Non commette il reato di cui all’art. 570 c.p., co. 2 n. 2, il genitore che versa in misura ridotta l’assegno di mantenimento per il mantenimento del figlio se le somme comunque versate sono state sufficienti ad assicurare i mezzi di sussistenza in relazione alla situazione concreta del minore

Cass. pen. Sez. VI, 8 luglio 2019, n. 29896
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI BOLOGNA in data 25/2/2016;
nel procedimento a carico di:
O.M., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza emessa dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bologna in data2/2/2016;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita in camera di consiglio la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa AGLIASTRO Mirella;
lette le conclusioni del Procuratore Generale presso questa Corte in data 23/11/2018 che chiedeva l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato.
Svolgimento del processo
1. Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bologna conprovvedimento del 02/02/2016aveva prosciolto O.M. indagato per il reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2 commesso in (OMISSIS) in epoca antecedente e prossima al (OMISSIS) con la formula perché il fatto non sussiste.
2. Il giudice riteneva che, a fronte della querela presentata dalla ex convivente more uxorio nei confronti di O.M. denunciando che costui non aveva contribuito al mantenimento del figlio minorenne (come stabilito in data 13/2/2014 dal decreto del Tribunale per i minorenni dell’Emilia Romagna per l’importo di Euro 350,00 mensili), risultava, all’atto dei conteggi, che nel 2012 non era stata versata la somma di Euro 600,00 nel 2013 la somma di Euro 1.100,00, nel 2014 la somma di Euro 378,00. Sosteneva il giudice – in seno alla motivazione – che “la condotta sanzionata dalart. 570 c.p., comma 2 presuppone uno stato di bisogno, nel senso che l’omessa assistenza deve avere l’effetto di fare mancare i mezzi di sussistenza che comprendono quanto necessario per la sopravvivenza, situazione che non si identifica né con l’obbligo di mantenimento, né con quello alimentare, aventi una portata più ampia; atteso l’inadempimento solo parziale delle obbligazioni di pagamento incombente sull’indagato non poteva dirsi sufficientemente accertata la ricorrenza di uno stato di bisogno ai fini della configurazione della fattispecie penale, mentre per i crediti nel frattempo maturati la persona offesa, nella qualità, poteva esperire l’azione civile per il recupero”.
2. Ricorre per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Bologna, deducendo erronea applicazione della legge penale in relazione al proscioglimento dell’imputato dal delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare nei confronti del figlio minore O.S.. Il Procuratore Generale rileva che il provvedimento reso ai sensidell’art. 129 c.p.p.si fonda su un duplice assunto: a) l’inadempimento era parziale e non totale; b) non risultava provato lo stato di bisogno del minore.
Il G.I.P. avrebbe fatto malgoverno della disposizione di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2 poiché l’obbligo di corrispondere i mezzi di sussistenza fa riferimento alle esigenze minime della vita degli aventi diritto all’assistenza e inoltre lo stato di bisogno è insito nei confronti del minore che non è in grado di procacciarsi un reddito proprio. La circostanza che vi provveda l’altro genitore, non esime l’obbligato dal dovere di assistenza gravante su entrambi i genitori. Anche la parzialità dell’inadempimento non rileva in senso esimente poiché la giurisprudenza richiede che l’inadempimento sia serio e sufficientemente protratto.
3. In data 23/11/2018 il Procuratore Generale presso questa Corte ha fatto pervenire le proprie conclusioni scritte, chiedendo ai sensidell’art. 611 c.p.p.l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato, considerando fondato il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Bologna.
4. In data 20/12/2018 O.M. ha presentato memoria con la quale, chiedendo il rigetto o la declaratoria di infondatezza del ricorso presentato dal Procuratore Generale presso la Corte di appello di Bologna, ha evidenziato che a seguito della cessazione della relazione tra l’imputato e la sua ex convivente avvenuta nel 2012, per tale annualità il mancato versamento ammontava alla somma di Euro 600,00, mentre il provvedimento del Tribunale per i minorenni dell’Emilia Romagna solo in data 13/02/2014 aveva stabilito quale contributo di mantenimento la somma di Euro 350,00 mensili. Nel periodo intercorrente tra il 2012 ed il febbraio 2014, in assenza di un accordo tra le parti, il contributo al mantenimento del figlio minore era avvenuto spontaneamente da parte del padre nelle seguenti misure: nel 2012 Euro 3.600,00 (mensili medio Euro 300,00), quanto al 2013 Euro 3.100,00: contributo mensile medio, Euro 258,00, quanto ai primi undici mesi del 2014, il contributo era stato di Euro 3.472,00 pari a 350,00 Euro mensili (posto che la querela reca la data del 19/11/2014, mentre il provvedimento del Tribunale per i minorenni è del 13/2/2014).
Ha precisato inoltre che il contributo versato doveva riguardare un solo figlio consanguineo, non due, come erroneamente ritenuto dal ricorrente, essendo l’altro minore, figlio della compagna. Inoltre, ha censurato l’affermazione che l’inadempimento ascrivibile all’imputato possa essere ritenuto “serio e significativo”. L’imputato, nonostante le proprie precarie condizioni economiche per la mancanza di un lavoro stabile, si era impegnato a non fare mancare i mezzi di sussistenza al figlio, per quanto la relazione tra l’imputato e la querelante fosse cessata con la fuga della stessa dalla Repubblica Dominicana, dove i coniugi si erano stabiliti, per fare rientro in Italia.
L’imputato si era altresì fatto carico del pagamento delle spese straordinarie della refezione scolastica e dell’acquisto di generi alimentari e vestiario messi a disposizione del figlio nel periodo da lui trascorso con il genitore, ciò significando che il figlio non versava in un effettivo stato di bisogno.

Motivi della decisione

1. Il ricorso, pur partendo da condivisibili principi di diritto, non si confronta criticamente con i dati storico-fattuali della vicenda sottesa e pertanto non può essere accolto.
2. La pacifica giurisprudenza di questa Corte, in materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare, ha affermato il principio che la minore età dei discendenti, destinatari dei mezzi di sussistenza, rappresenta in re ipsa una condizione soggettiva dello stato di bisogno, che obbliga i genitori a contribuire al loro mantenimento, assicurando i predetti mezzi di sussistenza; il reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, si configura anche quando uno dei genitori ometta la prestazione dei mezzi di sussistenza in favore dei figli minori o inabili, ed al mantenimento della prole provveda in via sussidiaria l’altro genitore (Sez. 6, n. 53607 del 20/11/2014, Rv. 261871-01) – del quale, nella sentenza impugnata, viene indicato il reddito annuo -.
3. Tanto premesso, nel caso di specie, la questione richiede riflessioni diverse: la questione che rileva è se il comportamento posto in essere dall’imputato abbia fatto venir meno, in concreto, la fruizione dei mezzi di sussistenza da parte dell’avente diritto, risultando l’assegno da lui mensilmente versato nel periodo in esame bensì inferiore, ma in misura ridotta e contenuta (per una parte versata spontaneamente, per altro periodo sulla base del provvedimento del Tribunale per i minorenni del 13/2/2014).
Orbene, secondo l’insegnamento di questa Corte, ai fini della configurabilità del reato previstodall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, nell’ipotesi di “corresponsione parziale” dell’assegno stabilito in sede civile per il mantenimento, il giudice penale deve accertare se tale condotta abbia inciso apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire al beneficiario, tenendo, inoltre, conto di tutte le altre circostanze del caso concreto, ivi compresa la oggettiva rilevanza del mutamento di capacità economica intervenuta, in relazione alla persona del debitore, mentre deve escludersi ogni automatica equiparazione dell’inadempimento dell’obbligo stabilito dal giudice civile alla violazione della legge penale (Sez. 6, n. 15898 del 04/02/2014 Rv. 259895; Sez. 6, n. 23010 del 13/05/2016 n. mass; Sez. 2, n. 46854 del 04/11/2014 n. mass).
Occorre riflettere che la norma contestata non fa riferimento a singoli mancati o ritardati pagamenti, bensì ad una condotta di volontaria inottemperanza con la quale il soggetto agente intende specificamente sottrarsi all’assolvimento degli obblighi imposti con la separazione (Sez. 6, 4 ottobre 2012 n. 43527, n. mass.). Ciò corrisponde alla funzione assegnata dal legislatore a tali disposizioni, che è quella di garantire che il soggetto obbligato assista con continuità i figli e gli altri soggetti tutelati. Se da un lato, quindi, non può ritenersi che la condotta delittuosa sia integrata da qualsiasi forma di inadempimento, dall’altro lato, trattandosi di reato doloso, la stessa deve essere accompagnata dal necessario elemento psicologico. Sul piano oggettivo, deve trattarsi di un inadempimento serio e sufficientemente protratto (o destinato a protrarsi) per un tempo tale da incidere apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire.
Ne consegue che il reato non può ritenersi automaticamente integrato con l’inadempimento della corrispondente normativa civile e, ancorché la violazione possa conseguire anche al ritardo, il giudice penale deve valutarne in concreto la “gravità”, ossia l’attitudine oggettiva ad integrare la condizione che la norma tende, appunto, ad evitare.
4. Sulla base di tale orientamento, il ricorrente ha trascurato la necessaria valutazione critica di tutti gli elementi su cui è fondata la decisione di proscioglimento, non avendo considerato se – per effetto dell’autoriduzione dell’assegno – fossero venuti a mancare al figlio dell’imputato, i mezzi di sussistenza e se le somme comunque versate dal genitore fossero state sufficienti ad assicurarglieli, in relazione alla situazione concreta del minore.
La ragionevole lettura dei dati accertati dal giudice di merito evidenzia la ricorrenza di alcuni dati fattuali incontestati: nel 2012 non era stata versata la somma di Euro 600,00 nel 2013 la somma di Euro 1.100,00, nel 2014 la somma di Euro 378,00, nel quadro della complessiva, costante contribuzione effettuata, nel periodo in contestazione, pagamento delle spese straordinarie della refezione scolastica, e di tutto quanto occorrente nei periodi che il minore trascorreva in compagnia del padre. Non è stato addotto dal ricorrente – sulla base di una valutazione meramente sommaria delle emergenze probatorie – che il ridotto adempimento abbia concretato il mancato soddisfacimento dell’effettivo stato di bisogno del minore, a fronte di un comportamento posto in essere dall’imputato che non ha fatto venir meno, in concreto, la fruizione dei mezzi di sussistenza da parte dell’avente diritto, risultando l’assegno da lui mensilmente versato nel periodo in esame bensì inferiore, ma in misura alquanto ridotta e contenuta, rispetto a quella poi determinata dal Giudice.
5. Ne discende che il ricorso non può trovare accoglimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2019

In materia di attribuzione giudiziale del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio e non riconosciuto contestualmente da entrambi i genitori il giudice ha ampia discrezionalità dovendosi escludere ogni automaticità ed agire unicamente nell’interesse del minore

Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2019, n. 18161
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
T.L., elettivamente domiciliata in Roma, via Riccardo Grazioli Lante 16, presso lo studio dell’avv. Paolo Bonaiuti, che la rappresenta e difende nel presente giudizio, giusta procura in calce al ricorso, e dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo alla p.e.c. paolobonaiuti(at)avvocatiroma.org e al fax n. 06/3700620;
– ricorrente –
nei confronti di:
F.L.;
– intimato –
avverso il decreto n. 1548/17 della Corte di appello di Roma, messo il 3 maggio 2017 e depositato il 26 maggio 2017, n. R.G. 50506/15;
letta la requisitoria del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, in persona del cons. Lucio Capasso, che conclude per il rigetto del ricorso;
sentita la relazione in camera di consiglio del cons. Giacinto Bisogni.
Svolgimento del processo
che:
1. Il Tribunale di Tivoli, condecreto del 16 dicembre 2014, accogliendo il ricorso del sig. F.L. nei confronti della sig.ra T.L. ha disposto la sostituzione del cognome della minore T.S. nata a (OMISSIS) in F.T.S..
2. La Corte di appello di Roma, con decreto n. 1548/2017, pronunciando sul reclamo proposto dalla sig.ra T.L. e dato atto dell’intervenuto riconoscimento effettuato da F.L. ha affidato la figlia minore S. ad entrambi i genitori con collocamento presso la madre, ha determinato il contributo paterno al mantenimento in Euro 150 mensili, con aggiornamento annuale secondo gli indici ISTAT, a decorrere dalla domanda, oltre al 50% delle spese straordinarie mediche, scolastiche, ricreative previamente concordate. Ha confermato il cognome della minore come F. T..
3. Ricorre per cassazione T.L. deducendo: a) violazione o falsa applicazionedell’art. 262 c.c., commi 2 e 4, anche in combinato disposto conl’art. 12 disp. gen.e conl’art. 115 c.p.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; b) violazione o falsa applicazionedell’art. 262 c.c., commi 2 e 4, edell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
4. Con il primo motivo la ricorrente contesta l’affermazione della Corte di Appello secondo cui “la minore ha ancora un’età nella quale l’identità è percepita soprattutto con riferimento al nome piuttosto che al cognome e non può ravvisarsi alcuna preclusione nell’attribuzione prioritaria del cognome paterno, come solitamente avviene, allorché il riconoscimento viene effettuato insieme al momento della nascita da entrambi i genitori”. Secondo la ricorrente tale affermazione è in contrasto con l’interpretazione letteraledell’art. 262 c.c., (“Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre”) che non consente di equiparare l’ipotesi del riconoscimento contemporaneo con quello avvenuto successivamente per cause non imputabili al padre. Peraltro secondo la ricorrente l’ammissione delle prove testimoniali da lei dedotte nel giudizio di merito avrebbe consentito di accertare la responsabilità del padre per il tardivo riconoscimento della figlia.
5. Con il secondo motivo la ricorrente censura la motivazione come apparente e incomprensibile quanto alla affermazione secondo cui l’anteposizione del patronimico corrisponderebbe all’interesse superiore della minore in quanto quest’ultima “vive presso la famiglia di origine della madre, e vi è un forte rischio di marginalità della figura paterna, con necessità per la bambina di costruirsi un’autonoma identità, con paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione della sua identità personale”. La ricorrente ritiene che tale motivazione sia del tutto esorbitante rispetto al criterio del superiore interesse del minore e in contrasto con la realtà dell’inserimento della bambina nel contesto della famiglia materna.
Motivi della decisione
che:
6. I due motivi di ricorso da esaminare congiuntamente sono infondati. La decisione impugnata si muove nel perimetro segnato in questa materia dalla costante giurisprudenza di legittimità, in tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio e riconosciuto non contestualmente dai genitori, secondo cui i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, avente copertura costituzionale assoluta, la scelta, anche officiosa, del giudice è ampiamente discrezionale e deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto fino al momento del successivo riconoscimento, non potendo essere condizionata dall’esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamatedall’art. 262 c.c., che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio (Cass. civ. sez. I n. 12640 del 18 giugno 2015). Il giudice è investitodall’art. 262 c.c., comma 2 (e 3), del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste da detta disposizione avendo riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all’interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità, che non riguarda né la prima attribuzione, essendo inconfigurabile una regola di prevalenza del criterio del “prior in tempore”, né il patronimico, per il quale non sussiste alcun “favor” in sé nel nostro ordinamento (Cass. civ. sez. I n. 2644 del 3 febbraio 2011).
7. Esclusa quindi la rilevanza della anteriorità del riconoscimento e quindi delle prove relative alle ragioni di un mancato riconoscimento contemporaneo il giudice del merito ha optato, fra le possibilità previstedall’art. 262 c.c., comma 2, per la anteposizione del cognome paterno e ha chiarito le ragioni di tale scelta intesa a non attribuire un rilievo identitario al collocamento della minore presso la madre e alla importanza del contesto familiare materno. Con tale scelta il giudice ha voluto salvaguardare, anche sotto il profilo identitario che comporta l’attribuzione del cognome, il valore della bigenitorialità e negare invece un rilievo al collocamento del minore affidato congiuntamente ad entrambi i genitori. Si tratta di una scelta, chiaramente motivata, che consente al minore di rendere percepibile all’esterno la filiazione da entrambi i genitori e che nell’anteporre anziché aggiungere il cognome paterno ha voluto preservare il minore da una raffigurazione, interiore ed esteriore, non paritaria del ruolo dei due genitori. Una opzione quest’ultima che non può evidentemente ritenersi soggetta al sindacato giurisdizionale di legittimità.
8. Il ricorso va pertanto respinto senza statuizioni sulle spese del giudizio e con esenzione dall’applicazione delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Dispone omettersi qualsiasi riferimento alle generalità e agli altri elementi identificativi delle parti nella pubblicazione della presente sentenza.
Nulla sulle spese del giudizio, che risulta altresì esente dall’applicazione delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 28 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2019

In caso di intervenuta modifica giudiziale dei provvedimenti sulla collocazione del minore il giudicato rebus sic stantibus sulle disposizioni relative al mantenimento del minore stesso non è travolto automaticamente ma può essere superato solo attraverso il procedimento di revisione ex art. 710 c.p.c. o 9 della legge sul divorzio.

