Maltrattamenti. L’infedeltà del coniuge e il riconoscimento dei propri diritti patrimoniali non incidono sul dolo

Cass. Pen., Sez. VI, sentenza 8 luglio 2024 n. 26934 – Pres. De Amicis, Cons. Rel. Travaglini
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
A.A. nato il (Omissis) a V
avverso la sentenza del 24/04/2023 della Corte di appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dalla Consigliera Paola Di Nicola Travaglini;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Antonio Balsamo, che ha
concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato …in sostituzione dell’Avvocato…, nell’interesse della parte civile B.B., che ha
richiesto dichiararsi tardiva la memoria difensiva depositata dall’Avvocato …., allegando
conclusioni scritte e nota spese;
udito l’Avvocato …nell’interesse del ricorrente, che ha richiamato la memoria difensiva depositata
il 5 marzo 2024 e ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Roma ha confermato la condanna del
Tribunale nei confronti di A.A. per il delitto di maltrattamenti ai danni della moglie. B.B., e dei tre
figli, “dal 2008 al 20 giugno 2012” (capo A), e ha dichiarato la prescrizione per tutti gli altri (lesioni
aggravate, violazione di domicilio, violenza privata e minacce).
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso A.A., con atto sottoscritto dal suo difensore, articolando
i motivi di seguito enunciati.
2.1. Con il primo deduce vizio di motivazione in relazione all’art. 70 cod. proc. pen., in quanto,
nonostante in altro processo, dinnanzi alla Corte di appello di Roma, a carico del ricorrente, per reati
fiscali, fosse stata riconosciuta la sospensione per incapacità processuale, la medesima istanza era
stata respinta nel presente procedimento a fronte di una perizia, disposta dal Collegio, che aveva
riscontrato un deterioramento cognitivo ritenuto erroneamente compatibile con il delitto di
maltrattamenti e con l’elaborazione di una strategia difensiva.
2.2. Con il secondo motivo deduce omessa motivazione circa il rigetto dell’acquisizione della
sentenza del Tribunale civile di Roma in ordine al contenzioso insorto tra il ricorrente e la moglie
relativamente alla titolarità del castello (Omissis), e dell’annessa tenuta, utile a dimostrare la
strumentalizzazione della denuncia da parte di B.B.
2.3. Con il terzo motivo deduce vizio di motivazione in ordine alla responsabilità del ricorrente per
il delitto di maltrattamenti che per l’epoca successiva al 2012 trovava la propria giustificazione nella
scoperta della relazione extraconiugale intrattenuta dalla B.B. che, con il nuovo compagno, tentava
di spogliare il marito del suo patrimonio, come dimostrato dai documenti prodotti dalla difesa e
dalle dichiarazioni del figlio della coppia (pag. 57 dell’atto d’appello). Si assume, in sostanza, che la
sentenza, considerando erroneamente le sole condotte oggettive, ha ignorato che la natura reattiva
dei comportamenti di A.A., mossi dall’infedeltà della moglie, niente affatto succube del marito, fosse
tale da escludere il dolo.
2.4. Con il quarto motivo deduce vizio di motivazione per il diniego delle circostanze attenuanti
generiche, in quanto fondato soltanto su alcuni precedenti penali dell’imputato, senza tenere conto
che le condotte maltrattanti costituivano soltanto la reazione all’ingiusta minaccia all’unità familiare
e alla condotta della persona offesa, contraria ai principi fondanti il matrimonio e volta ad
appropriarsi del patrimonio del marito tanto da rendere applicabile l’attenuante della provocazione
su cui la Corte di merito non si è pronunciata.
3. In data 5 marzo 2024 è pervenuta memoria difensiva nell’interesse del ricorrente, con allegati, in
cui si rappresenta che in altro procedimento penale per il delitto di atti persecutori il giudice ha
disposto accertamento sulla capacità processuale di A.A.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Deve preliminarmente accogliersi l’eccezione della difesa di parte civile di tardività della memoria
presentata, nell’interesse del ricorrente, dall’Avvocato …in data 5 marzo 2024.
Il termine di quindici giorni per il deposito delle memorie difensive, previsto dall’art. 611 cod. proc.
pen. relativamente al procedimento in camera di consiglio, è applicabile anche ai procedimenti in
udienza pubblica, una volta richiesta la trattazione orale ai sensi dell’art. 23, comma 8, D.L. n. 137
del 2020, conv. in legge n. 176 del 2020, ed emesso il provvedimento presidenziale di trattazione in
pubblica udienza, onde la sua inosservanza esime la Corte di cassazione dall’obbligo di prendere in
esame le stesse (Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021, P., Rv.281647; Sez. 6, n. 11630 del 27/02/2020, A., Rv.
278719).
3. Il primo motivo, relativo alla sospensione del processo per incapacità dell’imputato, è
manifestamente infondato.
3.1 La Corte di appello di Roma, in adesione ad una perizia correttamente riportata, ha rigettato il
motivo di appello con un percorso argomentativo privo di fratture logiche ed esplicativo della
decisione assunta, fondata sulla documentazione sanitaria e sulla visita a cui è stato sottoposto A.A.,
avente ad oggetto anche le vicende oggetto del procedimento.
In forza di detti elementi di fatto, non contestati dal ricorso, l’imputato è stato ritenuto, innanzitutto,
capace di intendere e di volere al momento dei fatti e, per quello che interessa il motivo in esame,
capace di partecipare coscientemente al processo. A detto ultimo riguardo, la sentenza ha richiamato
come dagli atti fosse risultato che A.A. avesse un moderato deterioramento cognitivo, incidente
sull’attenzione e sulla memoria (pag. 6), ma non sulla comprensione delle accuse a suo carico. Infatti,
aveva descritto le condotte oggetto dell’imputazione fornendo una propria autonoma ricostruzione
nel corso del dibattimento di primo grado, inoltre, aveva predisposto una precisa linea difensiva
volta a contestare le emergenze a suo carico nei termini indicati nei paragrafi che seguono.
La sentenza impugnata, infine, ha dato atto che i rilievi difensivi, intesi ad accreditare l’incapacità di
stare in giudizio dell’imputato, valorizzassero erroneamente le diverse conclusioni dei periti di altro
processo, concernente reati, quali quelli fiscali, la cui tecnicità poteva incidere sulla capacità di stare
in giudizio di A.A. ai fini di comprendere le accuse mosse.
3.2. A ciò si aggiunge che il motivo di ricorso richiede a questa Corte una inammissibile rivalutazione
in fatto, rispetto a valutazioni che attengono alla capacità di stare in giudizio dell’imputato. Si tratta,
infatti, di un ambito che, fatte salve patologie radicali ed irreversibili, quali non risultano essere
quelle diagnosticate al A.A., impone di delineare in modo puntuale la condizione psichica del
soggetto nel caso concreto, come correttamente rappresentato dal perito e dalla sentenza che ne ha
fatte proprie le conclusioni.
Peraltro, in tema di incapacità processuale, la sussistenza di una patologia psichiatrica non è
sufficiente ad escludere il requisito della cosciente partecipazione, ai sensi dell’art. 70 cod. proc. pen.,
ma è necessario che sia di gravità tale da non consentirgli la difesa in giudizio, il cui accertamento,
rimesso al giudice di merito, non è sindacabile in sede di legittimità, se motivato nel rispetto della
logica processuale e delle emergenze nosografiche (Sez. 1, n. 10926 dell’11/03/2022, Campisi, Rv.
282963).
3.3. Come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, infine, l’esito di una perizia psichiatrica,
eseguita in altro e diverso procedimento penale, non può avere alcuna influenza in un successivo
giudizio nel quale la valutazione viene compiuta alla stregua di altro accertamento peritale e del
tutto indipendente da quello eseguito in precedenza (Sez. 2, n. 13778 dell’8/03/2019, Mosca, Rv.
276415), tanto da rendere irrilevante la memoria depositata in questa sede con la relativa produzione
documentale.
3.4. Deve ritenersi irrilevante, in questa Sede, il fatto che in altri procedimenti (vedi par. 3) siano stati
disposti accertamenti sulla capacità processuale dell’odierno ricorrente, trattandosi di elementi di
fatto che mirano a sollecitare una diversa valutazione di merito, come tale non consentita nel
giudizio di legittimità.
4. Il secondo e il terzo motivo, entrambi generici, possono essere esaminati contestualmente perché
attengono agli elementi costitutivi del delitto di maltrattamenti.
4.1. Detti motivi di censura non sono tesi a porre in discussione, nei termini previsti dai limiti del
giudizio di cassazione, la motivazione della sentenza, ma tentano di spostare la valutazione su un
piano diverso, implicante apprezzamenti di fatto riguardanti i comportamenti della persona offesa.
Infatti, il ricorso, esclusa espressamente la natura calunniatoria della denuncia, ha ritenuto che le
pronunce di merito avessero omesso di considerare la circostanza che l’aggressività dell’imputato
fosse dovuta alla scoperta di una relazione extra-coniugale della moglie, la quale ne aveva persino
approfittato per ragioni economiche, così da porre in pericolo l’unità familiare.
4.2. Premesso che non sono contestate le gravi e quotidiane violenze, fisiche e psicologiche,
perpetrate da A.A. nei confronti di B.B. e dei tre figli, soprattutto della “figlia C.C., in quanto donna”
(pag. 3 della sentenza di primo grado), appellata, come la madre, con epiteti sessisti, la pronuncia
impugnata, in piena conformità a quella di primo grado, con argomenti completi e logici, basati su
un coerente apparato probatorio, ha escluso che le condotte, consistite in violenze di A.A.
costituissero meri conflitti familiari, accentuatisi a seguito della scoperta della relazione
extraconiugale della consorte.
Infatti, la Corte di appello di Roma, in piena adesione alla consolidata giurisprudenza di questa
Corte, ha correttamente ritenuto che integrassero il delitto di cui all’art. 572 cod. pen. le quotidiane
condotte maltrattanti di A.A. sulla moglie e sui figli, dal giorno della loro nascita, costretti a vivere
in un clima di terrore, violenze fisiche e psicologiche, umiliazioni che li costringeva a scappare di
casa e rifugiarsi per ore, anche di notte, nel bosco, per sottrarvisi (pagg. 3 e 5 della sentenza del
Tribunale), o le continue ingiurie ed umiliazioni alle donne di famiglia a cui si rivolgeva con
appellativi sessisti.
4.3. Altrettanto generico è il motivo di ricorso nella parte in cui riconduce l’assenza di dolo della
condotta di A.A. alla presunta violazione dell’obbligo di fedeltà da parte della moglie e al tentativo
di “spoliazione del patrimonio del marito”.
4.3.1. Il dolo, quale coscienza e volontà del fatto tipico, da intendersi, nella specie, come l’idoneità a
ledere beni di rilievo costituzionale quali la dignità, l’autodeterminazione e l’integrità fisica e
psichica (Sez. 6, n. 19847, del 22/04/2022, M., non mass.; Sez. 1, n. 13013 del 28/01/2020, Osintsev, Rv.
279326) non è accertabile sulla base delle condotte tenute dalla persona offesa, perché oltre a
contrastare con la logica, finirebbe per sovvertire l’oggetto della valutazione giudiziaria,
concernente, sul piano soggettivo, l’accertamento della colpevolezza di chi agisce. Infatti, i
comportamenti della persona offesa sono estranei alla struttura oggettiva e soggettiva del reato di
maltrattamenti.
Il dolo, inoltre, si distingue dal movente, che costituisce una finalità ulteriore di per sé ininfluente ai
fini dell’integrazione del reato.
4.3.2. La Corte di appello con puntuali argomenti, in conformità a quelli impiegati dal Tribunale, ha
escluso che avessero inciso sulle violenze praticate dall’imputato sia la presunta relazione affettiva
intrattenuta dalla moglie, sia la volontà di costei di spogliare il marito del suo patrimonio, alla luce
della protrazione dei maltrattamenti di A.A. ai danni della donna e dei figli dalla nascita di costoro,
cioè da decenni.
In ogni caso, ritenere l’infedeltà coniugale della persona offesa come determinatrice delle violenze
dell’autore e tale da escludere il dolo del reato, come prospettato dal ricorso, richiama schemi
interpretativi ampiamente superati dalla coscienza sociale e dall’ordinamento giuridico, perché
riconosce come plausibile la chiave di lettura discriminatoria offerta dall’agente sul presupposto che,
l’onore maschile, leso dal mero dubbio di relazioni extra-coniugali della moglie, imporrebbe di
rimediarvi attraverso forme punitive, mosse da pulsioni incontrollabili, capaci di riaffermare, anche
pubblicamente, la propria supremazia e, dunque, la propria rivendicata identità (Sez. 6, n. 28217 del
20/12/2022, dep. 2023, G., non mass.).
Giustificare la condotta maltrattante, sotto il profilo soggettivo, in questi termini è giuridicamente
errato sotto due profili.
Innanzitutto, contrasta con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.; con il divieto di
utilizzo di pregiudizi di genere enunciato sia dall’art. 12.1 della Convenzione di Istanbul (“Le parti
adottano le misure necessarie per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socio culturali
delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra
pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o sui modelli stereotipati dei ruoli delle donne e
degli uomini”) che dall’art. 5 della Cedaw (“Gli Stati prendono ogni misura adeguata: a) al fine di
modificare gli schemi ed i modelli di comportamento socioculturale degli uomini e delle donne e di
giungere ad una eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che
siano basate sulla convinzione dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o sull’idea
di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne”), e con lo stesso art. 572 cod. pen. che, secondo
l’esegesi costituzionalmente e convenzionalmente orientata adottata da questa Corte (tra le tante, da
ultimo, Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, B., Rv. 285273), è una norma posta a tutela di diritti umani
inalienabili e, per questo, rende illecite le pratiche punitive fondate su una pretesa insubordinazione
femminile ad obblighi familiari o coniugali, di qualsiasi natura, ingiunti dall’autore per presunte
lesioni dell’unità familiare.
Inoltre, l’argomento difensivo non tiene conto che l’elemento soggettivo del reato di violenza
domestica ai danni delle donne è costituito dalla coscienza e volontà dell’autore, la cui matrice è
espressa dal Preambolo della Convenzione di Istanbul, allorché ne richiama “la natura strutturale” e
qualifica questa specifica ‘ forma di violenza come espressiva di “una manifestazione dei rapporti di
forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla
discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini ed impedito la loro piena emancipazione”
(Sez. 6, n. 28217 del 20/12/2022, dep. 2023, G., cit., par. 5.2.).
Attraverso la chiave di lettura offerta dalle fonti sovranazionali in materia (Convenzione per
l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione delle donne, detta Cedaw, ratificata dall’Italia con
la L. del 14 marzo 1985, n. 132 e Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta
contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, detta Convenzione di Istanbul,
ratificata senza riserve con L. 27 giugno 2013, n. 77), per come recepita dall’interpretazione
giurisprudenziale, a partire innanzitutto dalla sentenza delle Sez. U., n. 10959 del 29 gennaio 2016,
P.O. in proc. C., Rv. 265893, viene ormai riconosciuto il disegno discriminatorio che guida gli autori
dei reati di violenza nei confronti delle donne, il cui nucleo è costituito, non da passioni incoercibili
o emozioni incontrollabili, ma da deliberati intenti di possesso, dominazione e controllo della libertà
femminile per impedirla (Sez. 6, n. 27166 del 30/05/2022, C., non mass.).
4.3.3. Allo stesso modo è incensurabile la motivazione della sentenza impugnata là dove, a fronte di
prove convergenti sulle sistematiche violenze di A.A. su moglie e figli, ha ritenuto irrilevanti la
circostanza della permanenza di B.B. nella residenza familiare e le questioni connesse alla sua attività
imprenditoriale (pag. 10), oltre che priva di supporto probatorio l’asserita spoliazione economica
praticata dalla persona offesa ai danni del marito, utilizzando “strumentalmente” la denuncia per
maltrattamenti.
Non considera il ricorrente che, a fronte di un delitto di mera condotta, come è quello di
maltrattamenti, in cui è solo il comportamento dell’autore ad essere oggetto di accertamento per
valutare la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi che lo integrano, non incide sul dolo
del reato la circostanza che la persona offesa abbia legittimamente richiesto, al Tribunale civile, il
riconoscimento dei propri diritti patrimoniali nei confronti del marito (Sez. 6, n. 38306 del 14/06/2023,
P., Rv. 285185).
4.4. Sotto ulteriore profilo, infine, il ricorso, paventando una sorta di provocazione, chiede di
escludere l’illiceità del fatto in base alla reazione della persona offesa, peraltro neanche indicata.
Va ribadito che le sentenze di merito fondano, con argomenti logici e coerenti, l’accertamento della
responsabilità sui soli comportamenti dell’imputato e non su un dato estrinseco, rappresentato dalla
reazione di chi subisce i comportamenti illeciti, perché se così fosse si finirebbe per invertire l’oggetto
dell’accertamento giudiziario (Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, B., cit.; Sez. 6, n. 809 del 17/10/2022,
dep. 2023, P. Rv. 284107; Sez.6, n. 30340 del 08/07/2022, S., non mass.; Sez. 6, n. 19847 del 22/04/2022,
M., non mass).
5. Alle medesime conclusioni di inammissibilità, per genericità e aspecificità, si perviene in ordine
al motivo di ricorso relativo al trattamento sanzionatorio.
La Corte territoriale ha spiegato con valutazioni sintetiche, ma esaustive, perché fosse corretta la
decisione assunta in primo grado.
Premesso che il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche non costituisce un diritto, ma
richiede l’apprezzamento di elementi concretamente favorevoli in nessun modo prospettati da A.A.
il ricorso reitera, anche sotto il profilo della pena, argomenti volti a giustificare la violenza esercitata
perché la persona offesa aveva tenuto una condotta “sicuramente contraria ai principi fondanti del
matrimonio”.
La Corte di appello, di converso, ha fornito adeguata motivazione sulla dosimetria della pena –
peraltro fissata sui minimi e senza gli aumenti per la continuazione interna derivanti dall’essere più
persone le vittime delle condotte maltrattanti – e sul diniego delle attenuanti, ritenendo infondata la
tesi difensiva, basata su una asserita provocazione (pag. 11 della sentenza di primo grado e pag. 10
della sentenza di secondo grado), e valutando al contrario la gravità delle condotte di A.A. e la loro
protrazione nel tempo.
6. Sulla base degli argomenti che precedono, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il
ricorrente va condannato, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del
procedimento e al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo
fissare nella misura indicata in dispositivo, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel presente
grado di giudizio dalla parte civile, B.B., che vanno liquidate in complessivi Euro 3.686,00, oltre
accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel
presente giudizio della parte civile, B.B., che liquida in complessivi Euro 3.686,00, oltre accessori di
legge.

