La scuola è tenuta al risarcimento del danno per non aver assegnato ore di sostegno aggiuntive in favore del minore autistico.

TAR Napoli, sez. IV, sentenza (ud. 9 ottobre 2024) 13 novembre 2024, n. 6188
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
Premesso che i ricorrenti, in qualità di genitori dell’alunno minore -OMISSIS-,
affetto da disturbo dello spettro autistico, impugnano i provvedimenti
specificati in epigrafe, con i quali, nonostante le sue gravi patologie, l’Istituto
scolastico Scuola secondaria di I grado “B.” di S. M. la C., ha disposto che egli
sia è affiancato da un insegnante di sostegno per sole 18 ore settimanali e non
per l’intero orario scolastico (30 ore settimanali), malgrado i deficit cognitivi e
neurologici;
in particolare gravano: a) il Piano Educativo Individualizzato per l’anno
scolastico 2023/2024 del 23 ottobre 2023; b) il verbale della riunione G.L.O.
(operativo) del 23 ottobre 2023; c) la -OMISSIS-; d) la -OMISSIS- avente ad
oggetto: “Assegnazione ore di sostegno alunno d.a. -OMISSIS- nato a P. (NA) il
(omissis)”.
Lamentano che nonostante i loro solleciti, supportati da certificazione medica
attestante la gravità delle patologie sofferte dall’alunno e la continua richiesta
di ore suppletive di insegnante di sostegno, l’Istituto Scolastico resistente, in
data 15 settembre 2022, con i provvedimenti impugnati, comunicava ai
genitori che all’alunno: “…sono state attribuite n. 18 ore di sostegno su posto
EH su un tempo di scuola di 30 ore settimanali, distribuite dal Lunedì al
Venerdì”;
i deducenti agiscono inoltre per la condanna dei convenuti resistenti al
risarcimento di tutti i danni patiti e patendi dal minore per effetto
dell’assegnazione di sole 18 ore di sostegno – che ritengono insufficienti a
garantire la sua piena integrazione scolastica – nella misura che sarà
quantificata in corso di causa o nella misura che il Tribunale vorrà quantificare
equitativamente;
Rammentato che la Sezione con Ordinanza n. 142 del 16 gennaio 2024
accoglieva la domanda cautelare motivando nei seguenti termini la delibata
sussistenza del fumus boni iuris nel gravame e, versandosi in materia di
giurisdizione esclusiva, impartendo il conseguente dettame di adozione degli
atti più idonei a tutelare interinalmente il diritto del minore per cui è causa:
“RITENUTO, all’esame sommario proprio della cognizione in sede cautelare, che
il ricorso sia provvisto del prescritto fumus boni juris, avuto riguardo alla
patologia sofferta dal minore (e alla riconosciuta gravità della stessa: art. 3,
co.3, l. n. 104/1992 con altresì necessità di accompagnamento) sul quale i
ricorrenti esercitano la potestà genitoriale e che sussista il periculum in mora,
in ragione dell’avvio dell’anno scolastico;
RILEVATO infatti che può annettersi natura di sufficiente prova della reclamata
necessità di sostegno scolastico ai verbali di accertamento dell’handicap grave
(all.ti.8 e 9 del ricorso) attestanti altresì il riconoscimento dell’indennità di
accompagnamento, nonché al verbale del GLHO del 23 ottobre 2023 (all. 6
produz. cit.) nel quale si dichiara la “gravità del caso” e sancisce la correlata
“necessità di 30 ore” di sostegno scolastico al fine di fronteggiare le esigenze di
integrazione scolastica ed inclusione del minore per cui è causa;
RITENUTO, pertanto, che l’istituto scolastico intimato debba provvedere,
conformando all’uopo sia il gravato Pei che il provvedimento di assegnazione
delle ore del dirigente scolastico impugnati:
-ad assegnare al predetto minore un insegnante di sostegno per il numero di
ore necessarie a coprire il monte ore di frequenza settimanale pari a 30
(trenta) in considerazione della situazione di handicap grave del medesimo,
con copertura integrale dell’orario, non essendo sufficientemente motivata
l’assegnazione in un numero di ore inferiore (nella specie, 18) delle ore da
poter assegnare al minore per cui è causa;
RITENUTO di dover rinviare il giudizio alla camera di consiglio del 5 giugno
2024 al fine di verificare l’ottemperanza al presente provvedimento cautelare,
sollecitando l’amministrazione a depositare nota sull’effettivo adempimento
almeno 10 giorni prima della camera di consiglio così fissata;
RITENUTO di riservare la regolazione delle spese per la fase cautelare all’esito
della predetta camera di consiglio”;
Rammentato altresì che con successiva ordinanza collegiale n. 4766 del 30
agosto 2024, la Sezione, stante il mancato adempimento dell’amministrazione
al disposto deposito di nota circa l’effettivo adempimento all’ordinanza