Cass. civ. Sez. III, 2 luglio 2019, n. 17689
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 10084-2018 proposto da:
B.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. PISANELLI 2, presso lo studio dell’avvocato DANIELE CIUTI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUISA GATTO;
– ricorrente –
contro
D.M., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato GIANNI TAFFARELLO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 78/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 17/01/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/04/2019 dal Consigliere Dott. FRANCO DE STEFANO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SOLDI ANNA MARIA che ha concluso per l’accoglimento del 1 motivo;
udito l’Avvocato CIUTI DANIELE;
udito l’Avvocato GATTO LUISA;
udito l’Avvocato BRUNELLO GAUDENZIA per delega.
Svolgimento del processo
1. B.V. ricorre, affidandosi a quattro motivi con atto notificato a mezzo p.e.c. il 26/03/2018, per la cassazione della sentenza del 17/01/2018 della Corte di appello di Venezia, notificata a mezzo p.e.c. il 24/01/2018, con cui è stato respinto il suo appello contro la reiezione della sua opposizione al precetto notificatogli il 09/04/2014 dalla ex coniuge D.M., per Euro 17.475,02 quali arretrati dell’assegno – posto a carico dell’intimato con la sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio (del Tribunale di Treviso n. 46/2010) – per il mantenimento del figlio F..
2. In particolare, alla sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio del 13/01/2010, che aveva posto a carico del B. un assegno o contributo di Euro 650 mensili per il mantenimento del figlio F., contestualmente collocato presso la madre, era seguito un primo decreto del Tribunale per i Minorenni di Venezia del 20/01/2012 (pubbl. il 06/02/2012) su ricorso del P.M.M. volto alla verifica delle capacità genitoriali di entrambi gli ex coniugi, che aveva affidato il figlio al Comune e lo aveva collocato presso il padre; mentre, nel corso dell’opposizione a precetto, era intervenuto ulteriore provvedimento del Tribunale per i Minorenni -decreto 07/11/2014- di sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale per entrambi i genitori e, per la madre, per la persistente inottemperanza al dovere di contribuire al mantenimento del figlio.
3. Sulle contestazioni dell’ex coniuge, l’adito Tribunale di Treviso respinse l’opposizione a precetto, sull’essenziale considerazione che la collocazione del minore presso il padre non aveva privato il titolo esecutivo di efficacia e validità, incombendo sul debitore l’onere di attivare il procedimento previsto dalla legge sul divorzio, art. 9 pure escludendo il prospettato abuso del processo e la sussistenza dei presupposti della dispiegata exceptio doli generalis seu praesentis.
4. L’appello avverso tale sentenza, pubblicata il 29/10/2015, fu però – benché fosse stata sospesa l’esecuzione comunque intrapresa dalla D., con provvedimento confermato in sede di reclamo rigettato dalla Corte di appello di Venezia con la qui gravata sentenza, la quale: in primo luogo, escluse che le statuizioni patrimoniali conseguenti alla sentenza di cessazione degli effetti civili (o di scioglimento del matrimonio), per quanto munite di validità rebus sic stantibus, fossero inficiate di per sé dal venir meno dei presupposti che giustificavano il precedente provvedimento, dovendo invece le eventuali conseguenti modifiche esser sempre disposte dal tribunale competente ai sensi dellaL. n. 898 del 1970,art.9ed acquistando efficacia solo dal momento della domanda; in secondo luogo, escluse l’abuso del processo, sia per la correttezza dell’utilizzazione, da parte della creditrice, degli strumenti apprestati dall’ordinamento per l’attuazione di credito fondato su sentenza integrante titolo esecutivo, sia per la non configurabilità di un abuso fondato sulla prospettazione dell’unilaterale valutazione del debitore di insussistenza del credito, ad eversivo detrimento dei principi della certezza del diritto fondati sull’immodificabilità delle decisioni giudiziarie al di fuori degli strumenti a ciò deputati; in terzo luogo, escluse pure la ricorrenza dei presupposti per la exceptio doli generalis seu praesentis, visto che la creditrice non aveva affatto taciuto situazioni sopravvenute alla fonte del diritto fatto valere ed aventi forza modificativa od estintiva del diritto stesso, anzi da subito avendo prospettato la lineare tesi difensiva della necessità, ad inficiare il titolo azionato, di un previo provvedimento da adottarsi a cura del debitore nelle forme della L. n. 878 del
5. Al ricorso del B. resiste con controricorso la D.; e sul ricorso, dapprima oggetto di procedimento in camera di consiglio di cuiall’art. 380-bis c.p.c., nel cui corso il ricorrente ha anche prodotto memoria, la sesta sezione ha disposto, con ordinanza 28/12/2018, n. 33647, la rimessione alla pubblica udienza: in primo luogo, rilevando come le doglianze involgessero non solo la questione dei rapporti tra provvedimenti successivi in tema di affidamento della prole, riconducibili o meno a procedimenti per la separazione personale o lo scioglimento del matrimonio ed il divorzio (connotati da una peculiare forma di giudicato, definito rebus sic stantibus), ma pure quella, di ancora più complessivo respiro, relativa al rapporto tra le rispettive esecutività ai fini dell’azionamento dell’uno e dell’altro; in secondo luogo, ritenendo meritevole di approfondimento in pubblica udienza la questione dell’incidenza, sulla consolidata giurisprudenza di questa Corte, della peculiarità della presente fattispecie, cioè l’adozione da parte del Tribunale per i Minorenni di un provvedimento di cui si era predicata l’efficacia esecutiva immediatamente modificativa almeno di uno dei presupposti del precedente provvedimento del giudice dello scioglimento del matrimonio.
6. Il ricorso è stato infine discusso alla pubblica udienza del 30/04/2019, per la quale il ricorrente ha depositato memoria ai sensidell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Il ricorrente, che ha dedotto l’ingiustizia della pretesa creditoria di controparte per essere stato il figlio, al cui mantenimento si riferiva l’assegno posto a base dell’opposta esecuzione, collocato presso di lui fin dal marzo 2012 con provvedimento del Tribunale per i Minorenni del 20/01/2012, si duole:
– col primo motivo, di “violazione e falsa applicazione in riferimentoall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.dell’art. 30 Cost., artt. 147, 148, 316bis e 337ter c.c.”: con ampie argomentazioni sostenendo che la sentenza di divorzio sarebbe stata modificata dai provvedimenti del Tribunale per i minorenni emessi in tema di (sospensione prima e decadenza poi) della potestà o responsabilità genitoriale, in base ad una competenza concorrente di quest’ufficio in sede di adozione di provvedimenti volti alla tutela dei figli;
– col secondo motivo, di “violazione e falsa applicazione in riferimentoall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. della carenza/caducazione dell’interesse ad agire in esecuzione exart. 100 c.p.c.”, nonché, con quello congiuntamente trattato, col terzo, di “violazione e falsa applicazione in riferimentoall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. della carenza/caducazione della legittimazione ad agire in esecuzione exart. 81 c.p.c.”: contestando la sussistenza sia dell’interesse ad agire in concreto (quale vantaggio sostanziale perseguito con la domanda e non altrimenti conseguibile senza intervento del giudice), sia della legittimazione ad agire (quanto a titolarità del potere di promuovere un giudizio), siccome entrambi venuti meno in conseguenza dei provvedimenti del Tribunale per i minorenni col trasferimento del figlio presso il padre, che avrebbero eliso i presupposti del diritto iure proprio della madre al contributo al mantenimento del figlio (affidamento, collocamento e responsabilità genitoriale);
– col quarto motivo, di ” violazione e falsa applicazione di norme di diritto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.dell’art. 1175 c.c.nonchédell’art. 96 c.p.c.(exceptio doli)”: riproponendo la tesi della legittimità del rigetto della domanda ogniqualvolta siano state taciute situazioni sopravvenute aventi forza modificativa od estintiva del diritto, come sarebbe accaduto nella specie, per il collocamento del minore presso il padre e per il mancato sostenimento di qualunque spesa da parte della madre per il mantenimento del figlio.
2. La resistente dal canto suo, nel complesso ribadisce la propria persistente piena titolarità del diritto all’assegno di mantenimento anche al momento in cui aveva intimato il precetto oggetto dell’opposizione ed in particolare: ribadisce la necessità della previa modifica del provvedimento originario, costituito dalla sentenza di divorzio, da parte del giudice esclusivamente competente sul punto ai sensi dellaL. n. 898 del 1970,art.9; nega l’ammissibilità di modifiche, tanto meno implicite, dei provvedimenti patrimoniali in quella contenuti in forza di provvedimenti successivi di altre autorità giudiziarie, pure in base al chiaro riparto di competenze di cuiall’art. 38 disp. att. c.c.; argomenta per l’inammissibilità di contestazioni riguardanti il merito del titolo esecutivo, oltretutto giudiziale, azionato; deduce l’inammissibilità della trasposizione sul piano processuale delle contestazioni al merito della pretesa e l’infondatezza delle violazioni dedotte con l’ultimo motivo.
3. Alla disamina di tutti i motivi va premesso che pacificamente i provvedimenti del Tribunale per i minorenni non sono espressamente intervenuti sulle conseguenze economiche della modifica del regime di collocazione del figlio.
4. Ciò posto, il primo motivo è infondato, dovendo darsi continuità al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, a mente del quale “con l’opposizione al precetto relativo a crediti maturati per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, determinato a favore del figlio in sede di separazione o di divorzio, possono essere dedotte soltanto questioni relative alla validità ed efficacia del titolo e non anche fatti sopravvenuti, da farsi valere col procedimento di modifica delle condizioni della separazione di cuiall’art. 710 c.p.c.o del divorzio di cui alla L. 1 dicembre 1970, n. 878, art. 9 (in tema di assegno in sede di separazione: Cass. ord. 25/09/2014, n. 20303; Cass. 09/11/2001, n. 13872; sull’intangibilità, in sede di esecuzione, dell’an e del quantum dell’assegno di mantenimento per i figli pronunciato nel provvedimento di divorzio: Cass. 10/11/2015, n. 23471; Cass. 16/06/2011, n. 13184; Cass. 01/04/1994, n. 3225)”.
5. La conclusione è in linea con il principio generale del processo esecutivo, di irrilevanza – a pena di inammissibilità delle opposizioni esecutive su quelli fondate (Cass. 25/02/2016, n. 3712; Cass. 17/02/2011, n. 3850; e innumerevoli altre, tra cui basti un richiamo a Cass. Sez. U. 23/01/2015, n. 1238) – dei fatti anteriori alla definitività del titolo o di quelli che comunque possono essere fatti valere con gli strumenti concessi per impedirne la definitività: infatti, nella specie, il titolo esecutivo in materia di famiglia è sì assistito da definitività equiparabile al giudicato, ma si tratta di un giudicato del tutto peculiare, altrimenti detto rebus sic stantibus (tra le ultime, v. Cass. ord. 30/07/2015, n. 16173), riguardo al quale i fatti sopravvenuti possono rilevare, ma soltanto attraverso un peculiare procedimento ad hoc, quale quellodell’art. 710 c.p.c.per la separazione o quello dellaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.9per il divorzio (scioglimento del matrimonio o declaratoria di cessazione degli effetti civili di quello concordatario).
6. Ed è proprio questa peculiarità del giudicato in materia di statuizioni economiche conseguenti a pronunce di separazione o divorzio, vale a dire la sua stretta interrelazione con una determinata situazione preesistente ma suscettibile naturaliter di un’evoluzione imponderabile perché legata alle vicende personali dei coniugi od ex coniugi, a fondare l’insopprimibile esigenza di un previo formale intervento sul titolo preesistente, devoluto al giudice specializzato, come pure ad escludere la rilevanza diretta od immediata in sede di opposizione ad esecuzione di quei fatti, riservati alla cognizione di quel giudice specializzato nel superiore e pubblicistico interesse della migliore composizione possibile delle esigenze dei componenti della famiglia in crisi o disciolta.
7. L’esigenza di una considerazione complessiva di molteplici fattori, dei quali la collocazione del figlio è certamente uno dei più importanti ma non il solo ed esclusivo, consente di ricostruire come reciprocamente indipendenti, siccome connotate da una natura e da una funzione differenti e con oggetto solo in parte coincidente, le statuizioni in materia di collocazione del figlio e quelle sull’assegno o contributo per il suo mantenimento.
8. Tale reciproca autonomia impedisce ogni diretta o tanto meno automatica interazione delle due tipologie di provvedimenti e così l’estensione pura e semplice degli effetti delle prime sulle seconde e, benché le une e le altre siano di certo di per sè sole esecutive, esse mantengono una reciproca autonomia e va esclusa una successione di titoli egualmente esecutivi aventi un medesimo oggetto.
9. Pertanto, una volta modificati dal tribunale per i minorenni esclusivamente l’assetto della responsabilità genitoriale e le concrete conseguenze in tema di collocazione del figlio presso l’uno anziché l’altro dei genitori ex coniugi, non può prescindersi dal ricorso alla speciale procedura di revisione dei provvedimenti sul contributo per il mantenimento del figlio, di cui allaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.9(o, per la sostanziale identità delle condizioni, di cuiall’art. 710 c.p.c.in ipotesi di separazione personale), per rivederne, modificarne o neutralizzarne l’efficacia propria di titolo esecutivo.
10. Al riguardo, il giudice specializzato – e non anche, quindi, quello dell’esecuzione o dell’opposizione a questa e meno che mai il debitore in via unilaterale – è l’unico attrezzato alla necessaria complessiva ed approfondita valutazione, comparativa tra le situazioni rilevanti di entrambi i coniugi e direttamente coinvolte nelle cause della crisi del vincolo matrimoniale, comunque riferita a molteplici fattori, indispensabile di norma, pure a prescindere dalla collocazione del minore presso l’uno o l’altro dei genitori (del resto non esentando il coniuge formalmente non collocatario dall’obbligo di contribuzione la circostanza che il minore non si trovi presso di lui: in tema di divorzio, v. espressamente Cass. 08/09/2014, n. 18869).
11. In definitiva, è la persistente necessità di una complessiva valutazione di plurimi elementi anche in caso di modifica radicale del regime di collocazione del figlio ad escludere che la ponderazione delle conseguenze su persistenza e misura dell’assegno o contributo per il mantenimento del figlio possa essere rimessa all’unilaterale iniziativa dell’obbligato o anche soltanto a quella di un giudice diverso da quello cui l’ordinamento la riserva, cioè, di norma e per il caso di divorzio, il tribunale ordinario (fin da Cass. 27/03/1998, n. 3222).
12. Tale esigenza persiste tuttora, qualunque sia l’ampiezza dei provvedimenti del Tribunale per i minorenni in tema di responsabilità genitoriale, ma limitati agli aspetti non patrimoniali di questa: pertanto, in caso di divorzio o dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, finché non intervenga un formale provvedimento di revisione anche del precedente che abbia determinato l’entità dell’assegno o contributo di mantenimento, la forza esecutiva di quest’ultimo permane e gli obblighi cui esso dà luogo persistono, benché i sopravvenuti provvedimenti del tribunale per i minorenni in punto di concrete modalità dell’esercizio della responsabilità genitoriale costituiscano uno, anche se verosimilmente il più importante, degli elementi che il giudice della revisione della misura patrimoniale sarà chiamato a valutare, ma pur sempre in esito all’iniziativa dell’obbligato che voglia liberarsi da quella conseguenza.
13. In conclusione, la tesi del ricorrente sull’inutilità o non necessità del provvedimento del tribunale ordinario per la modifica del provvedimento originario non può essere condivisa, per la tassatività dei provvedimenti previsti al riguardo e l’esclusività della competenza del giudice (della separazione o) del divorzio in tema di provvedimenti conseguenti a contenuto patrimoniale, principi che vanno ritenuti di ordine pubblico, a tutela degli interessi di tutti i soggetti coinvolti dal disgregamento della famiglia: ed il primo motivo di ricorso va così rigettato.
14. Il secondo ed il terzo motivo, congiuntamente proposti e del resto suscettibili di unitario esame, sono del pari infondati: per generale principio del processo esecutivo, fondato su di un titolo di per sé solo normalmente necessario e sufficiente, l’interesse e la legittimazione ad agire esecutivamente sussistono, rispettivamente, in forza di un titolo esecutivo mai modificato ed in capo a chi vi è univocamente qualificato come creditore.
15. Infine, lo stesso istituto dell’exceptio doli generalis non può trovare applicazione nella fattispecie, nella quale nessuna circostanza è stata taciuta, tanto meno surrettiziamente, da parte della creditrice e l’azionamento di un titolo esecutivo la cui efficacia non è stata, da chi vi figura come debitore, modificata od elisa nelle forme previste dall’ordinamento non può configurare, di per sé solo e comunque neppure nella peculiare fattispecie per cui è causa, l’abuso del diritto di porlo in esecuzione.
16. Il ricorso va così nel suo complesso rigettato, in applicazione del seguente principio di diritto: “in caso di provvedimenti in tema di affidamento o collocazione della prole nell’ambito di procedimenti di separazione personale o scioglimento del matrimonio o cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, la successiva modifica, ad opera del tribunale per i minorenni, del solo regime di collocazione del figlio non ha effetto automatico sulla precedente statuizione di un contributo periodico per il mantenimento del figlio, adottata dal tribunale della separazione o del divorzio, potendo il relativo giudicato, benché peculiare in quanto reso rebus sic stantibus, essere neutralizzato solo col peculiare rimedio previsto dall’ordinamento e consistente nella revisione di cuiall’art. 710 c.p.c.oL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.9; ne consegue che, in mancanza di attivazione di tale specifica procedura, il genitore debitore di quel contributo resta obbligato in virtù della persistente forza esecutiva del primo provvedimento ed il genitore legittimamente aziona quest’ultimo finché non venga espressamente modificato o revocato all’esito dell’esplicita valutazione, ad opera del solo giudice competente sulla revisione, di ogni altro elemento per la determinazione della debenza o della misura del contributo”.
17. Quanto alle spese del presente giudizio di legittimità, peraltro, la relativa novità della questione, pure come compiutamente individuata dall’ordinanza di rimessione alla pubblica udienza, ne rende di giustizia l’integrale compensazione.
18. Infine, non può che darsi atto – mancando la possibilità di valutazioni discrezionali (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra le innumerevoli altre successive: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della non sussistenza trattandosi di ricorso esente dei presupposti per l’applicazione delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1-quater inserito dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17: norma in forza della quale il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che definisce quest’ultima, a dare atto della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da quegli proposta, a norma del detto art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1-quater, come modif. dallaL. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso rispettivamente proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 30 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2019