Obbligo di informazione dell’avvocato

Cass. Civ., Sez. II, ordinanza 10 luglio 2024 n. 18908 – Pres. Manna, Cons. Rel. Pirari
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
Dott. MANNA Felice – Presidente
Dott. PAPA Patrizia – Consigliere
Dott. PICARO Vincenzo – Consigliere
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere
Dott. PIRARI Valeria – Consigliere – rel.
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. …/2019 R.G. proposto da
A.A. , rappresentato e difeso dall’avv…., con studio in Salerno, via A.M. …e domicilio telematico
presso il proprio indirizzo di posta elettronica certificata.
– ricorrente –
contro
B.B. , rappresentato e difeso dall’avv…., con studio in Verona, via …presso il cui studio è
elettivamente domiciliato.
– controricorrente –
Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Salerno, n. 488-2019, pubblicata il 5 aprile 2019 e non
notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27 giugno 2024 dalla dott.ssa
Valeria Pirari;
Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 1986/2013, pubblicata il 25 luglio 2013, il Tribunale di Salerno condannò C.C. ,
B.B. e D.D. al pagamento, in favore dell’attore A.A. , della somma di Euro 20.021,13 a titolo di
corrispettivo dovuto per lo svolgimento di attività defensionale nell’ambito di due giudizi riuniti
celebrati davanti al Tribunale di Verona, riducendo le pretese attoree e dichiarando che quest’ultimo
aveva il diritto di escludere dal vincolo di solidarietà E.E. e F.F. , anche nell’interesse dei quali erano
stati instaurati i giudizi.
Il giudizio d’appello, incardinato su iniziativa di A.A. , si concluse, nella resistenza di C.C. , B.B. e
D.D. , che proposero a loro volta appello incidentale, con la sentenza n. 488/2019, pubblicata il 5
aprile 2019, con la quale la Corte d’Appello di Salerno rigettò tanto l’appello principale quanto quelli
incidentali.
In particolare, premesso che, nel primo giudizio, G.G. (dante causa degli appellati C.C. , B.B. e D.D.),
E.E. , H.H. (deceduto nelle more) e F.F. avevano chiesto, per il tramite del difensore A.A. , che venisse
dichiarata la nullità della rinuncia della madre, I.I. , all’eredità del secondo marito, J.J. , essendo
maturati i presupposti per ritenere tacitamente accettata l’eredità, o, in subordine, che alla rinuncia
venisse attribuita la natura di donazione indiretta nei confronti della figlia nata dal predetto, K.K. ,
soggetta a collazione, e che si procedesse allo scioglimento della comunione, mentre nel secondo
giudizio, incardinato in seguito alle difese della convenuta K.K. nel primo giudizio, allorché aveva
dedotto, tra l’altro, l’esistenza di un testamento olografo del padre che la istituiva erede universale,
dispensandola dalla collazione, chiesero, come risulta dal ricorso (non essendovi specificazione nella
sentenza), che, in subordine, si desse prevalenza alla delazione testamentaria rispetto a quella
legittima e che i due procedimenti venissero riuniti, i giudici d’appello, confermando la sentenza di
primo grado, ritennero che nulla fosse dovuto al difensore per il patrocinio riguardante questa
seconda causa, quantomeno fino alla sua riunione alla prima, sia perché il difensore avrebbe potuto
ritualmente e tempestivamente approntare le medesime difese già nel primo giudizio, sia perché
questi non aveva dimostrato, benché ne fosse onerato, di avere informato i propri clienti della
proposizione del secondo giudizio e della necessità di instaurarlo a causa delle deduzioni della
convenuta K.K. , non rilevando, a dimostrazione del contrario, il fatto che C.C. , B.B. e D.D. avessero
rilasciato le loro procure, risalendo le stesse al 2003, ossia ad epoca di gran lunga antecedente a
quella in cui il secondo giudizio era stato incardinato.
2. Contro la predetta sentenza, A.A. propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi. B.B.
resiste con controricorso, illustrato anche con memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 183 e 184
cod. proc. civ. , nella versione antecedente alle novelle processuali del 2005, e degli artt. 620, 1460 e
2943 cod. civ. e di tutte le norme desumibili dai motivi che seguono, in relazione all’art. 360, n. 3,
cod. proc. civ. , per avere i giudici di merito escluso il diritto al compenso del ricorrente per tutte le
attività professionali da lui svolte con riguardo al secondo giudizio, fino al momento della sua
riunione al primo, in quanto le domande in esso spiegate avrebbero potuto ritualmente e
tempestivamente essere proposte nel primo, giacché, a fronte delle difese della controparte K.K. , gli
attori avrebbero potuto, ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ. , proporre domande ed eccezioni
conseguenti alle avverse argomentazioni e richieste, nonché precisare e modificare domande,
eccezioni e conclusioni già proposte. Il ricorrente ha, in proposito, obiettato che, al momento della
notifica dell’atto di citazione, non risultava pubblicato, né trascritto alcun testamento olografo
riconducibile a J.J. e contenente la nomina di K.K. quale erede universale, che di esso ne aveva fatto
menzione quest’ultima solo nella comparsa di costituzione del 31/10/2002, allorché aveva affermato
che lo stesso, essendo intervenuta la rinuncia all’eredità della madre, I.I. , non era stato pubblicato,
né essa intendeva avvalersene, che detto documento era stato prodotto soltanto con le memorie
istruttorie ex art. 184 cod. proc. civ. , allorché si era saputo della sua pubblicazione avvenuta il
22/10/2002, che, pertanto, aveva chiesto la rimessione in termini per la formulazione delle
conseguenti domande, che il giudice aveva rigettato l’istanza e che, pertanto, aveva notificato l’atto
di citazione del 3/5/2005, in nome e per conto di tutti gli eredi legittimari, introducendo il secondo
giudizio che era stato riunito al primo. Alla stregua di tali precisazioni, il ricorrente ha, quindi,
affermato che, prima del deposito del testamento olografo, non avrebbe potuto proporre alcuna
correlata domanda per la lesione della legittima dei propri assistititi, essendo il relativo diritto
divenuto attuale soltanto con l’accettazione dell’eredità da parte della chiamata, in assenza della
quale sarebbe mancato l’interesse alla domanda.
2. Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio
che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ. , per avere
i giudici di merito affermato che le procure notarili rilasciate da B.B. , C.C. e D.D. risalivano al 2003
e, dunque, ad epoca di gran lunga antecedente all’istaurazione del giudizio e che le stesse,
nonostante gli ampi poteri rilasciati al difensore, non facevano riferimento al secondo giudizio, ma
a quello antecedentemente intrapreso. Peraltro, per non incorrere nell’inammissibilità del motivo
per la c.d. doppia conforme, il ricorrente ha precisato che le pronunce di primo e secondo grado
erano sul punto diverse, posto che il Tribunale non aveva riconosciuto alcun compenso per il
secondo giudizio, in quanto era mancato da parte dell’avvocato l’adempimento dell’obbligo di
informazione nei confronti del cliente, senza citare in alcun modo le procure, mentre la Corte
d’Appello aveva preso posizione sul punto.
3. Con il terzo motivo di ricorso, subordinato al secondo, si lamenta la violazione e falsa applicazione
degli artt. 82, 83, 84 cod. proc. civ. e 1708 cod. civ. e di tutte le altre norme desumibili dai motivi, in
relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. , per avere i giudici di merito escluso il diritto al compenso
del difensore, in quanto questi aveva violato l’obbligo di informazione in relazione all’introduzione
del giudizio di secondo grado, senza considerare che la procura alle liti, che costituisce una mera
designazione, derivando l’attribuzione dei poteri del difensore direttamente dalla legge, dava facoltà
a quest’ultimo di impostare la lite, di scegliere la condotta processuale più rispondente agli interessi
del cliente e di modificarla in relazione agli sviluppi della causa, sicché le procure rilasciate al
ricorrente gli conferivano il potere di proporre le domande più opportune, proprio perché non
eccedenti l’ambito della lite originaria.
4. Per motivi di priorità logica, si ritiene di dover analizzare il secondo e il terzo motivo, la cui
inammissibilità, prima ancora che infondatezza, determina a cascata l’inammissibilità del primo.
E invero, come precisato in premessa, i giudici d’appello hanno fondato la decisione su due
autonome rationes decidendi, avendo escluso il diritto al compenso del difensore, sia in quanto il
secondo giudizio avrebbe potuto essere evitato se il legale avesse proposto la medesima domanda
con le memorie ex art. 183 cod. proc. civ. , nella formulazione antecedente alla novella del 2005, sia
in quanto il legale non aveva dimostrato di avere informato i propri assistiti della proposizione del
secondo giudizio, non potendo considerarsi a tal fine dirimente né la procura ad esso rilasciata da
C.C. , B.B. e D.D. , in quanto di gran lunga antecedente alla instaurazione dello stesso e, pur
attribuendo al procuratore ampie facoltà, non riferita al secondo giudizio, ma a quello già intrapreso
dal loro dante causa, né i documenti prodotti e le circostanze in essi attestate. Tale documentazione
è attinente a soggetti diversi dagli appellati e non idonea a dimostrare, in maniera piena e
incontrovertibile, la conoscenza, acquisita grazie all’informazione che il professionista avrebbe
dovuto dare loro, dell’introduzione del secondo giudizio e della sua necessità derivante dalle difese
della controparte K.K. . Ne deriva che il giudicato formatosi sulla prima ratio decidendi non può che
ridondare nell’inammissibilità della seconda, essendo la prima in sé idonea a reggere la decisione.
Con riguardo, in particolare, alla questione afferente all’omessa dimostrazione, da parte del
ricorrente, dell’adempimento dell’obbligo di informazione, occorre, innanzitutto, evidenziare come
le obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, come quelle dell’avvocato, sono, di
regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si
impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato ma non a conseguirlo,
senza che il proprio inadempimento possa essere desunto senz’altro dal mancato raggiungimento
del risultato utile avuto di mira dal cliente, dovendo, invece, essere valutato alla stregua dei doveri
inerenti allo svolgimento dell’attività professionale, ed in particolare, al dovere di diligenza, per il
quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, il
parametro della diligenza professionale media fissato dall’art. 1176, secondo comma cod. civ. , da
commisurarsi alla natura dell’attività esercitata, sicché la relativa responsabilità può trovare
fondamento in una gamma di atteggiamenti subiettivi, che vanno dalla semplice colpa lieve al dolo,
a meno che la prestazione professionale da eseguire in concreto involga la soluzione di problemi
tecnici di particolare difficoltà, nel qual caso la responsabilità è attenuata, configurandosi, secondo
l’espresso disposto dell’art. 2236 cod. civ. , solo nel caso di dolo o colpa grave (Cass. , Sez. 2, 14/8/1997,
n. 7618).
In sostanza, la responsabilità del legale, quale prestatore d’opera professionale, è normalmente
regolata dall’art. 1176 cod. civ. , che fa obbligo al professionista di usare, nell’adempimento delle
obbligazioni inerenti la sua attività professionale, la diligenza del buon padre di famiglia, con la
conseguenza che egli risponde anche per colpa lieve, mentre nella sola ipotesi che la prestazione
dedotta in contratto implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, la norma
dell’art. 2236 cod. civ. prevede un’attenuazione della normale responsabilità, nel senso che il
professionista è tenuto al risarcimento del danno unicamente per dolo o colpa grave (Cass. , Sez. 2,
11/8/1990, n. 8218); sicché, essendo la relazione tra gli artt. 1176 e 2236 cod. civ. di integrazione per
complementarietà e non già per specialità, vale come regola generale quella della diligenza del buon
professionista (art. 1176, comma secondo) con riguardo alla natura dell’attività prestata, mentre
quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà opera la
successiva norma dell’art. 2236 cod. civ. , che delimita la responsabilità professionale al dolo o alla
colpa grave (Cass. , Sez. 3, 15/1/2001, n. 499).
E allora, analizzando più nel dettaglio la questione oggi controversa, non può che affermarsi come
la condotta ascritta al difensore attenga ad un obbligo, quello di informazione, che l’art. 13, comma
5, della L. n. 247 del 2012 gli impone di adempiere per ogni questione sottoposta alla sua attenzione,
indipendentemente dalla maggiore o minore difficoltà di essa, non solo all’atto del conferimento del
mandato, ma anche nel corso dello svolgimento del rapporto. Obbligo, questo, che deve essere
assolto attraverso la rappresentazione al cliente di tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque
insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti
dannosi, la richiesta di elementi necessari o utili in suo possesso e l’opera di dissuasione
dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole nel corso dello
svolgimento del rapporto (Cass. , Sez. 3, 11/12/2023, n. 34412; Cass. , Sez. 3, 19/7/2019, n. 19520),
derivando dall’omessa informazione il totale inadempimento della prestazione, che, in quanto
improduttiva di effetti in favore del proprio assistito, fa venir meno il diritto al compenso (in termini
analoghi, Cass. , Sez. 3, 26/2/2013, n. 4781).
Questi essendo, dunque, i principi da applicare nella specie, appare evidente come, a fronte
dell’accertato inadempimento all’obbligo di informazione da parte del ricorrente, nessun rilievo
possano assumere gli esiti favorevoli del giudizio di merito che sarebbero stati conseguiti in caso di
impugnazione della sentenza di rigetto, né tantomeno i poteri conferiti al difensore attraverso il
rilascio della procura necessaria all’esercizio dello jus postulandi, siccome inidonei a deporre per la
compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del
cliente di una decisione pienamente consapevole sull’opportunità o meno d’iniziare un processo o
intervenire in giudizio (Cass. , Sez. 2, 19/7/2019, n. 19520; Cass. , Sez. 2, 30/7/2004, n. 14597), specie
ove si consideri che non rientra tra i doveri di correttezza dell’avvocato ex art. 1227 cod. civ. , quello
di intraprendere un’azione giudiziaria aggiuntiva con accollo dei costi e dei rischi relativi (Cass. ,
Sez. 2, 14/8/1997, n. 7618), giacché sarebbe stata rilevante la sola prova della condotta mantenuta, il
cui onere, gravante sullo stesso ricorrente (Cass. , Sez. 3, 11/12/2023, n. 34412), è stato considerato
dalla Corte d’Appello non assolto.
Orbene, le due censure, per come articolate, non colgono la ratio decidendi della sentenza
impugnata, nella quale la questione afferente alla procura è stata esaminata, unitamente, peraltro,
ad altra documentazione fornita e giudicata a sua volta inidonea, solo in quanto prospettata come
dimostrativa dell’assolvimento dell’obbligo di informazione gravante sul legale, non certo per
negare la sussistenza di poteri rappresentativi in capo ad esso nell’instaurazione del secondo
giudizio o per mettere in discussione la strategia difensiva dallo stesso adottata e i poteri difensivi
ad essa connessi, come dedotto con la terza censura, che, peraltro, sono stati stigmatizzati sotto altro
profilo, ossia quello delle facoltà esercitabili nel primo giudizio ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ.
Inoltre, il secondo motivo tende altresì a rimettere in discussione, contrapponendovi le proprie, la
valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie concreta operate dai
giudici del merito, benché tale possibilità, trattandosi di accertamento di fatto, sia preclusa in sede
di legittimità (ex plurimis Cass. , Sez. 1, 6/11/2023, n. 30844; Cass. , Sez. 5, 15/5/2018, n. 11863, Cass. ,
Sez. 6 – 5, 7/12/2017, n. 29404; Cass. , Sez. 1, 2/8/2016, n. 16056). La valutazione delle prove raccolte è
attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui
conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono, per l’appunto, sindacabili
con il ricorso per cassazione (Cass. , Sez. 1, 3/7/2023, n. 18857; Cass. 19/07/2021, n. 20553; Cass.
29/10/2018, n. 27415).
Per quanto detto, le due censure sono inammissibili.
5. Dall’inammissibilità del secondo e terzo motivo, deriva l’inammissibilità del primo, atteso che,
qualora la sentenza del giudice di merito si fondi su più ragioni autonome, ciascuna delle quali
logicamente e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione, l’omessa impugnazione, con ricorso
per cassazione, anche di una soltanto di tali ragioni determina l’inammissibilità (o, come nella specie,
la pronunciata inammissibilità della censura riguardante una di esse), per difetto di interesse, anche
del gravame proposto avverso le altre, in quanto l’eventuale accoglimento del ricorso non
inciderebbe sulla ratio decidendi non censurata o, pur censurata, inammissibile, con la conseguenza
che la sentenza impugnata resterebbe, pur sempre, fondata su di essa (Cass. , Sez. I, 18 aprile 1998,
n. 3951; Cass. , Sez. 2, 30/3/2022, n. 10257).
6. In conclusione, stante l’inammissibilità delle censure, deve essere rigettato. Le spese del giudizio,
liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico del ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15
per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge
n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del
ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 – bis dello stesso art. 13,
se dovuto.

Assegno divorzile riconosciuto in funzione assistenziale anche se lo stato di bisogno non è attuale

Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 10 luglio 2024 n. 18850 – Pres. Acierno, Cons. Rel. Meloni
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2004/2023 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in Brescia Via…, presso lo studio dell’avvocato …((Omissis)) che lo
rappresenta e difende
– ricorrente –
contro
B.B., elettivamente domiciliato in SPOLETO VIA G. ELLADIO N. 3, presso lo studio dell’avvocato
…((Omissis)) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato …((Omissis))
– controricorrente –
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BRESCIA n. 1300/2022 depositata il 07/11/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 08/02/2024 dal Consigliere MARINA
MELONI.
Svolgimento del processo
A.A. impugna la sentenza resa inter partes dalla Corte d’Appello di Brescia n. 1300/2022 pubblicata
in data 07/11/2022,notificata in data 07/11/2022, con la quale, in parziale riforma della sentenza del
Tribunale di Brescia n. 423/2022 depositata il 22/02/2022, ha riconosciuto a favore della signora B.B.
e a carico di A.A. un assegno divorzile pari a Euro 800,00 mensili, somma rivalutabile annualmente
secondo gli indici Istat a far data dalla sentenza in primo grado, da corrispondersi entro il giorno 5
di ogni mese a mezzo bonifico bancario, con unico motivo e memoria.
B.B. resiste con controricorso e memoria.
Motivi della decisione
Con unico motivo di ricorso il ricorrente denuncia: 1. Violazione o falsa applicazione degli artt. 5,
comma 6, L. 898/1970, 2697, 2727 e 2729 cod. civ. perché La Corte d’Appello di Brescia, ha,
preliminarmente, criticato, con la propria sentenza, l’iter logico-giuridico che il Tribunale di Brescia
ha utilizzato per negare l’assegno divorzile, iter definito: “illogico e contraddittorio, oltre che errato
in diritto laddove opera una scissione tra la valutazione dei criteri di riferimento in relazione all’an
e al quantum, scissione che, come è noto, è stata superata dalla più recente giurisprudenza di
legittimità” (Cfr. doc. 1 sentenza impugnata, pag. 10), ma poi ha disatteso essa stessa i principi
giurisprudenziali richiamati.
Il ricorso è infondato.
Risulta infatti dalla sentenza impugnata che la signora B.B. non aveva sempre lavorato in costanza
di matrimonio: dal 1990 al 1997 era stata disoccupata; nel 1998, in seguito alla nascita del figlio
Andrea, aveva lavorato part time; nel 2005 era stata immessa in ruolo ma era tornata a lavorare full
time solo dopo la separazione. Inoltre, contrariamente a quanto indicato in sentenza, ella non era
andata in pensione e non potrà andarci fino al compimento dei 67 anni secondo la normativa vigente,
cioè in data 1/9/2028. Tra l’altro, secondo una proiezione della pensione, non le spetterebbero più di
1000 Euro netti al mese e ciò a causa del contributo apportato alla famiglia che l’aveva costretta a
non lavorare con continuità. Va infine osservato che la signora B.B., per ragioni oggettive di età, non
ha la possibilità di reperire una attività lavorativa idonea a ridurre o a elidere lo squilibrio
economico.
Ciò premesso: “La Corte ritiene pertanto che l’assegno divorzile in funzione compensativo-
perequativa debba essere riconosciuto avendo anche, in parte, funzione assistenziale, in quanto la
signora B.B., se non si trova oggi in uno stato di bisogno, a breve avrà una pensione ridotta che
presumibilmente non le consentirà di mantenere gli immobili e quindi anche una vita dignitosa.
Tenuto conto di una certa autosufficienza economica dell’appellante e della intestazione a lei dei due
immobili, acquistati, quantomeno in parte, con il contributo del marito, la Corte ritiene di
determinare l’assegno divorzile in Euro 800 mensili, somma dovuta dalla pronuncia in primo grado
(in precedenza mantenendo vigore i provvedimenti presidenziali), con rivalutazione annuale
secondo gli indici Istat”. È giudizio arbitrario ritenere, come fa il Tribunale, che tale sperequazione
non sia anche frutto di un accordo tra i coniugi nella gestione della vita familiare, giacché l’accordo
nella suddivisione dei compiti, come sopra delineati, si presume quando la durata del matrimonio
è trentennale e dal matrimonio sono nati due figli, né basta certo la contestazione generica, ex post,
da parte dell’appellato. Alla luce di queste considerazioni, ella aveva ritenuto che le rinunce
professionali fatte in costanza di matrimonio per prendersi cura della famiglia e dei figli (circostanze
mai contestate dall’ex marito) avevano di fatto agevolato il Graziani nella sua attività lavorativa,
permettendogli di specializzarsi, di studiare e di girare il mondo per diventare un luminare in campo
medico-scientifico.” Con conseguente accrescimento cospicuo del suo patrimonio mobiliare ed
immobiliare grazie ai sacrifici della B.B.
Appare altresì opportuno rammentare che le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, nr. 18287 del
11/07/2018) hanno affermato “Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge,
cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi
dell’art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi
dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri
equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre
attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà
essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-
patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione
della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di
ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto. La
funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno
divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento
del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del
patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi” (sul punto anche Cass. 5603/2020 e
17098/2019).
Quanto alla condizione economica dei coniugi degli ultimi tre anni, emerge dalla sentenza quanto
segue: B.B.: 2019 reddito complessivo Euro 74.331,00; 2020 reddito complessivo Euro 69.579,00; 2021
reddito complessivo Euro 66.610,00 (comprensivi dell’assegno). Graziani: 2019 reddito complessivo
Euro 261.418,00; 2020 reddito complessivo Euro 219.304,00; 2021 reddito complessivo Euro
243.231,00. Appare pertanto evidente la notevole sperequazione tra i redditi e anche tra i patrimoni
immobiliari delle parti.
Ciò premesso nel caso concreto, la censura risulta infondata posto che la moglie ha diritto al
riconoscimento di un assegno di divorzio a carico dell’ex coniuge, in funzione compensativa
risultando provato il contributo offerto alla comunione familiare con rinuncia concordata ad
occasioni lavorative e di crescite professionale in costanza di matrimonio (Cassazione SSUU nr.
32198 del 5/11/2021).
La corte di merito ha motivato adeguatamente sulla sussistenza delle condizioni per riconoscere la
componente perequativo-compensativa dell’assegno la cui prova può anche essere data anche con
presunzioni.
Il ricorso deve quindi essere respinto ed il ricorrente condannato alle spese di giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio a favore del
controricorrente che si liquidano in Euro 4000,00 complessive più Euro 200,00 per esborsi.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater D.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002 ricorrono i presupposti
processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Dispone altresì che ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196/03, in caso di diffusione della presente
ordinanza si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti
Conclusione
Così deciso in Roma, l’8 febbraio 2024.
Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2024

