preminente interesse del minore.
Presupposto costitutivo bastevole per questa pronuncia non può, allora,
essere la mera irreperibilità del genitore, soprattutto là dove si tratti di
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cittadino straniero (che potrebbe dunque trovarsi per ragioni particolari
nel proprio Paese di origine) e là dove non sia stato accertato che la
latitanza dal rapporto genitoriale dipenda da esclusive o preminenti
scelte consapevoli del genitore stesso. Elemento “guida” deve sempre
essere il superiore interesse del fanciullo (Corte Cost. n. 31 del 2012).
Respinta la domanda di decadenza, va confermato il provvedimento
presidenziale provvisorio. Il minore va collocato presso la madre per la
quale va espresso un giudizio favorevole, tenuto conto del
comportamento serbato nel corso del processo e sin dalla separazione.
Quanto al padre, va rilevato che, nonostante la rituale notificazione del
ricorso introduttivo, questi non ha inteso costituirsi in giudizio e
nemmeno è comparso all’udienza fissata davanti al giudice delegato per
l’audizione dei genitori; con il contegno serbato a seguito della
notificazione della domanda, la parte resistente ha manifestato completo
disinteresse per il fattivo esercizio della responsabilità genitoriale,
rilevando così una condizione di verosimile scarsa adeguatezza
all’assunzione di un consapevole ruolo di genitore, tale da rendere
necessario l’affidamento monogenitoriale (ex multis, cfr. Cass. Civ., sez. I
19 giugno 2008 n. 16593); il disinteresse del genitore per le questioni
relative alla prole giustifichi l’affidamento esclusivo in favore della parte
ricorrente (già così Trib. Milano, sez. IX, sentenza 25 marzo 2013;
sentenza 5 giugno 2013), per la quale deve essere formulata, in ordine
alla idoneità genitoriale, una prognosi favorevole, alla luce del contegno
serbato nel processo, nonché per il fatto di essersi occupata della prole
con continuità e responsabilità; in particolare le condizioni sopra indicate
giustificano una concentrazione della responsabilità genitoriale in capo
alla madre, anche con riguardo alle scelte più importanti per il minore
(residenza abituale, salute, educazione, istruzione), dovendosi, cioè,
disporre un affido cd. super–esclusivo o rafforzato (in giurisprudenza:
Trib. Torino, sez. VII civ., ordinanza 22 gennaio 2015, Pres. Cesare
Castellani; Trib. Pavia, ordinanza 29 dicembre 2014, Est. M. Frangipane;
Trib. Milano, sez. IX civ., ordinanza 20 marzo 2014; Trib. Milano, sez. IX
civ., decreto 16 luglio 2014, Pres. Servetti). Il padre potrà frequentare il
figlio su accordi con la madre e, in ogni caso rivolgendosi al Servizio
Sociale che ha preso in carico la famiglia. La casa va assegnata alla madre
poiché genitore collocatario.
D’ufficio, va riconosciuto in favore del minore un contributo da parte del
padre, con decorrenza dalla domanda giudiziale. La dottrina ha
interpretato il dovere di mantenimento come espressione del più
generale dovere di cura che tiene conto di tutte le esigenze, anche future,
necessarie allo sviluppo psicologico e fisico della prole. Ne consegue che il
dovere di mantenere, istruire ed educare la prole, stabilito dall’art. 147
cod. civ., obbliga i coniugi a far fronte ad una molteplicità di esigenze dei
figli, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto
abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e
materiale, alla opportuna predisposizione – fino a quando la loro età lo
richieda – di una stabile organizzazione domestica, adeguata a
rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione (Cass. Civ., sez. I,
sentenza 17089/2013). Tale principio trova conferma nel nuovo testo
dell’art. 337-ter c.c. il quale, nell’imporre a ciascuno dei coniugi l’obbligo
di provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al
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proprio reddito, individua, quali elementi da tenere in conto nella
determinazione dell’assegno, oltre alle esigenze del figlio, il tenore di vita
dallo stesso goduto in costanza di convivenza e le risorse economiche dei
genitori, nonché i tempi di permanenza presso ciascuno di essi e la
valenza economica dei compiti domestici e di cura da loro assunti. Nel
caso di specie, l’irreperibilità del padre non ne giustifica l’esonero dal
mantenimento apparendo invero equa e congrua la somma di euro 300
onnicomprensivi, tenuto conto dell’età del padre e della sua astratta
capacità da lavoro.
In assenza di opposizione del padre, le spese restano irripetibili.
P.Q.M.
il Tribunale di Milano,
Sezione Nona Civile,
in composizione collegiale, definitivamente pronunciando nel giudizio
civile n. … dell’anno2014, disattesa ogni ulteriore istanza, eccezione e
difesa, così provvede:
1. Dichiara la contumacia di .. …,
2. Dichiara lo scioglimento del matrimonio contratto da …
3. Respinge la domanda di decadenza dalla responsabilità
genitoriale,
4. AFFIDA … in via esclusiva alla madre, con collocamento
prevalente presso l’abitazione stessa. Le decisioni di maggiore interesse
per la prole relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta
della residenza abituale potranno essere assunte dalla madre in via
esclusiva, tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle
aspirazioni del figlio (affido cd. superesclusivo). Il genitore non
affidatario potrà frequentare la prole previo accordo con il genitore
affidatario e, in caso di contrasto, potrà ricorrere al giudice della
vigilanza, ex art. 338 c.c.
5. PONE a carico del padre il mantenimento del figlio, con
decorrenza dal mese di gennaio 2015 (primo mese utile dalla domanda
giudiziale),mediante versamento alla madre della somma di euro 300,00
mensili da corrispondere in via anticipata entro il giorno 15 di ogni mese,
e con rivalutazionemonetaria ISTAT annuale dal mese di gennaio 2016;
6. Dichiara le spese di lite irripetibili
7. Manda alla cancelleria di trasmettere copia autentica del
dispositivo della presente sentenza, limitatamente al Primo Capo, al suo
passaggio in giudicato, all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di Milano,
perché provveda alle annotazioni ed ulteriori incombenze di legge.
Sentenza provvisoriamente esecutiva ex lege, ad eccezione del capo 1
Così deciso in Milano, nella Camera di consiglio del 16 marzo 2016
Il Giudice estensore Il Presidente

Matrimoni misti

MATRIMONI MISTI
Di Gianfranco Dosi
I. I cosiddetti matrimoni misti
II. L’acquisto della cittadinanza italiana da parte dello straniero che contrae matrimonio con un italiano
III. I matrimoni misti simulati
IV. Il regime personale e patrimoniale nei matrimoni misti
V. La disciplina della separazione e del divorzio
VI. Matrimoni misti e disposizioni sull’immigrazione
VII. Il ricongiungimento familiare
I
I cosiddetti matrimoni misti
Il codice civile italiano disciplina il matrimonio del cittadino italiano con uno straniero all’estero (articolo 115 che si riferisce naturalmente anche al caso in cui un cittadino italiano sposi all’estero un altro cittadino italiano) sia il matrimonio dello straniero in Italia con un italiano (articolo 116 che si riferisce anche al caso del matrimonio in Italia dello straniero con un altro straniero). Soni questi i cosiddetti “matrimoni misti”.
Il cittadino italiano che intende contrarre matrimonio all’estero(con uno straniero o con un altro cittadino italiano) è sempre soggetto alle disposizioni del codice che concernono le condizioni necessarie per contrarre matrimonio in Italia. Quindi non vi sono differenze quanto alle condizioni di età (art. 84 cod. civ. che impone il limite minimo di età di 18 anni salva l’autorizzazione del tribunale per i minorenni per chi ha compiuto i sedici anni e intenda contrarre matrimonio) e agli altri divieti matrimoniali (art. 85 sul divieto di contrarre matrimonio per l’interdetto per infermità di mente; art. 86 sul divieto per chi è già vincolato da un matrimonio precedente; art. 97 per gli impedimenti derivanti da parentela, affinità, adozione; art. 88 per l’impedimento derivante da “delitto”). L’articolo 16 dell’ordinamento di stato civile (DPR 3 novembre 2000, n. 396) precisa che il matrimonio all’estero può essere celebrato dall’autorità consolare italiana o dall’autorità dello Stato ospitante che trasmetterà copia dell’atto di matrimonio all’autorità consolare. Quest’ultima, in virtù dell’art. 17 dello stesso ordinamento di stato civile, trasmetterà poi l’atto per la trascrizione in Italia al Comune di residenza in Italia del cittadino italiano o negli altri luoghi indicati dalla disposizione.
La forma del matrimonio sarà quella del luogo in cui viene celebrato. Pertanto se è rispettata la forma prevista nello Stato di celebrazione, quel matrimonio sarà valido anche in Italia (articolo 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218) ancorché celebrato con forme inusuali come via Skipe (Cass. civ. Sez. I, 25 luglio 2016, n. 15343).
Gli atti formati all’estero non possono, però, essere trascritti in Italia se sono contrari all’ordine pubblico (art. 18 ordinamento di stato civile).
Il matrimonio contratto all’estero tra due persone dello stesso sesso, non è stato in passato considerato trascrivibile in Italia non perché contrario all’ordine pubblico ma perché “il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è riconoscibile come atto di matrimonio e non può produrre effetti nel nostro sistema giuridico” (Cass. Civ. Sez. I, 15 marzo 2012, n. 4184). Ora in virtù di quanto previsto nel comma 34 dell’art.12 della legge 20 maggio 2016, n. 76 (sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto) sono state emanate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale del 23 luglio 2016 norme regolamentari di natura transitoria con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Il decreto prescrive all’art. 9 che presso ciascun Comune deve essere istituito un “registro provvisorio delle unioni civili” dove vanno registrate, appunto, le unioni civili costituite in base alla nuova legge. L’art. 8 del regolamento prevede al terzo comma che “gli atti di matrimonio o di unione civile tra persone dello stesso sesso formati all’estero, sono trasmessi dall’autorità consolare, ai sensi dell’articolo 17 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, ai fini della trascrizione nel registro provvisorio di cui all’articolo 9”. Questo comporta che il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero, anche da cittadini italiani, potrà essere d’ora in poi trascritto nei registri provvisori delle unioni civili, superando così le ragioni del diniego che fino ad oggi hanno impedito la trascrizione nei nostri registri di stato civile e quindi il riconoscimento in Italia di tali matrimoni. Il fatto è tanto più sorprendente perché avviene non per legge, ma attraverso un decreto di natura regolamentare.
È consolidato il principio che la trascrizione in Italia del matrimonio contratto all’estero (tra cittadini italiani ma anche di un italiano con uno straniero) non ha efficacia costituiva ma dichiarativa e che quindi il matrimonio è pienamente valido in Italia anche senza trascrizione (Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17620;Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 10351).
Più articolata è la disciplina del matrimonio contratto in Italia da uno straniero con un cittadino italiano o con un altro straniero. L’articolo 116 del codice civile impone infatti allo straniero che intenda contrarre matrimonio in Italia di presentare all’ufficiale dello stato civile del luogo in cui deve essere contratto il matrimonio, insieme alla richiesta di pubblicazioni, “una dichiarazione dell’autorità competente del proprio paese, dalla quale risulti che giusta le leggi a cui è sottoposto nulla osta al matrimonio”. Ai fini della sua validità è necessario e sufficiente che la dichiarazione rilasciata dall’autorità estera accerti l’assenza di ostacoli al matrimonio, a prescindere dalle formule testuali impiegate Cons. Stato, Sez. I, 9 ottobre 2013, n. 3164).
Spesso la dichiarazione non viene rilasciata per motivi legati all’osservanza della religione islamica, che per esempio vieta alla donna musulmana di unirsi in matrimonio con un uomo non musulmano; oppure per motivi legati ad eventi bellici che impediscono l’acquisizione dei documenti necessari o per altri motivi come per esempio l’assenza di una autorità deputata al rilascio della dichiarazione in questione (come avviene per i cittadini degli Stati Uniti o australiani). La giurisprudenza si è occupata di questi problemi spesso supplendo alla mancanza del nulla osta (Trib. Piacenza, 5 maggio 2011) o negando valore a divieti delle autorità straniere basati su presupposti ritenuti contrari all’ordine pubblico (Trib. Venezia , 4 luglio 2012). La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale questa disposizione nella parte in cui non prevede che lo straniero, in mancanza di quella dichiarazione, possa provare con ogni mezzo la ricorrenza delle condizioni previste nella legislazione di provenienza, fatto sempre salvo il divieto di condizioni contrarie all’ordine pubblico (Corte cost. 30 gennaio 2003, n. 14). Nella motivazione la Corte richiama la prassi di molti tribunali all’esito del procedimento previsto nell’art. 98 del codice civile (ricorso al tribunale in camera di consiglio contro il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di eseguire le pubblicazioni matrimoniali e quindi contro il rifiuto di ammettere lo straniero al matrimonio in Italia) affermando che, del tutto legittimamente, il giudice può autorizzare le pubblicazioni (e quindi il matrimonio) nei casi in cui la mancata autorizzazione avrebbe effetti discrimina¬tori frustrando il diritto primario di tutte le persone di unirsi in matrimonio.
L’art. 116 del codice civile prevedeva anche che insieme al nulla osta dell’autorità del proprio Paese lo straniero dovesse presentare anche “un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano” ma la Corte costituzionale ha eliminato questo obbligo considerandolo lesivo del diritto fondamentale di chiunque di contrarre matrimonio (Corte cost. 25 luglio 2011, n. 245).
Il citato articolo 116 del codice civile, in ogni caso, prescrive che anche lo straniero è soggetto alle disposizioni contenute negli articoli 85, 86, 87 n. 1 , 2 e 4, 88 e 89 del codice. Non è indicato l’art. 84 sul limite minimo di età ai diciotto anni; pertanto uno straniero potrebbe sposarsi in Italia anche se di età inferiore senza chiedere alcuna autorizzazione e sempre che ciò sia ammesso nel suo Stato di provenienza.
II
L’acquisto della cittadinanza italiana da parte dello straniero che contrae matrimonio
con un italiano
La disciplina della cittadinanza italiana è regolata dalla legge 5 febbraio 1992, n. 91 (e relativi regolamenti di esecuzione: in particolare il DPR 12 ottobre 1993, n. 572 e il DPR 18 aprile 1994, n. 362) nel testo modificato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”. A differenza della legge precedente 13 giugno 1912, n. 555, viene rivalutato il peso della volontà individuale nell’acquisto e nella perdita della cittadinanza, riconoscendo anche il diritto alla titolarità contemporanea di più cittadinanze.
Il testo dell’art. 65 prima della riforma del 2009 prevedeva che il coniuge, straniero di cittadino italiano potesse acquistare la cittadinanza italiana dopo aver risieduto legalmente da almeno sei mesi nel territorio della Repubblica, ovvero dopo tre anni dalla data del matrimonio, se non vi è stato scioglimento, annulla-mento o cessazione degli effetti civili e se non sussiste separazione legale.
Il testo delle norma riformato nel 2009 prevede ora quanto segue:
Art. 5. – 1. Il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica,
2. I termini di cui al comma 1 sono ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai coniugi».
Il richiamato art. 7 della legge 91 del 1992 prescrive le modalità con cui va presentata l’istanza per ottenere, dopo il matrimonio con un italiano, la cittadinanza, stabilendo che essa si acquista a istanza dell’interessato, presentata al sindaco del comune di residenza o alla competente autorità consolare. L’acquisto non è automatico. L’interessato come sopra detto deve presentare una istanza documentata.