E’ legittima l’adozione dell’infante picchiato dal convivente della madre se quest’ultima ne ritarda il ricovero in ospedale per il timore di ripercussioni giudiziali.

Cass. civ. Sez. I, Ord., 17 luglio 2019, n. 19156 – Pres. Giancola, Rel. Iofrida
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12638/2018 proposto da:
M.S.Y.J., elettivamente domiciliata in Roma, Via della Giuliana n. 32, presso lo studio dell’avvocato
Casagrande Maria, rappresentata e difesa dall’avvocato Colla Giovanni, giusta procura in calce al
ricorso;
– ricorrente –
contro
B.R., nella qualità di tutore delegato del Sindaco di Roma dei minori Be.Gu.Ja.Ma. e M.S.J.A.,
elettivamente domiciliata in Roma, Via Federico Confalonieri n. 5, presso lo studio dell’avvocato
Puglielli Alessandra, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
contro
Be.Gu.An.Ed., Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni di Roma, Procuratore
Generale presso la Corte di Appello di Roma;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1748/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/03/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/06/2019 dal cons. Dott.
LAMORGESE ANTONIO PIETRO.
Svolgimento del processo
CHE:
La Corte d’appello di Roma, Sezione minorenni, con sentenza del 20 marzo 2018, ha rigettato il
gravame di M.S.Y.J. avverso l’impugnata sentenza che aveva dichiarato lo stato di adottabilità dei
figli minori Be.Gu.Ja.Ma. (nato il (OMISSIS)) e M.S.J.A. (nato il (OMISSIS)).
La Corte ha riferito sull’origine del procedimento, in conseguenza del tardivo ricovero d’urgenza del
figlio J.M., di quattro mesi, per le gravi lesioni infertegli dal compagno e convivente della madre,
P.A.D.A., cui era stato affidato in custodia dalla M., che ne avevano compromesso l’area cognitiva e
motoria; sul comportamento della madre che lo aveva portato in ospedale tardivamente, per il
timore dell’intervento delle istituzioni e di ripercussioni giudiziali; ha riferito che nei confronti della
M. era stata disposta la sospensione della responsabilità genitoriale e che il figlio era stato collocato
presso una struttura familiare dove la madre aveva avuto difficoltà ad inserirsi, per essere poi
trasferita con i figli in altra struttura, dove aveva tenuto un comportamento irrequieto, aggressivo e
delegante verso i figli; che era stata allontanata a seguito di un grave episodio (aveva fumato
cannabis in loro presenza) e i figli collocati in altra struttura dove la madre aveva rifiutato di essere
inserita; che i Servizi sociali, con relazione del 14 febbraio 2017, avevano evidenziato che il
progetto di sostegno alla genitorialità era stato inefficace, avendo la M. dimostrato immaturità,
disinteresse e inconsapevolezza dei bisogni dei figli, delle funzioni e responsabilità genitoriali
(giudizio confermato anche dal fatto che aveva lasciato altri due figli in Colombia); che non erano
emersi elementi idonei a far presumere la concreta possibilità di recupero della capacità genitoriale
in tempi compatibili con le esigenze dei figli; che inesistente era l’ipotizzata disponibilità- della
nonna materna a prendersene cura, non avendoli mai conosciuti e non avendo avuto con essi alcun
legame; pertanto, la rescissione del legame familiare era l’unica possibilità di assicurare ai figli un
futuro di sana e serena crescita.
Avverso questa sentenza la M. ha proposto ricorso per cassazione, cui si è opposta B.R., tutrice dei
figli delegata dal Sindaco di Roma.
Motivi della decisione
CHE:
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983,
artt. 1 e 8 per averla ritenuta corresponsabile del grave episodio di violenza nei confronti del piccolo
J.M., mentre lei stessa era vittima di tale gesto di violenza, e per avere valutato negativamente la
propria capacità genitoriale, all’esito di una istruttoria incompleta e senza convocare la nonna
materna, persona disponibile all’affidamento.
Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 2 per avere
formulato il giudizio negativo sull’adeguatezza della capacità genitoriale con una motivazione
omessa o insufficiente e senza avere posto in campo le misure di sostegno utili a ripristinare e
supportare la madre anche mediante affido temporaneo alla nonna.
Il terzo e quarto motivo denunciano violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, artt. 12
e 15 omessa e insufficiente motivazione, per avere valutato come compromessa la capacità
genitoriale sulla base di elementi episodici e senza avere disposto l’audizione della bisnonna
materna, sebbene si fosse dichiarata disponibile all’affidamento attraverso le autorità colombiane.
I suddetti motivi, da esaminare congiuntamente essendo connessi e ripetitivi sotto vari profili, sono
infondati e in parte inammissibili.
Il contestato e grave episodio del (OMISSIS) non è stato l’unico “fatto” posto a fondamento della
dichiarazione di adottabilità, la quale è sostenuta da numerosi elementi indicativi di inadeguatezza
genitoriale della M., all’esito di una articolata e approfondita descrizione della figura materna che ha
condotto la Corte di merito a confermare la valutazione del primo giudice e a prendere atto
dell’esito negativo del percorso di recupero, sollecitamente attivato dai Servizi sociali e ostacolato
dalla madre.
Si tratta di apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito censurabili in cassazione mediante
proposizione di adeguato mezzo ex art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 1674 del 2002), ormai proponibile
nei soli casi, non ravvisabili nella specie, di radicale carenza della motivazione o nel suo
estrinsecarsi in argomentazioni inidonee a rivelare la ratio decidendi – che inammissibilmente la
ricorrente vorrebbe fare ribaltare, avendo la Corte diffusamente illustrato le ragioni che l’hanno
indotta a valutare come incompatibile l’interesse dei minori con la tempistica di recupero della
capacità genitoriale, valutato come del tutto astratto, da parte della madre.
La sentenza impugnata è immune dai denunciati vizi giuridici nella parte in cui ha preso atto della
mancanza di figure parentali disponibili a prendersi cura dei minori, non avendo la nonna mai
conosciuto nè avuto rapporti con i minori, nè avendo mai ritenuto di comparire nel giudizio; inoltre
ha valutato come non confacente all’interesse dei minori un loro trasferimento in Colombia, in un
contesto sociale e familiare del tutto estraneo.
La Corte ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui lo stato di abbandono non piè
essere escluso in conseguenza della disponibilità a prendersi cura dei minori, manifestata da parenti
entro il quarto grado, quando non sussistano rapporti significativi pregressi tra loro, atteso che la L.
n. 184 del 1983, art. 12, comma 1, limita le categorie di persone che devono essere sentite nel
procedimento ai parenti entro il quarto grado che abbiano “mantenuto un rapporto significativo con
il minore” (Cass. n. 9021 e 26879 del 2018, n. 15369 del 2015).
In conclusione, il ricorso è rigettato. Sussistono le condizioni di legge per compensare le spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.
Così deciso in Roma, il 6 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2019

È incostituzionale la norma che subordina la proponibilità della domanda di equa riparazione all’istanza di accelerazione del processo penale poiché di per sé inidonea a consentire una effettiva sollecitazione della decisione di merito

Corte cost., 10 luglio 2019, n. 169
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), dellaL. 24 marzo 2001, n. 89(Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modificadell’articolo 375 del codice di procedura civile), come introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), n. 2, delD.L. 22 giugno 2012, n. 83(Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nellaL. 7 agosto 2012, n. 134, promossi dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, con tre ordinanze del 31 gennaio e una del 16 marzo 2018, iscritte rispettivamente ai nn. 51, 52, 53 e 68 del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 13 e 18, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2019 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli.
1.- Con quattro ordinanze di contenuto sostanzialmente identico (iscritte ai numeri 51, 52, 53 e 68 del r.o. 2018) – emesse nel corso di altrettanti procedimenti di impugnazione dei decreti con i quali la Corte distrettuale competente aveva rigettato l’opposizione avverso la declaratoria di diniego del diritto ad ottenere un’equa riparazione per l’irragionevole durata dei rispettivi giudizi penali, per non avere la parte interessata presentato “istanza di accelerazione” nel termine di legge – l’adita Corte di cassazione, sezione seconda civile, ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, in riferimentoall’art. 117, primo comma, della Costituzionee in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, 13 e 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), dellaL. 24 marzo 2001, n. 89(Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modificadell’articolo 375 del codice di procedura civile), cosiddetta “legge Pinto”, nel testo (vigente ratione temporis) introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), n. 2, delD.L. 22 giugno 2012, n. 83(Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nellaL. 7 agosto 2012, n. 134, nella parte appunto in cui, relativamente ai giudizi penali nei quali il termine di durata ragionevole di cui all’art.2-bisdellaL. n. 89 del 2001sia superato in epoca successiva alla sua entrata in vigore, subordina, per la loro intera durata, la proponibilità della correlativa domanda di equa riparazione alla presentazione dell’istanza di accelerazione.
Secondo la Corte rimettente, il censurato art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della “legge Pinto” – con il disporre che non è riconosciuto alcun indennizzo quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione nel processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini di durata ragionevole – si porrebbe, infatti, in contrasto con le evocate disposizioni convenzionali, come interpretate dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in particolare nelle sentenze 2 giugno 2009, Daddi contro Italia, e 22 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia) e, per interposizione, conl’art. 117, primo comma, Cost., poiché la così introdotta condizione ostativa al riconoscimento dell’indennizzo in questione, nei confronti dei ricorrenti – imputati in processi penali protrattisi oltre il correlativo termine di ragionevole durata – violerebbe il diritto ad ottenere l’equa riparazione loro dovuta exL. n. 89 del 2001, posto che l'”istanza di accelerazione” non è di per sé idonea a consentire una efficace sollecitazione della decisione di merito, risolvendosi nella mera dichiarazione di un interesse altrimenti già presente nel processo ed avente copertura costituzionale.
2.- In tutti i riferiti quattro giudizi incidentali è intervenuto – con atti (di identico contenuto) ritualmente depositati – il Presidente del Consiglio dei ministri per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato.
L’Avvocatura ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della questione con riferimento all’art. 46 CEDU, per la non vincolatività di “un ipotetico principio di diritto” enunciato dalla Corte EDU “in altri giudizi tra altri soggetti”.
Nel merito, ha concluso per la non fondatezza della questione, argomentando che l’istanza di accelerazione non impone un onere gravoso e sproporzionato sulle parti, essendo richiesta ai loro difensori una minima diligenza professionale; e sostenendo che l’ordinamento nazionale non è tenuto ad adeguarsi pedissequamente all’interpretazione delle norme CEDU fornita dalla Corte di Strasburgo, essendo sempre riconosciuto al legislatore, al giudice comune e a questa Corte un “margine di apprezzamento e di adeguamento” nazionale (è richiamata la sentenza n. 236 del 2011).

Motivi della decisione
1.- La Corte di cassazione, sezione seconda civile – con le quattro ordinanze di cui si è in narrativa detto e che, per la sostanziale coincidenza del petitum, possono riunirsi per essere unitariamente decise – solleva questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), dellaL. 24 marzo 2001, n. 89(Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modificadell’articolo 375 del codice di procedura civile), cosiddetta “legge Pinto”, come introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), n. 2, delD.L. 22 giugno 2012, n. 83(Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nellaL. 7 agosto 2012, n. 134: disposizione (quella sub lettera e) poi implicitamente abrogata, perché non riprodotta nell’art. 2, comma 2-quinquies, come riformulato dall’art.1, comma 777, lettera c), dellaL. 28 dicembre 2015, n. 208, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”.
2.- Nel testo vigente ratione temporis e applicabile nei giudizi a quibus, la disposizione denunciata stabiliva che “non è riconosciuto alcun indennizzo: … e) quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini di sua ragionevole durata di cui all’articolo 2-bis recte: all’art. 2, comma 2-bis” della “legge Pinto”.
Secondo la Corte rimettente, l’effetto ostativo alla concessione dell’indennizzo exL. n. 89 del 2001- in tal modo attribuito alla (omessa presentazione della) “istanza di accelerazione”, di per sé inidonea ad assicurare una sollecita definizione del processo e in non altro risolventesi che nell’imporre una “prenotazione” degli effetti della riparazione per l’irragionevole durata del processo – comporterebbe che all’interessato non sia consentito né di impedire che si verifichi o protragga la violazione del termine di ragionevole durata del processo né di ottenere riparazione per la subita violazione di quel termine.
Dal che, quindi, il sospetto di violazionedell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, 13 e 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (in particolare con le sentenze 2 giugno 2009, Daddi contro Italia e 22 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia).
3.- L’Avvocatura generale dello Stato ha preliminarmente contestato la deducibilità, nella specie, di una violazione dell’art. 46, paragrafo 1, CEDU. Ma tale contestazione, ancorché formulata in termini di eccezione di inammissibilità, non rileva come tale, attenendo più propriamente al merito della sollevata questione.
4.- Nel merito, la questione è fondata per contrasto conl’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU, restando assorbita ogni altra censura.
4.1.- Con la recente sentenza n. 34 del 2019, questa Corte ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale di norma analoga a quella ora in esame (art.54, comma 2, delD.L. 25 giugno 2008, n. 112, recante “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, convertito, con modificazioni, nellaL. 6 agosto 2008, n. 133, come successivamente modificato): norma che, con riferimento al processo amministrativo, a sua volta prevedeva che la mancata presentazione della “istanza di prelievo” costituisse motivo di improponibilità della domanda di indennizzo ex “legge Pinto”.
In quel caso si è osservato che, per “costante giurisprudenza della Corte EDU” (il riferimento va appunto alle ricordate sentenze Daddi e Olivieri, ma anche alla sentenza della Grande Camera 29 marzo 2006, Scordino contro Italia), i rimedi preventivi, volti ad evitare che la durata del procedimento diventi eccessivamente lunga, sono ammissibili, o addirittura preferibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma solo se “effettivi” e, cioè, solo se e nella misura in cui velocizzino la decisione da parte del giudice competente. Alternativamente alla durata ragionevole del processo, il rimedio interno deve comunque allora garantire l’adeguata riparazione della violazione del precetto convenzionale.
E, in applicazione di tali principi, questa Corte ha conseguentemente affermato che “l’istanza di prelievo … non costituisce un adempimento necessario ma una mera facoltà del ricorrente …, con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” (che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio), risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia né con l’obiettivo del contenimento della durata del processo né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata”.
4.2.- Le stesse considerazioni valgono ora per l’istanza di accelerazione del processo penale.
Nel contesto della disposizione qui censurata, la suddetta istanza, non diversamente dall’istanza di prelievo nel processo amministrativo, non costituisce infatti un adempimento necessario ma una mera facoltà dell’imputato e non ha – ciò che è comunque di per sé decisivo − efficacia effettivamente acceleratoria del processo. Atteso che questo, pur a fronte di una siffatta istanza, può comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di sua ragionevole durata, senza che la violazione di detto termine possa addebitarsi ad esclusiva responsabilità del ricorrente.
4.3.- La mancata presentazione dell’istanza di accelerazione nel processo presupposto può eventualmente assumere rilievo (come indice di sopravvenuta carenza o non serietà dell’interesse al processo del richiedente) ai fini della determinazione del quantum dell’indennizzo exL. n. 89 del 2001, ma non può condizionare la stessa proponibilità della correlativa domanda, senza con ciò venire in contrasto con l’esigenza del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata, e con il diritto ad un ricorso effettivo, garantiti dagli evocati parametri convenzionali, la cui violazione comporta, appunto, per interposizione, quelladell’art. 117, primo comma, Cost.
4.4.- Va, dunque, dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma denunciata.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), dellaL. 24 marzo 2001, n. 89(Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modificadell’articolo 375 del codice di procedura civile), nel testo introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), n. 2, delD.L. 22 giugno 2012, n. 83(Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nellaL. 7 agosto 2012, n. 134.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2019.
Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2019.