Circonvenzione di incapace e persona sordomuta

Tribunale Nola, sentenza 16 gennaio 2024 n. 1835
TRIBUNALE DI NOLA
GIUDICE UNICO DI PRIMO GRADO
IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA
Sezione Penale
Il giudice Dott.ssa Giusi Piscitelli;
alla pubblica udienza del 30.10.2023 ha pronunziato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la
seguente
SENTENZA
nei confronti di: S.A., nato a N. (N.), il (…), residente in M. del C. (A.) alla via M. m. 35, difeso di
fiducia dagli avv.ti …
Libero-Assente
IMPUTATO
del delitto p. e p. dall’art. 643 c.p. perché, per procurare a sé ad altri un profitto, abusando dello stato
d’infermità di S.R., in ragione della sua età e del suo stato di salute (certificato dal Ministero del
Tesero – Commissione Medica Periferica per le Invalidità Civile), lo induceva a compiere atti che
comportavano effetti giuridici dannosi per il predetto, e precisamente lo induceva a farsi
sottoscrivere l’assegno postale nr (…) determinando un danno economico pari ad Euro 11.500,00.
In Nola (NA) 1124.6.2019
Con la recidiva reiterata
Svolgimento del processo
Con decreto emesso in data 23.3.2021 il GUP in sede rinviava a giudizio l’imputato S.A. innanzi a
questo Tribunale, in composizione monocratica, affinché rispondesse del reato a lui ascritto in
rubrica.
All’udienza del 6.12.2021, dichiarata l’assenza dell’imputato. In data 23.5.2022 dichiarato aperto il
dibattimento erano ammesse le prove così come richieste e si procedeva all’escussione del teste E.G.,
in servizio presso il Commissariato di PS di Nola; altresì’ era acquista documentazione tra cui
documentazione bancaria (relativa al conto intestato a S.R., copia assegno e specimen relativi al
conto banco posta) nonché documentazione medica prodotta da S.R..
In data 22.5.2023 erano escussi i testi S.L. e S.R., di cui era acquisita con il consenso delle parti la
denuncia querela sporta in data 3.7.2019 con successiva integrazione dell’11.7.2019
In data 30.10.2023 il Giudice dichiarava chiuso il dibattimento ed avevano luogo le discussioni delle
parti. Infine, all’esito della camera di consiglio, il Giudice deliberava la presente decisione, resa
pubblica mediante lettura.
Motivi della decisione
All’esito dell’istruttoria dibattimentale risulta provata, al di là di ogni ragionevole dubbio, la
responsabilità di S.A. per il reato a lui ascritto in rubrica.
La genesi del presente procedimento trae origine dalla denuncia querela sposta da S.R., nipote della
persona offesa S.R..
Fonti di prova sono la denuncia sporta in data 3.7.2019 – con successiva integrazione-nonché la
deposizione resa da S.R. riscontrata dalla deposizione resa dal teste S.L. nonché dalla
documentazione in atti da cui è emerso quanto segue.
Sin d’ora di evidenzia la piena credibilità ed attendibilità delle dichiarazioni rese dai testi in quanto
dotate di precisione, coerenza e concordanza.
S.R., sordomuto dalla nascita, era titolare di un conto corrente a lui intestato su cui confluiva la
pensione di invalidità.
Giova premettere che sia la denuncia querela sia la deposizione resa da S.R. nel corso del giudizio
sono state rese con l’assistenza di S.L., nipote della p.o. nonché fratello dell’imputato S.A., in quanto
S.R. utilizza un linguaggio dei segni convenzionalmente noto soltanto ai familiari più stretti e non
potendo dunque avvalersi di un esperto della lingua dei segni che non avrebbe capito il linguaggio
utilizzato da costui.
Di seguito si riporta quanto emerso dalla denuncia sporto in data 3.7.2019 da S.R..
S.R. doveva andare presso l’Ufficio Postale di Nola per chiudere il conto corrente e consegnare il
blocchetto degli assegni. Nell’occasione S.A., suo nipote, si offrì di accompagnarlo.
In data 27 giugno 2019 R. effettuava un estratto conto constatando che in data 17.6.2019 erano sti
prelevati Euro 11.500,00 tramite assegno postale n. (…).
Visto l’ammanco realizzava che il prelievo era stato effettuato da S.A. in occasione della restituzione
del blocchetto degli assegni.
Chiamato il nipote A. gli riferiva che gli aveva sottratto Euro 11.500,00 e li doveva restituire pertanto
il giorno stesso alle ore 14.30 circa, ad un appuntamento fissato con lo zio R. nel bar di fronte all’A.,
restituiva una parte della somma parti ad Euro 4.000,00 in contanti, dicendogli che il giorno dopo
gli avrebbe restituito i restanti 7.500,00 Euro. A fronte della mancata restituzione della somma, R. si
confidava con il nipote S.L. il quale, contattava in presenza di L., il fratello A. chiedendogli di
restituire il resto dei soldi; A. riferiva che l’assegno lo aveva fatto lo zio R. mettendo come beneficiano
S.A. e quindi non doveva restituire niente allo zio; L. rispondeva che se non li avesse restituiti lo zio
lo avrebbe querelato, il fratello A. rispondeva testuali parole “fate quello che volete perché lo zio è
diventato scemo” e chiudeva la telefonata.
Ad integrazione di quanto denunciato il giorno 11.7.2019 anno 2019, S.R. ulteriormente precisava
tramite l’assistenza di S.L. che dunque parla in prima persona “Premesso quanto già denunciato
precedentemente in data 03.07.2019 presso i Vostri Uffici, vorrei riferivi che sono venuto in possesso
della copia dell’assegno n. (…) di Euro 11500,00 emesso a favore di S.A. a firma di mio zio S.R. : detta
copia del titolo l’ho mostrata a mio zio, che mi ha fatto capire di non aver mai apposto la firma di
quietanza. Inoltre vi riferisco che in data 24 giugno 2019 mio fio si è recato all’Ufficio postale centrale
insieme a mio fratello S.A., in quanto la direttrice dell’Ufficio Postale chiedeva che fosse firmata una
dichiarazione di regolarità di emissione dell’assegno in parola a favore di S.A.. In detta sede , mio
zio che effettivamente firmava la dichiarazione pensava, perché indotto in errore da mio fratello ,
che stesse firmando la riconsegna del blocchetto degli assegni, atteso che effettivamente in detta sede
e circostanza consegnava il blocchetto degli assegni ,completo e mancante del solo assegno n. (…) di
Euro 11500,00 emesso a favore di S.A., A.D.R. Vorrei ribadire che mio fio non conosce l’alfabeto dei
segni , è analfabeta ed è sordomuto dalla nasata, tuttavia riesce a farsi capire con una mediazione tra
segni e suoni . —————/
A.D.R.: Il blocchetto degli assegni era nelle mani di mio fratello, perché mio fio gli aveva fatto capire
che voleva riconsegnarlo alle Poste, in quanto non gli necessitava, poiché per i prelievi utilizzava il
bancomat.A.D.R. Non ho altro da dichiarare o modificare;- A.D.R.: Vi consegno la copia del titolo in
questione e la copia della dichiarazione di regolarità dell’emissione del titolo.”.
In dibattimento S.R., confermando quanto riferito in sede di denuncia asseriva che non voleva dare
la somma di Euro 11.500 al nipote A. e che avesse apposto la firma soltanto perché tratto in inganno
dallo stesso in ordine alla disposizione patrimoniale.
Tanto che si era accordo dell’ammanco solo quando, pochi giorni dopo essersi recato all’ufficio
Postale con il nipote, egli aveva controllato il saldo del conto rendendosi conto che era stato
prosciugato.
Il teste S.L. confermava il narrato della persona offesa asserendo che lo zio R. si fosse presentato da
lui arrabbiato perché gli era stata sottratta una somma di Euro 11.500 sul conto corrente credendo
lui il responsabile. A. infatti interpellato dallo zio aveva dato la colpa al fratello.
Per quanto riferito dal S.R. al nipote, la somma era sparita dopo che egli era recato in posta
accompagnato dal nipote A.. In quella occasione, pensando di dover chiudere il conto e consegnate
il blocchetto di assegni, egli aveva firmato delle carte.
Solo dopo si era reso conto che sul conto mancava la somma di Euro 11.500.
Orbene, L. allora chiamava il fratello A., in presenza dello zio R., per comprendere cosa fosse
accaduto. A. asseriva che lo zio gli avesse prestato consapevolmente la somma, di 11.500 Euro,
perché doveva fate dei lavori e che li avrebbe restituiti. Il teste asseriva di aver creduto alla versione
dello zio R. in quanto già altre volte egli aveva erogato prestiti ad A. e non vi era stati problemi, per
cui se lo zio stavolta lamentava un ammanco era certamente perché non aveva inteso erogare alcun
prestito.
Credendo invece alle parole dello zio R., S.L. aveva accompagnato lo zio presso l’ufficio postale per
verificare in che modo l’imputato avesse prelevato la somma; ivi la direttrice, comunicando che era
stato emesso un assegno, riferiva che, prima di mettere all’incasso il titolo, avesse anche chiesto a
S.R. se riconoscesse o meno la firma ivi apposta, ricevendo risposto affermativa da S.R..
Nonostante ciò, il teste S.L. riferiva che lo zio più di una volta gli avesse ribadito che, pur avendo
messo la firma, egli non aveva compreso il significato della disposizione patrimoniale che aveva
compiuto.
Invero, nella documentazione in atti trovava conferma la circostanza che fosse stato emesso l’assegno
n. (…) dell’importo di Euro 11.500,00 datato 17.6.2019 in favore dell’imputato S.A., con firma
emissione compatibile con quella della p.o. S.R. e che, in data 24.6.2019, S.A. avesse anche confermato
per iscritto al direttore dell’ufficio postale l’emissione dell’assegno ( cfr. copia assegno e
dichiarazione di regolarità dell’emissione del titolo).
Altresì emergeva quanto alla condizione soggettiva della p.o. S.R. che egli era invalido civile per
sordomutismo (cfr. pratica di invalidità ed accertamento seduta del 3.7.96).
Tale il fatto, così come ricostruito alla luce delle dichiarazioni della p.o. S.R. nonché del teste S.L.
appaiono ampiamente credibili perché intrinsecamente coerenti, costanti nel tempo (come è dato
evincere dalla assenza di contestazioni) e, soprattutto, perché suffragate dalla documentazione,
prevalentemente bancaria, acquisita in dibattimento, appare opportuno inquadrare gli elementi di
struttura del reato di circonvenzione di incapace, oggetto degli addebiti, al fine di verificare se, nel
caso concreto, ne ricorrano gli estremi.
Preliminarmente è utile osservare come la fattispecie disciplinata dall’art. 643 del codice penale
rientri tra i delitti “a soggetto passivo qualificato” (o “qualificati dal soggetto passivo”), nei quali
l’interesse tutelato fa capo soltanto a determinate categorie di soggetti: come noto, in questi casi la
norma penale richiede, ai fini dell’integrazione della fattispecie tipica, una particolare qualità o
qualifica, naturalistica o giuridica, della persona offesa4. Ebbene, l’art. 643 c.p. menziona
espressamente tre categorie di soggetti passivi, connotati da altrettanti specifici status’, minori,
infermi di mente e deficienti psichici.
Quindi La fattispecie incriminatrice de qua vertitur richiede, in primo luogo, che il soggetto passivo
sia una persona minore ovvero affetta da infermità o deficienza psichica. Limitandoci ad enuclearne
la definizione, per “deficienza psichica” generalmente si intende una stato di minorazione della sfera
intellettiva, volitiva o affettiva produttivo di un effetto deviante dal pensiero critico (come detto, non
necessariamente fondato su cause patologiche od ambientali), che influisce sulla realizzazione
dell’azione. Dunque, sinteticamente, una (generica) situazione di “minorata difesa psichica”,
suscettibile di esplicare un effetto turbatore della funzione volitiva, tale da favorire la realizzazione
dell’azione criminosa da parte dell’agente, rendendo più agevole l’altrui opera di suggestione.
All’interno del concetto vengono fatte rientrare le situazioni più disparate, inglobando finanche
condizioni psichiche di minore portata o meramente transitorie (come vedremo a breve, tale
circostanza si rivelerà molto utile ai fini della nostra indagine). Si è parlato, specialmente in
giurisprudenza, di idee deliranti di gelosia o di persecuzione, emarginazione ambientale, rusticitas,
infermità fisiche, crisi di astinenza del tossicodipendente, sordomutismo, debolezze caratteriali,
forme depressive e manifestazioni emozionali collegate alla vecchiaia, e, in generale di ogni altra
analoga situazione che si presti agli abusi, purché idonea ad escludere la capacità del circonvenuto
di avere cura dei propri interessi.
Nel caso in esame, la parte offesa, S.R., può essere certamente considerata affetta da deficit psichico
in quanto sordomuta dalla nascita.
Questa condizione soggettiva è sufficientemente provata, oltre che dalla documentazione medica in
atti, da ulteriori riscontri emersi in dibattimento. A supporto, si evidenzia la testimonianza resa dal
nipote S.L. il quale dichiara in dibattimento che S.R., pur essendo in grado di attendere alle spese
quotidiane, avesse bisogno di essere accudito dai nipoti, soprattutto quando doveva comunicare con
terzi in quanto soltanto i familiari riuscivano a comprendere cosa dicesse.
Tale situazione assume particolare rilevanza nei cd. delitti di cooperazione con la vittima –
come è quello in esame – presupponenti un rapporto interattivo tra ‘incube’ e ‘succube’: la resistenza
della vittima inferma, infatti, può risultare ancor più scemata nei confronti di persone con le quali vi
sia un legame di fiducia, come quello che caratterizzava S.R. e l’imputato S.A..
Nucleo essenziale della fattispecie criminosa è, poi, il compimento di un atto ”’che importi qualsiasi
effetto giuridico … dannoso” per la vittima o per terze persone. Nonostante non ci sia unanimità di
vedute sul punto, tali effetti giuridici devono – ad avviso di chi scrive – causare alla vittima del reato
un danno di natura patrimoniale, poiché la sistematica del codice include l’art. 643 c.p. nella
categoria dei delitti contro il patrimonio.
Fatta questa premessa, l’analisi delle movimentazioni bancarie del conto corrente correlato intestato
alla p.o. – acquisite agli atti del procedimento – mostra con chiara evidenza che S.R. ha subito un
pregiudizio patrimoniale di rilevante entità: infatti, l’estratto conto, che in data 17.6.2019 era
addebitata sul conto la somma di Euro 11.500,00 per pagamento dell’assegno n.(…), in favore di A.S.;
somma che costruiva l’importo complessivo dei risparmi posseduti dallo S.R..
Altro requisito di struttura del reato in contestazione è, poi, l’induzione del soggetto passivo a
compiere gli atti di disposizione che si rivelino pregiudizievoli.
Tale attività induttiva “può essere desunta in via presuntiva quando la persona offesa sia affetta da
una malattia che la privi gravemente della capacità di discernimento, di volizione e di
autodeterminazione … potendo l’induzione consistere anche in un qualsiasi comportamento o
attività – come una semplice richiesta – cui la vittima, per le sue minorate condizioni, non sia capace
di opporsi, e che la porti quindi a compiere atti privi di alcuna causale, che essa in condizioni normali
non avrebbe compiuto, e che siano a lei pregiudizievoli e favorevoli all’agente” (Cass. n. 18583 del
7.4.2009, RV. 244546, imp. Padovani, relativa ad una ipotesi in cui la vittima, affetta da demenza
senile, aveva firmato all’imputata una serie di assegni e reso la stessa beneficiaria di una polizza sulla
vita).
Quindi, la prova della condotta induttiva può essere tratta “anche da elementi indiziari e prove
logiche, avendo riguardo alla natura dell’atto, all’oggettivo pregiudizio da esso derivante e ad ogni
altro accadimento connesso al suo compimento” (Cass. n.6078 del 9.1.2009, RV. 243449. imp. T.).
Facendo applicazione dei suddetti principi al caso sottoposto al vaglio del Tribunale, la natura
dell’atto dispositivo compiuto da S., indotto dall’imputato, dimostra chiaramente, per le ragioni
analiticamente esposte, come non trovino in alcun modo giustificazione in un interesse dello S.R.
pertanto può affermarsi, al di là di ogni ragionevole dubbio, che si tratta di atto che la P.O. – se non
fosse stata in una condizione di minorazione psichica – non avrebbe mai compiuto, considerato che
la somma costituivano gli unici risparmi che lo stesso avesse sul conto nonché considerata la sua età
e la condotta di vita.
Per quanto riguarda il dolo, esso implica – come coscienza e volontà del fatto tipico – la
consapevolezza da parte dell’agente della condizione di minorità, infermità o deficienza psichica del
soggetto passivo, nonché l’intenzione di strumentalizzarla.
Pertanto, non è possibile ritenere che l’odierno imputato non fosse in grado di sapere e di rendersi
conto dello stato psichico dello zio.
In altre parole, la situazione di deficienza psichica della vittima era oggettiva e riconoscibile da parte
di tutti, in modo che chiunque ne avrebbe potuto abusare per i propri fini illeciti (ex multis, Cass.,
45327 del 10.11.2011, RV. 251219, imp. S.).
E’ inoltre giurisprudenza consolidata che la prova del dolo può essere anche di natura presuntiva,
poiché “lo stato anomalo del soggetto passivo può essere legittimamente desunta dalla evidenza di
esborsi immotivati, dalla donazione di beni di cospicuo valore e dalla stessa arrendevolezza
dimostrata dal circonvenuto” (Cass. n.6782 del 14.12.1977, RV. 139201, imp. H.).
L’ulteriore elemento psicologico richiesto dalla norma – ovvero il dolo specifico, che si ravvisa nella
finalità di procurare a sé o ad altri un profitto – è anch’esso inequivocabilmente dimostrato dal tenore
dell’operazione finanziaria che non trovava diversa giustificazione.
L’imputato non forniva alcuna versione dei fatti, tuttavia dalla deposizione resa dai testi emergeva
che avesse corrisposto in contanti la somma di Euro 4000,00 a titolo di restituzione del maltolto, tatto
che appare significativo in ordine al fatto che la somma non fosse stata erogata spontaneamente da
S.R..
Possono essere concesse le circostanze attenuanti generiche in considerazione del comportamento
processuale.
Va esclusa la recidiva contestata (recidiva reiterata) atteso che l’imputato è gravato da un solo
precedente penale, per cui sussiste al più recidiva semplice di cui all’art. 99 comma 2 c.p.; tuttavia si
ritiene che può essere esclusa l’applicazione della recidiva potendosi ritenere la commissione
dell’ulteriore reato come occasionale ricaduta del reo.
Invero, la circostanza dell’esistenza di precedenti penali, da sola considerata, non può in alcun modo
condurre, da parte del giudice, ad una applicazione automatica dell’istituto della recidiva
richiedendosi, viceversa, una “relazione qualificata” tra tali precedenti e il nuovo delitto non colposo
commesso. E infatti la valutazione deve essere compiuta in concreto, alla luce delle peculiarità del
caso di specie, tenendo in considerazione tutta una serie di indici descrittivi della fattispecie tra i
quali rientrano, a titolo di esempio, la natura e la tipologia dei reati commessi, il lasso temporale
intercorrente tra gli stessi, l’offensività delle diverse condotte, ecc. La valutazione di tali elementi
può condurre, infatti, anche all’accertamento di una occasionalità della ricaduta del reo, che non
integra in alcun modo una rafforzata propensione a delinquere, unica circostanza che può
legittimamente comportare l’applicazione di un aumento sanzionatorio per la ritenuta recidiva.
Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, tenendo conto dei criteri previsti dall’art. 133 c.p.,
si stima equo irrogare la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione: pena base anni due di
reclusione, ridotta ex art. 62 bis c.p. alla pena inflitta.
Non può essere concessa la sospensione condizionale della pena avendone beneficiato già una volta
a fronte della condanna ad anni uno di reclusione per cui la concessione della sospensione
condizionale della pena per la seconda volta non rispetterebbe i limiti di cui all’art. 164 c.p.
Consegue di diritto la condanna al pagamento delle spese processuali.
La complessità delle questioni trattate giustifica la concessione del più lungo termine indicato in
dispositivo per il deposito dei motivi.
P.Q.M.
Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara S.A. colpevole del reato a lui ascritto in rubrica, e esclusa la
recidiva contestata, concesse le circostanze attenuanti generiche, lo condanna alla pena di anni uno
e mesi 4 di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