Costituiscono cause preclusive all’acquisto della cittadinanza: a) sentenze di condanna per reati per i quali sia prevista una pena non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione o di sentenze di condanna da parte di un’autorità giudiziaria straniera ad una pena superiore ad un anno per reati non politici; b) condanne per uno dei delitti previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II e III del codice penale (delitti contro la oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, qualora, al momento dell’adozione del decreto di cui all’articolo 7, comma 1, non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi. personalità dello Stato; c) ragioni di sicurezza.
Ai sensi della direttiva del Ministro dell’Interno del 7 marzo 2012, a partire dal 1° giugno 2012 la competenza ad emanare i decreti di concessione della cittadinanza spetta: al Prefetto per le domande presentate dallo straniero legalmente residente in Italia; al Capo del dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, qualora il coniuge straniero abbia la residenza all’este¬ro; al Ministro dell’Interno nel caso sussistano ragioni inerenti alla sicurezza della Repubblica.
A partire dal 16 agosto 1992 (data di entrata in vigore della legge n. 91/92) l’acquisto di una cittadinanza straniera non determina la perdita della cittadinanza italiana a meno che il cittadino italiano non vi rinunci formalmente ai sensi dell’art. 11 della legge n. 91/92 (Cass. civ. Sez. VI, 5 novembre 2015, n. 22608).
III
I matrimoni misti simulati
Per l’ipotesi in cui un matrimonio venga celebrato al solo fine di consentire l’acquisto della cittadinanza italiana occorre ricordare che l’art. 123 del codice ci¬vile prevede la possibilità di impugnazione del matri-monio in caso di simulazione (cioè allorché i coniugi abbiano convenuto in sostanza di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti connessi al matri¬monio), ma che l’azione non può essere più proposta decorso un anno dalla celebrazione, ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi dopo il matrimonio.
Tuttavia, gli unici che potrebbero rilevare la simulazio¬ne sono i coniugi (o i partner dell’unione civile sem-pre ai sensi dell’art. 123 c.c,.richiamato nel comma 5 dell’art.1 della legge 20 maggio 2016, n. 76)
Si tratta in sostanza di u matrimonio celebrato per finalità fraudolente rispetto alla disciplina civilistica, oppure fiscale, previdenziale, giuridica, successoria.
Non possono trovare naturalmente applicazione le norme sulla illiceità del contratto per illiceità della causa (art. 1343 c.c.) o per frode alla legge (art. 1344 c.c.) trattandosi di specifiche norme dettate per il con¬tratto (ad essenziale contenuto patrimoniale).
Per i matrimoni simulati e quindi anche per quelli con¬tratti al solo fine di assicurarsi benefici, appunto in materia di immigrazione o cittadinanza, la dottrina ha fatto notare che la concezione di tipo privatistico del matrimonio simulato non consentirebbe di dichiarare nullo il matrimonio fraudolento celebrato al fine di elu¬dere norme di rilevanza pubblicistica. Viene però citata (nella raccolta di giurisprudenza sul diritto di famiglia a cura di FERRANDO, volume I, pag. 114) una senten¬za inedita della Corte d’appello di Roma del 28 marzo 2000 in cui la Corte ritenne ammissibile la legittima¬zione attiva del Pubblico ministero per l’impugnazione di un matrimonio simulato tra una straniera e un cit¬tadino italiano sul presupposto che si tratterebbe di un matrimonio radicalmente nullo per illiceità della causa. Tuttavia non si può fare allo stato della legislazione, sicuro affidamento su un intervento di riequilibrio azio¬nato dal pubblico ministero, in quanto le norme sul matrimonio (e sull’unione civile tra persone dello stes¬so sesso) prevedono l’impugnativa per nullità da parte del pubblico ministero nelle sole ipotesi previste nel codice e nei termini ivi indicati, tra cui non è compresa la costituzione del vincolo in frode alla legge.
In ogni caso la giurisprudenza,per evitare facili stru¬mentalizzazioni (e richiamando l’art. 19 del Testo unico sull’immigrazione dove si parla espressamen¬te di coniuge convivente) non ammette il rilascio del permesso o della carta di soggiorno allo straniero extracomunitario che contragga matrimonio con un italiano senza che ne segua la convivenza (Cass. civ. Sez. VI, 7 luglio 2016, n. 13831; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23598; Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18220; Cass. civ. Sez. I, 18 luglio 2006, n. 16452; Cass. civ. Sez. I, 8 feb¬braio 2006, n. 2821; Cass. civ. Sez. I, 25 novem¬bre 2005, n. 25027; Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2005, n. 2539). La prova della convivenza secondo queste sentenze è a carico dello stesso straniero, non essendo la convivenza presumibile in base al mero vincolo coniugale né alle mere risultanze anagrafiche.
Finché il matrimonio non è dichiarato nullo – per qual¬siasi motivo – esso produce in Italia tutti i suoi effetti (Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5537 che fa riferimento ad un matrimonio celebrato in violazione dell’art. 86 del codice civile da chi non aveva libertà di stato e Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1999, n. 1739 concernente un matrimonio contratto all’estero da un italiano secondo un ordinamento poligamico ma nel rispetto della forma prevista in quello Stato).
IV
Il regime personale e patrimoniale
nei matrimoni misti
La legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale) prevede per quanto concerne i rapporti personali all’art. 29, comma 2, che “I rapporti personali tra coniugi aventi diverse cittadi¬nanza … sono regolati dalla legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata”.
Per quanto invece attiene ai rapporti patrimoniali, l‘art. 30 dispone ai primi due commi che“I rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati dalla legge ap¬plicabile ai loro rapporti personali. I coniugi possono tuttavia convenire per iscritto che i loro rapporti pa¬trimoniali sono regolati dalla legge dello Stato di cui almeno uno di essi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede. L’accordo dei coniugi sul diritto appli-cabile è valido se è considerato tale dalla legge scelta o da quella del luogo in cui l’accordo è stato stipulato”.
Tale regime, come chiarisce il terzo comma, sarà op¬ponibile ai terzi solo se questi ne abbiano avuto cono-scenza o lo abbiano ignorato per loro colpa.
Il Regolamento europeo n. 1103 del 24 giugno 2016 (pubblicato sulla GU dell’Unione europea dell’8 luglio 2016 ed in vigore dal 28 luglio 2016) relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia di rapporti patrimoniali tra coniugi, prevede all’art. 22 la possibi¬lità di scelta della legge applicabile, prescrivendo che i coniugi o nubendi possono designare o cambiare di comune accordo la legge applicabile al loro regime pa¬trimoniale, a condizione che tale legge sia una delle leggi seguenti: a) la legge dello Stato della residenza abituale dei coniugi o nubendi, o di uno di essi, al momento della conclusione dell’accordo; o b) la legge di uno Stato di cui uno dei coniugi o nubendi ha la cit¬tadinanza al momento della conclusione dell’accordo.
Il principio di asserita tipicità delle convenzioni matri¬moniali risulta è fortemente ridimensionato se non altro con riferimento alla possibilità per i coniugi di adottare un regime patrimoniale previsto in altri ordinamenti.
Resta fermo il principio che “gli sposi non possono de¬rogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio” e questo è certamente l’unico limite di ordine pubblico che incontrano anche le con¬venzioni matrimoniali atipiche (comprese quelle stra¬niere da considerare atipiche rispetto a quelle indica¬te nel nostro codice civile). L’art. 31 del regolamento prevede, infatti, che “l’applicazione di una disposizione della legge di uno Stato specificata dal presente rego¬lamento può essere esclusa solo qualora tale applica¬zione risulti manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico del foro”.
V
La disciplina della separazione e del divorzio
Per individuare la regolamentazione della separazio¬ne e del divorzio in caso di matrimoni misti bisogna distinguere il matrimonio tra un italiano ed uno stra¬niero non appartenente ad un paese europeo e il ma-trimonio tra cittadini di Stati europei.
Per quanto concerne la legge applicabile trova in en¬trambi i casi applicazione la legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazio¬nale privato) la quale all’art. 31 prevede che per i ma-trimoni misti la legge applicabile è quella dello Stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente lo-calizzata (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2011, n. 7599; Cass. civ. Sez. Unite, 17 febbraio 2010, n. 3680). La legge sarà quindi quella italiana nel caso in cui i co¬niugi di diversa cittadinanza vivono prevalentemente in Italia. Naturalmente se lo straniero ha acquistato la cittadinanza italiana sposando un italiano la legge applicabile sarà quella italiana perché comune (Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18613).
Per quanto invece concerne la competenza giurisdizio¬nale, nel caso di matrimonio misto extraeuropeo soc¬corrono solo le norme italiane di diritto internazionale privato che individuano come criterio generale quello della residenza del convenuto (art. 3) mentre nel caso di matrimonio contratto tra un italiano e uno stranie¬ro prevede che la giurisdizione del giudice italiano in materia di separazione, divorzio o annullamento del matrimonio (e cioè la possibilità di separarsi in Italia o di divorziare o di chiedere l’annullamento in Italia) sussiste se il matrimonio è stato celebrato in Italia o se almeno uno dei due coniugi è residente in Italia.
Per i matrimoni, invece, contratti tra persone appar¬tenenti all’Unione Europea, troverà applicazione il Re-golamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003 relativo alla competenza, al riconosci-mento e all’esecuzione delle decisioni in materia ma¬trimoniale e in materia di responsabilità genitoriale. Tale Regolamento contiene enorme che derogano alla legge 218/1995 valida invece nei soli rapporti con cit¬tadini di Paesi extraeuropei.
Il Regolamento europeo si applica al divorzio, alla se¬parazione, all’annullamento del matrimonio e a tutte le questioni concernenti la responsabilità genitoriale. Si tratta di un Regolamento che disciplina in sostanza l’individuazione del giudice competente ad occupar¬si sia delle decisioni di divorzio, di separazione e di annullamento del matrimonio (escluse le obbligazioni alimentari e quindi escluse tutte le questioni relative alle obbligazioni di mantenimento che restano fuori dal campo di applicazione del regolamento 2201) sia dei procedimenti concernenti l’affidamento di minori e in genere la responsabilità dei genitori sui figli minori nati nel matrimonio o fuori del matrimonio.
L’individuazione del giudice competente ad occuparsi di una domanda di separazione, divorzio o annulla-mento del matrimonio tra cittadini di differenti paesi europei è determinata in base esclusivamente ad uno dei sei criteri indicati nell’articolo 3 del Regolamento, con la precisazione che i criteri elencati – da seleziona¬re nell’ordine con cui sono elencati – sono i seguenti: 1) residenza abituale dei coniugi; 2) ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora; 3) residenza abituale del coniuge convenuto; 4) in caso di domanda congiunta, la residenza abituale di uno dei coniugi; 5) la residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto per almeno un anno prima della domanda; 6) residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto per almeno sei mesi immediatamente prima della domanda ed è cittadino di quello Stato.
Il giudice di fronte al quale è presentata quindi una domanda di separazione, di divorzio o di annullamen¬to deve esaminare nell’ordine i criteri e può dichia¬rarsi competente soltanto se uno di questi criteri è soddisfatto.
Per esempio, nel caso di crisi matrimoniale tra il mari¬to italiano e la moglie francese, che vivono in Italia, se uno dei due coniugi presenta domanda di separazione in Italia, il giudice italiano verifica nell’ordine l’esisten¬za di uno dei sei criteri indicati nell’articolo 3 e – veri¬ficato che in Italia vi è la residenza abituale dei coniu¬gi (criterio n. 1) si dichiarerà senz’altro competente, senza passare ai criteri successivi. Se è la moglie che, tornata in Francia, presenta nel suo Paese, per esem¬pio dopo otto mesi dal rientro in patria, domanda di separazione o di divorzio, il giudice francese esamine¬rà anche lui nell’ordine i sei criteri e potrà dichiararsi competente soltanto in base al criterio n. 6 in quanto la Francia è il paese di residenza abituale dell’attore (cioè della moglie) e la moglie francese vi risiede da almeno sei mesi.
Si ricava quindi la regola generale secondo la qua¬le in caso di matrimonio misto il coniuge straniero può presentare domanda di separazione, divorzio o annullamento nel suo Paese solo dopo sei mesi da quando vi ha fatto rientro. Pertanto se il coniuge ita¬liano vuole evitare la causa matrimoniale all’estero deve presentare la sua domanda in Italia entro quel periodo di tempo.
Può verificarsi naturalmente il caso in cui entrambi i coniugi presentino una domanda nel proprio Paese d’origine che risponde correttamente ad uno dei cri¬teri indicati nell’art. 3 del regolamento potendo quindi attivarsi per entrambi la competenza del proprio giu¬dice nazionale. Nell’esempio sopra fatto, ove il marito italiano abbia presentato domanda davanti al giudice italiano e la moglie francese lo presenti davanti al giu¬dice francese dopo sei mesi da quando ha fatto rientro nel suo Stato d’origine, entrambi i giudici (quello ita¬liano e quello francese) potranno dichiararsi compe¬tenti. In tal caso – nel caso cioè in cui entrambi i giu¬dici abbiano competenza – è considerato competente il giudice preventivamente adìto mentre quello adìto successivamente deve sospendere il procedimento e successivamente dichiarare la propria incompetenza (art. 19 del Regolamento).
Vi è da aggiungere che da un punto di vista dei rap¬porti tra diversi Paesi europei si dovrebbe parlare correttamente di competenza mentre nelle sentenze italiane i giudici preferiscono parlare di giurisdizione o al più di competenza giurisdizionale (Cass. civ. Sez. Unite, 12 febbraio 2013, n. 3268; Cass. civ. Sez. Unite, 13 febbraio 2012, n. 1984; Cass. civ. Sez. Unite Ordinanza, 30 novembre 2011, n. 30646).
VI
Matrimoni misti e disposizioni
sull’immigrazione
Per i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione eu¬ropea (e per gli apolidi) trova applicazione in Italia il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e delle norme sulla condizione dello straniero ( D. L.vo 25 luglio 1998, n. 286) che ricono¬sce in linea generale allo straniero “regolarmente sog¬giornante” nel territorio dello Stato i “diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano” (art. 3, comma 2) nella prospettiva soprattutto di favorire processi di in¬tegrazione (art. 4-bis inserito dall’art. 1, comma 25, della legge 15 luglio 2009, n. 94 come poi modificato dal D. L.vo 4 marzo 2014, n. 4 che fa obbligo di fornire allo straniero con il permesso di soggiorno ogni infor¬mazione sui diritti a lui riconosciuti).
Si è visto che al matrimonio con un cittadino italia¬no consegue il diritto per lo straniero (quale ne sia l’origine) di acquisto della cittadinanza italiana dopo aver risieduto “legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica” e sempre non sia interve¬nuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la se¬parazione personale dei coniugi (art. 5 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 come modificata dalla legge 15 luglio 2009, n. 94).
Si è ugualmente visto che lo straniero extracomuni¬tario può contrarre matrimonio in Italia anche ove sprovvisto di permesso di soggiorno, ma sempre che possa produrre le certificazioni indicate nell’art. 116 del codice civile. Si è ricordata anche la prassi di molti tribunali all’esito del procedimento previsto nell’art. 98 del codice civile (ricorso al tribunale in camera di consiglio contro il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di eseguire le pubblicazioni matrimoniali e quindi contro il rifiuto di ammettere lo straniero al matrimonio in Italia) convalidata da Corte cost. 30 gennaio 2003, n. 14 dove si afferma che del tutto legittimamente il giudice può autorizzare le pubblicazioni (e quindi il matrimonio) nei casi in cui la mancata autorizzazione avrebbe effetti discriminatori frustrando il diritto pri¬mario di tutte le persone di unirsi in matrimonio.