È consentita l’adozione speciale di minori a persone singole e a coppie di fatto anche qualora l’adottante sia di età avanzata o il minore sia affetto da grave handicap; l’adozione in casi particolari, constatata impossibilità di affidamento preadottivo, non presuppone una situazione di abbandono dell’adottando potendosi disporre per valorizzare la consolidata relazione affettiva creatasi tra adottante ed adottato, nel preminente interesse del minore a preservare tale rapporto

Cass. civ. Sez. I, 26 giugno 2019, n. 17100
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17612/2017 proposto da:
M.G., Ma.Ro., nella qualità di genitori naturali del minore M.D., elett.te domiciliati in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall’avvocato Davide Moro, con procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
P.C., nella qualità di curatore speciale del minore M.D., elettivamente domiciliato in Roma Via Vittoria Colonna 32, presso lo studio dell’avvocato De Cinque Marianna Rita, che lo rappresenta e difende, con procura in calce al ricorso;
– controricorrente –
contro
S.P., elettivamente domiciliata in Roma, Via Vittoria Colonna 32, presso lo studio dell’avvocato De Cinque Marianna Rita, che la rappresenta e difende, con procura in calce al ricorso;
– controricorrente –
e contro
Procuratore Generale presso la Corte Appello di Napoli;
– intimato –
avverso la sentenza n. 98/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 04/05/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/02/2019 dal Cons. CAIAZZO ROSARIO;
lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale DE RENZIS Luisa, che ha chiesto il rigetto del ricorso con le conseguenze previste dalla legge.
Svolgimento del processo
Il Tribunale dei minori di Napoli, con sentenza del 7/8.3.16 rigettò la domanda proposta dai coniugi M.G. e Ma.Ro., avente ad oggetto la revoca della dichiarazione di decadenza dalla responsabilità genitoriale sul loro figlio minore M.D., pronunciata dal medesimo Tribunale con decreto del 26.1.10, disponendo farsi luogo all’adozione del minore,L. n. 184 del 1983, ex art. 44, lett. d, da parte di S.P..
I suddetti coniugi proposero appello, rigettato dalla Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 4.5.17, osservando che il motivo concernente la mancata consegna tempestiva della c.t.u. nel giudizio di primo grado- entro il termine per il deposito della comparsa conclusionale- era infondato per non essersi verificata alcuna violazione delle regole del contraddittorio, attesa l’irrilevanza dell’inosservanza del suddetto termine e considerato altresì che la bozza della stessa c.t.u. (comunicata a tutte le parti) era risultata del tutto conforme alla relazione finale depositata.
Inoltre, la Corte territoriale, nel merito, pur rilevando che l’appello non conteneva alcuna precisa contestazione e che, dunque, il motivo sarebbe stato anche inammissibile, osservava comunque che il provvedimento di decadenza era stato fondato su una c.t.u. redatta da due esperti i quali avevano esaminato le parti e il minore D., gravemente malato (affetto da tetraparesi distonica fin dalla nascita), in accessi che erano stati peraltro ostacolati dai ricorrenti, accertando lo stato di obiettivo abbandono del minore a fronte dell’assoluta inadeguatezza dei genitori.
M. e Ma. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
Resistono S.P. e il curatore speciale del minore M.D. con controricorsi, illustrati con memorie.
Il P.M. ha depositato relazione, chiedendo il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA:
Con il primo motivo è denunziata violazione degliartt. 183 e 195 c.p.c., in relazione agliartt. 3, 24 e 111 Cost., non avendo la Corte d’appello accolto il motivo d’impugnazione relativo alla mancata consegna della relazione di c.t.u. nel termine per il deposito della comparsa conclusionale. I ricorrenti si dolgono altresì che la Corte d’appello non abbia disposto la rinnovazione della c.t.u. in ordine alle loro capacità genitoriali, che avrebbe consentito di formulare osservazioni che invece erano state loro precluse.
Con il secondo motivo è denunziata omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della causa in ordine alle attività svolte dai ricorrenti su invito delle autorità (frequentazione di consultori, assistenti sociali, etc.).
Con il terzo motivo è denunziata violazione e falsa applicazione dellaL. n. 184 del 1983,art.6e art.44, lett. d, in quanto la Corte d’appello avrebbe male interpretato tali norme ritenendo semplicemente che l’adozione del minore era stata legittima non sussistendo un limite minimo di differenza d’età tra l’adottato e l’adottante, mentre non avrebbe valutato la concreta idoneità della S. nell’ottenere l’adozione.
Con il quarto motivo, i ricorrenti si dolgono della violazionedell’art. 91 c.p.c., in ordine alla condanna alle spese liquidate in appello in favore di N.S., figlia della S., in quanto soggetto che non può essere considerato parte processuale e che non è stata destinataria del provvedimento impugnato, la cui partecipazione al processo è da intendere come interventore adesivo volontario.

Motivi della decisione

CHE:
Il primo motivo è infondato.
I ricorrenti censurano l’impugnata sentenza nella parte in cui non ha ritenuto sussistente – con riferimento al giudizio di primo grado – la dedotta violazione del diritto al contraddittorio e del diritto di difesa, ai sensi degliartt. 3, 24 e 11 Cost., per non essere stata consegnata ai medesimi dalla cancelleria del Tribunale per i Minorenni copia della relazione definitiva di c.t.u., entro il termine previsto per il deposito della memoria conclusionale. Alla stregua di tale motivo, siffatta omissione avrebbe, invero, impedito agli istanti di articolare compiutamente le proprie difese nella comparsa conclusionale, con conseguente grave vulnus del loro diritto di difesa.
Ciò posto, va premesso che le pretese violazioni di norme processuali, costituenti ipotetici errores in procedendo, possono fondare il ricorso per cassazione esclusivamente allorquando si concretino in un effettivo pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte, in conseguenza della denunciata violazione (Cass., 18/12/2014, n. 26831; Cass., 19/03/2014, n. 6330; Cass., 21/11/2016, n. 23638). Nel caso di specie deve, per converso, escludersi che sussista la dedotta violazione delle norme processuali citate dai ricorrenti (artt. 183 e 195 c.p.c.), e comunque che i medesimi abbiano riportato un concreto pregiudizio del loro diritto di difesa, in relazione alla redazione ed al deposito consulenza d’ufficio espletata in prime cure.
Va, difatti, osservato che a normadell’art. 195 c.p.c., comma 3, (nel testo introdotto dallaL. 18 giugno 2009, n. 69,art.46), “La relazione deve essere trasmessa dal consulente alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice con ordinanza resa all’udienza di cui all’art. 193. Con la medesima ordinanza il giudice fissa il termine entro il quale le parti devono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione e il termine, anteriore alla successiva udienza, entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la relazione, le osservazioni sulle parti ed una sintetica valutazione sulle stesse”.
Orbene, nel caso concreto, dall’impugnata sentenza si evince che i consulenti avevano inoltrato, via p.e.c., la bozza di c.t.u. a tutte le parti, in data 10 dicembre 2015, e che gli odierni ricorrenti avevano fatto pervenire ai consulenti, in data 28 dicembre 2015, “una ampia nota di “deduzioni ed osservazioni alla suddetta bozza””. La c.t.u. veniva, quindi, depositata in cancelleria, ove le parti – come correttamente affermato dalla Corte territoriale (p. 3 della sentenza impugnata) – avrebbero potuto, ovviamente, consultarla ed estrarne copia, “ben prima della scadenza del termine per il deposito della conclusionale”, non essendo, per contro, previsto dalla norma in esame che sia la cancelleria ad inviare o consegnare una copia della relazione alle stesse.
Pertanto, dagli atti di causa si evince chiaramente che le regole procedurali, in tema di stesura e deposito della relazione di c.t.u., siano state integralmente rispettate. Giova altresì osservare che dalla sentenza impugnata si desume che costituisce un punto incontroverso della lite che il testo finale della relazione era pienamente corrispondente a quello della bozza di testo finale, e che gli appellanti la avevano contestata nella memoria istruttoria del gennaio 2016.
Se ne può dunque dedurre che la difesa dei ricorrenti non ha subito alcun pregiudizio.
Il secondo motivo è inammissibile.
I ricorrenti lamentano che la Corte d’appello non abbia tenuto conto della loro richiesta – contenuta nell’atto di appello, p. 15 – di rivalutare la loro posizione giuridica, quanto alla responsabilità genitoriale sul figlio D., “alla luce delle attività svolte su invito delle autorità preposte” (frequentazione dei consultori, cicli di visite disposti dal tribunale, ecc.). Ora, avendo dedotto gli istanti l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, la censura non corrisponde al modello di vizio prefigurato dal novellatoart. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis (Cass. Sez. U., 07/04/2014, nn. 8053 e 8054; Cass., 06/07/2015, n. 13928).
Ad ogni buon conto, anche a voler valutare la sostanza del motivo, a prescindere dalla rubrica, va osservato che esso si incentra sulla doglianza di omesso esame di uno scritto difensivo (l’atto di appello), del pari non rientrante nella fattispecie di vizio suindicato, limitata all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile, pertanto, la censura concernente l’omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass., 14/06/2017, n. 14802).
In ogni caso, il provvedimento di decadenza non fu impugnato.
Il terzo motivo è infondato.
I ricorrenti lamentano che la Corte d’appello abbia dato in adozione a S.P., donna di sessantadue anni, un bambino portatore di handicap (tetraparesi spastica) di otto anni (con una differenza di età, quindi, ben superiore a quella massima di quarantacinque anni, prevista dallaL. n. 184 del 1983,art.6), sebbene si tratti di una donna singola, e benché i genitori non abbiano dato il loro assenso all’adozione, ai sensi dell’art. 46 della stessa legge. In particolare, secondo i ricorrenti la Corte territoriale non avrebbe, poi, in alcun modo evidenziato la sussistenza di un danno grave ed irreparabile che possa derivare all’adottando dalla mancata adozione, non considerando, per un verso, che la S. non avrebbe potuto da sola – sia pure con il concorso della figlia N.S. peraltro, prevedibilmente non stabile e duraturo, considerata la sua giovane età e la prevedibile intenzione di farsi una propria vita- accudire il piccolo D. e per altro verso, che un bambino diversamente abile necessiti della presenza di entrambe le figure genitoriali.
Tanto premesso, va osservato che allaL. n. 184 del 1983,art.44, lett. d), integra una clausola di chiusura del sistema, intesa a consentire l’adozione tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità affettiva ed educativa della relazione tra adottante ed adottando (e non certo tra quest’ultimo ed i genitori naturali), come elemento caratterizzante del concreto interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura. Essa presuppone la constatata impossibilità di affidamento preadottivo, che deve essere intesa come impossibilità di diritto come nel caso di mancato reperimento (o rifiuto) di aspiranti all’adozione legittimante (Cass., 27/09/2013, n. 22292) – in quanto, a differenza dell’adozione piena, tale forma di adozione non presuppone necessariamente una situazione di abbandono dell’adottando – condizione nella specie, esclusa in radice, atteso l’affidamento del minore alla S. – e può essere disposta allorché si accerti, in concreto, l’interesse del minore al riconoscimento di una relazione affettiva già instaurata e consolidata con chi se ne prende stabilmente cura (Cass., 22/06/2016, n. 12962).
Inoltre, la mancata specificazione di requisiti soggettivi di adottante ed adottando, come pure del limite massimo di differenza di età (prescrivendo la norma dell’art. 44, comma 4, esclusivamente che l’età dell’adottante deve superare di almeno diciotto anni quella dell’adottando) implica che l’accesso a tale forma di adozione non legittimante è consentito alle persone singole ed alle coppie di fatto (Cass., n. 12962/2016), nei limiti di età suindicati e sempre che l’esame delle condizioni e dei requisiti imposti dalla legge, sia in astratto (l’impossibilità dell’affidamento preadottivo) che in concreto (l’indagine sull’interesse del minore), facciano ritenere sussistenti i presupposti per l’adozione speciale.
Per quanto concerne, poi, la mancanza di consenso dei genitori, va osservato che, in tema di adozione particolare, ha efficacia preclusiva ai sensi dellaL. n. 184 del 1983,art.46, comma 2, il dissenso manifestato dal genitore che non sia mero titolare della responsabilità genitoriale, ma ne abbia altresì il concreto esercizio grazie ad un rapporto effettivo con il minore, caratterizzato di regola dalla convivenza, in ragione della centralità attribuita dagliartt. 29 e 30 Cost.all’effettività del rapporto genitore-figli (Cass., 21/09/2015, n. 18575).
Nel caso concreto, per contro, i genitori del minore sono stati dichiarati decaduti dalla responsabilità genitoriale, proprio in quanto hanno allontanato il figlio D. a pochi mesi dalla nascita. Inoltre, i medesimi, dalla c.t.u. espletata in prime cure, sono risultati del tutto inadatti al ruolo genitoriale in relazione ad un bambino come D., affetto da gravissime patologie, delle quali non hanno affatto una piena consapevolezza, avendolo allontanato fin da piccolissimo ed avendolo, per lo più, considerato una sorta di loro proprietà della quale occorreva rientrare in possesso.
Come si evince dalla stessa c.t.u., la adottante, infermiera professionale pediatrica, con la quale il piccolo D. vive dal 2010, si è rivelata ampiamente in grado di provvedere a tutte le necessità del minore, con la collaborazione della figlia.
Il quarto motivo è infondato.
I ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte territoriale abbia posto a loro carico anche le spese sostenute dalla figlia della S., N.S., intervenuta volontariamente ad adiuvandum, nei cui confronti nessuna statuizione è stata adottata. Al riguardo, va osservato, che il rimborso delle spese processuali sostenute da colui che sia legittimamente intervenuto ad adiuvandum è posto, senza che occorra che la sua presenza sia stata determinante ai fini dell’esito favorevole della lite per l’adiuvato, a carico della parte la cui tesi difensiva, risultata infondata, abbia determinato l’interesse all’intervento (Cass., 14/05/2018, n. 11670; Cass., 23/07/1983, n. 5085).
Inoltre, il motivo non appare neppure sorretto da un effettivo interesse, considerato che la Corte d’appello ha condannato i ricorrenti al pagamento delle spese a favore della S. e della figlia S., intese come unica parte, sicchè indipendentemente dall’intervento in causa di quest’ultima, la liquidazione in esame, in quanto appunto unitaria, è stata legittima effettuata a favore della contro ricorrente.
Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore di ciascun controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella somma di Euro 5200,00 di cui 200 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% quale rimborso forfettario delle spese generali.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi, a norma delD.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196,art.52.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 4 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2019