Non viola la privacy la telecamera se non eccede le necessità di tutela

Cassazione civile sez. I – 19/03/2024, n. 7289
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7258/2023 R.G.
proposto da:
Da.Gi., elettivamente domiciliato in Casalnuovo Di Napoli Via Roma 222 Dom
Digitale, presso lo studio dell’avvocato Ammendola Fortuna (Omissis)
che lo rappresenta e difende, come da procura speciale in atti.
– ricorrente –
contro
Io.Cr., elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato Guzzo
Salvatore (Omissis) che lo rappresenta e difende unitamente
all’avvocato Capasso Michele (Omissis), come da procura speciale in
atti.
– controricorrente –
Avverso la Sentenza della Corte D’appello di Napoli n. 119/2023
depositata il 13 gennaio 2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 1 febbraio 2024 dal
Consigliere Tricomi Laura.
RILEVATO CHE:
In data 5 ottobre 2011 i germani Io.Ma. e Io.Cr. e Di.Ma. convennero innanzi al
Tribunale di Nola Da.Gi., esponendo di essere comproprietari di un fabbricato in
C (N) alla Via IX Ma. n. (Omissis), confinante con l’immobile di proprietà di
Da.Gi.
A parere degli attori, Da.Gi. aveva installato sulla facciata esterna della propria
abitazione un sistema di videosorveglianza che riprendeva il tratto di strada
privata antistante il cancello d’ingresso della proprietà; essi dedussero che tale
installazione era lesiva della loro privacy e riservatezza dal momento che erano
soliti percorrere la predetta via privata in forza del diritto di servitù di
passaggio esistente in favore del proprio fondo ed a carico del fondo di
proprietà di Da.Gi.
Tanto premesso, gli attori chiesero all’adito Tribunale di condannare Da.Gi. –
che contestava l’avverso dedotto – alla rimozione e/o ricollocamento
dell’impianto nonché al pagamento in loro favore della somma di Euro
15.000,00=, o alla diversa somma ritenuta di giustizia, a titolo di risarcimento
danni.
Il Tribunale di Nola, con sentenza n. 1164/17 rigettò la domanda degli attori.
La Corte di appello di Napoli, su impugnazione del solo Io.Cr., ha riformato la
prima decisione e ravvisato la violazione della disciplina della tutela dei dati
personali, rilevando che l’istallazione e lo svolgimento di riprese di video
sorveglianza era avvenuta senza la prestazione del preventivo consenso degli
interessati; ha disposto la rimozione delle video camere, ha accolto la
domanda risarcitoria e condannando Da.Gi. in via equitativa nella misura di
Euro 5.000,00, oltre interessi dalla domanda di primo grado.
Da.Gi. ha proposto ricorso con due mezzi, illustrati con memoria, per la
cassazione della sentenza della Corte di appello di Napoli Io.Cr. ha replicato con
controricorso e memoria.
È stata disposta la trattazione camerale.
CONSIDERATO CHE:
2.1.- Con il primo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione e
principio di sinteticità degli atti processuali. Il ricorrente deduce che l’atto
introduttivo del giudizio di appello era sproporzionato, constando di
novantacinque pagine a fronte di una sentenza di primo grado di sette pagine.
2.2.- Il primo motivo è inammissibile.
2.3.- Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e
vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa
condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi
tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso
deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità
ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle
categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c.; deve essere rivolto alla sentenza
impugnata e la parte che ricorre, che ha l’onere della indicazione specifica dei
motivi di impugnazione, deve indicare con precisione gli errori contenuti nella
sentenza impugnata, atteso che il singolo motivo assolve alla funzione
condizionante il devolutum della sentenza impugnata (Cass. n.16763/2002;
Cass. n.1479/2018; Cass. n.6519/2019).
La censura in esame non concerne la sentenza impugnata, ma l’atto di appello,
e ciò ne palesa l’inammissibilità.
3.1. – Con il secondo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione del
D.Lgs. 196/2003 (di seguito, anche il Codice) e dei provvedimenti a carattere
generale emessi dall’Autorità Garante per il trattamento dei dati personali
(provvedimento 08.04.2010).
Il ricorrente sostiene che la Corte di merito ha accolto il gravame basandosi su
un’interpretazione dell’art.4 del D.Lgs. 196/2003 come modificato e rafforzato
dal D.Lgs. n.101/2018, entrato in vigore il 19 settembre 2018 e quindi
successivamente alla fattispecie di cui si tratta iniziata, solo giudizialmente,
nell’anno 2011, applicando una norma non esistente all’epoca dei fatti e di più
ampio tenore e respiro.
Aggiunge il ricorrente che la disciplina in esame non avrebbe potuto essere
applicata se fosse stato valutato un importante elemento accertato
incontrovertibilmente in sede di esame peritale disposto dal Giudice di primo
grado, e cioè che le telecamere dallo stesso collocate a tutela della propria
abitazione, avevano esclusivamente un fine personale: le immagini
momentaneamente rilevate infatti, non venivano conservate, riprodotte a terzi,
comunicate o diffuse.
Sostiene che la Corte di Appello avrebbe dovuto escludere l’applicabilità della
disciplina in materia di trattamento dei dati personali (D.Lgs. n.196/2003) in
un caso, come questo, in cui il “trattamento” è stato effettuato da persone
fisiche per fini personale, a meno che i dati non siano destinati a una
comunicazione sistematica e/o alla diffusione.
3.2. – Il secondo motivo è fondato e va accolto per quanto di ragione.
In via preliminare è opportuno precisare che, poiché si discute di trattamento
di dati personali avvenuto nell’anno 2011, al caso in esame si applica il Codice
in materia di protezione dei dati personali (D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196)
nella stesura anteriore alle modifiche introdotte con il D.Lgs. 10 agosto 2018,
n. 101 di adeguamento dell’ordinamento nazionale al regolamento (UE)
2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, entrato
in vigore il 25 maggio 2018 (art. 99, comma 2, del Regolamento).
Nel merito, la decisione impugnata è immune da vizi laddove, nell’individuare
la normativa applicabile ha affermato, in riforma della prima decisione, che
l’uso di sistemi di videosorveglianza determina il trattamento dei dati personali
comportando la raccolta, la registrazione, la conservazione e in generale
l’utilizzo di immagini (cfr. art. 4, comma 1, lett. b del D.Lgs. 196/2003) e può
incidere sulla riservatezza del domicilio, la cui tutela ha copertura
costituzionale nelle disposizioni degli artt. 2 e 14 della Costituzione ed ha
individuato la normativa di riferimento nel D.Lgs. n. 196/2003, anteriore alle
ricordate modifiche, ma tale disciplina ha applicato falsamente, per le ragioni di
seguito esposte.
3.3.1. – Non può dubitarsi, invero, che l’immagine di una persona, in sé
considerata, quando in qualche modo venga visualizzata o impressa, possa
costituire “dato personale” ai sensi dell’art.4. lett. b) del D.Lgs. n. 196/2003
(Cass. n. 17440/2015; Cass. n. 13663/2016) ed è decisivo ricordare in tal
senso, la previsione, nell’ambito del Codice privacy, di una specifica norma
(art. 134) in materia di videosorveglianza e le numerose specifiche decisioni
del Garante per la protezione di dati personali, tra le quali più significative
appaiono il “Provvedimento generale” in materia di videosorveglianza del 29
aprile 2004 (1003482) sostituito poi dal “Provvedimento in materia di video
sorveglianza” dell’8 aprile 2010 (1712680).
In tema, di recente, il Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB) ha
adottato le “Linee guida 3/2019 sul trattamento dei dati personali attraverso
dispositivi video (versione 2.0.)” in data 29 gennaio 2020, a seguito
dell’entrata in vigore del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 27 aprile 2016 (RGPD).
3.3.2. – Come osservato dal Garante per il trattamento dei dati personali nel
Provvedimento dell’8 aprile 2010, il trattamento dei dati personali effettuato
mediante l’uso di sistemi di videosorveglianza non forma oggetto di
legislazione specifica; al riguardo si applicano, pertanto, le disposizioni generali
in tema di protezione dei dati personali.
La raccolta, la registrazione, la conservazione e, in generale, l’utilizzo di
immagini configurano anche autonomamente considerate, forme di
trattamento di dati personali (art. 4, comma 1, lett. b), del Codice). È
considerato dato personale, infatti, qualunque informazione relativa a persona
fisica identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a
qualsiasi altra informazione.
La circostanza che la videosorveglianza possa essere utilizzata per molteplici
fini meritevoli di perseguimento (protezione e incolumità degli individui, finalità
di sicurezza ed ordine pubblico, protezione della proprietà, rilevazione e
prevenzione delle infrazioni, acquisizione di prove) non esclude la necessità di
garantire, in particolare, un livello elevato di tutela dei diritti e delle libertà
fondamentali rispetto al trattamento dei dati personali, di guisa che la
possibilità di utilizzare sistemi di videosorveglianza è consentita purché ciò non
determini un’ingerenza ingiustificata nei diritti e nelle libertà fondamentali degli
interessati.
In particolare, l’installazione di sistemi di rilevazione delle immagini deve
avvenire nel rispetto, oltre che della disciplina in materia di protezione dei dati
personali, anche delle altre disposizioni dell’ordinamento applicabili, quali, tra
le altre, le vigenti norme dell’ordinamento civile e penale in materia di
interferenze illecite nella vita privata, sia quando avvenga ad opera di soggetti
pubblici, sia quando vada ascritta a soggetti privati.
Inoltre, è necessario:
– che il trattamento dei dati attraverso sistemi di videosorveglianza sia fondato
su uno dei “presupposti di liceità” che il Codice prevede espressamente per i
soggetti pubblici (svolgimento di funzioni istituzionali: artt. 18-22 del Codice) e
per soggetti privati ed enti pubblici economici (es. adempimento ad un obbligo
di legge, provvedimento del Garante di c.d. “bilanciamento di interessi”,
consenso libero ed espresso ex artt. 23-27 del Codice).
– che sia rispettato il “principio di necessità” ex art.3 del Codice, il quale
comporta un obbligo di attenta configurazione di sistemi informativi e di
programmi informatici per ridurre al minimo l’utilizzazione di dati personali;
– che l’attività di videosorveglianza venga effettuata nel rispetto del c.d.
“principio di proporzionalità” nella scelta delle modalità di ripresa e dislocazione
degli apparecchi, nonché nelle varie fasi del trattamento che deve comportare,
comunque, un trattamento di dati pertinenti e non eccedenti rispetto alle
finalità perseguite (art. 11, comma 1, lett. d) del Codice).
3.3.3. – Ne consegue che, a differenza di quanto sostiene il ricorrente, l’utilizzo
di sistemi di video sorveglianza può determinare, in relazione al
posizionamento degli apparecchi e della qualità delle immagini un trattamento
di dati personali, quando, può mettere a rischio la riservatezza di soggetti
portatori di una situazione giuridica soggettiva riconosciuta dall’ordinamento e
deve essere effettuato nel rispetto dei principi prima ricordati.
3.3.4.- Va ulteriormente rimarcato, tuttavia, che la disciplina del Codice non
trova integrale applicazione nel caso di “trattamento di dati personali effettuato
da persone fisiche per fini esclusivamente personali” qualora i dati non siano
comunicati sistematicamente a terzi ovvero diffusi: tanto è previsto dall’art. 5,
comma 3 del Codice, che si premura di sottolineare che, anche in tale ipotesi,
resta ferma l’applicazione della disposizione in tema di responsabilità civile e
necessaria l’adozione di cautele a tutela della sicurezza dei dati, di cui agli artt.
15 e 31 del Codice.
Segnatamente, l’art. 15 prevede espressamente la risarcibilità del danno,
anche non patrimoniale, ai sensi dell’art.2050 c.c. per effetto del trattamento
dei dati personali, compreso il caso di violazione delle disposizioni su modalità
di trattamento e requisiti dei dati (art. 11 del Codice); l’art. 31 stabilisce ampi
obblighi di sicurezza nel trattamento e nella custodia dei dati.
In particolare, possono rientrare nell’ambito descritto dall’art. 5, comma 3, del
Codice gli strumenti di videosorveglianza idonei a identificare coloro che si
accingono ad entrare in luoghi privati (videocitofoni ovvero altre
apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche tramite registrazione),
oltre a sistemi di ripresa installati nei pressi di immobili privati ed all’interno di
condomini e loro pertinenze (quali posti auto e box), con la precisazione che, al
fine di evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata
(art. 615-bis c.p.), l’angolo visuale delle riprese deve essere comunque limitato
ai soli spazi di esclusiva pertinenza di colui che effettuata il trattamento (ad
esempio antistanti l’accesso alla propria abitazione) escludendo ogni forma di
ripresa, anche senza registrazione di immagini, relativa ad aree comuni (cortili,
pianerottoli, scale, garage comuni) ovvero ad ambiti antistanti l’abitazione di
altri condomini, come chiarito dallo stesso Garante nel Provvedimento dell’8
aprile 2010, al par. 6.1. “Trattamento di dati personali per fini esclusivamente
personali”.
3.3.5. – Di contro, nel caso di “Trattamento di dati personali per fini diversi da
quelli esclusivamente personali”, anche ad opera di un privato (par.6.2. del
Provvedimento dell’8 aprile 2010) il trattamento può essere effettuato solo ove
sia stato espresso il consenso preventivo dell’interessato (art.23 del Codice)
oppure se ricorra uno dei presupposti di liceità previsti dall’art. 24 del Codice in
alternativa al consenso.
In merito, il Garante, dopo avere preso atto che nel caso di impiego di
strumenti di videosorveglianza la possibilità di acquisire il consenso risulta in
concreto limitata dalle caratteristiche stesse dei sistemi di rilevazione, ha
ritenuto di dare attuazione all’istituto del bilanciamento di interessi (art. 24,
comma 1, lett. g), del Codice) procedendo all’individuazione dei casi in cui la
rilevazione delle immagini, con esclusione della diffusione, può avvenire senza
consenso, qualora, con le modalità stabilite nello stesso provvedimento, sia
effettuata nell’intento di perseguire un legittimo interesse del titolare o di un
terzo attraverso la raccolta di mezzi di prova o perseguendo fini di tutela di
persone e beni rispetto a possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti,
atti di vandalismo, o finalità di prevenzione di incendi o di sicurezza del lavoro.
Segnatamente, il Garante ha distinto due ipotesi, per le quali ha escluso la
necessità del consenso preventivo informato, avendo attuato il bilanciamento
degli interessi ai sensi dell’art.24, comma 1, lett. g) del Codice:
– I) Videosorveglianza (con o senza registrazione delle immagini). Tali
trattamenti sono ammessi in presenza di concrete situazioni che giustificano
l’installazione, a protezione delle persone, della proprietà o del patrimonio
aziendale. Nell’uso delle apparecchiature volte a riprendere, con o senza
registrazione delle immagini, aree esterne ad edifici e immobili (perimetrali,
adibite a parcheggi o a carico/scarico merci, accessi, uscite di emergenza),
resta fermo che il trattamento debba essere effettuato con modalità tali da
limitare l’angolo visuale all’area effettivamente da proteggere, evitando, per
quanto possibile, la ripresa di luoghi circostanti e di particolari che non risultino
rilevanti (vie, edifici, esercizi commerciali, istituzioni ecc.).
– II) Riprese nelle aree condominiali comuni, qualora i trattamenti siano
effettuati dal condominio (anche per il tramite della relativa amministrazione).
3.3.6.- In sintesi, per quanto interessa il presente procedimento, e in relazione
alla normativa applicabile ratione temporis, va affermato che:
– In tema di tutela dei dati personali trattati mediante l’impiego di sistemi di
videosorveglianza, il trattamento posto in essere ad opera di un soggetto
privato deve rispettare i presupposti di liceità previsti dal D.Lgs. n. 196/2003, il
principio di necessità ed il principio di proporzionalità;
– La disciplina derogatoria di cui all’art .5, comma 3, del D.Lgs. n. 196/2003 è
applicabile al trattamento dei dati mediante sistemi di videosorveglianza solo
nel caso in cui il trattamento sia eseguito da persona fisica a fini personali e
senza diffusione o comunicazione dei dati, entro un ambito operativo
circoscritto, in linea di massima e in via esemplificativa, mediante strumenti di
videosorveglianza idonei a identificare coloro che si accingono ad entrare in
luoghi privati o sistemi di ripresa installati nei pressi di immobili privati o
all’interno di condomini, il cui angolo visuale di ripresa sia comunque limitato ai
soli spazi di esclusiva pertinenza di colui che effettuata il trattamento (ad
esempio antistanti l’accesso alla propria abitazione) escludendo ogni forma di
ripresa, anche senza registrazione di immagini, relativa ad aree comuni ad altri
soggetti;
– Il trattamento di dati personali mediante sistemi di videosorveglianza (con o
senza registrazione delle immagini) per fini diversi da quelli esclusivamente
personali ad opera di un privato, nel caso in cui sia effettuato in presenza di
concrete situazioni che giustificano l’installazione, a protezione delle persone,
della proprietà o del patrimonio aziendale (principio di necessità), non richiede
quale presupposto di liceità il consenso informato dell’interessato, in quanto
ricorre il presupposto di liceità alternativo ex art. 24, comma 1, lett. g) del
D.Lgs. n. 196/2003, costituito dal provvedimento di bilanciamento degli
interessi adottato dal Garante in data 8 aprile 2010 (par.6.2.2.1.); resta fermo,
in osservanza del principio di proporzionalità, che l’utilizzo delle
apparecchiature volte a riprendere aree esterne ad edifici e immobili
(perimetrali, adibite a parcheggi o a carico/scarico merci, accessi, uscite di
emergenza), deve essere effettuato con modalità tali da limitare l’angolo
visuale all’area effettivamente da proteggere, evitando, per quanto possibile, la
ripresa di luoghi circostanti, in uso a terzi o su cui terzi vantino diritti e di
particolari che non risultino rilevanti (vie, edifici, esercizi commerciali,
istituzioni ecc.).
3.4.1. – Indiscussa, nel caso in esame, la circostanza che il trattamento sia
stato eseguito da un privato ed abbia riguardato le zone antistanti la sua
Giurisprudenza di merito Ondif
abitazione insistenti sulla strada privata di sua proprietà sulla quale gode di un
diritto di servitù di passaggio il controricorrente, la sentenza impugnata è
viziata, per avere falsamente applicato il D.Lgs. n. 196/2003 e il
Provvedimento emesso dall’Autorità Garante in data 8 aprile 2010, e va
cassata perché rettamente ha ricondotto la fattispecie concreta nell’ambito del
“Trattamento di dati personali per fini diversi da quelli esclusivamente
personali”, ma erroneamente ha ritenuto che richiedesse il rilascio del
preventivo consenso da parte dell’interessato.
3.4.2. – In breve, la Corte di appello, dopo avere ricondotto l’attività contestata
nell’ambito della nozione di “trattamento”, ha ritenuto applicabile al
trattamento in questione la disciplina del consenso informato ex art. 23 del
Codice e ha ravvisato, in assenza di tale consenso, l’illiceità del trattamento,
ritenuto invasivo in violazione del diritto alla riservatezza del controricorrente.
Segnatamente, sulla scorta della premessa fattuale incontestata che il sistema
di video sorveglianza insisteva su un’area costituita da una strada privata, su
cui concorrevano il diritto di proprietà dell’odierno ricorrente (autore della
video sorveglianza) e la servitù di passaggio del controricorrente (che di tale
video sorveglianza si duole) la Corte di appello ha dedotto che “l’unico
riferimento positivo civilistico alla installazione di telecamere in luoghi privati è
contenuto nell’art. 1122 ter c.c. … Da questa norma si trae una prima
importante indicazione sulla necessità che il titolare di un diritto reale di
godimento debba esprimere il suo consenso quando un impianto di
videosorveglianza incida nella sua sfera privata.” ed ha concluso che l’impianto
non era stato legittimamente installato in assenza del consenso del soggetto
titolare del diritto di servitù di passaggio sulle aree rientranti nel loro ambito di
ripresa.
3.4.3. – Tale conclusione non può essere condivisa.
3.4.4. – Innanzi tutto, va osservato che non è calzante, il richiamo alla
disciplina di cui all’art. 1122 ter c.c., in materia di condominio (peraltro,
introdotto dall’art. 7, comma 1, della L. n.220/2012 ed entrato in vigore dal 18
giugno 2013, dopo i fatti in contestazione), sulla scorta della quale, in via
latamente ed inammissibilmente analogica, la Corte di appello ha affermato
(fol. 7 della sent. imp.) che “anche a prescindere dalla videoproiezione delle
immagini su monitor, la loro raccolta ed il mero utilizzo sono di per sé vietati,
quando, come nella fattispecie che occupa, possono mettere a rischio la
riservatezza di soggetti portatori di una situazione giuridica soggettiva
riconosciuta dall’ordinamento quale è quella della servitù di passaggio” ed ha
ravvisato la necessità che “il titolare di un diritto reale di godimento debba
esprimere il suo consenso quando un impianto di video sorveglianza incida
nella sua sfera privata”.
Invero, la circostanza che il diritto di proprietà dell’odierno ricorrente e il diritto
di servitù di passaggio dell’odierno controricorrente insistano
contemporaneamente sulla strada privata di cui si discute non rende la
fattispecie sussumibile nell’ambito applicativo della disciplina civilistica dettata
dagli artt. 1117 e ss., che concerne il “condominio negli edifici” e riguarda
l’esercizio dei diritti sulla proprietà comune da parte dei proprietari delle
singole unità immobiliari di unità immobiliari, edifici o condomini di unità
immobiliari. Né risulta applicabile l’art. 1122 ter c.c. che disciplina le delibere
delle assemblee condominiali concernenti “l’installazione sulle parti comuni
dell’edificio di impianti volti a consentire la video sorveglianza su di esse”,
posto che nel caso di specie non ricorre una fattispecie né di condominio, né di
assemblea condominiale e non si controverte sull’installazione di impianti su
“parti comuni dell’edificio”.
In proposito, va rammentato che questa Corte, ha già escluso l’applicabilità
analogica, in materia di protezione dei dati personali, delle disposizioni dettate
in tema di condominio a fattispecie a questa non assimilabili – come quella
delle servitù in esame per le ragioni già illustrate – non essendo consentito il
ricorso all’analogia in materie in cui si dispongono restrizioni o sanzioni (Cass.
n. 14346/2012) e che tale arresto non è inciso né dall’introduzione
dell’art.1122 ter c.c., né della adozione del Provvedimento del Garante dell’8
aprile 2010.
3.4.5. – Nel caso in esame, l’affermazione della illegittimità della installazione
del sistema di videosorveglianza – che si colloca nell’ambito di un trattamento
di dati personali effettuato da un privato per fini diversi da quelli
esclusivamente personali – è errata, perché fondata esclusivamente sulla
mancata prestazione del consenso preventivo del soggetto titolare del diritto di
servitù di passaggio sulle aree rientranti nell’ambito di ripresa, consenso che,
nel caso di specie, non era richiesto in applicazione del provvedimento di
bilanciamento preventivo degli interessi adottato dal Garante in data 8 aprile
2010 (par. 6.2.2.1.).
Invece, il vaglio di liceità della specifica attività di video sorveglianza messa in
atto, avrebbe dovuto riguardare la ricorrenza degli altri requisiti già illustrati,
che è onere del titolare del trattamento provare, e all’accertamento di essi
dovrà procedere il giudice del rinvio.
Invero, il trattamento di dati personali effettuato a mezzo videosorveglianza da
un privato per fini diversi da quelli esclusivamente personali è lecito ove sia
effettuato in presenza di concrete situazioni che giustificano l’installazione, a
protezione delle persone, della proprietà o del patrimonio aziendale (principio
di necessità) e ove si avvalga di un utilizzo delle apparecchiature volte a
riprendere le aree di comune disponibilità con modalità tali da limitare l’angolo
visuale all’area effettivamente da proteggere, evitando, per quanto possibile, la
ripresa di luoghi circostanti, in uso a terzi o su cui terzi vantino diritti e di
particolari che non risultino rilevanti (principi di non eccedenza e di
proporzionalità).
La Corte di appello in sede di rinvio, in applicazione dei principi espressi, dovrà
procedere al riesame del trattamento effettuato a mezzo di videosorveglianza,
verificandone la liceità mediante la valutazione di necessità e proporzionalità
dello stesso, alla luce dei principi prima illustrati, che devono
contraddistinguere in concreto l’attività di trattamento messa in atto.
4. – In conclusione, va accolto il secondo motivo del ricorso nei sensi di cui in
motivazione, inammissibile il primo; la sentenza impugnata è cassata con
rinvio alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, per il riesame
alla luce dei principi enunciati e la liquidazione delle spese anche del presente
giudizio.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le
generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n.
196 del 2003, art. 52.
P.Q.M.
– Accoglie il secondo motivo del ricorso nei sensi di cui in motivazione,
inammissibile il primo ricorso;
– Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Napoli,
in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del
giudizio di legittimità;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le
generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n.
196 del 2003, art. 52.