Il cittadino extracomunitario, una volta coniugato con un cittadino italiano, non può essere espulso dal terri¬torio italiano e ha diritto al rilascio di un titolo di soggiorno (art. 19, comma 2, lettera c, del Testo unico sull’immigrazione) e cioè, in sostanza il diritto al rilascio di una «Carta di soggiorno di un familiare di un cittadino” chiama¬ta carta di soggiorno per coesione familiare (Cass. civ. Sez. VI, 2 settembre 2014, n. 18553). L’art. 19, comma 2, lett. c qui richiamato prevede appunto il divieto di espulsione “degli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di na¬zionalità italiana”. Non rientra tra le ipotesi del divieto di espulsione la convivenza more uxorio dello stra¬niero con un italiano (Cass. civ. Sez. I, 25 gennaio 2011, n. 1683).
Si tratta in sostanza di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato (art. 9 Testo Unico).
Pertanto il matrimonio con un italiano ha per lo stra¬niero extracomunitario lo speciale effetto di consen-tire il soggiorno sul territorio dello Stato (salvi i casi di espulsione sempre ammessa per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato richiamati al primo comma dell’art. 13 del testo unico).
Dopo la celebrazione del matrimonio, pertanto, i due coniugi devono recarsi direttamente in Questura, competente per l’esame delle domande di rilascio e rinnovo delle carte di soggiorno (Cass. civ. Sez. VI, 7 luglio 2016, n. 13831).
VII
Il ricongiungimento familiare
Sono considerati regolarmente soggiornanti gli stra¬nieri extracomunitari che fanno ingresso nel territorio dello Stato in possesso del passaporto e con visto d’in¬gresso rilasciato dalla rappresentanze diplomatiche o consolari italiane nello Stato di origine. Lo straniero entrato regolarmente deve richiedere entro otto giorni al Questore della provincia in cui si trova il permesso di soggiorno la cui durata, nei casi di ricongiungimen¬to familiare ha durata non superiore ai due anni (art. 5, comma 3-sexies, come inserito dalla legge 30 lu¬glio 2002, n. 189). Almeno sessanta giorni prima della scadenza il permesso va rinnovato per una durata non superiore a quella stabilita per il rilascio iniziale, pre¬via verifica delle condizioni previste per il rilascio. Se mancano le condizioni il permesso di soggiorno non viene rilasciato o non viene rinnovato. Agli stranieri in possesso di almeno cinque anni di un permesso di soggiorno in corso di validità e agli stranieri titola¬ri di protezione internazionale può essere rilasciato a determinate condizioni un permesso di soggiorno di lungo periodo (art. 9 TU).
Gli stranieri che fanno ingresso nel territorio italiano al di fuori delle condizioni sopra indicate possono fare domanda di protezione internazionale o possono ot¬tenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari (art. 5, comma 6 del TU) a richiesta dell’organo di esame della istanza di riconoscimento dello status di rifugiato (D. L.vo 19 novembre 2007, n. 251).
In seguito al matrimonio con un italiano lo straniero può richiedere come detto la carta di soggiorno a tem-po indeterminato.
In assenza delle condizioni sopra previste lo straniero che fa ingresso o che si intrattiene nel territorio italia¬no è oggetto di respingimento (art. 10) o di espulsio¬ne (art. 131). Contro le immigrazioni clandestine – in sostanza contro l’ingresso effettuato clandestinamen¬te sottraendosi ai controlli di frontiera o contro la per¬manenza senza permesso di soggiorno – sono previste nel Testo unico norme apposite (art. 12) integrate e modificate da numerose successive misure legislative di contrasto.
In questi casi, avverso il provvedimento di espulsione disposto dal prefetto, l’interessato può presentare ri¬corso all’autorità giudiziaria ordinaria (art. 13, comma 8). Il procedimento è regolato dall’art. 18 del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 (cosiddette di¬sposizioni sulla semplificazione dei procedimenti civili) che, per le controversie in materia di espulsione dei cittadini di Stati che non sono membri dell’Unione eu¬ropea aventi ad oggetto l’impugnazione del decreto di espulsione, prescrive il rito sommario di cognizione.

1 L’art. 13 comma 5-bis del TU prevede che l’espulsione è di¬sposta dal prefetto ed eseguita da questore il quale comunica immediatamente e, comunque, entro quarantotto ore dalla sua adozione, al giudice di pace territorialmente competente il provvedimento con il quale è disposto l’accompagnamento alla frontiera. L’esecuzione del provvedimento del questore di allontanamento dal territorio nazionale è sospesa fino alla decisione sulla convalida. L’udienza per la convalida si svol¬ge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria di un difensore tempestivamente avvertito. L’interessato è anch’esso tempestivamente informato e condotto nel luogo in cui il giudice tiene l’udienza. Lo straniero è ammesso all’as¬sistenza legale da parte di un difensore di fiducia munito di procura speciale. Lo straniero è altresì ammesso al patrocinio a spese dello Stato, e, qualora sia sprovvisto di un difensore, è assistito da un difensore designato dal giudice nell’ambito dei soggetti iscritti nella tabella di cui all’articolo 29 delle nor¬me di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, nonché, ove necessario, da un interprete. L’autorità che ha adottato il provvedimento può stare in giudizio per¬sonalmente anche avvalendosi di funzionari appositamente delegati. Il giudice provvede alla convalida, con decreto mo¬tivato, entro le quarantotto ore successive, verificata l’osser-vanza dei termini, la sussistenza dei requisiti previsti dal pre¬sente articolo e sentito l’interessato, se comparso. In attesa della definizione del procedimento di convalida, lo straniero espulso è trattenuto in uno dei centri di identificazione ed espulsione, di cui all’articolo 14, salvo che il procedimento possa essere definito nel luogo in cui è stato adottato il prov¬vedimento di allontanamento anche prima del trasferimento in uno dei centri disponibili. Quando la convalida è concessa, il provvedimento di accompagnamento alla frontiera diven¬ta esecutivo. Se la convalida non è concessa ovvero non è osservato il termine per la decisione, il provvedimento del questore perde ogni effetto. Avverso il decreto di convalida è proponibile ricorso per cassazione. Il relativo ricorso non sospende l’esecuzione dell’allontanamento dal territorio na¬zionale. Il termine di quarantotto ore entro il quale il giudice di pace deve provvedere alla convalida decorre dal momento della comunicazione del provvedimento alla cancelleria.

2 Art. 18 (Delle controversie in materia di espulsione dei cit¬tadini di Stati che non sono membri dell’Unione europea)
1. Le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del de¬creto di espulsione pronunciato dal prefetto ai sensi del de¬creto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo.
2. È competente il giudice di pace del luogo in cui ha sede l’autorità che ha disposto l’espulsione.
3. Il ricorso è proposto, a pena di inammissibilità, entro tren¬ta giorni dalla notificazione del provvedimento, ovvero entro sessanta giorni se il ricorrente risiede all’estero, e può essere depositato anche a mezzo del servizio postale ovvero per il tramite di una rappresentanza diplomatica o consolare italia¬na. In tal caso l’autenticazione della sottoscrizione e l’inoltro all’autorità giudiziaria italiana sono effettuati dai funzionari della rappresentanza e le comunicazioni relative al procedi¬mento sono effettuate presso la medesima rappresentanza. La procura speciale al difensore è rilasciata altresì dinanzi all’autorità consolare.
4. Il ricorrente è ammesso al gratuito patrocinio a spese dello Stato, e, qualora sia sprovvisto di un difensore, è assistito da un difensore designato dal giudice nell’ambito dei soggetti iscritti nella tabella di cui all’articolo 29 delle norme di attua¬zione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, nonché, ove necessario, da un interprete.
5. Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato a cura della cancelleria all’autorità che ha emesso il provvedimento almeno cinque giorni prima della medesima udienza.
6. L’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato può costituirsi fino alla prima udienza e può stare in giudizio personalmente o avvalersi di funzionari appositamente delegati.
7. Il giudizio è definito, in ogni caso, entro venti giorni dalla data di deposito del ricorso.
8. Gli atti del procedimento e la decisione sono esenti da ogni tassa e imposta.
9. L’ordinanza che definisce il giudizio non è appellabile.
3 Art. 19 (Delle controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale)
1. Le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei prov¬vedimenti previsti dall’articolo 35 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, sono regolate dal rito sommario di co¬gnizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo.
2. È competente il tribunale, in composizione monocratica, del capoluogo del distretto di corte di appello in cui ha sede la Commissione territoriale per il riconoscimento della pro¬tezione internazionale che ha pronunciato il provvedimento impugnato.
Sull’impugnazione dei provvedimenti emessi dalla Commis¬sione nazionale per il diritto di asilo è competente il tribunale, in composizione monocratica, del capoluogo del distretto di corte di appello in cui ha sede la Commissione territoriale che ha pronunciato il provvedimento di cui è stata dichiarata la revoca o la cessazione. Nei casi di accoglienza o trattenimento disposti ai sensi degli articoli 20 e 21 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, è competente il tribunale, in compo¬sizione monocratica, che ha sede nel capoluogo di distretto di corte di appello in cui ha sede il centro ove il ricorrente è accolto o trattenuto.
3. Il ricorso è proposto, a pena di inammissibilità, entro tren¬ta giorni dalla notificazione del provvedimento, ovvero entro sessanta giorni se il ricorrente risiede all’estero, e può essere depositato anche a mezzo del servizio postale ovvero per il tramite di una rappresentanza diplomatica o consolare italia¬na. In tal caso l’autenticazione della sottoscrizione e l’inoltro all’autorità giudiziaria italiana sono effettuati dai funzionari della rappresentanza e le comunicazioni relative al procedi¬mento sono effettuate presso la medesima rappresentanza. La procura speciale al difensore è rilasciata altresì dinanzi all’autorità consolare. Nei casi di accoglienza o trattenimento disposti ai sensi degli articoli 20 e 21 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, i termini previsti dal presente comma sono ridotti della metà.
4. La proposizione del ricorso sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, tranne che nelle ipotesi in cui il ricorso viene proposto:
a) da parte di soggetto ospitato nei centri di accoglienza ai sensi dell’articolo 20, comma 2, lettere b) e c), del decreto le¬gislativo 28 gennaio 2008, n. 25, o trattenuto ai sensi dell’ar¬ticolo 21 del medesimo decreto legislativo, ovvero
b) avverso il provvedimento che dichiara inammissibile la do¬manda di riconoscimento dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria, ovvero
c) avverso il provvedimento adottato dalla Commissione ter¬ritoriale nell’ipotesi prevista dall’articolo 22, comma 2, del de¬creto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, ovvero
d) avverso il provvedimento adottato dalla Commissione ter¬ritoriale che ha dichiarato l’istanza manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 32, comma 1, lettera b-bis), del citato decreto legislativo.
5. Nei casi previsti dal comma 4, lettere a), b), c) e d), l’ef¬ficacia esecutiva del provvedimento impugnato può essere sospesa secondo quanto previsto dall’articolo 5. Quando l’i¬stanza di sospensione viene accolta, al ricorrente è rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta di asilo e ne viene disposta l’accoglienza ai sensi dell’articolo 36 del decreto legi¬slativo 28 gennaio 2008, n. 25.
6. Il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza sono noti¬ficati, a cura della cancelleria, all’interessato e al Ministero dell’interno, presso la Commissione nazionale ovvero presso la competente Commissione territoriale, e sono comunicati al pubblico ministero.
7. Il Ministero dell’interno, limitatamente al giudizio di primo grado, può stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri dipendenti o di un rappresentante designato dalla Commis¬sione che ha adottato l’atto impugnato. Si applica, in quanto compatibile, l’articolo 417-bis, secondo comma, del codice di procedura civile.
8. La Commissione che ha adottato l’atto impugnato può de¬positare tutti gli atti e la documentazione che ritiene necessari ai fini dell’istruttoria e il giudice può procedere anche d’ufficio agli atti di istruzione necessari per la definizione della con¬troversia.
9. L’ordinanza che definisce il giudizio rigetta il ricorso ovvero riconosce al ricorrente lo status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria ed è comunicata alle parti a cura della cancelleria.
10. La controversia è trattata in ogni grado in via di urgenza.

Ai fini che qui interessano non è necessario dare con¬to dei diversi adempimenti previsti e delle specifiche norme che regolamentano l’espulsione.
Il testo unico prevede anche, però, che lo straniero possa essere destinatario di misure di carattere uma-nitario e che quindi gli possa essere assicurata la pos¬sibilità di soggiornare sul territorio italiano per moti¬vi di protezione sociale (art. 18 e seguenti del Testo unico). Ciò può avvenire perché sono accertate gravi forme di violenza o di sfruttamento nei suoi confronti oppure perché lo straniero si torva in una particolare condizione di vulnerabilità (come la persecuzione per vari motivi nel suo Paese). In tali casi non è consen¬tita l’espulsione. Ugualmente non è consentita l’espul¬sione, se non per motivi di ordine pubblico o di sicu¬rezza dello Stato, dei minori di 18 anni, fatto salvo il loro diritto di seguire il genitore espulso, nonché degli stranieri conviventi con pare ti entro il secondo grado o con il coniuge italiano. Ugualmente non è consen¬tita l’espulsione delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio. Tutte le controversie in materia di diniego di questa protezione internazionale sono regolate dall’art. 19 del Decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150.

Tutto ciò premesso si deve ricordare che l’espressione “ricongiungimento familiare” si riferisce ad un istitu¬to riconosciuto a favore dei cittadini extracomunitari regolarmente soggiornanti sul territorio dello Stato attraverso il quale lo straniero extracomunitario, ti¬tolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo o di un permesso di soggiorno con durata non inferiore a un anno rilasciato per lavoro subordinato, autonomo, per asilo, per studio, motivi religiosi, ovvero, come visto, per motivi familiari o per motivi di protezione, può richiedere l’ingresso dei fa¬miliari residenti all’estero, al fine di ristabilire in modo continuativo l’unità della propria famiglia.
Quindi il ricongiungimento opera per lo straniero che deve ancora entrare in Italia.
L’ingresso è consentito a tempo determinato o inde¬terminato – a seconda delle motivazioni – previo visto d’ingresso rilasciato dalla nostra ambasciata situata nel paese d’origine del richiedente. L’ambasciata rila-scia il visto – e quindi consente allo straniero di ricon¬giungersi in Italia con il suo familiare – previo nulla osta rilasciato dalla prefettura del luogo di dimora del familiare in Italia, su richiesta del medesimo fami-liare attraverso la compilazione degli appositi moduli telematici. Quindi il ricongiungimento è richiesto dal familiare straniero che si trova in Italia. A sua volta lo straniero del quale si chiede il ricongiungimento dovrà presentare i documenti necessari a provare il rapporto di parentela direttamente al consolato italia-no nel suo paese d’origine.
Il più volte richiamato decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) riconosce, quindi, agli stranieri – purché presenti legalmente sul territorio nazionale – il diritto all’unità del nucleo familiare (titolo IV: diritto all’unità familiare e tutela dei minori).

La possibilità di esercitare tale diritto è però sottopo¬sta alla condizione naturalmente che lo straniero pre-sente in Italia documentati i legami di parentela con il familiare di cui chiede il ricongiungimento; nel caso in ciò sia reso impossibile dalle condizioni del paese di provenienza, o vi siano dubbi sulla veridicità dei cer-tificati presentati, le autorità consolari italiane sono ammesse a rilasciare la documentazione necessaria sulla base del risultato del test del DNA, effettuato a spese del richiedente.