DIRITTO SOSTANZIALE E PROCESSO IN TEMA DI SEPARAZIONE GIUDIZIALE E DIVORZIO

Di ANDREA PROTO PISANI

1 – Il diritto sostanziale della famiglia, per quanto riguarda questo scritto limitato alla separazione giudiziale e al divorzio, ha avuto una particolare accelerazione dal 1970, fino a quasi ieri e oggi.
Parafrasando il titolo della prolusione napoletana di Virgilio Andrioli Progresso del diritto e stasi del processo, 1958, (in Scritti giuridici, I 61 ss.), si potrebbe parlare di progresso (o evoluzione) del diritto sostanziale e stasi del processo, salvo dovere riconoscere a quest’ultimo due grossi e determinanti recuperi (sul versante della accelerazione delle decisioni sullo status), veri e propri colpi d’ala, rappresentati dalle leggi 74/1987, in tema di sentenza non definitiva immediata sullo status, di decisione dell’appello in camera di consiglio (e di domanda congiunta di divorzio), e 132/2014 in tema di negoziazione assistita davanti agli avvocati (tema, quest’ultimo, che esula dall’oggetto limitato di questo scritto).
2 – Ma procediamo con ordine, sia pure al massimo della sinteticità.
Fino al 1975, la separazione giudiziale (cioè nel dissenso o nelle ripicche di un coniuge) era possibile solo per colpa (le cui ipotesi erano tassativamente individuate nell’art. 151 c.c. oltre che nell’adulterio della moglie e in quello del marito (ma solo, in tale ipotesi, in caso di ingiuria grave), nel volontario abbandono, negli eccessi, minacce e ingiurie gravi).
Lo svolgimento del giudizio di separazione, salvo la fase urgente dei provvedimenti presidenziali ex art. 708 c.p.c. nell’interesse dei coniugi e della prole, era sostanzialmente quella del processo ordinario di cognizione, processo i cui tempi erano pressoché tutti nelle mani delle parti, stante la assenza di preclusioni quanto alla richiesta di prove.
In particolare il coniuge in colpa non aveva alcun diritto sostanziale alla separazione (salvo l’art. 189 disp. att. che, in caso di estinzione del processo, affermava – e tuttora afferma – la ultrattività dei provvedimenti presidenziali ex art. 708 fino a che non fossero stati sostituiti da altro provvedimento emanato in un successivo processo di separazione).
3 – Con la l. 898 /1970 si introdusse in Italia il c.d. divorzio, il quale poteva (per quanto qui interessa) essere richiesto da entrambi i coniugi decorsi cinque anni dalla data della comparizione davanti al presidente del tribunale nel giudizio di separazione giudiziale (per colpa, perché riguardo alla separazione giudiziale nulla era mutato), purché la sentenza di separazione fosse passata in giudicato.
Ciò significava che, anche dopo l’introduzione del divorzio, il coniuge in colpa vedesse il suo potere di risposarsi (ove l’altro coniuge non fosse disposto alla separazione consensuale), esposto al potere dilatorio dell’altro coniuge il quale aveva tutta la possibilità di fare durare il giudizio di separazione prima e di divorzio poi (da decidere entrambi con sentenza passata in giudicato) anni e anni o anche decenni.
(Salvo la disciplina transitoria) la legge 898/1970 introduceva modifiche pertanto molto limitate per il coniuge in colpa che aspirasse a risposarsi.
4 – La situazione sarebbe cominciata ad evolvere (“cominciato”, e solo sul piano del diritto sostanziale, non su quello del processo) con la riforma del diritto di famiglia (l. 151) del 1975.
Con essa si soppresse la separazione giudiziale unicamente per colpa, e si introdusse, come regola generale che la separazione potesse “essere richiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o entrambi i coniugi, fatti tali (anche quindi per volontà unilaterale del coniuge adultero) da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da arrecare grave pregiudizio alla educazione della prole”.
In tal modo anche il coniuge in colpa acquisiva il “diritto” alla separazione giudiziale, ma sempre subordinatamente al decorso dei cinque anni di cui supra 3 e il passaggio in giudicato della sentenza di separazione. Nulla era immutato quanto al processo di divorzio, processo che poteva avere anche esso durata lunghissima, poiché l’emanazione immediata della sentenza di divorzio (sentenza che non richiedeva l’assunzione di alcuna prova, perché fondata su documenti) continuava ad essere subordinata al potere discrezionale e insindacabile del giudice di decidere se emanare la sentenza di divorzio prima o dopo la istruzione delle questioni economiche.
Ma vi era (e continua ad essere) di più. L’art. 145, 2° comma, c.c. (il primo comma è stato pressoché integralmente sostituito come indicato sopra) disponeva (e continua a disporre) che “il giudice, pronunciando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”; (in caso di addebito poi al coniuge economicamente debole l’art. 156, c.c. prevedeva la corresponsione solo degli alimenti, e non del mantenimento). La previsione dell’addebito, sia pure solo su richiesta, è palesemente il frutto di un compromesso che contraddice la regola generale riportata sopra. Sul piano poi del potere del coniuge di risposarsi, la richiesta di addebito era destinata inevitabilmente ad allungare i tempi del processo sia di separazione sia di divorzio (influendo sull’ammontare del trattamento economico) e si prestava pertanto a tattiche dilatorie dovute spesso e quasi sempre a mere ripicche analoghe a quelle indicate supra 3.
Il passo in avanti c’è ma concerneva solo le separazioni nelle quali non fosse richiesto l’addebito.
È infine da notare che nulla era mutato quanto ai processi di separazione e di divorzio.
5 – L’intervento della legge (apparentemente ma non solo) processuale 74/1987, legge espressamente applicabile sia ai giudizi sia di divorzio sia di separazione, è dirompente. E ciò non solo perché riduce a tre i cinque anni minimi che dovevano intercorrere tra comparizione dei coniugi davanti al presidente del tribunale per l’emanazione dei provvedimenti presidenziali ex art. 708 c.p.c. e instaurazione del processo di divorzio ma soprattutto perché, è bene sottolinearlo, nel giudizio sia di separazione sia di divorzio la legge sganciava, e tuttora sgancia, del tutto la sentenza sullo status (separazione, divorzio) dalla necessità che il giudizio debba proseguire per le pronunce in tema di affidamento dei figli, di mantenimento del coniuge debole ma anche – e questo mi sembra molto importante sul piano della opportunità – per la esplicita previsione (art. 4, 12° comma legge sul divorzio applicabile e applicato anche al giudizio di separazione) secondo cui – conclusa la fase presidenziale – il giudice, senza che possa esercitare alcun potere in senso contrario “nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell’assegno”, emette (deve emettere) sentenza non definitiva relativa (alla separazione o al divorzio), sentenza immediatamente appellabile con appello da decidere in camera di consiglio. Così almeno a mio avviso, e soprattutto ad avviso della giurisprudenza, andava interpretato il comma ora richiamato.
Questa previsione sgancia del tutto la sentenza sullo status da quella (oltre che sull’affidamento dei figli, provvedimenti che dovrebbero essere e sono comunque anteriori in considerazione della loro eccezionalissima urgenza) relativa agli accertamenti del trattamento economico del coniuge debole, accertamenti necessari a risolvere le questioni economiche influenzate dalla (infausta) figura dell’addebito (ove ne sia stata fatta richiesta da uno dei coniugi); e sempre il mitico personaggio del legislatore non provveda finalmente a sopprimere la previsione della possibilità di richiesta di addebito, come sarebbe ragionevole per sgravare i figli e gli stessi coniugi, dal ricordo di circostanze comunque contrarie alla memoria di quel molto o poco di “felicità” che vi è stata in qualsiasi rapporto sentimentale e quindi anche nel rapporto matrimoniale di cui si sta formalizzando la conclusione.
6 – Le vicende sostanziali relative al divorzio sono giunte pressoché alla conclusione della parabola con la l. 55/2015 che ha ridotto a 12 il termine minimo intercorrente tra comparizione dei coniugi nel giudizio di separazione giudiziale e l’instaurazione del processo di divorzio.
È però da ricordare che il d. l. 132/2014 (conv. in l. 162/2014) ha semplificato ulteriormente i giudizi in esame, attraverso la specifica utilizzazione della c.d. negoziazione assistita da avvocati in caso di consenso dei coniugi, con la previsione di minimi controlli del magistrato solo in caso di esistenza di figli minori o maggiorenni portatori di handicap.
Ma l’esame di tale istituto, muovendosi tutto sulla base del consenso delle parti, fuoriesce dall’oggetto di questo articolo, che è relativo alle sole ipotesi di esistenza di una controversia fra i coniugi 1
1 Nel corso del 1988 e 1989 la Corte costituzionale ebbe poi a dichiarare l’illegittimità di tutti gli articoli del titolo relativo ai “delitti contro la famiglia” di cui gli art. 556-663 c.p. con la sola eccezione del reato di bigamia (art. 556).
* * *
7 – Conclusa la prima parte di questo scritto dedicato al richiamo, spesso per meri cenni, delle notevolissime modifiche sostanziali introdotte riguardo alla separazione giudiziale e alla
previsione del divorzio, è da passare alla parte – probabilmente più breve, ma ad avviso di chi scrive non meno importante – relativa alle conseguenze che dovrebbero (o almeno potrebbero) essere tratte sul piano del processo (oggi disciplinato dagli articoli 706-711 c. p. c. e dall’art. 189 delle relative disp. att., e dalla l. 898/1970 così come risulta dalle relative modifiche fino alla l. 55/2015).
8 – A mio avviso le conseguenze dovrebbero (e potrebbero) essere notevolissime.
È da ricordare, come evidenziato con la massima chiarezza e rigore logico da Franco Cipriani nell’agile monografia del 1971 Dalla separazione al divorzio, l’istituto della separazione giudiziale per colpa, sopravvissuto fino al 1975, era istituto che trovava la sua unica ragion d’essere nella mancata introduzione in Italia del divorzio (sia pure limitato dalla previsione di una giusta causa o requisiti simili).
Solo questa giustificazione, la ferma volontà del legislatore italiano di non volere consentire al coniuge in colpa di risposarsi, giustificava la disciplina della separazione giudiziale sopravvissuta fino al 1975 anche dopo l’introduzione del divorzio.
E, aggiungerei, la separazione giudiziale ha conservato la sua giustificazione politica o ideologica fino a che, per un verso è stata introdotta l’ibrida figura dell’addebito su richiesta, per altro verso (non tanto perché fosse previsto un ampio termine dilatorio tra giudicato sulla separazione e introduzione del processo di divorzio quanto perché) una delle parti del processo contenzioso di separazione e di divorzio potessero agevolmente muoversi all’interno di questi due processi in modo tale da allungare in maniera notevolissima la durata del tempo necessario per ottenere il giudicato sulla separazione (durata del processo in cui influivano, non solo il tempo necessario alla determinazione del contenuto dell’obbligo di mantenimento o alimenti, ma anche la complessità della prova dei fatti che giustificavano la richiesta di addebito): e quindi allontanare sempre di più il momento in cui il coniuge in “colpa” potesse (se ancora ne avesse avuto ancora voglia) contrarre un secondo (nella sua speranza più pacifico) matrimonio.
9 – Orbene con un semplicissimo accorgimento tecnico la l. 74/1987 (retro 5) col prevedere il dovere del giudice della separazione e del divorzio di emanare la sentenza sugli status, nelle prime o primissime battute dei due processi, anteriormente alla conclusione delle attività istruttorie (relative oltre ai fatti giustificanti l’addebito richiesto, anche all’entità dei patrimoni dei coniugi, all’esistenza davvero di un coniuge economicamente debole, all’entità del suo contributo a fare aumentare il reddito dell’altro coniuge ecc. ecc.), ha quasi del tutto soppresso il tempo necessario per ottenere la pronuncia sugli status di separazione e di divorzio.
Ecco che tutta l’architettura “speciale” dei processi di separazione e divorzio è, in gran parte, venuta meno, e si rivela nella sostanza un inutile doppione.
Di tutto ciò però il nostro legislatore ha mostrato di non avere percezione alcuna (neanche, direi, sul piano sociologico) così come non ha compreso l’importanza della coniugazione tra forme di processi e tutela sommaria, e forme di processi a cognizione piena.
10 – Accennato alle incapacità, soprattutto processuali, del nostro legislatore, si pone la domanda: che è o sarebbe possibile fare?
Sul piano interpretativo poco o pochissimo.
Di iure condendo moltissimo, soprattutto per l’esperienza di istituti ampiamente collaudati, purché si abbia la capacità di chiedere ed ottenere l’attribuzione dell’unico nuovo processo (inglobante quello che oggi si chiamano separazione e poi processo di divorzio) al giudice monocratico, senza che ciò, come si vedrà, costituisca in modo alcuno riduzione delle garanzie.
Nella sostanza si potrebbe prevedere:
A) che dell’attuale giudizio di separazione sopravviva la previsione dei provvedimenti urgenti nell’interesse dei coniugi, dei figli e dei relativi obblighi di mantenimento; procedimenti aventi tutti carattere urgente e cautelare ai quali dovrebbe essere applicata la disciplina del processo cautelare uniforme, con le relative garanzie (soprattutto la loro reclamabilità davanti ad un collegio di tribunale di cui non possa fare parte il giudice che ha emanato i provvedimenti urgenti); nonché con la efficacia propria dei provvedimenti cautelari anticipatori prevista dagli ultimi quattro commi dell’art. 669/octies, (cioè la sopravvivenza della loro efficacia alla stessa instaurazione di un processo ordinario di cognizione ex artt.163 e ss. c.p.c., ove questo sia lasciato estinguere per inattività o rinuncia delle parti), ferma restando la loro modificabilità in ogni tempo, stante la loro strutturale inidoneità al giudicato;
B) che quanto ai provvedimenti sommari (relativi ai figli, al loro mantenimento, all’assegnazione della casa familiare e al mantenimento o alimenti del coniuge debole) esplicita previsione che la loro emanazione non precluda in modo alcuno ai coniugi il diritto di far valere in giudizio – nelle forme e con le garanzie dei processi a cognizione piena con attitudine al giudicato formale e sostanziale – cioè l’instaurazione di un processo ordinario di cognizione ai sensi degli artt. 163 e ss. c.p.c. avente ad oggetto gli stessi diritti (già oggetto dei provvedimenti sommari);
11 – Bozza di articolato da completare redatto sulla base dei rilievi svolti nei paragrafi precedenti, bozza redatta sulla base della scelta della monocraticità del giudice di primo grado.
(Bozza sostitutiva degli attuali processi di separazione giudiziale e di divorzio).
Art. 1 Forma della domanda.
La domanda di separazione giudiziale si propone con ricorso davanti al giudice monocratico del tribunale del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza, del luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza o domicilio con ricorso che deve contenere l’esposizione dei fatti sui quali la domanda é fondata.
Qualora il coniuge convenuto sia residente all’estero, o risulti irreperibile, la domanda si propone al tribunale del luogo di residenza o di domicilio del ricorrente, e, se anche questi è residente all’estero, a qualunque tribunale della Repubblica.
Il giudice designato, nei cinque giorni successivi alla sua designazione e comunque non oltre dieci giorni dal deposito del ricorso in cancelleria, fissa con decreto la data dell’udienza di comparizione dei coniugi davanti a sé, che deve essere tenuta entro novanta giorni dal deposito del ricorso, il termine per la notificazione del ricorso e del decreto ed il termine entro cui il coniuge convenuto può depositare memoria difensiva e documenti. Al ricorso e alla memoria difensiva sono allegate le ultime tre dichiarazioni dei redditi presentate, nonché l’indicazione del titolo di proprietà, o altri, della casa familiare.
Nel ricorso deve essere indicata l’esistenza di figli di entrambi i coniugi.
Art. 2 Comparizione personale delle parti e prima udienza davanti al giudice designato.
I coniugi debbono comparire personalmente davanti al giudice designato con l’assistenza del difensore.
Se il coniuge ricorrente non si presenta all’udienza il processo si estingue a meno che il coniuge convenuto sia comparso e faccia istanza di prosecuzione del giudizio di separazione giudiziale.
Se nessuna delle parti si presenta o entrambe rinunciano, la domanda non ha effetto. e il processo si estingue.
Se non si presenta il coniuge convenuto, il giudice può fissare un nuovo giorno per la comparizione, ordinando che la notificazione del ricorso e del decreto gli sia rinnovata.
Art. 3 Tentativo di conciliazione e provvedimenti del giudice designato.
All’udienza di comparizione, il giudice designato deve sentire i coniugi prima separatamente e poi congiuntamente, tentandone la conciliazione o l’accordo sulle condizioni di separazione; se ne sussistono presupposti applica l’art.337 octies, secondo comma cod. civ.
In qualsiasi momento del processo, se i coniugi si conciliano o si accordano sulle condizioni della separazione, il giudice designato fa redigere processo verbale di conciliazione o di accordo, e le parti possono chiedere che il processo si converta in processo di separazione consensuale.
Art. 4 Provvedimenti del giudice.
Se la conciliazione non riesce, il giudice designato dispone senza indugio, nella prima udienza, con ordinanza stesa in calce al ricorso, la separazione giudiziale.
Successivamente, nella stessa udienza o in udienza successiva ravvicinata disposta per completare l’istruzione sommaria o per l’ascolto del minore, dispone con ordinanza:
a) l’affidamento, la collocazione e i tempi di visita dei figli minori o maggiorenni portatori di disabilità;
b) l’assegno di mantenimento dovuto per i figli dal genitore non collocatario;
c) l’assegnazione della casa familiare ai sensi dell’art. 337 sexies cod. civ.
d) l’assegno di mantenimento o di alimenti dovuto al coniuge economicamente debole.
Art. 5 Reclamabilità dei provvedimenti.
I provvedimenti previsti dall’articolo precedente sono reclamabili nel termine di sessanta giorni secondo le forme previste dall’art. 669 terdecies davanti a un collegio del tribunale, collegio di cui non può far parte il giudice che ha emesso il provvedimento reclamato.
Art. 6 Revocabilità, modificabilità ed esecuzione.
I provvedimenti di cui agli articoli 4 e 5 sono modificabili, revocabili ed eseguibili nelle forme e secondo le modalità indicate agli articoli 669/decies e duodecies. e 669/duodecies.
Agli stessi provvedimenti si applica la disciplina dei provvedimenti cautelari anticipatori contenuta negli ultimi quattro commi dell’art. 669/octies.
Le spese sono liquidate dal giudice in considerazione delle condizioni economiche dei coniugi e della difficoltà dell’attività difensiva svolta. L’ordinanza sulle spese è anch’essa reclamabile ai sensi dell’art. 669/terdecies.
Art. 7 Clausola finale di salvaguardia.
I provvedimenti di cui al precedente articolo 4 e successivo articolo 9, anche se pronunciati in sede di reclamo, non precludono in alcun modo la proposizione da parte dei coniugi del processo ordinario di cognizione previsto dal II libro del codice di procedura civile nelle forme e con le garanzie – anche nell’eventuale giudizio di appello – dei processi a cognizione piena con attitudine al giudicato formale e sostanziale.
In tal caso il processo a cognizione piena si introduce con ricorso avente ad oggetto istanza di fissazione dell’udienza di cui all’art. 183 codice di procedura civile, ricorso notificato alla controparte trenta giorni prima dell’udienza, anteriormente alla quale il coniuge convenuto ha facoltà di depositare memorie di replica dieci giorni prima dell’udienza.
A seguito dell’udienza ex art. 183 c.p.c. il processo prosegue nelle forme del rito ordinario.
Art. 8 Provvedimenti sullo status di divorzio.
Decorsi i termini previsti col secondo comma della lettera b) del terzo comma dell’art. 3 della 1. 898/1970, ciascun coniuge può chiedere, con ricorso al giudice monocratico del tribunale che ha pronunciato l’ordinanza di separazione di cui al primo comma del precedente art. 4, la pronuncia del divorzio. Nella prima udienza, il giudice designato, verificata l’esistenza dei presupposti temporali, pronuncia il divorzio con ordinanza stesa in calce al ricorso.
L’ordinanza prevista dal comma precedente è reclamabile nelle forme e nei termini previsti dall’art. 5. Decorso il termine per proporre reclamo l’ordinanza dichiarativa del divorzio diviene efficace a tutti gli effetti.
Art. 9 Provvedimenti economici di carattere urgente.
Con il ricorso con il quale si chiede la pronuncia di divorzio, il coniuge ricorrente o convenuto può chiedere anche, se sussistono motivi di urgenza, che il giudice di cui al primo comma dell’articolo precedente, provveda, con ordinanza, successiva e autonoma da quella che dispone il divorzio, in via sommaria alla revoca o alla modifica dei provvedimenti di cui all’articolo 4. In tal caso il giudice provvede con ordinanza nella forma sommaria prevista dal primo comma dell’art. 669/sexies; l’ordinanza è reclamabile nelle forme e nei termini previsti dal precedente art. 5; ad essa si applica la disciplina dei provvedimenti cautelari anticipatori prevista dagli ultimi quattro commi dell’art. 669/octies.
Art. 10 Applicabilità in ipotesi di figli naturali e di unioni civili.
I precedenti articoli 4, 5 e 7 si applicano anche in caso di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio di cui agli artt. 337 ter e ss. cod. civ.; e gli articoli 8 e 9 in caso di scioglimento di unione civile di cui al comma 24 legge n. 76 del 2016.
12 – A conclusione di questo scritto vorrei svolgere due osservazioni e un rilievo finale.
La prima è relativa alla circostanza che mentre la legislazione sostanziale e processuale effettuavano la grossa apertura alla “libertà” dei coniugi legati da matrimonio, è l’istituto stesso del matrimonio (con assunzione pubblica (o anche religiosa) di fronte alla società della responsabilità dell’inizio della vita in comune), che andava dissolvendosi nelle nuove generazioni; queste infatti sempre più preferiscono, ad un certo punto dello sviluppo del loro rapporto sentimentale, fare il passo del vivere insieme nella stessa abitazione, e spesso conservare la stessa scelta anche quando mettono al mondo figli comuni.
La seconda osservazione è strettamente personale. Io non sono mai stato contrario all’idea stessa del matrimonio, inteso come “formazione sociale” capace di aiutare allo sviluppo della personalità dei due coniugi, in prospettiva di una progressiva acquisizione dei diritti e doveri di solidarietà indispensabili in paesi che, come l’Italia, hanno come valore fondante la dignità della persona.
Per questo io e mia moglie siamo stati particolarmente contenti di festeggiare, alcuni mesi fa, il cinquantesimo anno di matrimonio riuniti, intorno ad un altare prima e ad un tavolo poi, con le nostre figlie, i loro compagni (taluno anche marito) e uno stuolo di nipoti da sei mesi a quattordici anni. Ed ancora una volta ho considerato tutto questo come uno dei tanti doni, talenti che la vita mi ha regalato e dei quali conseguentemente sono chiamato a rispondere in questi anni finali della mia vita.
L’ultimo rilievo è di carattere tecnico giuridico e concerne la grande importanza della tutela sommaria (cioè di una tutela che interviene in prossimità di una crisi di cooperazione) per assicurare una tutela effettiva dei diritti della persona e delle più o meno nuove situazioni di libertà formali e sostanziali.
* Testo destinato agli studi in memoria di Franco Cipriani.
Ringrazio l’avv. Maria Silvia Zampetti per i preziosi suggerimenti, di forma e sostanza, che mi ha dato per la revisione della stesura originaria di questo scritto