Mantenimento figlio maggiorenne. Ripetizione delle somme versate dal momento del raggiungimento dell’autosufficienza economica

Corte d’Appello di Bari, Sentenza n. 541/2024 del 10-04-2024
CORTE DI APPELLO DI BARI
Prima Sezione Civile
Ha pronunziato la seguente
SENTENZA
Nella causa iscritta al nr. ###/2023 vertente tra ###
rappresentato e difeso dall’avv. ### ed elettivamente domiciliato
presso il suo studio; – appellante – e ### rappresentata e difesa
dall’Avv. #### ed elettivamente domiciliata presso il suo studio;
– Appellata – OGGETTO: appello in materia di divorzio; Conclusioni
delle parti: come da verbale di udienza del 9.1.2024.
Motivi della decisione.
Fatto.
Con atto di citazione regolarmente notificato, ### proponeva
appello nei confronti di ### per la riforma della sentenza n.
###/2023, pronunciata dal Tribunale di Foggia in data ###,
esponendo che era viziata nella parte in cui il Tribunale aveva
confermato l’assegnazione della casa coniugale all’ex coniuge sul
presupposto che il figlio maggiorenne ### nonostante avesse
concluso il proprio ciclo di studi universitari in ### ed intrapreso
attività lavorativa stabile non avesse reciso il legame con la casa
familiare.
Evidenziava che non solo il figlio ### frequentava assai
sporadicamente la casa familiare, ma che prestava attività
lavorativa nella qualità di ### and ### in ### (e, ancora, in
precedenza, come responsabile del recupero crediti); che la ex
moglie, nonostante fosse consapevole che il figlio si fosse laureato
(nel marzo 2022) e prestasse attività lavorativa sin dal giugno
2022, aveva falsamente dedotto, nella memoria conclusiva del
23.11.2022, che il figlio non fosse economicamente
autosufficiente; che la raggiunta indipendenza economica del figlio
(che percepiva una retribuzione mensile di € 2.500,00) rendeva
altresì evidente la violazione, da parte del Tribunale, dell’art. 337
septies, comma primo, c.c., nella parte in cui era stato confermato
l’obbligo di mantenimento del figlio nella misura di € 250,00
mensili, nonostante – per contro – esso appellante fosse da tempo
disoccupato e privo di un’abitazione (essendo ospite da sua
sorella).
Infine, impugnava la sentenza nella parte in cui era stato
ingiustamente condannato al pagamento delle spese di lite,
evidenziando che l’appellata aveva violato i doveri di lealtà e
probità nel giudizio esponendo circostanze non veritiere.
Tanto premesso, chiedeva – previa sospensione dell’esecutorietà
della sentenza, nella parte in cui aveva disposto la condanna al
pagamento delle spese di lite – che la sentenza venisse riformata
e revocato l’assegno di mantenimento per il figlio nonchè
l’assegnazione della casa coniugale in favore della ### con
obbligo di restituzione di tutti gli importi dalla ### indebitamente
percepiti a titolo di contributo per il mantenimento del figlio ###
a partire dal 23.6.2022, oltre rivalutazione monetaria e interessi
legali sulle somme via via rivalutate.
Si costituiva ### la quale esponeva: – che le dichiarazioni rese
dal figlio ### erano state rese all’udienza del 26.1.2022, ovvero
allorquando il figlio non era né laureato né tantomeno
economicamente autosufficiente; – che il figlio era oltretutto
affetto da una patologia cardiaca (che gli imponeva una spesa
mensile di € 80,00); – che il figlio non solo rientrava dalla sede
universitaria regolarmente presso l’abitazione familiare, ma aveva
trascorso tutto il periodo del lockdown presso l’abitazione
coniugale, in ### – che il figlio aveva iniziato uno stage formativo
full time dal 1°.1.2022 sino al 6.6.2022 presso la ### senza uno
stipendio fisso ma con un rimborso spese; – che, a far data dal
23.6.2022 al 31.8.2022 era stato assunto dalla azienda ### s.a.
con contratto part-time e retribuzione pari ad € 700,00 mensili,
insufficiente per coprire le spese di locazione e di vitto in ### –
che, successivamente, dal 1°.9.2022 all’attualità era stato assunto
a tempo pieno e svolgeva la sua attività da remoto sempre presso
l’abitazione familiare; – che il figlio era comproprietario della metà
di un immobile in ### avuto in donazione da essa appellata; – che
pertanto andava confermato il mantenimento del figlio e
l’assegnazione della casa coniugale; tanto premesso, chiedeva il
rigetto dell’appello con il favore delle spese.
Con ordinanza del 6.11.2023, veniva disposta la sospensione
dell’esecutorietà della sentenza impugnata nella parte in cui lo
### era stato condannato al pagamento delle spese del giudizio
di primo grado.
All’udienza del 9.1.2024 la causa è stata riservata per la decisione,
con assegnazione del termine di 60 gg. per memorie conclusive e
20 gg. per repliche.
Diritto.
Va premesso che l’appellante si duole della violazione e falsa
applicazione dell’art. 337 septies, co. 1 c.c., per non aver il
Tribunale ritenuto il figlio maggiorenne ### economicamente
indipendente, benchè percepisse un canone di locazione di €
150,00 (derivante dalla titolarità per ½ del fabbricato sito in ####
censito in catasto al ### 31, particella (…), sub (…), in via ###
n. 24, piano 1° interno 1, scala C), cat. A/3, classe 3, vani 4,
nonché locale cantina a piano interrato censito in catasto al foglio
(…) particella (…) sub (…) via ### n. 12 piano ### Cat. C/2
classe 4, ricevuto in donazione dal nonno materno) e prestasse
attività lavorativa in ### sin dal giugno 2022, con una
retribuzione media mensile di € 2.500,00.
Con altro motivo, l’appellante ha censurato la decisione di primo
grado per la violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost. e degli
artt. 91 e 92 c.p.c., posto che era stato condannato ingiustamente
al pagamento delle spese processuali nonostante le mutate
condizioni economiche del figlio, sottaciute dalla moglie, la quale
aveva continuato a percepire indebitamente i benefici ad essa
spettanti, seppur in nome del figlio, quali l’assegno di
mantenimento e l’assegnazione della casa coniugale.
A parere della Corte, l’appello è fondato. ### l’incontrastato
insegnamento della Suprema Corte, il dovere di mantenimento del
figlio maggiorenne, gravante sul genitore (tanto separato quanto
divorziato) non convivente, sotto forma di obbligo di
corresponsione di un assegno, cessa all’atto del conseguimento da
parte del figlio, di uno “status” di autosufficienza economica,
consistente nella percezione di un reddito corrispondente alla
professionalità acquisita in relazione alle normali e concrete
condizioni di mercato (non rilevando, all’uopo, il tenore di vita da
lui condotto in costanza di matrimonio o durante la separazione
dei genitori), poichè il fondamento del diritto del coniuge
convivente a percepire l’assegno “de quo” risiede, oltre che
nell’elemento oggettivo della convivenza (che lascia presumere il
perdurare dell’onere del mantenimento), nel dovere di assicurare
un’istruzione ed una formazione professionale rapportate alle
capacità del figlio (oltre che alle condizioni economiche e sociali dei
genitori), onde consentirgli una propria autonomia economica.
Ed invero, il diritto del figlio maggiorenne al mantenimento “si
giustifica all’interno e nei limiti del perseguimento di un progetto
educativo e di un percorso formativo, che tenga conto delle sue
capacità, inclinazioni ed aspirazioni, considerato che la funzione
educativa del mantenimento è nozione idonea a circoscrivere la
portata del mantenimento, sia in termini di contenuto che di
durata, avuto riguardo al tempo occorrente e mediamente
necessario per il suo inserimento nella società” (v. Cass.
5088/2018; 12952/2016, 18175/2021). ### sul raggiungimento
dell’autonomia reddituale è “… necessariamente ancorato alle
aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post-
universitario del soggetto ed alla situazione attuale del mercato del
lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia
indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione” (v.
Cass. n. 19589/2011, n. 15756/2006).
Nel caso di specie, se può ritenersi che l’obbligo di mantenimento
del figlio maggiorenne non fosse cessato per lo ### all’atto del
conseguimento della laurea in giurisprudenza da parte del figlio,
deve però ritenersi che tale obbligo sia certamente venuto meno a
partire dal momento in cui il figlio ha iniziato a lavorare
stabilmente, sia pure con un contratto part-time (poi divenuto full-
time dal 1°.9.2022), presso l’azienda ### s.a.
Ed invero, che la retribuzione mensile derivante dal contratto part-
time in data ###, pari ad € 700,00 circa, risultasse appena
sufficiente a coprire le spese sostenute, tra pagamento del canone
di fitto, vitto e utilizzo di mezzi pubblici per raggiungere il posto di
lavoro, non giustifica la permanenza dell’obbligo di mantenimento
da parte del genitore obbligato, in specie se rapportata
all’insussistenza di adeguati redditi di lavoro da parte dello ###
pacificamente disoccupato.
Difatti, a partire dal 23.6.2022, il figlio ### era titolare di un
reddito fisso che gli consentiva una sufficiente autonomia
patrimoniale, tant’è che, dopo pochi mesi (e precisamente in data
1°.9.2022), quell’assunzione part-time è divenuta una assunzione
a tempo pieno, con una retribuzione mensile superiore a €
2.000,00 mensili, come da estratto previdenziale prodotto.
Ne discende che non sono condivisibili le argomentazioni del
Tribunale di Foggia che, con riferimento alla indipendenza
economica del figlio ### ha applicato il principio del c.d.
“collegamento stabile” e della “regolarità del ritorno” presso
l’abitazione familiare, deducendo che permaneva il legame con la
casa coniugale nonostante il ciclo di studi intrapreso e completato
in ### ed invero, tale affermazione, in astratto condivisibile
laddove si tratti di un figlio che debba assentarsi, per ragioni di
studio, per non brevi periodi dalla abitazione familiare (e faccia
ritorno ogni qualvolta gli impegni glielo consentano) non è
sovrapponibile al caso di specie, in cui il figlio maggiorenne ###
dopo essersi laureato e avere frequentato con profitto uno stage
post-universitario, aveva trovato lavoro presso un’azienda che lo
aveva assunto dapprima con contratto part time retribuito e poi
con contratto a tempo pieno con retribuzione pari a € 2.500,00
mensili.
Né è stato dimostrato che tale lavoro non fosse confacente alle
aspirazioni professionali e alle attitudini del figlio maggiorenne,
posto che l’appellata ha dedotto, nella comparsa di risposta, che il
figlio, anche all’attualità, lavora presso quella ditta dalla quale è
stato assunto nel giugno del 2022.
Ne deriva che non può condividersi l’affermazione del Tribunale
secondo cui non può procedersi “[…] alla revoca dell’assegnazione
per il venir meno dei presupposti applicativi dell’istituto,
considerando la pacifica non autosufficienza del figlio che, per
stessa ammissione del ricorrente, svolge lavori saltuari
ritraendone un guadagno irrisorio”.
Ed invero, ai fini della revoca del contributo al mantenimento del
figlio, è sufficiente la dimostrazione di uno status di autosufficienza
economica, consistente nella percezione di un reddito
corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle
normali condizioni di mercato; non può ritenersi che l’assunzione
presso la ### fosse da considerare un lavoro precario o instabile,
né tantomeno che non fosse raggiunta la indipendenza economica
“che richiede una prospettiva di continuità” (cfr. cit. sent.).
Peraltro, è appena il caso di precisare che in base al più recente
indirizzo della Suprema Corte (v. Cass. 3708/2023 tra le tante),
“[…] ai fini dell’accoglimento della domanda, così come del
permanere dell’obbligo a fronte dell’istanza di revoca dello stesso
da parte del genitore, è onere del richiedente provare non solo la
mancanza di indipendenza economica – precondizione del diritto
preteso – ma anche di avere curato, con ogni possibile impegno,
la propria preparazione, professionale o tecnica, e di essersi con
pari impegno attivato nella ricerca di un lavoro. Infatti, raggiunta
la maggiore età, si presume l’idoneità al reddito che, per essere
vinta, necessita della prova delle fattispecie che integrano il diritto
al mantenimento ulteriore. Ciò è coerente con il consolidato
principio generale di prossimità o vicinanza della prova, secondo
cui la ripartizione dell’onere probatorio deve tenere conto, oltre
che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi
e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio
riconducibile all’art. 24 Cost., ed al divieto di interpretare la legge
in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio
dell’azione in giudizio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei
mezzi di prova; conseguentemente, ove i fatti possano essere noti
solo ad una delle parti, ad essa compete l’onere della prova, pur
negativa. Va altresì ribadito che la prova sarà tanto più lieve per il
figlio, quanto più prossima sia la sua età a quella di un recente
maggiorenne: invero, da un lato, qualora sia stato emesso dal
giudice il provvedimento di mantenimento del figlio minorenne a
carico del genitore non convivente, esso resta ultrattivo di per sé,
sino ad un eventuale diverso provvedimento del giudice; e,
dall’altro lato, qualora sussista una domanda di revoca da parte
del genitore obbligato, l’onere della prova risulterà particolarmente
agevole per il figlio in prossimità della maggiore età appena
compiuta ed anche per gli immediati anni a seguire, quando il
soggetto abbia intrapreso un percorso di studi, già questo
integrando la prova presuntiva del compimento del giusto sforzo
per meglio avanzare verso l’ingresso nel mondo adulto. È
opportuno, altresì, evidenziare come l’applicazione in buona fede
di tali principî mai potrà permettere al genitore di negare il suo
mantenimento al figlio, convivente o no, non appena e solo perché
questi entri nella maggiore età, ove impegnato ancora negli studi
superiori (se non universitari), poiché non si legittima affatto la
cessazione del contributo da parte del genitore verso il figlio solo
in quanto sia divenuto maggiorenne. Di converso, la prova del
diritto all’assegno di mantenimento sarà più gravosa man mano
che l’età del figlio aumenti, sino a configurare il c.d. “figlio adulto”:
che, in ragione del principio dell’autoresponsabilità, si valuterà,
caso per caso, se possa ancora pretendere di essere mantenuto,
anche con riguardo alle scelte di vita fino a quel momento operate
e all’impegno realmente profuso nella ricerca, prima, di una idonea
qualificazione professionale e, poi, di una collocazione lavorativa”.
Ne deriva che, in base ai principi surriportati, competeva alla ###
richiedente l’assegno per il figlio, dimostrare che ### non avesse
raggiunto la piena indipendenza economica; al che, l’appellata non
ha minimamente adempiuto.
Ne deriva che l’assegno di mantenimento per il figlio va revocato,
avendo questi raggiunto dal giugno 2022 la piena indipendenza
economica, benchè abbia conservato la residenza anagrafica
presso l’abitazione della madre.
Alla revoca del contributo consegue altresì la revoca
dell’assegnazione della casa familiare, che non si giustifica per la
raggiunta indipendenza economica del figlio, a far data dal 23
giugno 2022.
A questo punto deve essere ora valutata la richiesta di restituzione
delle somme indebitamente corrisposte dall’appellante in favore
dell’appellata dalla domanda di revoca del contributo del
mantenimento.
Sul punto, va premesso che recentemente la Suprema Corte (v.
sul punto, Cass. 10974/2023 e 18875/2023) ha impartito il
principio di diritto secondo cui “[…] in ogni ipotesi di riduzione del
contributo al mantenimento del figlio a carico del genitore, sulla
base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla
luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal
momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei
fatti già posti a base dei provvedimenti provvisori adottati, è
esclusa la ripetibilità della prestazione economica eseguita; il
diritto di ritenere quanto è stato pagato non opera invece
nell’ipotesi in cui sia accertata la non sussistenza, quanto al figlio
maggiorenne, ab origine dei presupposti per il versamento (vale a
dire la non autosufficienza economica, in rapporto all’età ed al
percorso formativo e/o professionale sul mercato del lavoro
avviato, Cass. ###/21) e sia disposta la riduzione o la revoca del
contributo, con decorrenza comunque sempre dalla domanda di
revisione o, motivatamente, da periodo successivo”.
Ora, essendo stato accertato che la ### non aveva diritto al
contributo per il mantenimento del figlio a far data dal 23 giugno
2022, ne deriva che, a partire dal mese di luglio 2022, lo ### ha
diritto a ripetere quanto corrisposto in eccesso alla ### per effetto
della statuizione, contenuta in sentenza, che prevede l’obbligo di
mantenimento del figlio maggiorenne per l’importo di € 250,00
mensili.
A tale somma, in quanto debito di valuta, vanno aggiunti gli
interessi al saggio legale a far data dal mese di luglio 2022 sino al
soddisfo.
Venendo adesso alle spese di lite, tenuto conto dell’accoglimento
totale dell’appello, le spese del doppio grado di giudizio vanno
poste interamente a carico dell’appellata, nella misura liquidata in
dispositivo.
Per la determinazione delle spese, tenuto conto della non
complessità delle questioni trattate, si terrà conto del valore
indeterminabile della causa (complessità bassa) con applicazione
dei parametri fissati dal DM 55/2014 e successive modificazioni, in
base ai minimi tariffari e distrazione in favore del difensore di parte
appellante, dichiaratosi anticipatario.
P.Q.M.
Accoglie l’appello e, per l’effetto: – dichiara cessato l’obbligo di
mantenimento per il figlio maggiorenne a far data dal 23 giugno
2022; – per l’effetto, accerta il diritto di ### di ripetere quanto
ricevuto da ### a titolo di mantenimento per il figlio maggiorenne
a far data dal 1°.7.2022, oltre interessi legali sino al soddisfo; –
revoca l’assegnazione della casa coniugale in favore di ###
essendo divenuto il figlio economicamente indipendente; – dichiara
tenuta e condanna ### al pagamento delle spese del doppio
grado di giudizio che liquida, per il primo grado, nella somma di €
3.809,00 e, per il secondo grado, nella complessiva somma di €
4.996,00, oltre r.f.s.g., Iva e Cpa come per legge, da distrarsi in
favore del ### di parte appellante, dichiaratosi antistatario ###
deciso nella camera di consiglio della prima sezione civile della
Corte di appello di Bari del 2.4.2024