In linea generale, solo i parenti stretti sono ammes¬si al ricongiungimento. Secondo l’articolo 29, si può chiedere l’ingresso: a) del coniuge non legalmente separato e di età non inferiore ai diciotto anni [situa-zione naturalmente che non riguarda lo straniero che ha contratto matrimonio con un italiano in Italia]; b) dei figli minori (di diciotto anni), anche del coniuge o nati fuori del matrimonio, non coniugati, a condizione che l’altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso. Si considerano equiparati ai figli anche i minori adottati, in affidamento, o sotto tutela; c) dei figli maggiorenni a carico, qualora per ragioni ogget-tive non possano provvedere alle proprie indispen¬sabili esigenze di vita in ragione del loro stato di salute che comporti invalidità totale; d) dei genitori a carico, qualora non abbiano altri figli nel Paese di origine o di provenienza, ovvero genitori ultrasessantacinquenni, qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro so-stentamento per documentati, gravi motivi di salute.
Secondo Cons. Stato Sez. III, 3 gennaio 2014, n. 1 i “legami familiari” rilevanti sono quelli indica¬ti dall’art. 29 del D.Lgs. n. 286/1998 (coniugi, figli minori, figli maggiorenni a carico, genitori a carico), con le precisazioni che: (i) non è necessaria la convi¬venza, dal momento che il dispositivo della sentenza della Corte parla di “legami familiari nel territorio dello Stato”, e non di familiari conviventi; (ii) nel rapporto tra genitori e figli non necessita che i figli siano at¬tualmente minorenni; perché se è vero che sono ri¬congiungibili solo i figli minorenni, è anche vero che la sentenza della Corte non fa riferimento alle persone che presentino “attualmente” i requisiti del ricongiun¬gimento, ma (anche) a quelle che a tempo opportuno avrebbero avuto titolo al ricongiungimento, ma non abbiano avuto necessità di avvalersene.
Vi è una ulteriore limitazione: l’art. 1-ter del decre¬to legislativo 286/98prevede che “Non è consentito il ricongiungimento dei familiari di cui alle lettere a) e d) del comma 1 [coniuge e genitori a carico], quando il familiare di cui si chiede il ricongiungimento è co¬niugato con un cittadino straniero regolarmente sog-giornante con altro coniuge nel territorio nazionale”. Si esclude, cioè (per evitare evidentemente gli effetti della bigamia o della poligamia) il ricongiungimento per lo straniero già coniugato con altro straniero le¬galmente residente.
In terzo luogo, il richiedente deve dimostrare di avere le capacità reddituali per il mantenimento del ricon-giunto. Il reddito minimo è pari all’assegno sociale aumentato della metà per ciascun ricongiungendo. Per il 2013 tale cifra è pari ad euro 5.749, 90 (euro 442,30 mensili): di conseguenza si potrà chiedere il ricongiungimento di un familiare se si dimostra un reddito derivante da fonte lecita di 8.624, 85 euro; di due familiari se si dimostra il reddito di 11.499,8 euro e così via. Ai fini della determinazione del reddito si tiene conto, però, del reddito annuo complessivo di tutto il nucleo familiare convivente.
Alle capacità reddituali si aggiungono la necessità di un alloggio considerato idoneo secondo i parametri comunali e, per il ricongiungendo ultra sessantacin¬quenne, la presenza di una assicurazione sanitaria o l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale. I requisiti di reddito, idoneità abitativa e assicurazione sanitaria per l’ascendente ultrasessantacinquenne non si appli¬cano nel caso di straniero a cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato.
Il nulla osta per il ricongiungimento viene rilasciato dalla prefettura competente, previa verifica di tutti i requisiti, entro 180 giorni dalla richiesta inviata – esclusivamente – per via telematica. La richiesta è re-spinta se il matrimonio o l’adozione del minore rego¬larmente soggiornante sono state fatte al solo scopo di entrare nel territorio nazionale.
Al nulla osta per ricongiungimento familiare segue il permesso di soggiorno per motivi familiari, che ha la stessa durata del permesso di soggiorno principale, e consente l’iscrizione ai servizi assistenziali, l’iscri-zione a corsi di studio o di formazione professionale, l’iscrizione nelle liste di collocamento, lo svolgimento di lavoro subordinato o autonomo. Lo straniero che abbia compiuto 65 anni e tre mesi di età, in possesso del permesso di soggiorno, che abbia soggiornato in via continuativa in Italia per più di dieci anni, e non provvisto di altri redditi, o con redditi inferiori ai limiti stabiliti dalla legge, è ammesso a richiedere l’assegno sociale o la differenza fra i suoi redditi ed il limite dei 5.749, 90 euro annui.
In caso di morte del titolare del permesso di soggiorno a titolo principale, o di scioglimento del vincolo matri¬moniale, il permesso di soggiorno per motivi familiari si può convertire in permesso di soggiorno per lavoro autonomo, o subordinato, o per studio.
Il Testo unico delle disposizioni concernenti la disci¬plina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero – come modificato dal decreto legislativo 8 gennaio 2007 n.5 (attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare) – all’articolo 5 n. 5 e 5-bis prevede, in caso di ricongiun¬gimento familiare, una valutazione più elastica dei requisiti di ingresso e soggiorno rispetto a quella nor¬malmente effettuata. Infatti, la decisione sul rinnovo, rilascio e revoca del permesso di soggiorno deve tene¬re “anche conto della natura e della effettività dei vin¬coli familiari dell’interessato, e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo paese d’origine nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale” (art. 5 n.5). La pericolosità per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato deve essere poi valutata “anche in considerazione di eventuali con¬danne per i reati previsti dagli articoli 380, commi 1 e 2, e 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, ovvero per i reati di cui all’articolo 12, commi 1 e 3” (art. 5, n. 5 bis).
Il fatto che si tratti di una valutazione meno rigida lo si ricava dalla circostanza che lo straniero condanna¬to per alcune tipologie di reati viene considerato pre¬suntivamente pericoloso, senza alcun riferimento ad altre considerazioni. All’amministrazione non è data la possibilità di valutare il comportamento nel caso concreto: alla condanna consegue, automaticamente, la revoca (o il mancato rinnovo, o il mancato rilascio) del permesso di soggiorno.
Più precisamente, l’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisce che “Non è ammesso in Italia lo straniero che (…) risulti condannato, anche con sen¬tenza non definitiva, compresa quella adottata a se-guito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del co¬dice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emi-grazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prosti¬tuzione o di minori da impiegare in attività illecite. Impedisce l’ingresso dello straniero in Italia anche la condanna, con sentenza irrevocabile, per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezio¬ne II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli articoli 473 e 474 del codice penale”. Poiché l’art. 5 n. 5stabilisce che “il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato, quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno nel ter-ritorio dello Stato”, ne risulta che lo straniero condan¬nato per i reati predetti non potrà entrare nel paese o dovrà lasciarlo.
Diverso è il caso dello straniero che abbia richiesto il ricongiungimento dei familiari, o che stia per ricon-giungersi lui stesso con parenti residenti in Italia: in tal caso i provvedimenti che incidono sul permesso di soggiorno devono sempre essere oggetto di valuta¬zione in concreto, con esclusione di ogni automatismo a pena di illegittimità (Cass. civ. Sez. VI, 28 mag¬gio 2014, n. 12006). Infatti – al di là della tecnica normativa utilizzata dall’articolo 5 di cui si è sopra detto – per il ricongiungendo, l’art. 4 n. 3 del D.lgs. 286/98 stabilisce “che lo straniero per il quale è ri¬chiesto il ricongiungimento familiare non è ammesso in Italia quando rappresenti una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Sta¬to”. La previsione della concretezza ed attualità del pericolo implica una valutazione discrezionale sulla situazione specifica, che non è richiesta, invece, per colui che chieda di entrare nel territorio nazionale senza ricongiungimento.
Questa differenza di procedura – provvedimento au¬tomatico nel primo caso, valutazione discrezionale nel secondo – costituisce il cuore di una vera e propria tutela rafforzata a garanzia del nucleo familiare. La ga-ranzia si estende fino a differenziare i reati rilevanti nei due casi: infatti, laddove ci sia richiesta di ricongiungi¬mento, non rilevano le condanne per delitti di contraf¬fazione ed in violazione della proprietà intellettuale.
La ragione di tale favor è il contemperamento del¬le esigenze di controllo delle frontiere e di garanzia dell’ordine pubblico con il diritto alla vita familiare ri¬conosciuto allo straniero regolare dalla Costituzione, dalla legge e dagli impegni internazionali.
La giurisprudenza amministrativa e civile più recente, in considerazione della riforma introdotta dal D.lgs. 5/2007, emessa in attuazione della direttiva europea 2003/86/CE, ha sottolineato questa posizione (Cons. Stato Sez. III, 12 novembre 2014, n. 5566; Cons. Stato Sez. III, 23 ottobre 2014, n. 5221; Cons. Stato Sez. III, 23 ottobre 2014, n. 5220; Cass. civ. Sez. VI, 3 settembre 2014, n. 18608; Cons. Stato Sez. III, 26 agosto 2014, n. 4325 e molte altre precedenti).

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 25 luglio 2016, n. 15343 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il celebrato via Skype secondo le forme e le modalità previste da un ordinamento straniero non contrasta con l’ordine pub¬blico italiano posto che, laddove l’atto matrimoniale è valido per l’ordinamento straniero in quanto da questo considerato idoneo a rappresentare il consenso matrimoniale dei nubendi in modo consapevole, esso non può ritenersi contrastante con l’ordine pubblico solo perché celebrato in una forma non pre¬vista dall’ordinamento italiano. Nell’anzidetta ipotesi, invero, non può intendersi ravvisabile violazione dell’ordine pubblico italiano, giacché il giudizio di compatibilità dell’ordine pubblico deve essere riferito al nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento; inoltre, il rispetto dell’ordine pubblico in sede di delibazione deve essere garantito avendo esclusivo riguardo agli effetti dell’atto straniero , senza possibilità di sottopor¬lo ad un sindacato di tipo contenutistico o di merito, né di correttezza della soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o di quello italiano. Di talché se l’atto matrimoniale è valido per l’ordinamento straniero, esso non può ritenersi con¬trastante con l’ordine pubblico solo perché celebrato in una forma non prevista dall’ordinamento italiano.
Cass. civ. Sez. VI, 7 luglio 2016, n. 13831 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il cittadino straniero che abbia contratto matrimonio con un cittadino italiano, dopo aver trascorso nel territorio nazionale il trimestre di soggiorno informale, è tenuto a richiedere la carta di soggiorno prescritta dall’art. 10 del d.lgs n. 30 del 2007, restando soggetto, finché non ottenga tale titolo, alla disciplina dettata dall’art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998 e dall’art. 28 del d.P.R. n. 394 del 1999, in virtù della quale, ai fini della concessione e del mantenimento del permesso di soggiorno per coesione familiare, è necessario il requisito della convivenza effettiva. (Nella specie, la S.C. ha confermato il provvedimento di merito che ha negato il permesso di soggiorno alla cittadina straniera in ragione del matrimonio contratto con un italiano, in quanto la stessa non aveva mai fatto precedentemente richiesta di analogo titolo e si era allontanata dal territorio nazionale poco tempo dopo la celebrazione delle nozze, rientrandovi dopo oltre nove anni senza mai avere convissuto con il coniuge).
Cass. civ. Sez. VI, 5 novembre 2015, n. 22608 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La perdita della cittadinanza italiana presuppone una rinuncia spontanea e volontaria da parte del cittadino, non potendo dirsi propriamente tale quella dettata dalla necessità, legi¬slativamente imposta, di acquisire la cittadinanza del coniu¬ge straniero e dovendo la volontà abdicativa essere oggetto di approfondito accertamento istruttorio, anche officioso, da parte del giudice.
Cons. Stato Sez. III, 12 novembre 2014, n. 5566 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di immigrazione la valutazione della pericolosità in concreto, da parte del Questore deve essere compiuta solo per quanti abbiano in Italia i legami familiari previsti dall’art. 29 del d.lgs. 286/1998 (T.U. immigrazione), con esclusione di ogni altro vincolo di consanguineità, poiché il superamen¬to dell’automatismo espulsivo e la conseguente necessità di valutare tale pericolosità, che l’art. 5, comma 5, del medesi¬mo T.U. riconosce in favore di chi abbia ottenuto un formale provvedimento di ricongiungimento familiare, può estendersi, pena l’irragionevole disparità di trattamento, solo “a chi, pur versando nelle condizioni sostanziali per ottenerlo, non abbia formulato istanza in tal senso”.
Cons. Stato Sez. III, 23 ottobre 2014, n. 5221 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei confronti dello straniero che si trovi nelle condizioni di aver esercitato il ricongiungimento familiare (o sia familiare ricongiunto) l’eventuale diniego del permesso di soggiorno (o del suo rinnovo) non discende automaticamente dalla presen¬za di una causa ostativa (quale ad es. le condanne penali) ma deve essere sempre preceduto da una valutazione discrezio¬nale che tenga conto dell’interesse dello straniero e della sua famiglia alla conservazione dell’unità familiare, mettendo tale interesse in comparazione con quello della comunità nazio¬nale ad allontanare un soggetto socialmente pericoloso; tale disciplina, benché riferita allo straniero che abbia usufruito di una procedura di ricongiungimento familiare, deve essere applicata (per necessità logico-giuridica) in tutti i casi in cui vi sia un nucleo familiare la cui composizione corrisponda a quella che, ove necessario, darebbe titolo ad una procedura di ricongiungimento, non rilevando in contrario che tale pro¬cedura in effetti non vi sia stata, essendosi il nucleo familiare costituito o ricostituito senza aver dovuto ricorrervi.
Cons. Stato Sez. III, 23 ottobre 2014, n. 5220 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei confronti dello straniero che si trovi nelle condizioni di aver esercitato il ricongiungimento familiare (o sia familiare ricongiunto) l’eventuale diniego del permesso di soggiorno (o del suo rinnovo) non discende automaticamente dalla presen¬za di una causa ostativa (quale ad es. le condanne penali) ma deve essere sempre preceduto da una valutazione discrezio¬nale che tenga conto dell’interesse dello straniero e della sua famiglia alla conservazione dell’unità familiare, mettendo tale interesse in comparazione con quello della comunità nazio¬nale ad allontanare un soggetto socialmente pericoloso; tale disciplina, benché riferita allo straniero che abbia usufruito di una procedura di ricongiungimento familiare, deve essere applicata (per necessità logico-giuridica) in tutti i casi in cui vi sia un nucleo familiare la cui composizione corrisponda a quella che, ove necessario, darebbe titolo ad una procedura di ricongiungimento, non rilevando in contrario che tale pro¬cedura in effetti non vi sia stata, essendosi il nucleo familiare costituito o ricostituito senza aver dovuto ricorrervi.
Cass. civ. Sez. VI, 3 settembre 2014, n. 18608 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di disciplina dell’immigrazione, l’art. 13, comma 2 bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (introdotto dal d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5), nel disporre che qualora debba adottarsi un provvedimento di espulsione, ai sensi del secondo comma, lett. a) e lett. b), della medesima disposizione, nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, si deve tenere an¬che conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché dell’esistenza dei legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese di origine, tende a salvaguardare il diritto alla vita familiare dello straniero in ogni caso in cui esso non contrasti con gli interessi pubblici.
Cass. civ. Sez. VI, 2 settembre 2014, n. 18553 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di immigrazione, il divieto di espulsione di cui all’art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, co¬stituisce condizione necessaria per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare, sicché non opera qualora, per ragioni di pericolosità sociale, sia stato revocato il titolo di soggiorno dello straniero, anche se fondato sulla medesima condizione soggettiva produttiva dell’inespellibilità.
Cons. Stato Sez. III, 26 agosto 2014, n. 4325 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei confronti dello straniero che si trovi nelle condizioni di aver esercitato il ricongiungimento familiare (o sia familiare ricongiunto) l’eventuale diniego del permesso di soggiorno (o del suo rinnovo) non discende automaticamente dalla presen¬za di una causa ostativa ma deve essere sempre preceduto da una valutazione discrezionale che tenga conto dell’interesse dello straniero e della sua famiglia alla conservazione dell’u¬nità familiare, mettendo tale interesse in comparazione con quello della comunità nazionale ad allontanare un soggetto socialmente pericoloso.