Definizione della situazione di abbandono del minore al fine della dichiarazione

di Valeria Cianciolo
La nozione di abbandono, necessariamente correlata a quella di interesse del minore,
costituisce il fulcro dell’intera disciplina dell’adozione legittimante1. La relativa
dichiarazione ha, infatti, natura costitutiva di un determinata situazione sociofamiliare,
dalla quale possono derivare effetti significativi sulla psiche del bambino
condizionandone, eventualmente, lo sviluppo futuro della sua personalità nelle altre
formazioni sociali.
L’adozione è pronunciata con sentenza quando ricorrono:
• il presupposto dello stato di abbandono, che rappresenta la ragione
giustificatrice dell’adozione
• la dichiarazione di adottabilità
Il legislatore non definisce lo stato di abbandono2, ma ne indica la causa
nell’inadempimento degli obblighi di assistenza morale e materiale del minore da
parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi, cioè dei parenti entro il quarto
grado, come si evince dagli artt. 10, 2° co., e 11, 1° co., l. adoz.3.
La situazione di abbandono per il minore può ricorrere sia quando non vi è una
famiglia d’origine, sia quando quest’ultima è presente, almeno fisicamente.
Nella prima ipotesi – che sussiste nei casi di figlio di genitori ignoti o orfano di
entrambi i genitori e privo di altri parenti – l’abbandono è in re ipsa e non richiede
ulteriori indagini, né pone i problemi su riferiti, posto che, in tali casi, il minore non
potrebbe avvertire il senso di rifiuto da parte di una famiglia assente fisicamente.
Più articolata è, invece, la seconda situazione, in cui, pur essendoci una famiglia
tenuta a provvedervi, il minore risulti privo dell’assistenza morale e materiale di cui
necessita per la sua crescita.
Il principio è stato traslato letteralmente dal legislatore delegato nell’art. 15 l. adoz.
(come modificato dal D. Lgs. n. 154/2013), che disciplina la dichiarazione di
adottabilità. Il preciso riferimento alla nozione di abbandono, sembra indicare che
l’inadempimento degli obblighi di assistenza morale e materiale, in cui si sostanzia la
definizione dello stato di abbandono che emerge dall’art. 8, 1° co., c.c., non è
esaustivo, necessitando l’ulteriore requisito dell’irrecuperabilità delle capacità
educative e assistenziali dei genitori in un tempo ragionevole4.
1Sulla nozione di stato d’abbandono cfr. S. Ciccarello, Della dichiarazione di adottabilità, in G.
Cian, G. Oppo, A. Trabucchi (dir.), Commentario al diritto italiano della famiglia, VI, 2, Padova,
1992, p. 82 e più recentemente, L. Fadiga, L’adozione legittimante di minori, in G. Collura, L.
Lenti, Man. Mantovani (a cura di), Filiazione, II ed., Milano, 2012, spec. p. 830 ss.
2 L’art. 2, lett. n), L. n. 219/2012 (Delega al Governo per la revisione delle disposizioni vigenti in
materia di filiazione) ha inserito tra i principi e i criteri direttivi la: «specificazione della nozione di
abbandono morale e materiale dei figli con riguardo alla provata irrecuperabilità delle capacità
genitoriali in un tempo ragionevole, fermo restando che le condizioni di indigenza dei genitori non
possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia».
3Dogliotti, Affidamento e adozione, in Tratt. Cicu, Messineo, VI, 3, Milano, 1990, 144-1459.
4 Cass. civ. Sez. I Ord., 21.06.2018, n.16357:“Il prioritario diritto dei minori a crescere nell’ambito
della loro famiglia di origine non esclude la pronuncia della dichiarazione di adottabilità quando,
La precisazione appare superflua giacché l’irrecuperabilità dell’incapacità dei genitori
coincide con l’irreversibilità della situazione della loro inidoneità a garantire
l’assistenza morale e materiale dei figli, già ritenuta indefettibile dalla giurisprudenza
anteriore alla riforma della filiazione, secondo cui «sussiste la situazione
d’abbandono qualora la situazione familiare sia tale da compromettere in modo
grave e irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico del bambino, considerato non
in astratto ma in concreto, cioè in relazione al suo vissuto, alle sue caratteristiche
fisiche e psicologiche, alla sua età, al suo grado di sviluppo e alle sue potenzialità»5.
L’irrecuperabilità denota appunto la irreversibilità delle capacità educative genitoriali
e la compromissione dell’equilibrio psicofisico del minore. Sembra pertanto,
eccessivo il richiamo alla “ragionevolezza” del tempo necessario per l’accertamento
dell’irrecuperabilità, da valutare caso per caso in relazione all’interesse morale e
materiale del minore, che ha assunto carattere di piena centralità nell’ordinamento
nazionale e internazionale6.
E’ principio consolidato nella giurisprudenza che la valorizzazione del legame
naturale che ha ispirato l’intera Novella del 2001, e in particolare l’art. 1 l. adoz., che
attribuisce carattere prioritario al diritto del minore di crescere nella famiglia di
origine, impone al giudice un particolare rigore nella valutazione dello stato di
abbandono, che non può fondarsi sul mero apprezzamento dell’inidoneità dei genitori
biologici alla cura e all’educazione della prole, essendo necessario accertare altresì
che tale inidoneità abbia provocato o possa provocare danni gravi ed irreversibili per
la crescita equilibrata e l’armonico sviluppo psico-fisico del minore di età7.
Il concetto di abbandono nella giurisprudenza
Esaminando la casistica giurisprudenziale, si riscontrano diverse pronunce riguardanti
nonostante l’impegno profuso dal genitore per superare le proprie difficoltà personali e genitoriali,
permanga tuttavia la sua incapacità di elaborare un progetto di vita credibile per i figli, e non
risulti possibile prevedere con certezza l’adeguato recupero delle capacità genitoriali in tempi
compatibili con l’esigenza dei minori di poter conseguire una equilibrata crescita psico-fisica.”
Cass. civ. Sez. VI – 1 Ord., 23.02.2018, n. 4493: “L’art. 1 della legge n. 184 del 1983 riconosce il
diritto del minore a vivere nella propria famiglia, ma l’art. 8 precisa che sussiste abbandono in
caso di mancanza di assistenza morale e materiale da parte dei genitori. L’abbandono si configura
come grave ed irreversibile violazione degli obblighi dei genitori di educazione, mantenimento ed
istruzione dei figli, ai sensi dell’art. 30 Cost. e 147 (315-bis) c.c. Ma tale irreversibilità va correlata
alle esigenze di armonico sviluppo dei minori e, dunque, l’eventuale recupero dell’inadeguatezza
genitoriale dovrebbe essere determinato, certo e ragionevolmente non lungo, dovendosi pertanto
verificare la concreta possibilità di pregiudizio per il minore dovuto all’incertezza e alla durata del
percorso di eventuale recupero genitoriale.”
5 v. per tutte, C. civ., Sez. I, 24.2.2010, n. 4545.
6 C. Cost., 23.2.2012, n. 3, in Foro It., 2012, 7-8, 1, 1992
7 C. civ., S.U., 8.6.1986, n. 3072; C. civ., Sez. I, 29.10.2012, n. 18653; C. civ., Sez. I, 26.9.2012, n.
16414; C. civ., Sez. I, 18.4.2012, n. 6052; C. civ., Sez. I, 21.11.2010, n. 24589; C. civ., Sez. I,
24.2.2010, n. 4545; C. civ., Sez. I, 17.7.2009, n. 16795; C. civ., Sez. I, 11.10.2006, n. 21817; C. civ.,
Sez. I, 28.6.2006, n. 15011; C. civ., 12. 5.2006, n. 11019; C. civ., Sez. I, 28.10.2005, n. 21100; C.
civ., Sez. I, 14.5.2005, n. 10126; C. civ., Sez. I, 28.3.2002, n. 4503; C. civ., Sez. I, 1.2.2000, n.
1095; C. civ., Sez. I, 26.4.1999, n. 4139; A. Napoli, Sez. min., 25.1.2013; A. Napoli, 10.10.2012; C.
civ., Sez. I, 14.4.2016, n. 7391; C. civ. Sez. I, 31.8.2016, n. 17442; C. civ. Sez. I, 30.6.2016, n.
13435, per il peculiare caso di accertamento dello stato di abbandono di un neonato.
la definizione del concetto di abbandono morale e materiale del minore previsto
dall’art. 8 della l. 184/1983. Quando era ancora in vigore la precedente legge
(sull’adozione speciale) del 5 giugno 1967, n. 431, la Corte di Appello di Roma8
aveva affermato che ai fini della dichiarazione di adottabilità, occorreva accertare il
volontario abbandono del minore, non essendo sufficiente una oggettiva carenza di
cure materiali e morali. I giudici romani, richiamando la pronuncia della Corte
Costituzionale del 20 marzo 1974, n. 76, avevano affermato che l’elemento della
causa di forza maggiore, funge da indispensabile spartiacque ai fini della prevalenza
tra l’esigenza di intervenire a favore del minore e quella di salvaguardare i diritti
della famiglia di origine: si ha quindi, abbandono “ogni qual volta si verifica una
situazione abnorme e antigiuridica di privazione, cosciente e volontaria e non
contingente, del complesso di prestazioni dovute dai genitori ai propri figli minori e
sempre che tale protratta situazione non sia determinata da eventi che, agendo in
maniera invincibile sul soggetto che compie l’azione, gli impediscano di adempiere
ai suoi doveri contro la sua volontà.” Per tali giudici, in sintesi, solo la volontà di
disinteressarsi totalmente del minore costituisce il presupposto per la dichiarazione di
stato di abbandono e, quindi, di adottabilità.
Recentemente, la giurisprudenza9 ha affermato che lo stato di abbandono che
giustifica la dichiarazione di adottabilità, ricorre allorquando i genitori non sono in
grado di assicurare al minore quel minimo di cure materiali, calore affettivo, aiuto
psicologico indispensabile per lo sviluppo e la formazione della sua personalità e la
situazione non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio, tale essendo quella
inidonea per la sua durata a pregiudicare il corretto sviluppo psico – fisico del
minore, secondo una valutazione che, involgendo un accertamento di fatto, spetta al
giudice di merito ed è incensurabile in cassazione.
I giudici di legittimità hanno più volte affermato il principio secondo cui non ha
efficacia preclusiva, ai sensi dell’art. 46, co. 2, L. 183/1984, il dissenso manifestato
dal genitore che sia meramente titolare della responsabilità genitoriale, senza averne
il concreto esercizio grazie a un rapporto effettivo con il minore, ciò in quanto è solo
la comunanza di vita e la conseguente conoscenza degli interessi e delle esigenze del
minore che rendono rilevante il dissenso in questione. Gli Ermellini hanno però
affermato anche che, data l’insussistenza di qualsiasi rapporto, attuale e pregresso,
8 Corte di Appello di Roma, 28 febbraio 1977, in Dir. fam. Pers., 163 e ss., 1978, con nota di
Bessone, Sulla volontarietà dell’abbandono nell’adozione speciale.
9 Cass. civile, Sez. II, ordinanza 5 giugno 2018, n. 14462. In questo specifico caso, il padre di un
minore censurava la sentenza impugnata per aver ritenuto sussistente lo stato di abbandono, senza
tener conto della causa di forza maggiore rappresentata dai problemi psicologici che lo affliggevano
e delle richieste d’intervento dei servizi sociali da lui ripetutamente avanzate a seguito
dell’insuccesso degli interventi di recupero della genitorialità, determinato dalla condotta di sua
moglie. Secondo gli Ermellini non merita censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha
escluso la sussistenza di una causa di forza maggiore di carattere transitorio, tale da impedire la
dichiarazione di adottabilità, nonostante l’incapacità dei genitori di assicurare al minore quel
minimo di cure materiali, calore affettivo, aiuto psicologico indispensabile per lo sviluppo e la
formazione della sua personalità, risultando tale conclusione conforme all’orientamento della
giurisprudenza di legittimità, secondo cui, al predetto fine, occorre una situazione inidonea, per la
sua durata, a pregiudicare il corretto sviluppo psico-fisico del minore, secondo una valutazione che,
implicando un accertamento di fatto, è rimessa in via esclusiva al giudice di merito.
tra una madre ed una figlia ad esempio, e la conseguente non conoscenza degli
interessi e delle esigenze della minore da parte della madre, il dissenso all’adozione
da parte di quest’ultima venga considerato superabile sulla scorta del preminente
interesse della minore ad essere adottata da parte dei coniugi affidatari.
Non è la convivenza l’elemento sintomatico necessario per verificare la sussistenza
del concreto esercizio di un effettivo rapporto con il minore, quanto le reali e
qualificanti modalità di svolgimento delle relazioni tra genitore e minore anche se
non conviventi tra loro.
Ciò che viene salvaguardato, è l’interesse prevalente del minore “di vivere, per
quanto possibile, con i propri genitori e di essere allevato nell’ambito della propria
famiglia di origine.10”