L’assegno di mantenimento in favore del coniuge va parametrato considerando il generale tenore di vita reso possibile in costanza di matrimonio, non la fruizione di singoli beni

Cassazione civile sez. I – 10/04/2024, n. 9708
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21179/2022 R.G.
proposto da:
Ma.Ca., elettivamente domiciliata in ROMA Viale delle Medaglie d’Oro, presso
lo studio dell’avvocato MANCINI LINO (Omissis) che la rappresenta e
difende
-ricorrente-
contro
Mo.En., elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato TRIVELLI
Giurisprudenza di legittimità Ondif
SIMONE (Omissis) che lo rappresenta e difende
-contro ricorrente –
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 3673/2022
depositata il 30/05/2022;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15/02/2024 dal
Consigliere CLOTILDE PARISE.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 16323/2020, emessa in data 11/19 novembre 2020, il
Tribunale di Roma dichiarava la separazione personale dei coniugi Ma.Ca. e
Mo.En., coniugati a R il (Omissis), rigettava le reciproche domande di addebito
e quella diretta a ottenere l’assegno di mantenimento proposta dalla moglie,
compensando le spese di lite per due terzi e condannando la Ma.Ca. al
pagamento del rimanente terzo.
2. Con sentenza n. 3673/2022, pubblicata il 30/05/2022, la Corte di Appello di
Roma rigettava l’appello proposto da Ma.Ca. avverso la citata sentenza, che
confermava, condannando l’appellante alla rifusione delle spese del grado. In
particolare, la Corte di Appello riteneva che le condotte dell’ex marito allegate
come causative dell’irreversibile crisi familiari non fossero dimostrate, sia con
riguardo all’infedeltà coniugale, tra l’altro risalente al 2015 ossia a un periodo
in cui il rapporto era già in grave crisi, sia con riguardo alle condotte
denunciate come violente. La Corte di merito affermava che era stata
depositata la sentenza di assoluzione del Mo.En. ex art. 530, II comma, cod.
proc. pen., divenuta definitiva, per i fatti oggetto anche della domanda di
addebito, e non erano stati acquisiti agli atti ulteriori elementi probatori, diversi
da quelli esaminati in sede penale, considerato che le asserite violenze da
parte del marito sarebbero state perpetrate negli anni del matrimonio
(celebrato il (Omissis)), ma denunciate dalla moglie per la prima volta solo nel
novembre 2015 dopo la scoperta, nel luglio precedente, della presunta
relazione extraconiugale del marito; tuttavia mancavano riscontri
relativamente ad asseriti episodi di violenza domestica, in tesi perdurati per un
lungo lasso temporale (circa quattordici anni), senza alcuna reazione da parte
della vittima, che tra l’altro era inserita in un contesto ambientale e lavorativo
che le avrebbe certamente consentito di cercare tutela presso parenti, amici o
strutture specializzate. La Corte territoriale neppure riteneva dimostrato
l’asserito rifiuto affettivo e sessuale del Mo.En. nei confronti della moglie, che
assumeva di essere stata privata della gioia di diventare madre. All’esito della
comparazione delle condizioni economiche dei coniugi, come emergenti dalla
documentazione prodotta, la Corte d’appello riteneva che tra le posizione dei
coniugi sussistesse una sostanziale equiparazione, tale da non giustificare il
riconoscimento dell’assegno di mantenimento in favore della Ma.Ca., anche
tenuto conto della degenerazione della malattia da cui quest’ultima era da
tempo affetta, dato che ella percepiva già una pensione di invalidità e godeva
di tutti i benefici riconosciuti dalla legge agli invalidi per ragioni di salute, non
essendo peraltro dimostrato che l’interessata sostenesse personalmente spese
relative a eventuali necessità di assistenza. La Corte di merito, infine, riteneva
non spettante l’assegnazione della casa familiare all’appellante, non
proprietaria della suddetta abitazione e non affidataria di prole, e infondate le
doglianze circa il mancato accoglimento, da parte del Tribunale, della richiesta
di indagini mediante Guardia di Finanza sulle condizioni patrimoniali dell’ex
marito, il quale nel corso del giudizio aveva reso la dichiarazione sostitutiva
dell’atto di notorietà e aveva depositato la propria documentazione fiscale, da
lavoratore dipendente, mentre non erano state specificamente indicate
dall’appellante eventuali ulteriori fonti di reddito non dichiarate dall’ex coniuge.
3. Avverso tale sentenza la Ma.Ca. ha proposto ricorso per Cassazione, affidato
a sette motivi, resistito con controricorso dal Mo.En..
4. Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi degli
artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ.. Le parti hanno depositato
memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La ricorrente denuncia:
i) con il primo motivo la “violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360,
comma 1, n. 3 e 5 c.p.c.., in relazione all’art. 151, comma 2, c.c., in ordine
all’art. 143 c.c. e dell’art. 29 della costituzione per omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia”, per avere
la Corte di Appello erroneamente ritenuto, alla luce delle prove espletate, che
l’addebito della separazione al marito non fosse provata dall’infedeltà, in
particolare rimarcando l’irrilevanza del dato temporale, il tenore dei messaggi e
delle mail intercorsi tra il marito e la collega di lavoro, la dimostrata astinenza
unilaterale reiterata del Mo.En. dai rapporti sessuali con la moglie, il distacco
emotivo affettivo e tutti quei comportamenti contrari ai doveri nascenti dal
matrimonio, che erano stati, ad avviso della ricorrente, causativi
dell’intollerabilità della convivenza;
ii) con il secondo motivo, “ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., la
violazione degli artt. 112-115-116 c.p.c.”, per avere la Corte d’Appello basato
la decisione anche sulla sentenza di assoluzione del Mo.En. ai fini dell’addebito
della separazione a quest’ultimo, non essendo condivisibile il ragionamento
della Corte d’Appello che aveva considerato “scarsamente attendibile” la
denunciante attuale ricorrente, in quanto la valutazione del giudice penale non
poteva configurarsi in alcun omnicomprensiva degli aspetti civilistici collegati;
iii) con il terzo motivo la “violazione o falsa applicazione ex art. 360, comma 1,
n. 3 c.p.c., in relazione all’art. 6, comma 6, legge 898/70 applicabile in sede di
separazione in forza dell’art. 23 legge 74/87 inerente l’assegnazione della casa
coniugale”, per non avere la Corte di Appello adeguatamente valutato
l’invalidità della ricorrente, riconosciuta al 100% e degenerata negli ultimi anni
anche per gravi problemi di deambulazione, come comprovato dai certificati
medici prodotti, tanto che la stessa era costretta ad utilizzare un bastone e a
sostenere ingenti spese mediche, come era dato evincere dalla
documentazione bancaria fino all’ultima annualità disponibile; deduce la
ricorrente che l’assegnazione della casa familiare a favore del coniuge più
debole, anche in assenza della prole, può essere disposta come componente in
natura del mantenimento;
iv) con il quarto motivo la “violazione e falsa applicazione dell’art. 360, comma
1, n. 3 – 5 c.p.c., in relazione all’art. 156 c.c., impugnandosi la parte della
sentenza della Corte d’appello che non considera la sig.ra Ma.Ca. come il
coniuge debole in sede di determinazione dell’assegno di mantenimento”, per
avere la Corte di merito negato alla ricorrente il riconoscimento di un
contributo al suo mantenimento; la ricorrente rimarca la sperequazione
reddituale tra le parti stante le sempre più aumentate sue esigenze di cura, a
causa delle patologie croniche che l’hanno resa invalida al 100%; rileva di non
avere risorse nemmeno sufficienti a sostenere i costi di un immobile da
prendere in locazione, in quanto le cure mediche/sanitarie (soprattutto private
non coperte dal SSN) di cui ella necessita sono ingenti, così come ingenti sono
i costi per l’aiuto di una badante fissa di cui avrebbe bisogno; afferma la
ricorrente di versare in una posizione economica deteriore, anche perché
assume che sia stata errata la valutazione effettuata dalla Corte di merito sui
suoi redditi, come era dato evincere dalla documentazione bancaria degli ultimi
anni, e sulle sue comproprietà immobiliari, a fronte delle ottime condizioni del
Mo.En., che è persona estremamente benestante e di famiglia “pacificamente
di censo elevato” (vedasi All.to n. 3 fascicolo di parte di Appello della Ma.Ca. –
Provvedimenti provvisori del giudizio di primo grado);
v) con il quinto motivo la “violazione o falsa applicazione di legge (art. 360,
comma 1, n. 3 c.p.c.) in relazione agli artt. 91 e 96 c.p.c.”, per avere la Corte
territoriale erroneamente rigettato la domanda di condanna del Mo.En. al
risarcimento del danno per l’instaurazione temeraria del sub procedimento del
giudizio di separazione, con il quale il marito aveva chiesto revocarsi l’assegno
di mantenimento di Euro 600,00 in favore dell’ex moglie, disposto in sede di
provvedimenti provvisori, sull’erroneo rilievo, da parte del Tribunale, che non
ve ne fossero i presupposti, benché l’istanza fosse stata dichiarata
inammissibile e fosse stata presentata con mala fede o colpa grave;
vi) con il sesto motivo la “violazione e/o falsa applicazione, a norma dell’art.
360 n. 3 – 4 c.p.c., degli artt. 132 n. 4 e 91c.p.c., dell’art. 75disp. att. c.p.c.,
dell’art. 36 cost. e 2233 c.c, anche in relazione alla i. n. 1051 del 1957, agli
artt. 57-64 del r.d.l. n. 1578 del 1933 e all’art. 24 della i. n. 794 del 1942, al
D.M. n. 55 del 2014 (art. 2 – 4 – e tabb. 3 e/o 12)”, per avere la sentenza
impugnata, senza motivazione o con motivazione apparente, provveduto a
determinare le spese di lite per il giudizio di secondo grado in un importo
globale, senza dar conto in motivazione delle prestazioni rese nelle diverse fasi
del relativo processo;
vii) con il settimo motivo la “violazione o falsa applicazione di legge (art. 360,
comma 1, n. 3 c.p.c.., in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., all’art. 2729 c.c.
e all’art. 5, comma 9, l. n. 898 del 1970, esteso in via analogica al giudizio di
separazione, all’art. 36 d.P.R. n. 600 del 1973, come modificato dall’art. 19,
comma 1, lett. d), i. n. 413 del 1991”, per avere la Corte d’appello negato
indagini di polizia tributaria e ulteriori approfondimenti, escludendo anche il
ricorso alle presunzioni gravi, precise e concordanti, sull’erroneo presupposto
che il Mo.En. avesse altre entrate derivanti dalle elargizioni paterne e dalle
eventuali entrate dai canoni di locazione di immobili, sempre gestite dal padre
dell’ex marito; ai fini della ricostruzione dell’effettivo tenore di vita familiare,
ad avviso della ricorrente erroneamente la Corte d’appello non aveva preso in
considerazione il fatto che il padre del Mo.En. aveva elargito ingenti somme di
denaro al figlio e che la coppia durante il matrimonio aveva avuto la
disponibilità delle proprietà immobiliari in posti esclusivi, come vacanze in
barca o negli immobili di famiglia, tra cui Cap d’Ail (Montecarlo).
2. I motivi primo e secondo, da esaminarsi congiuntamente in quanto entrambi
concernenti la questione dell’addebito della separazione, sono inammissibili.
Occorre ribadire che la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod.
proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7
agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici
dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del
sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in
cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione
in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere
dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella
“mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella
“motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
“sufficienza” della motivazione (Cass. S.U. 8053/2014 e successive conformi).
Va aggiunto che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il vizio di
violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da
parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una
norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo
della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie
concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione
della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la
cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di
motivazione: il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso
proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa,
ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o
contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che
solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata
valutazione delle risultanze di causa (Cass. n.24054/2017).
Nella specie, la Corte d’appello ha scrutinato in dettaglio ogni profilo di
condotta del marito (infedeltà, violenza – non solo con riguardo alla sentenza di
assoluzione -, rifiuto di rapporti sessuali) e con motivazione congrua ne ha
escluso la rilevanza ai fini invocati. Per contro, le doglianze prospettano una
diversa ricostruzione fattuale in base ad una rivalutazione delle risultanze
istruttorie e pertanto, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa
applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio, le censure mirano, in realtà, ad una
rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. S.U.
34476/2019).
3. I motivi terzo, quarto e settimo, concernenti, rispettivamente, le questioni
dell’assegnazione della casa familiare, del mantenimento e delle indagini della
Guardia di Finanza circa la situazione economica del contro ricorrente, sono
inammissibili per le stesse ragioni suesposte, poiché le deduzioni difensive si
risolvono in una diffusa enunciazione di fatti che sono stati scrutinati dalla
Corte territoriale e di cui si ripropone una diversa valutazione, nonché si
sostanziano nella denuncia di vizi di violazione di legge sempre mediati dalla
contestata valutazione delle risultanze di causa. Il settimo motivo è altresì
infondato nella parte in cui si sostiene, in buona sostanza, che il tenore di vita
matrimoniale debba determinarsi anche in base a benefici o danaro elargiti dal
padre del marito. Al riguardo questa Corte ha chiarito, esprimendo un
orientamento condiviso dal Collegio (Cass. 952/2023, citata anche nella
memoria di Mo.En.) che “Poiché la separazione personale presuppone la
permanenza del vincolo coniugale, i “redditi adeguati” a cui va rapportato, ai
sensi dell’art. 156, comma 1, cod. civ., l’assegno di mantenimento a favore del
coniuge sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza
di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che
non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea (Cass.
12196/2017). Pertanto, condizioni per il sorgere del diritto al mantenimento in
favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione sono la non titolarità
di adeguati redditi propri, ossia di redditi che gli permettano di mantenere un
tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e la
sussistenza di una disparità economica tra le parti, occorrendo avere riguardo,
al fine della valutazione dell’adeguatezza dei redditi del coniuge che chiede
l’assegno, al parametro di riferimento costituito dalle potenzialità economiche
complessive dei coniugi durante il matrimonio, quale elemento condizionante la
qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del medesimo richiedente.
Nell’ambito dello svolgimento di un simile accertamento è necessario, tuttavia,
non confondere il tenore di vita con la fruizione diretta di particolari beni. E’
indubbiamente vero che la separazione può determinare (e normalmente
determina) la cessazione di una serie di benefici e di consuetudini di vita,
strettamente collegati alla posizione patrimoniale, reddituale, professionale e
sociale dell’uno o dell’altro coniuge, che non sono riproducibili durante la
separazione, cosicché il venir meno della possibilità di godere di singoli beni
appartenenti a uno dei coniugi costituisce la fisiologica conseguenza della
scelta di questi ultimi di dividere le loro sorti. Ciò nonostante, il riconoscimento
di un assegno di mantenimento deve avvenire considerando, piuttosto che la
cessazione del godimento diretto di particolari beni, il generale tenore di vita
goduto in costanza della convivenza, da identificarsi avendo riguardo allo
standard di vita reso oggettivamente possibile dal complesso delle risorse
economiche dei coniugi e tenendo conto, quindi, di tutte le potenzialità
derivanti dalla titolarità del patrimonio in termini di redditività, di capacità di
spesa, di garanzie di elevato benessere e di fondate aspettative per il futuro
(cfr. Cass. 20638/2004, Cass. 5061/2006)”.
La Corte territoriale si è attenuta ai suesposti principi, poiché correttamente
non ha fatto riferimento, ai fini della spettanza e della quantificazione
dell’assegno, a un concetto di stile di vita ancorato alla cessazione della
concreta fruizione di specifiche utilità (vacanze in barca o soggiorni negli
immobili di proprietà della più che benestante famiglia dell’ex marito), mentre
la ricorrente pare sostenere che l’assegno di mantenimento debba indennizzare
il venir meno di una simile disponibilità, ascrivibile ad una rilevante posizione
patrimoniale non del coniuge, ma della sua famiglia. In altre parole, la Corte di
merito ha considerato, come una corretta lettura dell’art. 156 cod. civ. impone,
tutte le potenzialità derivanti dalla complessiva situazione patrimoniale dei
coniugi, al fine di verificare poi la necessità di garantire alla richiedente, ove
consentito dalle capacità economiche dell’altro coniuge, la continuazione del
complessivo standard di vita mantenuto in precedenza. In quest’ottica, la
situazione patrimoniale dei coniugi è stata valutata, e così anche la situazione
di invalidità della ricorrente, la quale, a fronte dell’affermazione della Corte
d’appello secondo cui ella non aveva documentato spese mediche e di cura, si
limita genericamente a richiamare solo i suoi estratti conto bancari più recenti,
ad affermare che avrà bisogno di una badante (pag.17 e 18 del ricorso) e a
chiedere l’assegnazione della casa familiare, di proprietà esclusiva del marito,
in base a quanto accertato dalla Corte di merito, come componente “in natura”
del mantenimento. I medesimi profili di genericità presenta la doglianza circa
l’omesso accertamento delle condizioni economiche del marito tramite indagini
della Guardia di Finanza, in assenza di compiuta e specifica precisazione
dell’ambito entro cui dette indagini avrebbero, in tesi, dovuto essere disposte,
posto che il marito è lavoratore dipendente ed è irrilevante ai fini che qui
interessano, per quanto già si è detto, il riferimento alle elargizioni ricevute dal
padre.
4. Il quinto motivo è infondato.
Come correttamente evidenziato nella sentenza impugnata, il Tribunale aveva
valutato l’esito complessivo del giudizio ed aveva compensato in parte le spese
di primo grado anche perché l’istanza del subprocedimento proposta dal marito
era stata dichiarata inammissibile, sicché l’odierna ricorrente era risultata in
parte (preponderante) soccombente, e non totalmente vittoriosa, e ciò esclude
in radice l’applicabilità della condanna dell’altro coniuge ai sensi dell’art. 96
cod. proc. civ.. La responsabilità aggravata prevista dalla norma citata integra
una particolare forma di responsabilità processuale a carico della parte
soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa
grave, sicché non può farsi luogo all’applicazione della norma nel caso di
soccombenza reciproca (Cass. 24158/2017).
5. Il sesto motivo è inammissibile.
La ricorrente non svolge alcuna critica sul quantum delle spese di lite che ella è
stata condannata a pagare con la sentenza impugnata, vale a dire non
contesta l’importo globale liquidato dalla Corte territoriale a tale titolo, ma
deduce solo che difetta l’indicazione delle singole voci. La doglianza così
espressa difetta di specificità poiché non consente di comprendere se vi sia e
quale sia l’interesse all’impugnazione sul punto, in assenza di compiuta e
pertinente allegazione di erroneità della complessiva liquidazione rispetto a
Giurisprudenza di legittimità Ondif
quanto previsto dal D.M. n.55/2024 per lo scaglione di valore della
controversia.
6. In conclusione, il ricorso va complessivamente rigettato e le spese del
presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art.13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, deve darsi atto
della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della
ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1 -bis dello stesso
art.13, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le
generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30
giugno 2003 n. 196, art. 52.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di
lite del presente giudizio, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per
esborsi, oltre rimborso spese generali (15%) ed accessori, come per legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della
ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1 -bis dello stesso
art.13, ove dovuto.
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le
generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. 30
giugno 2003 n. 196, art. 52.