Cass. civ. Sez. VI, 28 maggio 2014, n. 12006 (Pluris, Wol¬ters Kluwer Italia)
In tema di immigrazione, il decreto di espulsione emesso nei confronti dello straniero che abbia omesso di chiedere, nei termini di legge, il rinnovo del permesso di soggiorno per ri¬congiungimento familiare, è illegittimo per violazione della clausola di salvaguardia della coesione familiare di cui all’art. 5, comma 5, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ove non con¬tenga alcun riferimento alle ragioni per cui non è stata presa in considerazione la sua situazione familiare.
Cass. civ. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 6205 (Pluris, Wol¬ters Kluwer Italia)
Al la luce della natura permanente ed imprescrittibile del di¬ritto al riconoscimento della cittadinanza italiana, i figli minori di una cittadina italiana, che abbia sposato uno straniero e stabilito la propria residenza all’estero, perdono la cittadinan¬za italiana, ai sensi dell’art. 12, terzo comma, della legge 13 giugno 1912, n. 555, esclusivamente nel caso in cui la madre, a seguito del matrimonio, abbia, ai sensi dell’art. 11 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, rinunciato spontaneamente e volontariamente alla cittadinanza italiana, senza che tale ri¬nunzia – alla luce delle sentenze della Corte costituzionale n. 87 del 1975 e n. 30 del 1983 – possa costituire la mera conse¬guenza dell’acquisto della cittadinanza del coniuge straniero (art. 10 della legge n. 555 del 1912) ovvero di una “volontà” abdicativa non liberamente determinata (art. 8 della legge n. 555 cit.). (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito assumendo che il rigetto della domanda di riconosci¬mento della cittadinanza italiana non era stato giustificato dall’accertamento rigoroso in ordine alla effettiva volontarietà della perdita della cittadinanza da parte della madre dei ri¬correnti al momento in cui quest’ultima, già cittadina italiana, nella vigenza del pregresso quadro normativo, aveva perso la cittadinanza in favore di quella libanese a causa del proprio matrimonio).
Cons. Stato Sez. III, 3 gennaio 2014, n. 1 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’applicazione del regime di favore dettato dall’art. 5, comma 5, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come modi¬ficato per effetto del D.Lgs. n. 5/2007, per i casi ricongiun¬gimento familiare, non è determinante la presenza o meno di una formale procedura di ricongiungimento. I “legami fa¬miliari” rilevanti sono quelli indicati dall’art. 29 del D.Lgs. n. 286/1998 (coniugi, figli minori, figli maggiorenni a carico, ge¬nitori a carico), con le precisazioni che: (i) non è necessaria la convivenza, dal momento che il dispositivo della sentenza della Corte parla di “legami familiari nel territorio dello Stato”, e non di familiari conviventi; (ii) nel rapporto tra genitori e figli non necessita che i figli siano attualmente minorenni; perché se è vero che sono ricongiungibili solo i figli minorenni, è anche vero che la sentenza della Corte non fa riferimento alle persone che presentino “attualmente” i requisiti del ri¬congiungimento, ma (anche) a quelle che a tempo opportuno avrebbero avuto titolo al ricongiungimento, ma non abbiano avuto necessità di avvalersene.
Cons. Stato, Sez. I, 9 ottobre 2013, n. 3164 (Pluris, Wol¬ters Kluwer Italia)
La dichiarazione di cui all’art. 116 c.c., la cui presentazione è prevista come onere in capo allo straniero che vuole con¬trarre matrimonio nello Stato, va valutata con riguardo alla sua connotazione sostanziale. Ai fini della sua validità, dun¬que, è necessario e sufficiente che la dichiarazione rilasciata dall’autorità estera accerti l’assenza di ostacoli al matrimonio, a prescindere dalle formule testuali impiegate.
ass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17620 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218, il matrimonio celebrato all’estero è valido nel nostro ordina¬mento, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione, o dalla legge nazionale di almeno uno dei nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento; tale principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido. Ne deriva che in tal caso il figlio va conside¬rato, a tutti gli effetti, nato in costanza di matrimonio, onde competente a decidere della regolamentazione dei rapporti personali ed economici fra questi e i genitori é il tribunale ordinario. (Regola competenza d’ufficio).
Cass. civ. Sez. Unite, 12 febbraio 2013, n. 3268 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 360, comma terzo, cod. proc. civ. come modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, ostativo al ricorso im¬mediato per cassazione avverso le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire neppure parzialmente il giu¬dizio, è applicabile all’ipotesi di litispendenza comunitaria, nel quadro delle regole dettate dagli artt. 19, 22, lett. b) e 24 del regolamento del Consiglio CE 27 novembre 2003, n. 2201, relativo alla competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabi¬lità genitoriale; infatti, da tale sistema normativo emerge che tanto l’accertamento della giurisdizione, quanto la declinato¬ria del giudice successivamente adito e la verifica dell’accet¬tazione della decisione da parte del contumace sono passag¬gi processuali rimessi al regime nazionale e non consentono di ipotizzare una deroga al differimento della ricorribilità per cassazione, nemmeno sotto il profilo della ragionevole durata del processo di accertamento, in difetto di norme che espres¬samente vi facciano riferimento.
Trib. Venezia, 4 luglio 2012 (Famiglia e Diritto, 2012, 12, 1143 nota di GELLI)
La prassi delle competenti autorità marocchine di subordinare il rilascio del nulla osta necessario ex art. 116 c.c. all’ade¬sione alla fede mussulmana dei nubendi risulta contraria ai principi fondamentali dell’ordinamento italiano, contrastando con diritti di rango costituzionale che non consentono di con-dizionare il matrimonio in dipendenza della fede religiosa. In tal caso, l’ufficiale di stato civile deve, pertanto, procedere alla pubblicazione del matrimonio in assenza di nulla osta del Paese d’origine ai sensi dell’art. 98 c.c.
Cass. Civ. Sez. I, 15 marzo 2012, n. 4184 (Giur. It., 2013, 2 nota di MAROTTI)
La non trascrivibilità in Italia del matrimonio tra persone dello stesso sesso non discende dalla sua inesistenza giuridica o in¬validità (per asserita contrarietà all’ordine pubblico), ma dalla inidoneità a produrre effetti giuridici per il nostro ordinamento giuridico.
Cass. civ. Sez. Unite, 13 febbraio 2012, n. 1984 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di giurisdizione sui provvedimenti “de potestate”, l’art. 8 del Regolamento (CE) del 27 novembre 2003, n. 2201 dà rilievo, al fine di stabilire la competenza giurisdizionale di uno stato membro, unicamente al criterio della residenza abi¬tuale del minore al momento della proposizione della doman¬da, intendendo come tale il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale e non quello risultante da un calcolo puramente aritmetico del vissuto.
Cass. civ. Sez. Unite, 30 novembre 2011, n. 30646 (Plu¬ris, Wolters Kluwer Italia)
La giurisdizione sulle domande relative all’affidamento dei figli ed al loro mantenimento, ove pure proposte congiuntamente a quella di separazione giudiziale, appartiene al giudice del luogo in cui il minore risiede abitualmente, a norma dell’art. 8 del Regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003. Tale criterio, informato all’interesse supe¬riore del minore e, segnatamente, al criterio della vicinanza, riveste una tale pregnanza, da condurre ad escludere che il consenso del genitore alla proroga della giurisdizione quanto alle domande concernenti i minori – pur ammessa dall’art. 12 del citato regolamento, in presenza del consenso di entrambi i coniugi – sia ravvisabile dalla mancata contestazione giuri¬sdizione da parte di un coniuge con riguardo alla domanda di separazione. (Dichiara giurisdizione)
Corte cost., 25 luglio 2011, n. 245 (Famiglia e Diritto, 2012, 3, 233 nota di PASCUCCI )
È costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 3, 29 e 117, primo comma, Cost. l’art. 116, primo comma, del codice civile come modificato dall’art. 1, comma 15, della leg¬ge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole “nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano”. Tale disposizione, infatti – nello stabilire che lo straniero che vuole contrarre matrimonio nella Repubblica deve presentare all’ufficiale dello stato civile, oltre al nulla osta rilasciato dalla competente autorità del proprio Paese, anche un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano – incide su di un diritto fondamentale quale quello di contrarre matrimonio, derivante dagli artt. 2 e 29 Cost., e rappresenta uno strumento non idoneo ad assicurare un ragionevole e pro¬porzionato bilanciamento dei diversi interessi coinvolti, tanto più che il D.Lgs. n. 286 del 1998 (T.U. immigrazione) già disci¬plina alcuni istituti volti a contrastare i cosiddetti “matrimoni di comodo”; oltre a ciò, tale disposizione è lesiva dell’art. 117, primo comma, Cost., perché la libertà matrimoniale è garan¬tita anche dall’art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Trib. Piacenza, 5 maggio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Ita¬lia)
In tema di matrimonio dello straniero nello stato italiano, si deve ritenere che il giudice possa supplire alla mancan¬za o alla inadeguatezza del certificato di nulla osta previsto dall’art. 116, comma 2, c.c., il quale rappresenta non una condizione per contrarre matrimonio ma soltanto una formali¬tà probatoria con valore puramente certificativo.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2011, n. 7599 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi non aventi la medesima nazionalità (e di scioglimento del matrimonio), l’art. 31, primo comma, della legge 31 maggio 1995, n. 218, prevede il criterio di collegamento, ai fini dell’accertamento della legge applicabile, del luogo della “vita matrimoniale”, che va inteso in senso dinamico, come centro principale degli interessi e degli affetti dei coniugi, il quale spesso, ma non necessariamente, coincide con la residenza familiare, potendo i componenti della famiglia anche avere residenze diverse; pertanto, ancorché per lungo tempo la vita matrimoniale sia stata localizzata in uno Stato, qualora successivamente, ed anche se da un breve lasso di tempo, si verifichi un mutamen¬to, è alla nuova localizzazione che il giudice deve fare riferi¬mento, rilevando il concreto atteggiarsi dei rapporti familiari al momento della presentazione della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 25 gennaio 2011, n. 1683 (Pluris, Wolt¬ers Kluwer Italia)
La convivenza “more uxorio” dello straniero con un cittadi¬no, ancorché giustificata dal tempo necessario affinché uno o entrambi i conviventi ottengano la sentenza di scioglimento del matrimonio dal proprio coniuge, non rientra tra le ipotesi tassative di divieto di espulsione ex art. 19, D.Lgs. 286/1998.
Cass. civ. Sez. Unite, 17 febbraio 2010, n. 3680 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della corretta individuazione della giurisdizione in un giudizio di separazione personale tra coniugi, cittadini di di¬versi Stati membri dell’Unione Europea, secondo i criteri sta¬biliti dall’art. 3 del Regolamento CEe n. 2201 del 2003, per “residenza abituale” della parte ricorrente deve intendersi il luogo in cui l’interessato abbia fissato con carattere di stabilità il centro permanente ed abituale dei propri interessi e relazio¬ni, sulla base di una valutazione sostanziale e non meramente formale ed anagrafica, essendo rilevante, sulla base del diritto comunitario, ai fini dell’identificazione della residenza effetti¬va, il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale ed eventualmente lavorativa alla data di proposi-zione della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18613 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 31, comma 1, della legge 31 maggio 1995, n. 218, la legge regolatrice della separazione personale di due coniugi, l’uno cittadino italiano e l’altro cittadino straniero che ha acquistato anche la cittadinanza italiana, è la legge italiana in quanto legge nazionale comune.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23598 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di disciplina dell’immigrazione, ai sensi degli artt. 19 e 30, comma 1-bis, del d.lgs. 25 luglio 1989, n. 286, il matrimonio con un cittadino italiano in tanto conferisce allo straniero il diritto al soggiorno in Italia, sia ai fini del rilascio del relativo permesso che ai fini del divieto di espulsione, in quanto ad esso faccia riscontro l’effettiva convivenza, e fino a quando sussista tale requisito, la cui prova è a carico dello stesso straniero , non essendo la convivenza presumibile in base al mero vincolo coniugale né alle mere risultanze ana¬grafiche. Tale disciplina non contrasta con il principio di dirit¬to comunitario che vieta ad uno Stato membro di negare il permesso di soggiorno e di adottare misure di espulsione nei confronti del cittadino di un Paese terzo che possa fornire la prova della sua identità e del suo matrimonio con un cittadi¬no di uno Stato membro, per il solo motivo che egli è entrato illegalmente nel suo territorio, essendo tale principio volto ad assicurare la tutela della vita familiare dei cittadini degli Sta¬ti membri, la quale postula proprio quella convivenza che il legislatore interno ha legittimamente eretto a parametro di meritevolezza della tutela accordata.
Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18220 (Famiglia e Diritto, 2007, 2, 145 nota di GELLI)
Ai fini del riconoscimento della sussistenza del divieto di espulsione amministrativa, previsto dall’art. 19, comma 2, lettera c), del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, a beneficio dello straniero convivente con il coniuge di nazionalità italiana, il riconoscimento di tale convivenza, la quale non è presu¬mibile in base all’esistenza del matrimonio e deve essere provata dall’espulso, resta escluso dall’accertamento circa la sussistenza di uno stato di separazione sia legale (giudiziale o consensuale, ex art. 150, secondo comma, cod. civ.), sia di fatto, tale da determinare la cessazione dei rapporti materiali e spirituali alla base della comune organizzazione domestica, ovvero del “consortium vitae”. La cessazione dello stato di separazione e dei relativi effetti è integrata solo dalla reale e concreta ripresa degli anzidetti rapporti materiali e spirituali, tale, cioè da possedere i caratteri della riconciliazione, di cui all’art. 157 cod. civ..
Cass. civ. Sez. I, 18 luglio 2006, n. 16452 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di disciplina dell’immigrazione, alla ipotesi di permes¬so di soggiorno contemplata dall’art. 30, comma primo, lett. a), del d.lgs. n. 286 del 1998, in favore dello straniero che abbia fatto ingresso in Italia al seguito del coniuge cittadi¬no italiano, all’epoca convivente, non è applicabile il comma 1-bis dello stesso art. 30 – introdotto dall’art. 29 della legge n. 189 del 2002 -, che stabilisce la revoca del permesso di soggiorno nel diverso caso in cui lo straniero , soggiornante in Italia da almeno un anno, abbia contratto matrimonio con cittadino italiano senza che ad esso sia seguita una effettiva convivenza tra i due, e sempre che dalla unione non siano nati figli. Infatti, nella ipotesi in esame, se la convivenza con il coniuge costituisce condizione per il rilascio del pemesso di soggiorno, la cessazione della stessa, che non dipenda da de¬cesso del coniuge, o da separazione personale o da divorzio, è irrilevante ai fini della legittimità del titolo di permanenza dello straniero nel territorio italiano.
Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2006, n. 2821 (Famiglia e Diritto, 2006, 5, 487 nota di RAVOT)
L’esistenza del matrimonio, ai fini della concessione del per¬messo di soggiorno, non può essere fittizia. La relativa prova della mancata strumentalità del matrimonio è data anche dall’effettiva convivenza tra i coniugi, per cui la non coabita¬zione tra il coniuge italiano e lo straniero è da sola ostativa alla concessione del permesso di soggiorno.