Per verificare la titolarità dell’assegno di divorzio occorre considerare tutti gli elementi indicati nella prima parte dell’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970.

Corte d’Appello Campobasso, Sent., 26 marzo 2019 – Presidente est. D’Errico
Corte d’Appello Campobasso, Sent., 26 marzo 2019 – Presidente est. D’Errico
L’accertamento in ordine alla spettanza di un contributo a titolo di assegno divorzile presuppone
l’esame di tutti gli elementi indicati nella prima parte dell’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del
1970 (Divorzio), con particolare attenzione al contributo fornito dal richiedente alla formazione
del patrimonio di ciascuno e di quello comune e in rapporto alla durata del matrimonio.
Divorzio – Assegno di divorzio – Rif. Leg. art. 5 comma 6 della L. n. 898 del 1970
LA CORTE DI APPELLO DI CAMPOBASSO
– Collegio civile – riunita in camera di consiglio, nelle persone dei Magistrati:
dr. Maria Grazia d’ERRICO – Presidente est.
dr. Gianfranco PLACENTINO – Consigliere
dr. Marco Giacomo FERRUCCI – Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel procedimento civile iscritto al n. 66 del Ruolo 2018 R.G., di appello avverso la sentenza
definitiva n. 483/2017 emessa dal Tribunale di Campobasso in composizione collegiale nel proc. n.
681/’14 R.G., avente ad oggetto: scioglimento di matrimonio civile
TRA
P.M.M. (c.f. (…)), elettivamente domiciliata in Campobasso presso lo studio dell’avv. Luca Marcari,
che la rappresenta e difende in virtù di procura a margine della citazione in appello
APPELLANTE
E
B.G. (c.f. (…)), elettivamente domiciliato in Bojano (CB) presso lo studio dell’avv. Alfonso
Mainelli, che lo rappresenta e difende in virtù di procura in calce alla comparsa di costituzione in
appello
APPELLATO
con l’intervento del PROCURATORE GENERALE presso la Corte di Appello di Campobasso
INTERVENTORE NECESSARIO
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. — Con sentenza definitiva n. 483 del 14/08/2017, non notificata, il Tribunale di Campobasso in
composizione collegiale, pronunciando sulle statuizioni accessorie alla pronuncia di scioglimento
del matrimonio civile fra G.B. e M.M.P. (già emessa con sentenza non definitiva n.11/2015 dello
stesso giudice, corretta con ordinanza del 9/02/2015), ha rigettato le domande dell’attrice di imporre
al convenuto di corrisponderle un assegno divorzile di 500,00 Euro mensili e di assegnarle un
immobile di proprietà del B. da destinare a propria abitazione; il Tribunale ha dichiarato
compensate fra le parti le spese del giudizio.
M.M.P. ha proposto appello con citazione notificata il 9/02/2018, depositando l’atto notificato e la
nota di iscrizione a ruolo in data 14/02/2018, e chiedendo, in riforma della pronuncia impugnata: a)
la pronuncia dello scioglimento del matrimonio civile contratto fra le parti in Ferrazzano (CB) il
7/09/2005; b) l’assegnazione in proprio favore di una casa di proprietà del B.; c) l’imposizione a
carico dello stesso appellato di un assegno divorzile nella misura di 500,00 Euro mensili da
rivalutare annualmente in base all’Istat; d) la condanna del B. al rimborso delle spese di entrambi i
gradi di giudizio.
G.B. si è costituito in occasione della prima udienza di trattazione eccependo l’inammissibilità
dell’appello in rito e chiedendone il rigetto nel merito, con vittoria delle spese del doppio grado.
2. — Il rito prescritto per la trattazione in appello delle cause di divorzio è quello camerale, ai sensi
dell’art. 4, co. 15 della L. n. 898 del 1970, come integrato dalla L. n. 74 del 1987 e succ. modif.: la
presente impugnazione, pertanto, andava attivata con ricorso, da depositare nel termine di cui all’art.
327 c.p.c. di sei mesi dalla pubblicazione (in data 14/08/2017) della sentenza di primo grado,
scaduto il 28/02/2018 -trattandosi di procedimento soggetto all’art.46, co.17, L. 18 giugno 2009, n.
69, e non applicandosi il termine breve di cui all’art. 325 c.p.c.v la sentenza impugnata non essendo
stata notificata.
Il gravame è stato inoltrato invece con citazione, il che non ne comporta la nullità, in applicazione
del principio generale di conservazione degli atti viziati, dal momento che il deposito della citazione
nella cancelleria di questa Corte con contestuale iscrizione a ruolo è avvenuto il 14/02/2018, e
dunque entro il predetto termine perentorio fissato dalla legge (cfr. Cass. civ. Sez. I, 26/10/2000, n.
14100; Cass. civ. Sez. I, 22/07/2004, n. 13660; Cass. civ. Sez. I, 13/10/2011, n. 21161).
3. — Si premette che il “filtro” dell’appello ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c. invocato dall’appellato ed
implicitamente disatteso da questa Corte è inapplicabile alla causa in esame, ai sensi del co.2, lett.
a) dello stesso articolo (trattandosi di causa rientrante nell’ipotesi di cui all’art. 70, co.1, c.p.c.).
In secondo luogo, l’appellante non ha alcun motivo per riproporre in questa sede la domanda di
scioglimento del matrimonio civile fra le parti, pronuncia già adottata dal Tribunale con la sentenza
non definitiva sullo status n. 11/2015, corretta con ordinanza del 9/02/2015, e che non andava
pertanto reiterata con la decisione definitiva, dal momento che nel vigente sistema processuale il
frazionamento della decisione comporta l’esaurimento dei poteri decisori per la parte della
controversia definita con la sentenza parziale, con la conseguenza che la prosecuzione del giudizio
non può riguardare altro che le questioni non coperte dalla prima pronuncia.
La decisione non definitiva sarebbe stata impugnabile unicamente con appello immediato, ai sensi
dell’art.4, co.12, l. div., che nella specie non risulta proposto, né sarebbe stato proponibile, avendo
entrambe le parti chiesto lo scioglimento del matrimonio.
La richiesta in questione è dunque inammissibile per carenza di interesse, anche a prescindere
dall’intervento o meno del giudicato sulla stessa.
Va invece dichiarata inammissibile ai sensi dell’art. 342 c.p.c. la richiesta dell’appellante di disporre
l’assegnazione in proprio favore di una casa di proprietà del B.: come eccepito dall’appellato e
comunque rilevabile anche d’ufficio, l’appellante è tenuto ad effettuare “una chiara individuazione
delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze,
affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte
dal primo giudice” (Cass. 16/11/2017 n. 27199).
Il Tribunale ha condivisibilmente motivato sul punto, qualificando tale domanda come
inammissibile in considerazione dell’assenza di figli della coppia, nel solo interesse dei quali
sarebbe stato possibile adottare un provvedimento di assegnazione della casa familiare e non di altra
abitazione al genitore collocatario.
L’appellante non contrappone alcuna critica a tale argomento, limitandosi a ripetere la richiesta
negli esatti termini in cui l’aveva avanzata al primo giudice.
4.– Per quanto riguarda l’ulteriore ragione di impugnazione (concernente la decisione di rigetto
della domanda di assegno divorzile proposta dalla P.), l’appellante ha invece sufficienti motivazioni,
come si esporrà, con indicazione delle ragioni per le quali ritiene ingiusta la decisione impugnata e
ne chiede la modifica; l’onere di specificità dei motivi non richiede che l’appellante svolga
argomentazioni diverse da quelle contenute negli atti di primo grado o che predisponga un progetto
di sentenza alternativa, purchè risultino chiare le ragioni della contestazione della decisione
impugnata.
Il Tribunale, in adesione all’orientamento espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 11504 del
10/05/2017, delle quali ha richiamato le motivazioni, ha ritenuto non spettare alla P. l’assegno di
divorzio, revocando la statuizione provvisoria adottata dal Presidente, il quale aveva confermato la
previsione di cui alla separazione consensuale con la quale tale assegno era stato quantificato in
350,00 Euro mensili.
A fondamento della decisione adottata il giudice di primo grado, dopo aver sottolineato che non
risultava dagli atti che la richiedente si fosse impegnata a reperire un’attività lavorativa, ha
affermato di aver tenuto conto della durata del matrimonio e del tempo decorso dalla separazione
senza la dimostrazione da parte della P. dell’impossibilità di svolgere un lavoro idoneo a procurarsi
il sostentamento.
Quest’ultima assume che il Tribunale non avrebbe valutato debitamente la circostanza del mancato
svolgimento di qualsiasi lavoro da parte di essa appellante, avvalorata dal fatto di essere stata
ammessa per il giudizio di primo grado al patrocinio a spese dello Stato; sostiene inoltre la P. di
avere sempre cercato e di cercare tuttora un lavoro, ma senza risultati, attesa “la profonda crisi
economica mondiale” e la propria non più giovane età; il Tribunale avrebbe inoltre omesso di
valutare che, rispetto all’epoca della separazione, le sue condizioni economiche non erano mutate,
ed avrebbe inoltre trascurato la costante giurisprudenza secondo la quale l’assegno di mantenimento
deve essere determinato in modo da assicurare al beneficiario un tenore di vita analogo a quello
goduto in costanza di matrimonio.
Con la memoria conclusionale, l’appellante invoca poi la sopravvenuta pronuncia della Cassazione a
sez. unite n. 18287 dell’11/07/2018, che a suo dire avrebbe confermato il diritto all’assegno
divorzile, al fine del ripristino del tenore di vita fruito nel corso del matrimonio.
L’appello è infondato.
Non è in contestazione la sperequazione economica fra gli ex coniugi: il B. (dell’attuale età di circa
80 anni) fruisce di un reddito da pensione, che era pari nell’anno 2012 a 1.269,00 Euro mensili al
netto di imposta, ed è titolare della casa di abitazione e di altri tre immobili che ne costituiscono
pertinenze -cfr. dichiarazioni dei redditi allegate al fascicolo di parte di primo grado dell’appellato-.
La P. (attualmente 53enne) non risulta svolgere attività lavorativa, né consta che la stessa sia stata
occupata nel corso del matrimonio, pur rilevandosi dagli atti che la donna, originaria della
Repubblica Dominicana, prima delle nozze con il B. era stata assunta dallo stesso quale badante, e
che i due decisero di sposarsi anche per consentire alla P. di fare ricorso al ricongiungimento
familiare per fare entrare in Italia i propri figli minori, avuti da precedente relazione: tanto risulta
dalle dichiarazioni delle stesse parti, riportate nella relazione sul nucleo familiare redatta dal
Servizio sociale dell’ambito territoriale n.1 di Campobasso ed indirizzata alla Procura della
Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Campobasso, la quale seguiva la situazione dei
figli minori della donna -anch’essa agli atti del fascicolo di primo grado dell’appellato-.
A parte tali elementi evincibili dagli atti, come rilevato dal Tribunale, non risulta in alcun modo
dimostrato che la P. (la quale ha dichiarato al Presidente del Tribunale di essere in possesso della
licenza media inferiore) non sia in condizioni di svolgere attività lavorativa per ragioni di salute o di
altra natura, né che la stessa si sia concretamente attivata per trovare un’occupazione -eventualmente
avvalendosi della sua precedente esperienza-, essendosi la stessa limitata a riferirsi alle difficoltà di
reperire un lavoro anche in considerazione dell’età raggiunta, in sé tuttavia non ostativa a qualunque
possibilità di impiego; contrariamente a quanto asserito dall’appellante, il primo giudice ha peraltro
condivisibilmente ritenuto che l’impossibilità per la P. di reperire un’occupazione lavorativa non
fosse desumibile dalla circostanza dell’ammissione della stessa al patrocinio a spese dello Stato.
Ciò posto, va in primo luogo escluso che, come asserito dall’appellante, l’assegno divorzile debba
continuare ad esserle corrisposto secondo quanto concordato in sede di separazione, non essendo le
condizioni della P. mutate rispetto a quelle dell’epoca dell’omologazione dei patti di separazione:
“l’assegno di divorzio, che presuppone lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suoi
effetti civili, è infatti determinato sulla base di criteri autonomi e distinti rispetto all’assegno
spettante al coniuge separato, il quale può costituire, nei congrui casi un utile elemento di
riferimento e non già il dato cui ancorare necessariamente il riconoscimento dell’assegno di
divorzio o parametrarne la determinazione, senza possibilità di discostarsene in assenza di
eventuali mutamenti nella situazione economica dei due coniugi” (così Cass. 2004/n.17128, la quale
ha anche precisato che la tesi sostenuta dal ricorrente si sarebbe risolta “sostanzialmente, nell’ipotesi
di parità di situazione economica nei due diversi frangenti (separazione e divorzio), in
un’inammissibile regolamentazione preventiva degli effetti patrimoniali del divorzio”).
Il primo giudice ha recepito l’interpretazione fornita da Cass. 2017/n. 11504, la quale aveva inteso
superare l’orientamento della giurisprudenza di legittimità rimasto invariato per un trentennio (a
partire da Cass., sez. un., n. 11490/1990), secondo il quale il parametro di riferimento a cui ancorare
la valutazione riguardante la spettanza dell’assegno di divorzio e la sua quantificazione era costituito
dal tenore di vita, anche soltanto potenziale, goduto in costanza di matrimonio.
Cardine interpretativo della pronuncia del 2017 è il principio di autoresponsabilità economica di
ciascuno degli ex coniugi, in forza del quale il parametro da utilizzare per il giudizio di
inadeguatezza dei redditi e di impossibilità oggettiva di procurarseli è quello dell’indipendenza
economica del richiedente, da valutare sulla base di indici quali la disponibilità di redditi di
qualsiasi specie, di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari, di una casa di abitazione e la
capacità e possibilità effettive di lavoro personale.
La tesi, fatta propria dal tribunale, per cui l’assegno divorzile avrebbe una funzione esclusivamente
assistenziale deve considerarsi superata alla luce della pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema
Corte nelle more intervenuta (n. 18287 dell’11.7.2018), che tuttavia (diversamente da quanto
asserito dall’appellante in comparsa conclusionale) da un lato non ristabilisce la precedente linea
interpretativa ancorata alla valutazione del tenore di vita -che effettivamente rende possibili abusi e
rendite di posizione-, dall’altro riconosce che l’assegno divorzile ha una funzione, oltre che
assistenziale, “in pari misura compensativa e perequativa”.
L’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per
ragioni oggettive richiede l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte dell’art. 5 comma 6 della
L. n. 898 del 1970, come modificata dalla L. n. 74 del 1987, “i quali costituiscono il parametro di
cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce
della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in
considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla
formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla
durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto”.
Particolare rilievo viene dato alla necessità di valutare il contributo fornito da ciascuno dei coniugi
alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune, in quanto una valutazione basata
soltanto sull’aspetto della mancanza o insufficienza oggettiva di mezzi adeguati rischierebbe di
produrre, allo scioglimento del vincolo, effetti vantaggiosi per una sola parte, fermo restando che
“la funzione equilibratrice dell’assegno … non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita
endoconiugale ma soltanto al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge
economicamente più debole alla realizzazione della situazione comparativa attuale”.
In forza dell’insegnamento delle Sezioni Unite -cfr. nello stesso senso Cass. sez. I, ord., 23/01/2019-
vanno quindi presi in considerazione tutti gli elementi indicati nella prima parte dell’art. 5 comma 6
della L. n. 898 del 1970, anche ai fini della valutazione sulla spettanza dell’assegno, con particolare
attenzione al contributo fornito dalla P. alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello
comune e in rapporto alla durata del matrimonio.
Ciò posto, non può trascurarsi che la convivenza matrimoniale fra i coniugi -in regime di
separazione dei beni-, dalla quale non sono nati figli, è durata circa cinque anni e mezzo (dal 7
settembre 2005 all’omologa della separazione consensuale del 7 aprile 2011), periodo di tempo non
particolarmente lungo, durante il quale l’appellante non risulta avere offerto un contributo effettivo
alla formazione del patrimonio del coniuge, all’epoca del matrimonio già titolare della casa di
abitazione ed avente diritto alla pensione di anzianità, come si evince dalla documentazione in atti.
Non vi sono dunque elementi per concludere che il mancato svolgimento di attività lavorativa
durante il matrimonio abbia avvantaggiato in maniera significativa il B., atteso che il risparmio di
spesa conseguente allo svolgimento delle attività casalinghe da parte della donna è stato quanto
meno compensato da quanto fruito dalla P. per la disponibilità dell’abitazione e per il sostegno
economico del coniuge, esteso peraltro ai due figli minori della donna che hanno coabitato con la
coppia.
La sentenza impugnata va quindi confermata.
5. — Non può prendersi in esame la richiesta dell’appellato di liquidazione delle spese di entrambi i
gradi del giudizio, in mancanza di proposizione di specifico ed autonomo motivo di appello
incidentale in ordine alla compensazione disposta dal Tribunale: il giudice d’appello che rigetti
l’impugnazione e confermi la sentenza di primo grado non può infatti riformare la statuizione sulle
spese in essa contenuta senza incorrere nel vizio di ultrapetizione (Cass. 2008/n.15483).
Per quanto attiene alle spese processuali del presente grado, pur essendovi la soccombenza
dell’appellante si ravvisa una delle ipotesi previste dall’art. 92 comma 2 c.p.c. che inducono a
dichiararne la compensazione fra le parti per la metà con condanna dell’appellante a rimborsarle per
la quota residua all’appellato, come liquidata in dispositivo in base al D.M. n. 55 del 014 per fasi di
studio, introduttiva e di trattazione (non essendovi stato deposito di memorie conclusionali),
parametri medi per controversia di valore indeterminabile di complessità bassa: la pronuncia delle
Sezioni Unite, sopravvenuta nel corso del presente grado, integra infatti un “mutamento della
giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”, che ha comportato la necessità della valutazione
della fattispecie sotto un profilo parzialmente differente rispetto all’oggetto della decisione
impugnata.
La pronuncia di inammissibilità e rigetto del gravame, a norma dell’art. 13, c. 1-quater del D.P.R. n.
115 del 2002, applicabile ai procedimenti iniziati successivamente al 31 gennaio 2013, implica che
l’appellante sia tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per la stessa impugnazione, a norma del comma 1-bis; la carenza di discrezionalità al
riguardo in capo al giudice che definisce l’impugnazione impone infatti al Collegio di dare atto del
presupposto per il suddetto versamento (cfr. Cass. 2014/n.5955), a prescindere dalla mancanza di
condanna della P. al pagamento di spese processuali.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Campobasso – Collegio civile,
pronunciando definitivamente sull’appello proposto da M.M.P., con citazione notificata il 9/02/2018
e depositata con la nota di iscrizione a ruolo in data 14/02/2018, avverso la sentenza definitiva
n.483/2017 emessa dal Tribunale di Campobasso in composizione collegiale, nei confronti di G.B.,
con l’intervento necessario del Procuratore Generale, così provvede:
1. dichiara l’appello inammissibile quanto ai primi due motivi e lo rigetta per il resto;
2. condanna l’appellante a rimborsare all’appellato la metà delle spese del presente grado di
giudizio, che liquida per tale quota in Euro 3.105,00 per compensi al difensore, oltre rimborso
forfettario in ragione del 15%, Iva e Cpa come per legge, dichiarando compensata fra le parti la
quota residua;
3. dichiara l’appellante tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato,
pari a quello dovuto per l’impugnazione.
Così deciso in Campobasso, nella camera di consiglio del 20 marzo 2019.
Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2019.