Collocamento paritario e alternato nella casa familiare se risponde all’interesse dei minori

Corte appello – Torino, 14/03/2024
LA CORTE D’APPELLO DI TORINO
Sezione Famiglia e Minorenni
nel procedimento n. 175/2023 V.G. promosso in sede di reclamo
nell’interesse di (omissis) nata a (omissis) elettivamente domiciliata in
Carrù (CN), P.zza C., presso lo studio dell’Avv. Nicola Schellino e dell’Avv.
Veronica Rinaldi che la rappresentano e difendono con l’Avv. Alessio Solinas
per procura in atti
Reclamante
nei confronti di (omissis) nato a (omissis) elettivamente domiciliato in presso lo
studio dell’Avv. (omissis) che lo rappresenta e difende per procura in atti
Reclamato
avverso
il Decreto n. 1465/2023 del Tribunale Ordinario di Cuneo, pubblicato il
13/03/2023 nel procedimento n. 2231/2022 V.G. e comunicato dalla
Cancelleria alle parti a mezzo pec il 13/03/2023.
L’intervento del Procuratore ex Generale della Repubblica, in persona del
Sostituto Dott.ssa M.L., in data 31/03/2023, del seguente tenore:
“La Procura Generale rileva che dagli atti emergono vari profili di possibile
pregiudizio in danno della prole della coppia genitoriale (liti fra genitori
esitate anche in denunce). È pertanto favorevole ad approfondimenti sul
punto al fine di verificare se siano opportuni sostegni alla genitorialità e di
orientare la decisione sul regime di affido”, (omissis) sentite all’udienza del
12.01.2024 le parti che hanno richiamato le conclusioni già rassegnate nei
rispetti atti introduttivi, (omissis) ha pronunciato il seguente
DECRETO
Con il decreto riportato in epigrafe il Tribunale di Cuneo ha affidato le figlie
minori (omissis), congiuntamente a entrambi i genitori, con esercizio disgiunto
della responsabilità genitoriale sulle questioni di ordinaria amministrazione e
congiunto per quelle di maggiore importanza attinenti istruzione, educazione e
cura; ha disposto che le figlie abbiano residenza e collocazione stabile presso la
casa familiare che è stata assegnata alla madre; ha disciplinato i tempi di
permanenza delle minori con ciascun genitore a settimane alternate nella casa
familiare; ha disposto che il signor (omissis) corrisponda alla signora (omissis)
a titolo di contributo perequativo al mantenimento delle figlie minori, un
assegno mensile di € 200,00 (100,00 per ciascuna figlia), da rivalutarsi
annualmente secondo gli indici ISTAT, oltre al 50% delle spese mediche non
coperte dal S.S.N., scolastiche, sportive e ricreative necessitate o previamente
concordate e successivamente documentate.
Il primo giudice ha osservato che il “il vero tema del contendere tra le parti
risulta, dall’esame degli atti, l’assegnazione della casa familiare, posto che
entrambe rivendicano tale assegnazione e, dalla stessa, fanno discendere le
prevedibili conseguenze in punto collocazione abituale e residenza anagrafica
delle bambine presso di sé nonché previsione di un calendario di visita
dell’altro genitori quale genitore non collocatario (omissis) sono ragioni per
preferire l’uno o l’altro genitore quale collocatario delle bambine e,
conseguentemente, quale assegnatario della casa tanto contesa in quanto la
madre, pur rappresentando di essere stata, quantomeno sino alla proposizione
del ricorso, più presente del padre nella vita delle figlie, non prospetta alcuna
incapacità genitoriale del padre né evidenzia ragioni di disagio delle figlie nel
trascorrere del tempo con lui, tanto da proporre un ampio calendario di visita
delle figlie con il padre e neppure il padre evidenzia profili di inidoneità
genitoriale materna o di disagio alcuno delle (omissis) con la (omissis) appare
corretto riconoscere pari tempi con le figlie ad entrambi i genitori, i quali nei
tempi ordinari- dovranno dunque ruotare, a settimane alterne, nella casa
familiare, con previsione di due pomeriggi a settimana delle bambine con l’altro
genitore, dall’uscita di scuola sino alla sera, cena compresa, e con
riaccompagnamento presso la casa familiare entro le ore 20.30″ (p.4 del
decreto impugnato). Il primo giudice ha ritenuto praticabile tale soluzione
anche in considerazione del fatto che entrambe le parti sono titolari di altri
immobili (il ricorrente in Dogliani e la convenuta in Torino) presso i quali
potranno permanere nella settimana in cui la casa spetterà all’altro o che
potranno locare così traendo proventi utili per reperire altro immobile più
confacente alle rispettive esigenze. Ha assegnato la casa familiare, sita in
(omissis), alla signora (omissis) al solo fine di garantire alla stessa un titolo
giuridico per permanere nell’immobile insieme alle figlie nelle settimane di
alternanza di sua spettanza mentre il padre non necessita di tale assegnazione
in quanto potrà rimanervi, nelle settimane di sua spettanza, essendo il nudo
proprietario nonché in forza del presente provvedimento. Rilevato che la
situazione economica del ricorrente appare certamente più florida di quella
della convenuta, la cui richiesta appare spropositata rispetto alle effettive
presumibili esigenze di due bambine ancore piccole e del contesto socio-
economico di riferimento, al tenore di vita goduto in corso di convivenza e in
relazione ai tempi di permanenza paritari delle minori con i genitori, ha
stabilito che il signor (omissis) contribuirà al mantenimento delle figlie minori
con un assegno mensile di € 200,00 (€ 100,00 per ciascuna figlia).
Avverso detto decreto ha tempestivamente interposto reclamo la signora la
quale, in parziale riforma, ha chiesto di disporre la collocazione prevalente e la
residenza anagrafica delle minori presso la propria abitazione, una nuova
disciplina dei tempi di permanenza delle minori presso il padre e la
determinazione dell’assegno di mantenimento a carico del padre nella somma
mensile di € 1.200,00 (600,00 per ciascuna figlia), oltre al 50% delle spese
mediche straordinarie, comprese quelle dentistiche, nonché delle spese
scolastiche, ludiche e ricreative sostenute in favore delle figlie.
Parte reclamante deduce che non sussistano i presupposti per il collocamento
alternato delle minori essendo pacifico, contrariamente a quanto sostenuto dal
primo giudice, che il diritto dei genitori di essere presenti in maniera paritetica
nella vita dei figli non presuppone una divisione a metà nel tempo del figlio con
i genitori, come affermato dalla dottrina al cui orientamento ha aderito la
Suprema Corte che ha sostenuto che il collocamento alternato “assicura buoni
risultati quando vi é un preciso accordo tra i genitori e tutti i soggetti coinvolti”
(Cass. n. 4060/2017), orientamento che è stato fatto proprio dal Tribunale
ordinario di Torino (intervento del 2017 del Presidente dott. C.C. presso la
Regione Piemonte, doc.3). Deduce che, in relazione agli elementi acquisiti nel
corso del giudizio di primo grado sia attuabile la previsione di tempi paritetici di
permanenza delle minori con i genitori e lamenta che il Tribunale, senza fornire
alcuna motivazione, in assenza di domande delle parti di collocamento
alternato, si sia discostato anche dal parere del Pubblico Ministero che aveva
chiesto il rigetto del ricorso del signor (omissis) con accoglimento delle
domande formulate dalla signora (omissis), (doc.4).
Evidenzia che le particolari condizioni di (omissis) affetta da “(omissis) verbale
e ipoacusia percettiva monolaterale destra” (doc.2), che impongono alla
bambina di vivere con l’ausilio di una protesi fissa all’orecchio, richiedono
particolare cura della minore, la quale necessita di stabilità e di mantenere il
proprio legame con la mamma quale genitore di prevalente riferimento nella
sua quotidianità.
Deduce che il collocamento alternato delle minori, contrariamente a quanto ha
affermato il primo giudice, non sia praticabile in quanto sia l’abitazione della
signora (omissis) sita in Torino quanto quella del signor (omissis) in Dogliani
(CN) risultano locate né può ritenersi di facile soluzione reperire due nuove
abitazioni più confacenti alla esigenze dei genitori in quanto la pronuncia deve
essere messa in base alla situazione di fatto esistente e non di un ipotetico
futuro. Deduce che il collocamento alternato non sia praticabile anche per le
difficoltà di dialogo e di confronto tra i genitori, emerse nel corso del primo
grado di giudizio; che sia incompatibile con gli impegni lavorativi del signor
(omissis) il quale è lavoratore dipendente con contratto di lavoro full time, oltre
che esercente l’attività professionale privata di ricercatore di funghi e tartufi ai
fini di rivendita ad attività commerciali, con la conseguenza che non si trova
nella condizione di offrire alle figlie eguale assistenza rispetto alla madre.
Parte reclamante richiama l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che
afferma il criterio presuntivo di preferenza all’affidamento materno quando i
figli sono di età scolare o prescolare (Cass. civ. n. 21054/2022; n.
18087/2016).
Deduce, infine, che in atti sia documentato come la condizione economica delle
parti risulti di gran lunga squilibrata in favore del signor (omissis) in ragione
dell’evidente e non controversa sperequazione reddituale intercorrente tra le
parti e come il nucleo familiare avesse sempre goduto di un tenore di vita
medio-alto (il nucleo familiare viveva in una casa indipendente dotata di
annesso e ampio giardino privato, aveva dei cani da tartufo, come noto di
ingente valore, e le minori, come riferito dallo stesso signor (omissis) solite
sciare, fare trekking montagna, trascorrere vacanze al mare).
Con memoria di costituzione del 18/05/2023 il signor (omissis) in via
istruttoria ha chiesto alla Corte di ammettere i documenti prodotti con la
memoria sub n. 2 (copia certificato ASL Città di Torino 30.08.2022) e sub n. 3
(copia certificato ASL CN1 05.05.2023) e di espungere i documenti
contrassegnati ai numeri 1,3,4,5,6 prodotti con il reclamo in quanto
inammissibili; nel merito, ha chiesto il rigetto del reclamo e, per l’effetto, la
conferma del decreto reclamato.
Richiama giurisprudenza di merito che afferma che la soluzione della
suddivisione paritetica dei tempi di permanenza presso ciascun genitore non è
sempre da preferire ma lo è ove sussistano le condizioni di fattibilità in
considerazione delie caratteristiche del caso concreto (Tribunale di Catanzaro
n. 443/2019), osservando anche non esiste nel nostro ordinamento un regime
ordinario tale per cui il genitore collocatario debba essere necessariamente e
aprioristicamente la madre.
Replicando alle argomentazione della reclamante, deduce i seguenti motivi:
– l’età di cinque e quattro anni di (omissis) non è ostativa al regime di affido
paritetico alternato, a fronte anche del fatto che i genitori sono reciprocamente
presenti così da garantire la continuità e stabilità;
– a tale regime non sono ostative le condizioni di salute di (omissis) che,
protesizzata, è in buon compenso ed è in carico al Servizio di NPI, come si
evince dal certificato del 05.05.2023 (doc.3)
– la signora (omissis) già dalla comparizione presso il Tribunale affermava di
aver dato in locazione l’alloggio di Torino ricavandone 800 € mensili, mentre il
signor (omissis) ha iniziato da marzo 2023 a locare il proprio appartamento a
Dogliani traendone un affitto di 400 € mensili;
– l’assenza di dialogo tra i genitori è condizione ostativa di qualsiasi soluzione
perché impedisce l’interazione costruttiva tra gli stessi sia che si tratti di affido
condiviso con genitore collocatario che di affido condiviso paritetico;
– il signor (omissis) lavora a 300 metri dalla casa coniugale come impiegato e
ciò significa che è vicinissimo alle figlie per qualsiasi emergenza e, in ragione
del rapporto di lavoro, usufruisce di permessi, riduzioni di orario, congedi
speciali e flessibilità maggiori rispetto alla madre che ha un’attività autonoma
insieme alla sorella distante da (omissis) tre mattine alla settimana esce di
casa alle 4.45 per andare a lavorare e la nonna materna, la sera prima e
obbligata a trasferirsi presso la casa di (omissis) per accudire le minori
accompagnandole a scuola;
– quanto al tenore di vita del nucleo familiare, i due cani da tartufo di proprietà
del signor (omissis) non hanno alcun valore se non quello affettivo, non
essendo dotati di pedigree o di certificazione alcuna; proventi della vendita di
tartufo erano messi a disposizione della famiglia; la famiglia (omissis) conduce
un tenore di vita medio e, come ha osservato il primo giudice, la richiesta di
controparte è spropositata tenuto conto anche dell’età delle bambine;
l’assegnazione della casa familiare, pur finalizzata alla tutela della prole e del
suo interesse a permanere nell’ambiente domestico, costituisce ex se un’utilità
suscettibile di apprezzamento economico;
– il signor (omissis) attualmente occupa a titolo gratuito un immobile sito in
(omissis) di proprietà della sorella in attesa che si liberi altro appartamento
sempre nella stessa località.
In via preliminare la Corte osserva che è inammissibile per tardività il doc.2 di
parte reclamata trattandosi di certificato medico datato 30.08.2022 che ben
poteva essere prodotto nel primo grado di giudizio, mentre è ammissibile e
rilevante il documento 3) trattandosi dell’aggiornamento in data 05.05.2023
del Servizio di NPI (successivo dunque alla pubblicazione del decreto
impugnato) in merito alla presa in carico (omissis) bambina con ipoacusia
monolaterale destra, protesizzata, di cui si dice che è una condizione di buon
compenso.
Sono inammissibili e irrilevanti i documenti prodotti da parte reclamata sub
doc. 3 (si tratta dell’intervento del Presidente Dr. C.C. nel 2017, che ben
poteva essere prodotto nel primo grado di giudizio), il doc. 4 (parere espresso
dal Pubblico Ministero), doc. 5 (distanza tra il Comune di (omissis) e l’immobile
torinese della signora (omissis)) e il doc. 6 (elenco di Comuni in cui sono più
care le bollette della luce e del gas).
Nel merito, la Corte osserva che il reclamo è infondato.
Le relazioni dei Servizi, richieste dalla Corte, costituiscono un’evidente
conferma della sussistenza dei presupposti del collocamento paritario delle
minori con i genitori, a settimane alterne, presso l’abitazione familiare.
Entrambi i genitori sono presenti nella vita delle loro figlie, in tutti i contesti, da
quello scolastico a quello medico e nell’organizzazione della quotidianità si
avvalgono, come diffusamente succede, del supporto dei nonni materni e
paterni.
La situazione abitativa dei genitori non è di ostacolo alla prosecuzione
dell’attuale assetto di vita della minori in quanto, nelle more, quando non sono
di turno presso l’abitazione ex familiare, la signora (omissis) vive in una casa
in affitto (con giardino e ampi spazi esterni) nello stesso paese dove lavora e il
signor (omissis) vive presso i suoi genitori. Sia il Servizio sociale che il Servizio
di N.P.I. hanno concluso nel senso che i bisogni primari di accudimento, cura
ed assistenza di (omissis) e di (omissis) sono pienamente soddisfatti (dunque,
nessuna criticità per (omissis) e per le sue esigenze di cura dall’attuale regime
di collocamento); in particolare, l’osservazione psicologica (consistita anche
nella somministrazione di test) ha evidenziato per entrambe le minori un
attaccamento sufficientemente sicuro nei confronti di entrambi i genitori,
percepiti come accudenti, consolanti e protettivi.
Si confermano, dunque, le buone capacità genitoriali della parti.
I Servizi, tuttavia, evidenziano che la vera criticità è rappresentata dalla
difficoltà di comunicazione all’Interno della coppia genitoriale e,
inevitabilmente, dall’impossibilità di prendere accordi congiunti in merito a ciò
che concerne le loro figlie; che, in ogni caso, da entrambe le parti emerge la
consapevolezza e il desiderio di potersi parlare e raccordare come genitori.
A fronte di una difficoltà così importante non può esservi per le parti altra
soluzione se non quella, già indicata dai Servizi, di intraprendere un percorso di
coordinazione genitoriale allo scopo di essere guidati in un processo di
risoluzione alternativa per la condivisione di decisioni ed iniziative a favore di
(omissis)e di (omissis) e di (omissis) (si conferma anche qui la criticità già
rilevata dal Tribunale per la cui risoluzione è quanto mai importante che le parti
si attivino con urgenza).
Quanto alla produzione documentale di parte reclamante del 23.01.2024, a
fronte dell’eccezione di parte reclamata per cui detta produzione non risulta dal
verbale dell’udienza del 12.01.2024 essere stata autorizzata la Corte osserva
che, in forza dei propri poteri officiosi nelle cause di affidamento di minori in
cui prevalgono interessi di tutela dei minori, poiché all’udienza del 12.01.2024
parte reclamante riferiva che la signora (omissis) aveva intrapreso un percorso
psicologico presso un Centro antiviolenza, possono essere ammessi i
documenti 9 e 10 che attestano l’avvio di detto percorso da parte dell’odierna
reclamante proprio con l’obiettivo di essere aiutata nell’affrontare le difficoltà
connesse ad una separazione estremamente conflittuale e alle difficoltà
comunicative con l’ex compagno (nei confronti del signor (omissis) pende
procedimento a seguito della denuncia querela sporta nei suoi confronti dalla
sig. (omissis) il 16.05.2023, doc. 8 di parte reclamante), iniziativa che delinea
la capacità dell’odierna reclamante di trovare le corrette strategie di aiuto in
una situazione certamente complessa e difficile nel rapporto con il signor
(omissis) quale è quella già sopra descritta.
Non sono invece ammessi i documenti 11, 12 e 13 di parte reclamante in
quanto non autorizzati.
Quanto, infine, agli aspetti economici, nessuna censura merita la decisione del
primo giudice che ha correttamente valutato le situazioni economiche delle
parti, certamente connotate da un divario reddituale a favore del signor
(omissis) ma non tale da giustificare un assegno così spropositato, tenuto
conto delie reali esigenze delle minori in relazione alla loro età, in un contesto
familiare di cui non emergono indicatori di un tenore di vita medio-alto e dei
tempi paritari di collocazione delle minori presso i genitori.
Pertanto, la Corte rigetta il reclamo e, per l’effetto, conferma il decreto
impugnato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate secondo i parametri
previsti dal D.M. 10/3/2014, come modificato dal D.M. 147/2022, per i
procedimenti di volontaria giurisdizione. Tenuto conto del valore
indeterminabile del decisum (scaglione indeterminato basso € 26.000,01 – €
52.000,00), degli effetti della decisione, della complessità e importanza delle
questioni trattate, nonché dell’attività effettivamente prestata e dei complessivi
risultati del giudizio, è possibile liquidare le spese del presente reclamo in €
2.336,00 oltre al 15% per rimborso spese forfettarie, C.P.A. e I.V.A.
P.Q.M.
Visto l’art. 739 c.p.c.,
respinge il reclamo avverso il decreto n. 1465/2023 del Tribunale Ordinario di
Cuneo, pubblicato il 13/03/2023 nel procedimento n. 2231/2022 V.G, che, per
l’effetto, conferma.
Condanna parte reclamante a rifondere alla controparte le spese del presente
grado di giudizio che liquida in € 2.336,00, oltre 15% rimborso spese
forfettarie, CPA e IVA.
Manda alla Cancelleria per la comunicazione del decreto alle parti.
Dispone che, in caso di diffusione, siano omesse le generalità e gli altri dati
identificativi delle parti e delle minori (art.52 codice privacy).

E’ falsa testimonianza la dichiarazione che vuole inficiare l’attendibilità della persona offesa