Cass. civ. Sez. I, 25 novembre 2005, n. 25027 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È legittimo il provvedimento di revoca del permesso di soggiorno concesso a cittadino straniero coniugato con cittadino italiano nel caso in cui venga accertato che lo straniero, dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno, si sia trasferito all›estero. Ai sensi dell›art. 30, c. 1, lett. b), D.Lgs. n. 286/1998, infatti, presupposto per il rilascio del permesso di soggiorno allo straniero coniugato con un cittadino italiano è, non solo la stabile convivenza dei coniugi, ma anche che questi ultimi abbiano fissato la residenza in Italia. Presupposto per il rilascio del permesso di soggiorno allo straniero coniugato con cittadino italiano è non soltanto la stabile convivenza dei coniugi (prevista espressamente dall›art. 30, comma primo bis, del d.lgs. n. 286 del 1998), ma anche che i coniugi abbiano fissato la loro residenza in Italia; ne consegue che è legittima la revoca del permesso di soggiorno disposta dal Questore, qualora accerti che lo straniero, dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno per motivi familiari, si sia trasferito all›estero.
Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2005, n. 2539 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il matrimonio contratto con un italiano non attribuisce senz’altro allo straniero il diritto di ottenere il permesso di soggiorno, ma è necessario l’ulteriore presupposto della convivenza con il coniuge, e ciò anche ai sensi dell’originaria formulazione dell’art. 30 D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (antecedente, cioè, all’introduzione, con l’art. 29legge 30 luglio 2002, n. 189, del comma primo bis, che impone la revoca del permesso ove si accerti che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza), come si ricava dal sistema e dall’esigenza di evitare matrimoni solo formali, strumentali ad ottenere il permesso di soggiorno, nonché dal fatto che l’art. 28, lett. b), D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento di attuazione del T.U. approvato con il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 citato) prevede che il permesso di soggiorno in favore degli stranieri dei quali è vietata l’espulsione a causa del matrimonio con cittadino italiano possa essere rilasciato purché sussistano i requisiti di cui all’art. 19, lett. c), D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 citato, e quindi solo in quanto lo straniero conviva con il coniuge. L’onere della prova del presupposto della convivenza – la quale, nel sistema del T.U., non è presumibile in base all’esistenza del mero matrimonio, né è rilevabile dalle mere risultanze anagrafiche – grava sullo straniero.
Corte cost. 30 gennaio 2003, n. 14 (Riv. Dir. Internaz. Priv. e Proc., 2003, 937)
Poiché è possibile al giudice autorizzare le pubblicazioni disapplicando norme estere contrarie all’ordine pubblico che impediscano il matrimonio dello straniero, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 116, primo comma c.c. sollevata in riferimento all’art. 2 della Costituzione.
Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5537 (Giur. It., 2002, 1624 nota di PETRELLA)
Il matrimonio celebrato all’estero tra cittadini italiani e tra italiani e stranieri, nelle forme previste dalla legge straniera, ha immediata validità nel nostro ordinamento e, benché sia stato contratto in violazione dell’art. 86 c.c. da chi non aveva libertà di stato, è destinato a produrre effetti fino a quando non sia impugnato da uno dei soggetti legittimati e non sia emessa la pronuncia del giudice di nullità. (Nella specie, la Cassazione, dopo aver affermato la validità del matrimonio contratto tra un cittadino italiano, già legato da precedente vincolo matrimoniale, ed una cittadina straniera, non essendo intervenuta, medio tempore, una pronuncia di nullità, ha ritenuto applicabile il divieto di espulsione previsto dall’art. 19, lett. c) della legge n. 40 del 1998 per gli stranieri conviventi con il coniuge di nazionalità italiana).
Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1999, n. 1739 (Famiglia e Diritto, 1999, 4, 327 nota di ZAMBRANO)
Il matrimonio contratto all’estero secondo il rito musulmano, nel rispetto delle forme previste dalla “lex loci” e purché sussistano i requisiti di stato e capacità delle persone stabiliti dal nostro ordinamento è valido ed efficace. Lo status di coniuge acquista rilievo, dal punto di vista interpretativo, quale valutazione della situazione da accertare senza che, per questo, debbano intendersi superati i limiti derivanti dall’ordine pubblico e dal buon costume di cui all’art. 31 disp. prel. abrogate.
Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 10351 (Famiglia e Diritto, 1999, 1, 79)
Le norme di diritto internazionale privato attribuiscono ai matrimoni celebrati all’estero tra cittadini italiani o tra italiani e stranieri immediata validità e rilevanza nel nostro ordinamento, sempre che essi risultino celebrati secondo le forme previste dalla legge straniera (e, quindi, spieghino effetti civili nell’ordinamento dello Stato straniero) e sempre che sussistano i requisiti sostanziali relativi allo stato ed alla capacità delle persone previsti dalla legge italiana. Tale principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa, e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido sulla base del principio “locus regit actum”.

Diritto della figlia adottiva di conoscere le proprie origini biologiche

REPUBBLICA ITALIANA
NEL NOME DEL POPOLO ITALIANO
L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta da:
Dott. Fabrizio Forte – Presidente –
Dott. Maria Cristina Giancola – Consigliere –
Dott. Giacinto Bisogni – Rel. Consigliere –
Dott. Antonio Lamorgese – Consigliere –
Dott. Francesco Terrusi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
sul ricorso proposto da:
XY, elettivamente domiciliata in Roma, presso la
Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e
difesa dall’avv. Luciana Guerci, per procura speciale a
margine del ricorso, che dichiara di voler ricevere le
comunicazioni relative al processo presso il fax
011/7419118 e la p.e.c.
lucianaguerci@pec.ordineavvocatitorino.it;
– ricorrente –
nei confronti di
Procuratore Generale presso la Corte di appello di
Torino;
– intimato –
avverso il decreto n. 64/2015 della Corte d’appello di
Torino, sezione specializzata per i minorenni, emessa
il 5 novembre 2014 e depositata il 4 febbraio 2015,
R.G. n.598/14 R.G.V.G.;
sentito il Pubblico Ministero in persona del sostituto
procuratore generale dott. Francesca Ceroni che ha
concluso per la sottoposizione alla Corte
Costituzionale della questione di costituzionalità o,
in subordine, per l’accoglimento del ricorso;
Rilevato che:
1. In data 25 novembre 2013 XY ha proposto istanza
al Tribunale per i minorenni con la quale ha
esposto di essere nata il 20 giugno 1974 presso
l’Ospedale AB di CD da una donna che aveva
chiesto di restare anonima; di essere stata
adottata e di aver assunto il nome di XY; di
voler accedere, avvalendosi di quanto statuito
dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n.
278/2013, ai dati riguardanti la madre e il
parto contenuti nella cartella clinica relativa
alla sua nascita.
2. Il Tribunale per i minorenni di Torino ha accolto
l’istanza di XY e ha richiesto all’Ospedale AB di
CD i dati relativi alla madre biologica. Ottenuta
la documentazione e acquisita la notizia del
decesso il Tribunale ha respinto l’istanza di XY
sul presupposto dell’impossibilità di
interpellare la madre sulla sua persistente
volontà di mantenere l’anonimato. Ha escluso che
il decesso della madre potesse essere valutato
come revoca implicita della volontà di non essere
nominata.
3. XY ha proposto reclamo che è stato respinto dalla
Corte di appello di Torino.
4. Ricorre per cassazione, ex art. 111 della
Costituzione, XY che si affida a due motivi di
impugnazione con i quali deduce la violazione e/o
falsa applicazione di norme di diritto ex art.
360 n. 3 c.p.c. per erronea interpretazione
dell’art. 28 comma 7 della legge n. 184/1983,
alla luce della sentenza n. 278/2013 della Corte
Costituzionale e l’omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio, ex art. 360 n. 5 c.p.c.
Ritenuto che
5. Il ricorso è fondato per i seguenti motivi.
6. Il diritto alla conoscenza delle proprie origini
biologiche e alle circostanze della propria
nascita trova un sempre più ampio riconoscimento
a livello internazionale e sovranazionale.
7. E’ espressamente riconosciuto dalla Convenzione
di New York del 20 novembre 1989 delle Nazioni
Unite in materia di diritti dei minori dove,
all’art. 7, si afferma che il minore ha diritto,
nella misura del possibile, a conoscere i propri
genitori sin dalla sua nascita. La Convenzione de
L’Aja del 29 maggio 1993, relativa alla
protezione dei minori e alla cooperazione in
materia di adozione internazionale prevede,
all’art. 30, che le autorità competenti si
impegnano a conservare le informazioni che
detengono sulle origini del minore,
specificamente quelle relative all’identità della
madre e del padre, così come i dati sulla storia
sanitaria del minore e della sua famiglia e
assicurano l’accesso del minore o del suo
rappresentante a queste informazioni nella misura
prevista dalla legge del loro Stato. La
Raccomandazione n. 1443/2000 dell’Assemblea
parlamentare del Consiglio d’Europa ha invitato
gli Stati ad assicurare il diritto del minore
adottato a conoscere le proprie origini al più
tardi al compimento della maggiore età e a
eliminare dalle legislazioni nazionali qualsiasi
disposizione contraria.
8. In alcune legislazioni europee il diritto a
conoscere le proprie origini è espressamente
riconosciuto. Così, ad esempio, in Germania dove
assume la qualificazione di diritto fondamentale
della personalità in quanto espressione del
diritto generale alla dignità e al libero
sviluppo della persona in seguito alla sentenza
31 gennaio 1989 del Bundesverfassungsgericht. In
Svizzera la Costituzione federale del 1992
riconosce il diritto di ciascuno a conoscere le
proprie origini come un diritto della personalità
e, in caso di adozione, l’articolo 138 della
normativa sullo stato civile prevede che la
persona interessata a conoscere il contenuto
dell’atto di nascita è a ciò autorizzata
dall’autorità cantonale di sorveglianza.
Analogamente in Olanda la Corte Suprema, con la
sentenza 15 aprile 1994 (Valkenhorst), ha
riconosciuto il diritto a conoscere l’identità
dei propri genitori biologici nel quadro del
generale diritto della personalità del minore.
In Spagna il Tribunale costituzionale con la
sentenza del 21 settembre 1999 ha dichiarato
l’incostituzionalità dell’art. 47 della legge
sullo stato civile che offriva la possibilità di
far figurare sui registri dello stato civile la
filiazione da madre sconosciuta.
9. La Corte europea dei diritti dell’uomo, con la
sentenza emessa il 25 settembre 2012 nel caso
Godelli contro Italia ha dato una interpretazione
dell’art. 8 della Convenzione E.D.U., che
riconduce il diritto alla conoscenza delle
proprie origini nell’ambito di applicazione della
nozione di vita privata e specificamente nella
sfera di protezione dell’identità personale. In
questa prospettiva la Corte europea ha affermato
che l’art. 8 protegge il diritto all’identità e
alla realizzazione personale e quello di
intessere e sviluppare relazioni con i propri
simili e il mondo esterno. A questa realizzazione
della personalità concorrono la conoscenza dei
dati concernenti la propria identità di essere
umano e l’interesse vitale, protetto dalla
convenzione, di ottenere le informazioni
necessarie per apprendere la verità su un aspetto
importante dell’identità personale quale la
identità dei propri genitori. La nascita e le sue
circostanze rientrano dunque nell’ambito degli
elementi della vita privata del bambino e poi
dell’adulto, garantiti dall’art. 8 della
Convenzione che trova pertanto applicazione in
questa materia.
10. Parallelamente, come nella precedente sentenza
emessa il 13 febbraio 2002, nel caso Odièvre
contro Francia, la Grande Chambre della Corte
E.D.U. ha rilevato la esistenza di un interesse
in conflitto con il diritto alla conoscenza delle
proprie origini e che si manifesta in situazioni
di difficoltà per la madre tali da indurla a
portare a termine la gravidanza e a partorire in
condizioni di sicurezza, per la sua salute e
quella del bambino, solo se può conservare
l’anonimato e vedere tale scelta garantita
dall’ordinamento anche successivamente al parto.
La Corte, pur dando atto che in Europa il cd.
parto anonimo è ammesso da un numero nettamente
minoritario di Stati, riconosce che gli Stati
aderenti alla Convenzione possano accordare
all’anonimato meritevolezza di tutela sotto due
profili: a) salvaguardare la salute della donna
consentendole di partorire in condizioni mediche
e sanitarie appropriate, proteggendo così sia la
salute della donna che quella del bambino durante
la gravidanza e il parto; b) evitare che le
condizioni personali della donna la costringano
ad abortire e soprattutto la inducano ad aborti
clandestini e abbandoni selvaggi del bambino.
11. La scelta dei mezzi più adatti per assicurare
equamente la conciliazione dell’istanza di
protezione della madre, che si trova in una
condizione di difficoltà tale da non consentirle
di assumere il ruolo genitoriale, con la domanda
legittima del figlio ad avere accesso alle
informazioni sulle sue origini spetta agli Stati
aderenti alla Convenzione. Tuttavia, la Corte è
nelle condizioni di esercitare un sindacato circa
la scelta e l’effettivo esercizio di tali mezzi
di composizione del conflitto e, in particolare,
sulla ricerca e la realizzazione di un equilibrio
fra i concorrenti interessi e diritti in gioco.
12. In questa prospettiva la Corte europea ha
riconosciuto alla legislazione francese la
capacità di contemperare tali concorrenti
esigenze di tutela perché la legge n. 2002/93,
nel modificare la legge del 1993, che tuttora
riconosce il diritto della donna di partorire
mantenendo segreta la propria identità, ha
rafforzato le possibilità per la donna di
revocare la sua decisione e ha permesso mediante
l’istituzione di un organismo ad hoc (il
Consiglio nazionale per l’accesso alle origini
personali) di gestire la reversibilità del
segreto condizionandolo all’accordo espresso
dalla madre e dal figlio e rendendo concreta ed
effettiva l’interpellabilità della madre sulla
richiesta del figlio di rimuovere il segreto.
Inoltre la legislazione francese e da ultimo la
legge del 22 gennaio 2002 n. 2002/93 ha reso
accessibili, nonostante la permanenza del
segreto, una serie di informazioni non
identificative che la madre è tenuta a fornire al
momento della sua decisione di partorire
anonimamente.
13. La citata sentenza della Corte Europea Odièvre
c. Francia, di cui la sentenza Godelli c. Italia
è la coerente riaffermazione, costituisce, come
sottolineato dalla dottrina, un precedente
sofferto perché è stato pronunciato all’esito
della ricerca di un difficile equilibrio fra
tradizioni giuridiche e posizioni di principio
molto diverse come è eloquentemente rappresentato
nella opinione dissenziente dei giudici
Wildhaber, Bratza, Bonello, Loucaides, Cabral
Barreto, Tulkens e Pellonpää. Secondo questa
comune posizione non vi è stata nella specie, né
in fatto né in diritto, alcuna effettiva
ponderazione di interessi. Infatti secondo i
giudici rimasti in minoranza la legge francese
riconosce come un ostacolo assoluto a qualsiasi
ricerca di informazione, da parte della persona
nata in regime di anonimato, la decisione della
madre, quale che sia la ragione e la legittimità
di tale decisione. Il rifiuto della madre si
impone al figlio che non ha alcun mezzo giuridico
per contrastare la sua volontà unilaterale. In
questo modo, secondo la dissenting opinion, la
madre ha il diritto puramente discrezionale di
mettere al mondo un bambino ponendolo in una
condizione di sofferenza e condannandolo per
tutta la vita all’ignoranza sulle sue origini.