Per configurarsi il reato di violazione della privacy occorre provare il danno, non essendo sufficiente la produzione, in giudizio, dei dati sensibili a fini difensivi

Cass. pen. Sez. III, 29 maggio 2019, n. 23808
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.C., nato a (OMISSIS);avverso la sentenza del 20/04/2018 della CORTE APPELLO di FIRENZE;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. LUCA RAMACCI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. ROMANO GIULIO che conclude per il rigetto del ricorso.
udito il difensore (avv. Tofi Gabriele e sost. proc. avv. Bertolani Diego);
Il difensore di parte civile si riporta ai motivi di ricorso.
Il difensore dell’imputato chiede il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte di Appello di Firenze, con sentenza del 20 aprile 2018 ha riformato la decisione del Tribunale di Arezzo in data 26 febbraio 2014, appellata da A.P., assolvendolo dal delitto di cui alD.Lgs. n. 196 del 2003,art.167, contestatogli per avere utilizzato dati personali, concernenti lo stato di salute, senza il consenso di A.C. (in (OMISSIS)).
Avverso tale pronuncia A.C. propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensidell’art. 173 disp. att. c.p.p..
2. Con un unico motivo di ricorso, premessa una ricostruzione della vicenda storica e processuale, deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, evidenziando che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la diffusione della documentazione nell’ambito di un procedimento civile, senza il consenso dell’avente diritto alla riservatezza, di dati sensibili, avrebbe integrato il necessario presupposto del nocumento della persona offesa, determinando un danno di natura non patrimoniale conseguente alla diffusione di dati afferenti alla sfera intima, nonché un danno patrimoniale, per avere indotto il convenuto opposto ad addivenire ad una transazione al fine di evitare la inevitabile soccombenza processuale.
Aggiunge che la diffusione di dati sensibili riguardava una platea indefinita di soggetti, quali giudice, cancellieri, avvocati e praticanti avvocati ed aveva determinato l’impossibilità di reinserirsi nel mondo del lavoro.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile 2. Risulta dalla sentenza impugnata che il procedimento penale ha tratto origine da una denuncia querela proposta da A.C. contro il padre P., perché, nell’ambito di un giudizio civile relativo a crediti rivendicati dal figlio, al fine di giustificare l’infondatezza della pretesa creditoria con il profondo risentimento nutrito nei confronti dei genitori, produceva documentazione sanitaria relativa a grave patologia psichiatrica, ritenuta causa di tale atteggiamento.
La Corte territoriale, con argomentazioni giuridicamente corrette e scevre da cedimenti logici o manifeste contraddizioni ha negato che la sussistenza del reato fosse da ritenersi esclusa per avere l’imputato legittimamente esercitato il proprio diritto alla difesa nel giudizio civile, ma ha però ritenuto insussistente il necessario requisito del nocumento.
In particolare, i giudici del gravame hanno posto in evidenza come la produzione della documentazione medica fosse avvenuta esercitando il diritto di difesa senza il rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza stabiliti dalla legge, in quanto ultronea rispetto agli altri argomenti spesi per negare la sussistenza del credito, perché finalizzata a dimostrare quelle che, secondo l’imputato, sarebbero state le reali ragioni per le quali era stato promosso il giudizio civile.
Nondimeno, la Corte del merito, richiamando correttamente la giurisprudenza di legittimità, ha escluso la sussistenza del nocumento richiesto dalla legge.
3. Invero, ilD.Lgs. n. 196 del 2003,art.167, comma 2stabiliva, nella formulazione vigente all’epoca dei fatti: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 17, 20 e 21, art. 22, commi 8 e 11 e artt. 25, 26, 27 e 45, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni”.
IlD.Lgs. n. 196 del 2003è stato poi modificato dalD.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, recante “Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga ladirettiva 95/46/CE(regolamento generale sulla protezione dei dati)”.
In particolare, l’art. 167, comma 2 dispone ora: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, procedendo al trattamento dei dati personali di cui agli artt. 9 e 10 del Regolamento in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 2-sexies e 2-octies, o delle misure di garanzia di cui all’art. 2-septies ovvero operando in violazione delle misure adottate ai sensi dell’art. 2-quinquiesdecies arreca nocumento all’interessato, è punito con la reclusione da uno a tre anni”.
Il requisito del nocumento è tuttora richiesto, con l’ulteriore specificazione, rispetto al passato, che lo stesso deve essere arrecato all’interessato.
4. Ciò posto, occorre ricordare che, come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, nel reato di trattamento illecito di dati personali previsto dall’art. 167 in esame il nocumento è costituito dal pregiudizio, anche di natura non patrimoniale, subito dalla persona cui si riferiscono i dati quale conseguenza dell’illecito trattamento (Sez. 3, n. 29549 del 7/2/2017, F, Rv. 270458, citata in sentenza).
Nella citata pronuncia viene ricordato come, in un primo tempo, la giurisprudenza abbia qualificato il verificarsi del nocumento quale condizione oggettiva di punibilità “intrinseca”, che attualizza l’offesa dell’interesse tutelato già realizzata dal fatto tipico (Sez. 3, n. 7504 del 16/7/2013, dep. (2014), Pontillo, Rv. 259261; Sez. 5, n. 44940 del 28/9/2011, C. e altro, Rv. 251448; Sez. 3, n. 16145 del 5/3/2008, P.C. in proc. Amorosi e altro, Rv. 239898; Sez. 3, n. 28680 del 26/3/2004, Modena, Rv. 229465), il quale costituirebbe una fattispecie di pericolo concreto, integrata dalla condotta di trattamento assistita dal dolo specifico, punibile solo a condizione del verificarsi del predetto accadimento, mentre, più recentemente, il nocumento è stato ritenuto un elemento costitutivo del reato, avuto riguardo alla sua omogeneità rispetto all’interesse leso e alla sua diretta derivazione causale dalla condotta tipica, con conseguente necessità che esso sia previsto e voluto o, comunque, accettato dall’agente come conseguenza della propria azione, indipendentemente dal fatto che costituisca o si identifichi con il fine dell’azione stessa (Sez. 3, n. 40103 del 5/2/2015, Ciulla, Rv. 264798).
La medesima sentenza evidenzia anche che, indipendentemente dalla sua qualificazione, il nocumento deve essere inteso come un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura, patrimoniale o non patrimoniale, subito dalla persona alla quale si riferiscono i dati o le informazioni protetti (Sez. 3, n. 30134 del 28/5/2004, Barone, Rv. 229472; Sez. 3, n. 23798 del 24/5/2012, Casalini e altro, in motivazione; Sez. 5, n. 44940 del 28/9/2011, C. e altro, in motivazione) o anche da terzi quale conseguenza dell’illecito trattamento (Sez. 3, n. 7504 del 16/7/2013, (dep. 2014), Pontillo, Rv. 259261; Sez. 3, n. 17215 del 17/2/2011, L., Rv. 249991).
5. Si tratta di principi che il Collegio condivide e che la Corte territoriale ha correttamente applicato, escludendo la sussistenza dei nocumento sulla base del fatto che non risulta essere stata dimostrata e neppure prospettata la diffusione dei dati personali al di fuori della ristretta cerchia di soggetti che ne erano venuti a conoscenza per ragioni professionali, restando a loro volta assoggettati al dovere di riservatezza, come riscontrabile anche dal fatto che il primo giudice non aveva offerto alcuna motivazione sul punto, rimettendo la questione del risarcimento del danno al giudice civile in separato giudizio, fissando una provvisionale senza alcuna indicazione circa le ragioni sulla sussistenza del presunto pregiudizio.
Va inoltre considerato che, proprio con riferimento al giudizio civile, sebbene con riferimento a fattispecie diversa, questa Corte ha avuto modo di precisare che la produzione di un CD contenente foto e filmati ritraenti altre persone non costituisce una forma di “diffusione”, bensì di “comunicazione” di dati destinata a circolare e ad essere conosciuta tra persone determinate. (Sez. 3, n. 35553 del 11/5/2017, P.C. in proc. Fumagalli, Rv. 271240).
Quanto alla facoltà di difendersi in giudizio utilizzando gli altrui dati personali, la Corte di appello ha giustamente ricordato che, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, essa va esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza stabiliti dalla legge, sicché la legittimità della produzione di documenti contenenti tali dati va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato, cui va correlato il grado di riservatezza, e le esigenze di difesa (Sez. 3, n. 35296 del 20/4/2011, Cozzolino e altri, Rv. 250852 con richiami ai prec.) ponendo in luce, nella motivazione, l’irrilevanza del fatto che gli addetti all’Ufficio giudiziario interessato siano potuti venire a conoscenza del contenuto del ricorso, essendo gli stessi tenuti al relativo segreto.
Del tutto correttamente, dunque, i giudici del gravame hanno posto in rilievo come il particolare contesto entro il quale era avvenuta la produzione del documento recante dati sensibili era tale da far ritenere, in assenza di dati fattuali significativi di segno contrario, che le informazioni in esso contenute sarebbero restate confinate nel ristretto ambito dei soggetti coinvolti, per motivi professionali, nel procedimento civile.
6. In conclusione, il necessario requisito del nocumento richiesto per la configurazione del reato dalD.Lgs. n. 196 del 2003,art.167non può ritenersi sussistente, in caso di produzione in un giudizio civile di documenti contenenti dati personali, ancorché effettuata al di fuori dei limiti consentiti per il corretto esercizio del diritto di difesa, in assenza di elementi fattuali oggettivamente indicativi di una effettiva lesione dell’interesse protetto, trattandosi di informazioni la cui cognizione è normalmente riservata e circoscritta ai soli soggetti professionalmente coinvolti nella vicenda processuale, sui quali incombe un obbligo di riservatezza.
7. Ciò posto, deve rilevarsi che il ricorrente, senza confrontarsi appieno con le argomentazioni sviluppate dai giudici del gravame, oppone ad esse generiche ed apodittiche considerazioni, riferendosi, genericamente, ad un non meglio specificato danno non patrimoniale conseguente all’aver “visto diffuso dati afferenti la sfera più intima della persona”, nonché ad un danno patrimoniale derivante dall’aver indotto la controparte ad una “transazione, al 50%, della vertenza giudiziaria per evitare la più che probabile, a tal punto, soccombenza processuale”, che non si comprende come possa essere logicamente correlato, in mancanza di ulteriori specificazioni da parte del ricorrente, così come la dedotta impossibilità di reinserimento nel mondo del lavoro all’esito del giudizio civile, alla produzione di documentazione medica di natura psichiatrica destinata ai soli soggetti coinvolti nel procedimento civile.
La infondatezza del motivo di ricorso è dunque di macroscopica evidenza.
8. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di Euro 2.000,00
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 29 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2019