Cass. Pen., Sez. VI, sentenza 3 maggio 2024 n. 17655
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
1. A.A. (Omissis)
2. B.B. (Omissis)
3. C.C. (Omissis)
4. D.D. (Omissis)
avverso la sentenza del 08/03/2023 della Corte di appello di Napoli
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal componente Angelo Capozzi;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Antonio
Balsamo, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso di A.A.; il rigetto dei ricorsi di B.B.,
C.C. e D.D. e rettificarsi la sentenza eliminando le parole “per un tempo di anno uno”.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Napoli, a seguito di gravame interposto – per
quanto in questa sede di interesse – dagli imputati A.A., B.B., C.C. e D.D. avverso la sentenza emessa
in data 17 maggio 2021 dal Tribunale di Nola, ha confermato la decisione con la quale i predetti
imputati sono stati dichiarati colpevoli del reato di cui all’art. 372 cod. pen. loro ascritto in relazione
alle false testimonianze rese nel processo a carico di E.E. per maltrattamenti e violenza sessuale ai
danni della compagna F.F. e condannati a pena di giustizia.
2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati con atti dei rispettivi
difensori.
3. Nell’interesse di A.A. si deduce violazione di legge penale e manifesta illogicità della motivazione
in ordine al percorso logico-giuridico della decisione che, nel confermare la prima sentenza, non ha
tenuto conto delle argomentazioni difensive sia in relazione alla responsabilità che alla
determinazione della pena.
4. Nell’interesse di B.B. si deducono i seguenti motivi:
4.1. Con il primo motivo violazione di legge penale e vizio della motivazione in ordine alla
affermazione di responsabilità avendo la sentenza trascurata, risolvendola in termini apodittici, la
verifica della pertinenza e rilevanza della eventuale falsa testimonianza nell’ambito del giudizio
nella quale fu resa. Nella specie, le dichiarazioni della ricorrente hanno ad oggetto un periodo
temporale estremamente limitato (dal 1.9.2014 al 12.9.2014) rispetto a quello della imputazione
(riguardante l’arco temporale di tutta la convivenza coniugale e fino al 14.9.2014), essendo E.E.
condannato, sulla base delle dichiarazioni della moglie, F.F., che hanno riguardato tutta la
convivenza coniugale antecedente alla remissione in libertà del E.E. avvenuta in data 1.7.2014.
Pertanto, le dichiarazioni della ricorrente non sono né pertinenti alla condotta maltrattante, né
inficiano la credibilità della persona offesa, vagliata frazionatamente in relazione ai singoli episodi.
4.2. Con il secondo motivo violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla mancata
eliminazione della condizione alla quale è stata subordinata la sospensione condizionale della pena,
non potendosi comprendere se il periodo di attività lavorativa non retribuita da svolgere sia pari a
mesi sei oppure ad un anno.
Inoltre, si deduce l’illegittimità della imposizione della condizione a fronte della possibilità di
concedere per la seconda volta il beneficio della sospensione condizionale della pena ai sensi dell’art.
164 cod. pen. in presenza delle condizioni favorevoli ad un giudizio prognostico di non reiterazione.
5. Nell’interesse di C.C. si deducono i seguenti motivi:
5.1. Con il primo motivo violazione di legge penale e vizio della motivazione in ordine alla
affermazione di responsabilità avendo la sentenza trascurata, risolvendola in termini apodittici, la
verifica della pertinenza e rilevanza della eventuale falsa testimonianza nell’ambito del giudizio
nella quale fu resa. Nella specie, le dichiarazioni del ricorrente hanno ad oggetto un periodo
temporale estremamente limitato (dal 1.9.2014 al 12.9.2014) rispetto a quello della imputazione
(riguardante l’arco temporale di tutta la convivenza coniugale e fino al 14.9.2014), essendo E.E.
condannato, sulla base delle dichiarazioni della moglie, F.F., che hanno riguardato tutta la
convivenza coniugale antecedente alla remissione in libertà del E.E. avvenuta in data 1.7.2014.
Pertanto le dichiarazioni della ricorrente non sono né pertinenti alla condotta maltrattante né
inficiano la credibilità della persona offesa, vagliata frazionatamente in relazione ai singoli episodi.
5.2. Con il secondo motivo assoluta assenza di motivazione in ordine alla valutazione di sostituzione
della pena detentiva con quelle previste dall’art. 20-bis cod. pen., trattandosi di sentenza emessa in
data successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 150/22, in presenza di limiti edittali ammissibili e
non sussistendo cause soggettive di esclusione ex art. 59 L. n. 689/1981.
6. Nell’interesse di D.D. si deducono i seguenti motivi:
6.1. Con il primo motivo violazione di legge penale e vizio della motivazione in ordine alla
affermazione di responsabilità avendo la sentenza trascurato, risolvendola in termini apodittici, la
verifica della pertinenza e rilevanza della eventuale falsa testimonianza nell’ambito del giudizio
nella quale fu resa. Nella specie, le dichiarazioni della ricorrente hanno ad oggetto un periodo
temporale estremamente limitato (dal 1.9.2014 al 12.9.2014) rispetto a quello della imputazione
(riguardante l’arco temporale di tutta la convivenza coniugale e fino al 14.9.2014), essendo E.E.
condannato, sulla base delle dichiarazioni della moglie, F.F., che hanno riguardato tutta la
convivenza coniugale antecedente alla remissione in libertà del E.E. avvenuta in data 1.7.2014.
Pertanto, le dichiarazioni della ricorrente non sono pertinenti alla condotta maltrattante, né inficiano
la credibilità della persona offesa, vagliata frazionatamente in relazione ai singoli episodi.
6.2. Con il secondo motivo violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla mancata
eliminazione della condizione alla quale è stata subordinata la sospensione condizionale della pena
non potendosi comprendere se il periodo di attività lavorativa non retribuita a svolgere sia pari a
mesi sei oppure ad un anno.
Inoltre, si deduce l’illegittimità della imposizione della condizione a fronte della possibilità di
concedere per la seconda volta il beneficio della sospensione condizionale della pena ai sensi dell’art.
164 cod. pen. in presenza delle condizioni favorevoli ad un giudizio prognostico di non reiterazione.
7. Disposta la trattazione scritta del procedimento, ai sensi dell’art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre
2020, n. 137, conv. dalla L. 18 dicembre 2020, e succ. modd., in mancanza di richiesta nei termini ivi
previsti di discussione orale, il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte, come in
epigrafe indicate.
Motivi della decisione
1. Il ricorso di A.A. è inammissibile perché manifestamente generico, non confrontandosi in alcun
modo con le ragioni poste a base della affermazione di responsabilità e determinazione della pena,
limitandosi a invocare aspecificamente la mancata considerazione delle deduzioni difensive in
appello.
2. Il ricorso di B.B. è inammissibile.
2.1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Deve essere ribadito il principio secondo il quale, ai fini della configurabilità del delitto di falsa
testimonianza, è sufficiente che i fatti oggetto della deposizione siano pertinenti alla causa e
suscettibili di avere efficacia probatoria, anche se, in concreto, le dichiarazioni non hanno influito
sulla decisione del giudice (Sez. 6, n. 51032 del 05/12/2013, Mevoli, Rv. 258507).
La sentenza impugnata si è conformata al predetto principio rigettando il comune motivo degli
appellanti in ordine alla estraneità e ininfluenza delle circostanze da loro falsamente riferite nel
dibattimento a carico di E.E.
Ha, invero, rilevato che – secondo la prima sentenza – “gli imputati, mentendo in ordine alla
permanenza dell’intero nucleo familiare (della vittima n.d.r.) presso l’abitazione di A.A. e G.G., i vari
testi indicati dalla difesa hanno reso dichiarazioni temporalmente incastrabili l’una con l’altra, a
supporto delle dichiarazioni del E.E. Peraltro, tali false dichiarazioni erano sicuramente
astrattamente idonee ad in fluire sull’esito del giudizio, poiché, smentendo il propalato della persona
offesa – principale teste dell’accusa, la cui testimonianza era pertanto decisiva ai fini della prova dei
fatti contestati al E.E. – potevano inficiarne l’attendibilità inducendo il giudice ad assolvere
l’imputato”.
E a tal riguardo, la Corte di merito ha rilevato che, secondo quanto riportato nella sentenza di
condanna del E.E., questi era stato condannato per maltrattamenti e violenza sessuale ai danni della
moglie perpetrati nell’arco di tutta la convivenza coniugale e con particolare violenza e costanza nel
lasso temporale tra il 1.7.2014, data della scarcerazione del E.E., e fino al 14.9.2014, quando la persona
offesa abbandonava la casa insieme ai figli e decideva di denunciare il convivente all’autorità
giudiziaria(v. pg. 5, ibidem). Pertanto, ha del tutto correttamente affermato che le circostanze riferite
dai testimoni dell’epoca, ora attuali imputati, erano finalizzate a dimostrare la permanenza della
coppia presso terze persone nel periodo in cui si sarebbero verificati gli abusi denunciati dalla …e,
dunque, avevano lo scopo di inficiare l’attendibilità della persona offesa, dovendosi quindi escludere
la pretesa estraneità e ininfluenza delle medesime circostanze (v. pg. 9 della sentenza impugnata).
2.2. Il secondo motivo è inammissibile.
Quanto alla durata del lavoro non retribuito la questione non è stata oggetto di appello. In ogni caso,
deve rilevarsi che nel dispositivo della sentenza di primo grado, confermata da quella di appello, è
presente un errore materiale, consistente nell’avere aggiunto – dopo la corretta indicazione relativa
alla subordinazione della sospensione condizionale “alla prestazione di attività non retribuita per
mesi sei, in favore della collettività” – le parole “per un tempo di anno uno”. Si tratta di un errore
materiale riconoscibile con assoluta evidenza, in quanto, come è noto, la durata della prestazione di
attività non retribuita a favore della collettività soggiace al limite di sei mesi, previsto dal combinato
disposto degli artt. 18-bis disp. coord. trans, c.p. e 54, comma 2, D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (Sez.
U, n. 23400 del 27/01/2022, Rv. 283191 – 02).
Quanto alla subordinazione della pena sospesa, il motivo è manifestamente infondato in presenza
dei presupposti previsti dall’art. 165, comma 2, cod. pen. e, in ogni caso, dovendosi tener conto del
consolidato principio secondo il quale la richiesta di sospensione condizionale della pena avanzata
dall’imputato che ne abbia già usufruito in relazione a precedente condanna implica il consenso alla
subordinazione del beneficio all’adempimento di uno degli obblighi previsti dall’art. 165, comma
primo, cod. pen., trattandosi di prescrizione che il giudice deve necessariamente disporre a norma
del secondo comma del medesimo articolo qualora intenda riconoscere nuovamente detto beneficio.
(Sez. 6, n. 8535 del 02/02/2021, S., Rv. 280712).
3. Il ricorso di C.C. è inammissibile.
3.1. Il primo motivo è inammissibile per le ragioni esposte in ordine all’identico primo motivo
proposto nell’interesse di B.B.
3.2. Il secondo motivo è inammissibile in quanto ha ad oggetto questione non devoluta né comunque
proposta in sede di appello in quanto, in tema di pene sostitutive, ai sensi della disciplina transitoria
contenuta nell’art. 95 D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia), affinché il giudice di
appello sia tenuto a pronunciarsi in merito all’applicabilità o meno delle nuove pene sostitutive delle
pene detentive brevi di cui all’art. 20-bis cod. pen., è necessaria una richiesta in tal senso
dell’imputato, da formulare non necessariamente con l’atto di gravame o in sede di “motivi nuovi”
ex art. 585, comma 4, cod. proc. pen., ma che deve comunque intervenire, al più tardi, nel corso
dell’udienza di discussione d’appello. (Sez. 4, n. 4934 del 23/01/2024, Rv. 285751).
4. Il ricorso di D.D. è inammissibile per le ragioni precedentemente esposte in relazione al
sovrapponibile ricorso di B.B.
5. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento
delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
6. Deve esser disposta la correzione dell’errore materiale contenuto nel dispositivo della sentenza
emessa dal Tribunale di Nola in data 17 maggio 2021, in relazione alla parte che riguarda la
concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena e alla sua subordinazione alla
prestazione di attività non retribuita – per quanto in questa sede di interesse – a D.D. e B.B.,
eliminando le parole “per un tempo di anni uno”, disponendo la conseguente annotazione da parte
della Cancelleria del Tribunale di Nola, alla quale darà comunicazione la Cancelleria di questa Corte.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della
somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Dispone la correzione dell’errore
materiale contenuto nel dispositivo della sentenza emessa dal Tribunale di Nola in data 17 maggio
2021, eliminando le parole “per un tempo di anni uno”: Manda alla Cancelleria per gli adempimenti
di rito.

Addebito della separazione e ripartizione dell’onere probatorio

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 26 aprile 2024, n. 11208
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 1240/2020, il Tribunale di Pescara, dopo aver pronunciato sentenza di separazione
personale dei coniugi B.B. e A.A., con addebito alla moglie, ha respinto la richiesta di addebito al
marito, formulata da quest’ultima e, di conseguenza, la domanda della moglie volta a ottenere un
contributo al proprio mantenimento. Lo stesso Tribunale disponeva, poi, l’affido condiviso del figlio
minore delle parti, con collocamento presso il padre, e disciplinava le modalità di visita e di
frequentazione della madre, ponendo a carico di quest’ultima, con decorrenza dal novembre 2020,
l’obbligo di versare entro il giorno 5 di ogni mese la somma di Euro 150,00, a titolo di contributo al
mantenimento del figlio, oltre al 50% delle spese straordinarie, come disciplinate dal Protocollo
Famiglia del Tribunale di Pescara.
Avverso tale pronuncia proponeva appello A.A., censurando la decisione nella parte in cui le aveva
addebitato la separazione e anche in quella parte in cui aveva disposto il collocamento del figlio
minore presso il padre (ed escluso che la madre potesse recarsi all’estero con il bambino per le
vacanze). L’appellato, nel costituirsi, chiedeva il rigetto dell’impugnazione e la Corte d’appello di
L’Aquila, con la sentenza n. 477/2022, pubblicata in data 31/03/2022, respingeva il gravame.
A.A. ha, quindi, proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi di impugnazione.
L’intimato si è difeso con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 143 e 151
c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello addebitato la
separazione alla moglie, senza verificare l’assolvimento del duplice onere probatorio, poiché la
dimostrazione della violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio deve essere accompagnata
dall’accertamento del nesso di causalità tra la violazione dei doveri della ricorrente e la fine
dell’unione familiare.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 315 bis e 337
ter c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello vietato l’espatrio
del minore senza alcuna valida ragione, mentre invece avrebbe dovuto tenere conto dell’interesse
primario del minore ed anche degli ascendenti materni, residenti in Ucraina, di conoscersi e intessere
relazioni.
2. Il primo motivo di ricorso è infondato.
2.1. Com’è noto ai sensi dell’art. 151 c.c. “La separazione può essere chiesta quando si verificano,
anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile
la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole. Il giudice,
pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei
coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri
che derivano dal matrimonio”.
La dichiarazione di addebito implica l’esistenza di comportamenti “oggettivamente” contrari ai valori
sui quali la Costituzione italiana fonda il matrimonio, benché nella “soggettiva” opinione del coniuge
agente siano conformi alla “propria” personale etica o visione sociale o religiosa od ai propri costumi
o siano espressivi di una spontanea reattività a stili di vita non condivisi (Cass., Sez. 1, Sentenza n.
19450 del 20/09/2007).
Ovviamente, l’indagine sull’intollerabilità della convivenza deve essere svolta sulla base della
valutazione globale e sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, non potendo la
condotta dell’uno essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro, consentendo solo tale
comparazione di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano riservato, nel loro reciproco interferire,
nel verificarsi della crisi matrimoniale (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14162 del 14/11/2001).
La pronuncia di addebito della separazione non può fondarsi, infatti, sulla sola violazione dei doveri
posti dall’art. 143 c.c. a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare che tale violazione,
lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata una situazione in cui la convivenza non era più
tollerabile, abbia assunto efficacia causale nel determinare tale situazione (Cass., Sez. 1, Sentenza n.
18074 del 20/08/2014).
L’apprezzamento circa la responsabilità di uno o di entrambi i coniugi nel determinarsi della
intollerabilità della convivenza è un accertamento in fatto riservato al giudice di merito e non può
essere censurato in sede di legittimità in presenza di una motivazione che non sia viziata (Cass., Sez.
1, Sentenza n. 18074 del 20/08/2014).
Con riguardo all’onere della prova, in base alle regole generali, deve ritenersi gravante sulla parte che
richiede l’addebito della separazione l’onere di provare sia la contrarietà del comportamento del
coniuge ai doveri che derivano dal matrimonio, sia l’efficacia causale di questi comportamenti nel
rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16691 del
05/08/2020). È, invece, onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda
nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si
fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale alla violazione dell’obbligo derivante dal
matrimonio (v. Cass., Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 3923 del 19/02/2018, con riferimento alla violazione
dell’obbligo di fedeltà).
L’anteriorità della crisi della coppia rispetto alla violazione di tali obblighi, quale causa di esclusione
del nesso causale tra quest’ultima condotta violativa degli obblighi derivanti dal matrimonio e
l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, integrando un’eccezione in senso lato, è
rilevabile d’ufficio, purché sia allegata dalla parte a ciò interessata e risulti dal materiale probatorio
acquisito al processo (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 20866 del 21/07/2021).
2.2. Con specifico riferimento alle violenze inflitte da un coniuge all’altro, questa Corte ha, tuttavia,
precisato che esse costituiscono violazioni talmente gravi dei doveri nascenti dal matrimonio da
fondare, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti la intollerabilità
della convivenza, ma anche la dichiarazione di addebito all’autore di esse. Il loro accertamento
esonera, infatti, il giudice del merito dal dovere di procedere alla comparazione, ai fini dell’adozione
delle relative pronunce, col comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, trattandosi di
atti che, in ragione della loro estrema gravità, sono comparabili solo con comportamenti omogenei
(Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 31351 del 24/10/2022; Cass., Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 3925 del
19/02/2018; v. già Cass., Sez. 1, Sentenza n. 7321 del 07/04/2005 e Cass., Sez. 1, Sentenza n. 11844
del 19/05/2006).
Con particolare riguardo, poi, alle violenze fisiche, questa Corte ha ritenuto che esse costituiscono
violazioni talmente gravi ed inaccettabili dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole
– quand’anche concretantisi in un unico episodio di percosse – la pronuncia di separazione personale
con addebito all’autore, esonerando il giudice del merito dal dovere di comparare con esse, ai fini
dell’adozione delle relative pronunce, il comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze,
restando altresì irrilevante la posteriorità temporale delle violenze rispetto al manifestarsi di una
situazione di crisi della coppia (Cass., Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 7388 del 22/03/2017; Cass., Sez. 6 –
1, Sentenza n. 433 del 14/01/2016).
I comportamenti fisicamente e moralmente lesivi, inflitti da un coniuge all’altro, rappresentano,
infatti, una delle violazioni più gravi dei doveri nascenti dal matrimonio, tali da fondare l’addebito
della separazione all’autore degli stessi, ed è sufficiente un singolo episodio di percosse o comunque
di violenza fisica a danno del coniuge, per devastare in maniera definitiva l’equilibrio della coppia e
giustificare la richiesta da addebito della separazione, poiché lesivo della pari dignità di ogni persona
(Cass., Sez. 1, Sentenza n. 817 del 14/01/2011; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8548 del 14/04/2011).
2.3. Nel caso di specie, la Corte d’appello si è conformata ai principi appena enunciati, statuendo
come segue: “… la diversa ricostruzione della vicenda coniugale proposta dall’appellante, fondata
sulla rilevanza della prevaricazione psicologica del marito in danno della moglie non trova adeguato
riscontro nelle mere dichiarazioni delle testi addotte dalla difesa di quest’ultima (rispettivamente
madre e nonna della stessa) che in ogni caso non minano l’esatta ricostruzione dei presupposti per
l’addebito a suo carico fondati sugli indiscussi episodi di aggressione fisica compiuti dalla moglie nei
confronti del marito. Tanto può evincersi, come ineccepibilmente rilevato dal Tribunale, non solo da
quanto riferito – de relato – dai testi indicati dal B.B., ma anche dai certificati del pronto soccorso che
attestano le lesioni, dalle foto in atti e dalla circostanza che episodi diversi di violenza ed irascibilità
della A.A. sono stati riferiti anche da testi indifferenti alle parti (C.C.) ed anche detto elemento
corrobora una condizione di estrema ed ingiustificata irascibilità della stessa, seppur riferita ad un
dato momento storico della sua vita, del tutto compatibile con quanto assunto dal marito nella
richiesta di addebito. Non da ultimo peraltro va preso atto che ella stessa non nega di essersi rivolta
nei confronti del marito con atteggiamenti fisicamente aggressivi, evidenziando tuttavia gli stessi
erano la conseguenza della pressione psicologica che il B.B. esercitava su di lei senza considerare
che per giurisprudenza di legittimità ormai consolidata e del tutto condivisibile, “i comportamenti
reattivi del coniuge che sfociano in azioni violente e lesive dell’incolumità fisica dell’altro coniuge,
rappresentano, in un giudizio di comparazione al fine di determinare l’addebito della separazione,
causa determinante dell’intollerabilità della convivenza, nonostante la conflittualità fosse risalente nel
tempo ed il fatto che l’altro coniuge contribuisse ad esasperare la relazione”. (Cassazione civile sez.
VI, 21/03/2018, n. 6997). È dunque ampiamente giustificata la pronuncia di addebito della
separazione” (p. 5 e s. della sentenza impugnata).
La ritenuta prova di reiterate aggressioni fisiche è stata correttamente posta a fondamento della
pronuncia di addebito, e non bilanciabile con altre condotte, in considerazione della estrema gravità
in sé delle condotte lesive dell’integrità fisica del coniuge.
3. Il secondo motivo è inammissibile.
Sul punto la Corte di appello ha statuito come segue: “Quanto all’ultimo motivo di censura ritiene la
Corte di condividere alla luce della non risolta conflittualità tutt’ora in essere tra i coniugi, la decisione
di non autorizzare la madre a recarsi all’estero per periodi di vacanza con il figlio. Tale statuizione
lungi dall’esprimere qualsivoglia intento punitivo o discriminatorio delle rispettive culture di
provenienza del bambino, venendo in discussione esperienze che anzi in condizioni di normalità
sicuramente arricchirebbero le conoscenze culturali ed affettive del figlio, di cui comunque questi
non è privato vista la costante frequentazione della nonna e della bisnonna materna che spesso sono
presenti in Italia, è fondata, a prescindere dai dubbi espressi dall’appellato, proprio sul pericolo che
la forte ostilità tra i coniugi possa portare la attuale appellante (ad oggi ancora priva di attività
lavorativa e sostentata economicamente dai familiari e pertanto non stabilmente ancorata al territorio
italiano) ad assumere senza il consenso del padre la decisione di ritrasferirsi con il bimbo nel suo
paese d’origine (magari non nell’immediato vista l’attuale emergenza bellica) vanificando la
acquisizione di una globale serenità conquistata da M. proprio mediante l’apporto, la cura e l’affetto
di tutti i membri delle rispettive famiglie delle parti, mentre la possibilità di prevedere periodi di
vacanza della madre unitamente al figlio nel suo Paese natio presuppone l’instaurazione di un minimo
grado di complicità e fiducia nel rapporto tra i genitori per il benessere del figlio, allo stato non
raggiunto. Ovviamente tale decisione, come quella sulla collocazione prevalente del minore, è
rivedibile e modificabile nel corso del tempo, al variare delle attuali condizioni”.
A tale statuizione la ricorrente ha opposto l’assenza di ragioni per l’adozione di tale misura e l’esigenza
di tutelare l’interesse primario del figlio a conoscere le sue origini e a coltivare rapporti con i suoi
ascendenti, unitamente allo specolare diritto di questi ultimi di intessere relazioni con il nipote, ma a
tali esigenze la Corte di appello ha ampiamente risposto, come sopra evidenziato, risolvendosi la
censura in una richiesta di revisione delle valutazioni in fatto operate dal giudice di merito, peraltro
in virtù di argomentazioni in astratto valide ma del tutto sganciate dalla statuizione adottata e dalle
ragioni in essa esposte.
4. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
5. Le spese di lite seguono la soccombenza.
6. In applicazione dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
7. In caso di diffusione, devono essere omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati nella
decisione, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso;
condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite sostenute dal controricorrente, che liquida
in Euro 5.000,00 per compenso, oltre Euro 200,00 per esborsi ed accessori di legge;
dà atto, in applicazione dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto;
dispone che, in caso di diffusione della presente ordinanza, siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti menzionati, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.