Non si tratta pertanto di un sistema che assicura
un equilibrio tra i diritti in gioco. Il diritto
di veto puro e semplice riconosciuto alla madre
comporta che i diritti del minore riconosciuti
nel sistema generale della convenzione (sentenze
Johansen c. Norvège, Kuzner c. Germania), sono
interamente negati e dimenticati. Il diritto
all’identità, come condizione essenziale del
diritto all’autonomia (Pretty c. Regno Unito) e
allo sviluppo della persona (Bensaid c. Regno
Unito) fa parte del nocciolo duro del diritto al
rispetto della vita privata e pertanto un esame
tanto più rigoroso si impone per bilanciare
effettivamente gli interessi in gioco laddove
invece nella situazione francese attuale una
preferenza cieca viene riconosciuta ai soli
interessi della madre. La legge francese n. 2002-
93 del 22 gennaio 2002, oggetto della decisione
della C.E.D.U., riconosce chiaramente la
necessità di trovare un riequilibrio dei diritti
in conflitto. Essa, pur non mettendo in
discussione l’istituto dell’accouchement sous x,
segna certamente un passo in avanti in materia di
accesso alla conoscenza delle proprie origini in
quanto consente di sollecitare la reversibilità
del segreto sull’identità della madre. Tuttavia
tale reversibilità è in ultima istanza affidata e
condizionata dall’accordo di quest’ultima. La
madre è solo invitata e non ha l’obbligo di
rilasciare delle indicazioni identificative,
d’altra parte può sempre opporsi a che la sua
identità sia svelata anche dopo la sua morte
(articolo L. 147-6 del “code de l’action sociale
et des familles” introdotto dall’articolo 1 della
legge 22 gennaio 2002). La legge non ha previsto
che il Consiglio Nazionale che ha istituito (né
alcun altro organo indipendente) possa prendere
una decisione finale sulla rimozione del segreto,
in considerazione degli interessi in conflitto,
nell’ipotesi in cui la madre permanga nella sua
posizione di rifiuto che comporta la definitiva
privazione del diritto del figlio a conoscere la
sua origine. In definitiva lo squilibrio iniziale
resta perpetuato nella misura in cui il diritto
all’accesso alle informazioni sulle origini
personali resta subordinato alla decisione
esclusiva della madre.
14. Se questa posizione non ha trovato il consenso
della maggioranza essa appare tuttavia rilevante
perché mette in luce come all’istituto del parto
anonimo è stato riconosciuta nella sentenza
Odièvre legittimità anche nel perpetuare una
posizione di disparità fra gli interessi in
conflitto rendendo per certi versi improprio il
richiamo alla teoria e alla tecnica del
bilanciamento fra diritti fondamentali
abitualmente utilizzata dalla giurisprudenza di
Strasburgo.
15. Questa Corte ritiene particolarmente puntuali
quelle posizioni della dottrina secondo cui,
nella specie, il bilanciamento dei diritti
fondamentali in gioco appare una categoria
inefficace e per certi versi inappropriata perché
nell’istituto in questione non vengono a
contrapporsi, nel tempo e per entrambi i versanti
del conflitto, dei diritti fondamentali ma, da un
lato, il diritto fondamentale alla conoscenza
della propria identità e, dall’altro, una istanza
di protezione di una scelta cui l’ordinamento ha
riconosciuto tutela, necessariamente di carattere
assoluto, sia dal punto di vista soggettivo che
temporale, per le conseguenze deteriori che teme
si realizzerebbero qualora tale scelta fosse
vietata o non garantita nel tempo. In altri
termini si può propriamente parlare di
ponderazione fra diritti fondamentali con
riferimento al momento della scelta della madre
di partorire anonimamente perché in questo
momento è in gioco il suo diritto alla vita e
quello del figlio. Dopo la nascita non è più il
diritto alla vita ad essere in gioco e il diritto
all’anonimato diventa strumentale a proteggere la
scelta compiuta dalle conseguenze sociali e in
generale dalle conseguenze negative che
verrebbero a ripercuotersi in primo luogo sulla
persona della madre. In questa prospettiva non è
il diritto in sé della madre all’anonimato che
viene garantito ma la scelta che le ha consentito
di portare a termine la gravidanza e partorire
senza assumere le conseguenze sociali e
giuridiche di tale scelta. Solo la madre pertanto
in questa prospettiva può essere la persona
legittimata a decidere se revocare la sua
decisione di rimanere anonima in relazione al
venir meno di quell’esigenza di protezione che le
ha consentito la scelta tutelata
dall’ordinamento.
16. La decisione della Corte Europea ha riconosciuto
legittima questa tutela perché connessa a una
finalità quoad vitam dell’istituto ma ha
introdotto un doppio limite a questa tutela in
funzione della tutela del diritto del figlio alla
conoscenza delle proprie origini. In questa
prospettiva ha recepito e valorizzato due
caratteristiche della legislazione francese e
cioè l’accessibilità dei dati non identificativi,
in stretta relazione con la loro utilizzabilità
ai fini medici e sanitari, e la revocabilità del
segreto che deve trovare la sua effettività nella
creazione di un sistema di comunicazione,
necessariamente idoneo a garantire l’anonimato,
fra la madre e il figlio.
17. Solo in questo senso può parlarsi, con
riferimento alla sentenza della C.E.D.U. di
bilanciamento di diritti ma sempre riconoscendo
la legittimazione di una situazione asimmetrica
che non corrisponde ma anzi è inversamente
proporzionale alla rilevanza dei diritti e degli
interessi in conflitto man mano che ci si
allontana temporalmente dal momento in cui la
scelta della madre è stata compiuta. E’ anche
improprio parlare di diritto alla riservatezza
con riferimento all’origine biologica di un’altra
persona nel momento in cui si riconosce che tali
dati costituiscono un aspetto fondamentale della
sua identità. In questa prospettiva le
legislazioni europee, e fra esse la nostra
legislazione, riconoscono al figlio adottivo il
diritto a conoscere l’identità dei propri
genitori biologici. Né l’ordinamento
internazionale e nazionale riconosce in alcun
modo un diritto fondamentale a decidere
sull’assunzione o meno della genitorialità. Vi è
piuttosto il generale riconoscimento, da parte
degli ordinamenti giuridici, dell’interesse
generale alla solidarietà nei confronti dei
minori che versino in stato di abbandono o non
possano vedere realizzato il loro diritto
fondamentale a vivere e crescere nella famiglia
di origine.
18. Nell’istituto del parto anonimo, per come
legittimato dalla giurisprudenza europea, viene
così a crearsi una situazione per certi versi di
tipo convenzionale perché la madre accede alla
possibilità di portare a compimento la gravidanza
e di partorire, mettendo così al mondo una nuova
vita, ma chiede e ottiene dall’ordinamento la
garanzia di vedere tutelata nel corso di tutta la
sua vita la segretezza sulla maternità biologica
e la scissione di quest’ultima dalla
genitorialità sociale e giuridica. Questa
richiesta di protezione viene riconosciuta
meritevole sino al punto di attribuire alla madre
la titolarità del segreto senza che nel corso
della sua vita possa essere costretta alla sua
rimozione anche da parte di un soggetto pubblico
cui sia affidata la valutazione degli interessi
in conflitto. La Corte europea ha ritenuto che
l’affidamento esclusivo alla madre della
decisione sulla permanenza del segreto sia
giustificabile proprio in relazione alla
intensità della protezione che una scelta di tale
importanza, da prendere in una situazione di
difficoltà, spesso anche estrema, richiede, una
decisione che non può che essere garantita, per
il presente e il futuro, nel momento in cui viene
presa e che non consente una successiva
rivalutazione da parte dell’ordinamento che
prescinda dalla volontà della madre biologica.
Come si è detto però nel riconoscere tale
titolarità e autodeterminazione alla madre la
Corte ha voluto che alla stessa sia altresì
consentito concretamente di rimuovere il segreto
e di tenere conto della volontà di chi è nato per
effetto della sua scelta. Ha voluto in altri
termini che la scelta per l’anonimato si
tramutasse in un obbligo alla segretezza
sottratto anche alla volontà della persona nel
cui interesse preminente era stato riconosciuto e
protetto.
19. Successivamente alla sentenza Godelli del
2012 la Corte Costituzionale è nuovamente
intervenuta in questa materia con la sentenza n.
278 del 18 novembre 2013 in quanto il Tribunale
per i minorenni di Catanzaro ha sollevato, in
riferimento agli articoli 2, 3, 32 e 117, primo
comma, della Costituzione, la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7,
della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del
minore ad una famiglia), come sostituito dall’art.
177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno
2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei
dati personali), «nella parte in cui esclude la
possibilità di autorizzare la persona adottata
all’accesso alle informazioni sulle origini senza
avere previamente verificato la persistenza della
volontà di non volere essere nominata da parte
della madre biologica». Secondo il Tribunale
minorile calabrese tale disposizione
contrasterebbe infatti: a) con l’art. 2 della
Costituzione, configurando «una violazione del
diritto di ricerca delle proprie origini e dunque
del diritto all’identità personale dell’adottato»;
b) con l’art. 3 della Costituzione, in riferimento
all’«irragionevole disparità di trattamento fra
l’adottato nato da donna che abbia dichiarato di
non voler essere nominata e l’adottato figlio di
genitori che non abbiano reso alcuna dichiarazione
e abbiano anzi subìto l’adozione»; con l’art. 32
della Costituzione, in ragione dell’impossibilità,
per il figlio, di ottenere dati relativi
all’anamnesi familiare, anche in relazione al
rischio genetico; con l’art. 117, primo comma,
Cost., in riferimento all’art. 8 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955,
n. 848, per come interpretato dalla Corte europea
dei diritti dell’uomo nella sentenza del 25
settembre 2012 nel caso Godelli contro Italia.
20. Ha ribadito la Corte Costituzionale che “il
fondamento costituzionale del diritto della madre
all’anonimato riposa sull’esigenza di
salvaguardare madre e neonato da qualsiasi
perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma
di situazioni, personali, ambientali, culturali,
sociali, tale da generare l’emergenza di pericoli
per la salute psico-fisica o la stessa incolumità
di entrambi e da creare, al tempo stesso, le
premesse perché la nascita possa avvenire nelle
condizioni migliori possibili”. Tuttavia, – rileva
la Corte Costituzionale – “l’aspetto che viene qui
in specifico rilievo – e sul quale la sentenza
della Corte di Strasburgo del 25 settembre 2012,
Godelli contro Italia, invita a riflettere – ruota
attorno al profilo, per così dire, ‘diacronico’
della tutela assicurata al diritto all’anonimato
della madre”. “Con la disposizione all’esame,
l’ordinamento pare, infatti, prefigurare una sorta
di ‘cristallizzazione’ o di ‘immobilizzazione’
nelle relative modalità di esercizio: una volta
intervenuta la scelta per l’anonimato, infatti, la
relativa manifestazione di volontà assume
connotati di irreversibilità destinati,
sostanzialmente, ad ‘espropriare’ la persona
titolare del diritto da qualsiasi ulteriore
opzione; trasformandosi, in definitiva, quel
diritto in una sorta di vincolo obbligatorio, che
finisce per avere un’efficacia espansiva esterna
al suo stesso titolare e, dunque, per proiettare
l’impedimento alla eventuale relativa rimozione
proprio sul figlio”. “Tutto ciò è icasticamente
scolpito dall’art. 93, comma 2, del ricordato
d.lgs. n. 196 del 2003, secondo cui ‘Il
certificato di assistenza al parto o la cartella
clinica, ove comprensivi dei dati personali che
rendono identificabile la madre che abbia
dichiarato di non voler essere nominata
avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 30,
comma 1, del decreto del Presidente della
Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere
rilasciati in copia integrale a chi vi abbia
interesse, in conformità alla legge, decorsi cento
anni dalla formazione del documento”. “Ebbene, a
cercare un fondamento a tale sistema – che
commisura temporalmente lo spazio del “vincolo”
all’anonimato a una durata idealmente eccedente
quella della vita umana –, se ne ricava che esso
riposa sulla ritenuta esigenza di prevenire
turbative nei confronti della madre in relazione
all’esercizio di un suo ‘diritto all’oblio’ e,
nello stesso tempo, sull’esigenza di salvaguardare
erga omnes la riservatezza circa l’identità della
madre, evidentemente considerata come esposta a
rischio ogni volta in cui se ne possa cercare il
contatto per verificare se intenda o meno
mantenere il proprio anonimato”. Ma né l’una né
l’altra esigenza sono considerate dalla Corte
Costituzionale dirimenti perché espongono il
figlio alla inevitabile e definitiva perdita del
suo diritto alla conoscenza delle proprie origini
e affidano la tutela della riservatezza della
scelta della madre a una disciplina eccessivamente
rigida che se, da un lato, “legittimamente,
impedisce l’insorgenza di una genitorialità
giuridica, con effetti inevitabilmente
stabilizzati pro futuro”, non appare ragionevole
laddove si presenta come “necessariamente e
definitivamente preclusiva anche sul versante dei
rapporti relativi alla genitorialità naturale”. Il
vulnus costituzionale che ne deriva è, dunque,
rappresentato, a giudizio della Corte
Costituzionale, dalla “irreversibilità del segreto
la quale, risultando, per le ragioni anzidette, in
contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., deve
conseguentemente essere rimossa”.
21. Può quindi affermarsi senza ombra di dubbio
che la nostra Corte Costituzionale ha delineato in
termini ancor più stringenti e sistematici della
Corte Europea la condizione di legittimità
dell’istituto in questione alla condizione della
potenziale e nello stesso tempo sempre attuale
reversibilità del segreto.
22. Tornando quindi al caso in esame non può non
discendere dalla chiara individuazione compiuta
dal giudice delle leggi la impossibilità di
ritenere operativo, oltre il limite della vita
della madre, il termine previsto dall’art. 93,
comma 2, del ricordato d.lgs. n. 196 del 2003
perché la conseguenza della morte della madre che
ha partorito in anonimo sarebbe quella di
reintrodurre quella cristallizzazione della scelta
per l’anonimato che la Corte costituzionale ha
ritenuto lesiva degli artt. 2 e 3 della carta
fondamentale. Un effetto non giustificabile
pertanto neanche nella ipotesi ritenuta legittima
dall’ordinamento francese della espressione, in
vita, da parte della madre, di una volontà
definitivamente contraria alla rimozione del
segreto anche dopo la sua morte. Né una diversa
conclusione potrebbe dedursi dalla temporaneità
della protezione dai dati che è propria dell’art.
93, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003. Oltre a
rilevare che la durata del termine ivi previsto
rende, comunque, di fatto, inattuabile la volontà
del figlio di conoscere le proprie origini
biologiche questa Corte non può che smentire la
fondatezza e rilevanza della affermazione per cui
la morte della madre non può essere eletta a
circostanza presuntiva della volontà di rimozione
del segreto post mortem. Va ribadito infatti che,
nella ricostruzione della Corte Costituzionale,
ciò che è rilevante e decisivo è la reversibilità
del segreto, condizione che, purtroppo, la morte
non rende più attuale e ipotizzabile nel futuro.
Non si può d’altra parte non sottolineare
l’effetto paradossale che provocherebbe una
lettura della norma ritenuta incostituzionale
basata sui presupposti che hanno orientato i
giudici del merito. L’immobilizzazione della
scelta per l’anonimato che verrebbe in tal modo a
determinarsi post mortem verrebbe a realizzarsi
proprio in presenza dell’affievolimento, se non
della scomparsa, di quelle ragioni di protezione,
risalenti alla scelta di partorire in anonimo, che
l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per
tutto il corso della vita della madre proprio in
ragione della revocabilità di tale scelta. Ciò che
provocherebbe, per citare ancora la Corte
Costituzionale, la definitiva perdita del diritto
fondamentale del figlio a conoscere le proprie
origini – e ad accedere alla propria storia
parentale – diritto che “costituisce un elemento
significativo nel sistema costituzionale di tutela
della persona” perché “il relativo bisogno di
conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della
personalità che possono condizionare l’intimo
atteggiamento e la stessa vita di relazione di una
persona”.
23. Va pertanto accolto il ricorso con decisione
nel merito consistente nell’autorizzazione della
ricorrente ad accedere alle informazioni relative
all’identità della propria madre biologica.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza
impugnata e, decidendo nel merito, autorizza XY ad
accedere alle informazioni relative all’identità della
propria madre biologica. Dispone che in caso di
diffusione del presente provvedimento siano omesse le
generalità e gli altri dati identificativi a norma
dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del
3 marzo 2016.
Il Giudice rel. Il Presidente
Giacinto Bisogni Fabrizio Forte

Concordato preventivo-Voto contrario dell’Agenzia delle entrate

Tribunale di Pisa, 19 settembre 2016. Rel. Zucconi.
Concordato preventivo – Voto contrario dell’agenzia delle
entrate – Conseguenze
Il voto contrario dell’agenzia delle entrate che non abbia,
pertanto, aderito alla transazione fiscale non assume rilievo e
valore diverso dal voto di qualsiasi altro creditore e non
impedisce il buon esito della procedura concordataria.
Concordato preventivo – Norme di condotta degli istituti
previdenziali – Incidenza sulla fattibilità – Esclusione
I decreti ministeriali emanati allo scopo di disciplinare la
condotta degli istituti previdenziali a fronte di proposte di
concordato preventivo che prevedano il pagamento parziale dei
contributi non incidono sulla fattibilità della procedura di
concordato e non ne impediscono l’omologazione.
(Massime a cura di Franco Benassi – Riproduzione riservata)
omissis
Letta la proposta di concordato preventivo presentata il 7.12.2015, come
integrata in data 30.12.2015, da
P. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro-tempore L.B.,
elettivamente domiciliata in *** via **** presso lo studio dell’avv. S.G.,
dal quale è rappresentata e difesa giusta procura in atti;
nei confronti della
Massa dei creditori di P. s.r.l. e del Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Pisa
rilevato che la società istante, operante nel settore della trasmissione di
programmi radiofonici, ha rappresentato di versare in uno stato di crisi
ed ha conseguentemente elaborato un piano, che prevede, in un arco
temporale di 48 mesi, la cessione di tutti propri beni, con la soddisfazione
dei creditori suddivisi nelle seguenti classi:
Classe 1: creditori in prededuzione.
Sono appostati in questa categoria i crediti per spese di giustizia
(Commissario Giudiziale e Liquidatore), stimate in complessivi €
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190.000,00. In questa categoria dovranno poi essere pacificamente
ricomprese le competenze dei professionisti finalizzate alla redazione ed
alla presentazione della presente domanda di concordato. Si tratta
chiaramente dei compensi vantati da:
Avv. S.G., advisor legale, compenso pari ad € 15.600,00 compreso il
contributo alla cassa previdenziale. Dott. L.S., Dott. F.S., Dottor S.M.,
advisors commerciali, finanziari ed amministrativi, compenso pari ad €
15.600,00, compreso il contributo alla cassa previdenziale, ciascuno.
Dott. M.G., professionista attestatore, compenso pari ad € 20.800,00,
compreso il contributo alla cassa previdenziale. Tra i crediti in
prededuzione andranno inserite le spese sostenute da M. S.r.l. per conto
della procedura dopo la presentazione della domanda, per complessivi €
10.528,54.
Classe 2: creditori privilegiati.
Si tratta di tutti i creditori muniti di privilegio (salvo quelli previsti nelle
successive classi 3 e 4) e quindi: a) Debiti verso dipendenti, per
retribuzioni, TFR e fondi di previdenza; b) Fornitori privilegiati e relativa
IVA, c) Debiti diversi in privilegio; d) IVA c/vendite. I debiti erariali,
oggetto di transazione fiscale, vengono inseriti nella successiva classe.
Tra i creditori privilegiati sono stati inseriti anche gli accantonati fondi
rischi complessivi € 1.696.347,71. Detti debiti ammontano
complessivamente ad € 2.220.000,31.
Classe 3: Erario e proposta di transazione fiscale ex art. 182 ter L. Fall.
Le pretese creditorie di erario, enti previdenziali ed amministrazione
tributaria sono oggetto della proposta di transazione fiscale ex art. 182 ter
L. Fall.. Nell’elenco analitico delle passività contenute nella transazione,
alla quale per praticità si rinvia, una parte consistente è composta dal
debito maturato a titolo di IVA e di Ritenuta d’Acconto. Nella specie, la
transazione fiscale modificata ed oggi proposta da P. prevede il
pagamento integrale della sorte capitale dell’IVA, delle Ritenute
d’Acconto oltre alle relative sanzioni ed interessi (con esclusione degli
interessi di mora non direttamente riferibili) e parziale degli altri tributi e
contributi nei quarantotto mesi successivi all’omologazione, con le
risorse che deriveranno dalla liquidazione dei beni e nel rispetto delle
cause legittime di prelazione.
Nel dettaglio, l’importo totale della posizione debitoria fiscale e
previdenziale oggetto di transazione è pari ad € 9.692.648,98.
Classe 4: crediti per rivalsa IVA dei fornitori chirografari su beni non
rinvenuti.
Crediti per rivalsa su beni non rinvenuti di importo complessivamente
pari ad € 374.217,32. La ricorrente ne prevede una soddisfazione nella
misura del 20,00% del credito in linea capitale.
Classe 5: crediti chirografari
Si tratta in particolare di: a) Debiti verso gli istituti bancari; b) Debiti per
ritenute sindacali c/contributi; c) Debiti Vs. clienti in chirografo; d)
Debiti Vs. fornitori in chirografo; e)Fideiussione Vs. B. S.r.l. ; f)
Accantonamento per contenziosi civili L’importo complessivo di questi
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debiti è pari ad € 6.662.780,73. In base alla liquidazione, ai valori sopra
riportati, dei beni e crediti dell’impresa, detti creditori potrebbero essere
soddisfatti nella misura del 20,00% del credito in linea capitale.
che con decreto del 11.01.2016 il Tribunale ha dichiarato aperta la
procedura,
che all’esito dell’adunanza del 12.05.2016 e del decorso dei successivi
venti giorni la maggioranza richiesta è stata raggiunta, in quanto i voti
favorevoli espressi e non espressi ammontano ad euro 7.472.583,15 ed i
voti contrari euro 4.551.379,82;
che il contraddittorio è stato instaurato correttamente in quanto il
decreto che ha fissato l’udienza di omologazione è stato notificato al C.G.
e ai creditori dissenzienti;
visto il parere tendenzialmente favorevole all’omologazione espresso dal
Commissario Giudiziale, il quale, nella relazione ex art.172 l.f. , ha
confermato, all’esito delle verifiche compiute sulle poste dell’attivo e del
passivo, la misura del 20,00 % quale percentuale fondatamente
attribuibile ai creditori chirografi, valutazione sostanzialmente ribadita
nel parere motivato ex art. 180 l.f., laddove il Commissario, prospettando
scenari alternativi, ha indicato nella percentuale del 15,55% l’ammontare
della soddisfazione dei creditori chirografari, in presenza dell’integrale
avverarsi delle condizioni negative prospettate nel parere medesimo, e
nella misura del 24,66 %, nell’ipotesi plausibile del verificarsi parziale di
tali condizioni;
ritenuto che, come correttamente evidenziato dal Commissario
Giudiziale, il voto contrario espresso dall’Agenzia delle Entrate, se
indubbiamente non consente l’esplicarsi degli effetti tipici e propri della
transazione fiscale, non comporta alcun problema in punto di fattibilità
giuridica, posto che, a fronte della previsione nella proposta dell’integrale
pagamento di quelle poste erariali da ritenersi intangibili, giusto il
disposto dell’art. 182 ter l.f. ( Iva e ritenute), non si può certo sostenere,
sulla scorta della pacifica natura facoltatività della transazione fiscale,
che il voto contrario dell’Agenzia delle Entrare possa assumere un rilievo
diverso dal voto di qualsiasi altro creditore e porsi di per sé, quindi, quale
elemento ostativo al buon esito della procedura concordataria;
ritenuto che, per quanto attiene alle osservazioni formulate all’udienza di
omologa dall’Inail, la quale ha espresso voto contrario ma non ha
proposto formale opposizione, occorre evidenziare come le indicazioni
contenute nei decreti ministeriali richiamati siano da considerarsi volte a
disciplinare la condotta che gli istituti previdenziali debbono assumere a
fronte di proposte di concordato che prevedano il pagamento parziale dei
contributi, ma non rappresentino condizioni giuridicamente cogenti che
impediscono l’omologa di proposte di tal fatta;
osservato, dunque, che non vi è ragione di mettere in discussione, anche
in considerazione del vaglio già effettuato in sede di ammissione e da
nessuno contestato, che sussistano i presupposti di cui agli artt. 160 e 162
l. fall. (qualità di imprenditore commerciale assoggettabile a procedure
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concorsuali e rispondenza della proposta concordataria al modello
legale);
che ai fini dell’omologa è escluso ogni vaglio comparativo di convenienza
in relazione ad altre procedure, dato che non si verte nell’ipotesi dell’art.
177 comma 2 l. fall.; che il C.G. nella sua relazione ha ampiamente e
correttamente informato il ceto creditorio sulla coerenza e fattibilità del
piano concordatario;
che la procedura appare quindi complessivamente regolare; che pertanto,
raggiunta la maggioranza, e in assenza di opposizioni, il concordato deve
essere omologato;
che, trattandosi di concordato che prevede la cessione dei beni, il Collegio
procede alla nomina del liquidatore in conformità alle indicazioni della
società proponente e del Comitato dei Creditori, e disciplina le modalità
di liquidazione;
Omologa
il concordato preventivo proposto dalla ricorrente in epigrafe,
Nomina
Liquidatore il dott. A.M., con studio in** , via******* n.
forma il Comitato dei Creditori chiamandone a farne parte:
*
Dispone
che la liquidazione si svolga secondo le seguenti modalità:
– il Commissario Giudiziale sorveglierà l’adempimento del concordato
secondo lemodalità appresso stabilite
– al momento dell’accettazione dell’incarico il Liquidatore prenderà in
consegna i beni ceduti e redigerà un inventario alla presenza del
Commissario Giudiziale e del legale rappresentante della debitrice, con
verbale da depositare in Cancelleria
– il Liquidatore registrerà ogni operazione contabile in un libro giornale
previamente vidimato dal Giudice delegato che dovrà essere consegnato,
aggiornato, ogni sei mesi al Commissario Giudiziale che procederà alle
opportune verifiche e lo restituirà non oltre sette giorni dalla consegna
– il Liquidatore, in conformità al disposto dell’art. 182 ultimo comma l.f.,
provvederà, ex art. 33 5° comma l.f., a redigere semestralmente il
rapporto riepilogativo, che, con posta elettronica certificata, verrà
comunicato al Commissario Giudiziale, il quale, con eventuali note,lo
comunicherà ai creditori ai sensi dell’art. 171 2° comma l.f.;
– entro il mese successivo al deposito della relazione del Liquidatore il
Commissario Giudiziale dovrà presentare al Giudice delegato una propria
relazione dalla quale risulti l’attività svolta dal Liquidatore con il conto
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della gestione del semestre, raffrontando realizzi e pagamenti per entità e
tempi con le eventuali corrispondenti previsioni di cui alla proposta
concordataria e alla relazione ex art. 172 l. fall.;
– in caso di difformità di valutazioni fra Commissario Giudiziale e
Liquidatore, il Giudice delegato ne solleciterà il contraddittorio diretto e
provvederà, se necessario, alla loro convocazione;
– il Commissario Giudiziale dovrà curare che il Liquidatore svolga con
sollecitudine il proprio compito e che nei termini prescritti presenti il
prospetto delle somme disponibili di cui oltre;
– il Liquidatore procederà alle operazioni di liquidazione con ricorso a
forme competitive; ogni atto di liquidazione o comunque funzionale alla
liquidazione saranno subordinati al parere favorevole del Commissario
Giudiziale e del Comitato dei Creditori e il liquidatore dovrà darne notizia
al Giudice delegato; laddove uno dei suddetti pareri sia contrario, ovvero
anche in caso di inerzia di uno dei predetti organi, potrà dar corso
all’operazione solamente su autorizzazione del Giudice delegato;
– il Liquidatore provvederà, nel termine di gg.60 dalla comunicazione del
presente provvedimento, a predisporre un programma di liquidazione, da
redigersi in conformità alle indicazioni di cui al punto che precede per
quanto attiene al rispetto delle forme di vendita competitive ed alle
indicazioni contenute nel piano oggetto di omologa, detto programma
sarà sottoposto al parere del Commissario Giudiziale e del Comitato dei
Creditori e quindi trasmesso al Giudice Delegato per la sua presa d’atto;
– le transazioni, le rinunce a crediti e ogni atto di straordinaria
amministrazione non funzionale alla liquidazione dovranno essere
autorizzati dal Comitato dei Creditori, previo parere del Commissario
Giudiziale, e comunicati preventivamente al Giudice delegato; in caso di
inerzia o di diniego di autorizzazione da parte del Comitato dei Creditori,
dovranno essere autorizzati dal Giudice delegato, sempre previo parere
del Commissario giudiziale;
– il Liquidatore dovrà ottenere l’autorizzazione del Giudice delegato,
previo parere del Commissario giudiziale, per agire o resistere in giudizio,
mentre la nomina dei difensori è rimessa al medesimo Liquidatore;
– il Liquidatore, ogni sei mesi, convocherà riunioni collegiali del Comitato
dei Creditori, per informarlo dell’andamento generale della liquidazione –
il Liquidatore dovrà versare tutte le somme riscosse su un conto corrente
intestato alla procedura concorsuale che aprirà immediatamente presso
la Banca ****, previa chiusura del conto corrente precedente
– ogni anno, salva facoltà del Giudice delegato di stabilire un termine più
breve, il Liquidatore dovrà presentare un prospetto delle somme
disponibili e un progetto di ripartizione parziale secondo le scadenze
contenute nella proposta, riservate quelle presumibilmente occorrenti
per la procedura. Il Liquidatore Giudiziale provvederà al riparto con le
modalità di cui all’art.110 l.f.;
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– il Liquidatore procederà ai pagamenti previsti dai piani di ripartizione
mediante assegni circolari non trasferibili intestati ai singoli creditori da
spedirsi con lettera raccomandata con avviso di ricevimento ovvero con
bonifici bancari; le somme spettanti ai creditori irreperibili, contestati,
condizionali saranno versate nelle forme del deposito giudiziario
intestato al singolo creditore; lo svincolo – qualora la procedura sia
ancora aperta – sarà subordinato all’autorizzazione del giudice delegato,
previo parere del Commissario giudiziale e del Liquidatore, su istanza
degli interessati e, per il caso di crediti contestati o condizionali, su prova,
rispettivamente, della risoluzione della controversia o dell’avveramento
della condizione;
– compiuta la liquidazione e prima del riparto finale il Liquidatore
renderà il conto della gestione al Giudice delegato, nelle forme di cui
all’art. 116 commi 2 e 3 l. fall.;
– approvato il conto, e liquidati dal Collegio i compensi del Liquidatore e
del Commissario Giudiziale, il Liquidatore rimetterà gli importi dovuti o
quelli residui ai singoli creditori secondo le modalità sopra esposte per i
riparti parziali
– per quanto non espressamente previsto nel presente decreto, e nel
rispetto dei principi da esso posti, le modalità della liquidazione saranno
determinate dal Giudice delegato con decreto su istanza del Commissario
Giudiziale o del Liquidatore, previo parere del Liquidatore o del
Commissario Giudiziale rispettivamente e del Comitato dei Creditori.
Manda alla Cancelleria per la pubblicazione a norma dell’art. 17 l. fall.
Pisa, 19.09.2016
Il giudice estensore
dott. Giovanni Zucconi