cautelare n. 142/2024, disponeva l’acquisizione dall’Amministrazione di
documentati chiarimenti sul punto, così statuendo:
“Premesso che con Ordinanza 16 gennaio 2024, n. 142 la Sezione accoglieva la
domanda cautelare spiegata dai ricorrenti disponendo che “l’istituto scolastico
intimato debba provvedere, conformando all’uopo sia il gravato Pei che il
provvedimento di assegnazione delle ore del dirigente scolastico impugnati:
-ad assegnare al predetto minore un insegnante di sostegno per il numero di
ore necessarie a coprire il monte ore di frequenza settimanale pari a 30
(trenta) in considerazione della situazione di handicap grave del medesimo,
con copertura integrale dell’orario, non essendo sufficientemente motivata
l’assegnazione in un numero di ore inferiore (nella specie, 18) delle ore da
poter assegnare al minore per cui è causa”, contestualmente rinviando il
giudizio alla Camera di consiglio del 5 giugno 2024 al fine di verificare
l’ottemperanza al riportato provvedimento cautelare e sollecitando
l’amministrazione a depositare nota sull’effettivo adempimento almeno 10
giorni prima della Camera di consiglio così fissata;
Rilevato che in vista della alla Camera di consiglio del 5 giugno 2024
l’Amministrazione scolastica onerata ha disatteso siffatta sollecitazione, non
depositando la richiesta nota in ordine all’effettivo adempimento all’Ordinanza
cautelare n. 142/2024 e alla relativa assegnazione dell’insegnante di sostegno
per l’intero monte ore (30) di frequenza scolastica settimanale del minore per
cui è causa, né lumi al riguardo sono stati forniti da parte ricorrente, che ha
presentato richiesta di passaggio in decisione non intervenendo in Udienza;
Rilevato, peraltro, che dalla memoria prodotta dai ricorrenti in data 4 giugno
2024 si desumono elementi assertivi circa l’intervenuto pressoché integrale
adempimento da parte dell’Amministrazione, all’incremento delle ore di
sostegno scolastico disposto dalla Sezione, affermandosi in tale memoria
(pag.3) che l’Istituto resistente “aumentava di sole poche ore l’insegnamento
di sostegno al minore, passando da 18 a 27 ore”, come emergerebbe da una
non meglio precisata memoria che sarebbe stata prodotta dalla resistente;
Ritenuto, pertanto, che occorre acquisire documentati chiarimenti da parte
dell’Amministrazione scolastica, in ordine all’effettivo (ancorché, in ipotesi, non
integrale) adempimento all’Ordinanza cautelare n. 142/2024, chiarimenti da
produrre per il tramite dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, entro giorni 30
(trenta) dalla comunicazione in via amministrativa, ovvero dalla notifica a cura
di parte ricorrente, ove anteriore, della presente Ordinanza;
Ritenuto di dover rinviare l’ulteriore trattazione della domanda cautelare alla
Camera di consiglio di cui al dispositivo” (ossia all’odierna camera di consiglio
del 9 ottobre 2024);
Rilevato che l’Amministrazione non ha ottemperato al disposto incombente,
non producendo i richiesti chiarimenti in ordine all’effettivo (ancorché, in
ipotesi, non integrale) adempimento all’Ordinanza cautelare n. 142/2024;
Atteso che il procuratore costituito di parte ricorrente ha prodotto in data 3
ottobre 2024 memoria, poi nuovamente depositata il 5 ottobre 2024, con la
quale ha rappresentato che “al fine di fugare ogni dubbio, si rappresenta che
l’Istituto Scolastico resistente, sin dalla ordinanza interlocutoria n. 142/2024
provvedeva ad assegnare all’alunno –
OMISSIS- le ore di sostegno necessarie passando da 18 alla cattedra
completa”, ed ha conseguentemente dichiarato la cessazione della materia del
contendere, instando, peraltro, per la pronuncia di condanna alle spese,
nonché per il risarcimento del danno.
Il Collegio, ravvisati i presupposti per la definizione del giudizio con sentenza in
forma semplificata ex art. 60 c.p.a., prende atto di quanto rappresentato da
parte ricorrente e alla luce dell’istanza formulata, opina di dover dichiarare la
cessazione della materia del contendere ex art. 34, co.5, c.p.a., risultando la
pretesa di parte ricorrente integralmente soddisfatta nel corso del giudizio;
Rammentato che il provvedimento impugnato del dirigente, nonché il parimenti
gravato P.E.I., recanti assegnazione al minore -OMISSIS-, di un numero
inadeguato di ore di sostegno e pari a sole 18 ore risultano carenti di
motivazione rapportata alla gravità della patologia sofferta dal medesimo e alla
necessità del correlato numero di ore di sostegno, essendo ancorati alla sola
considerazione dei vincoli imposti all’organico di diritto e dell’eventuale
assegnazione di posti in deroga;
Considerato, conseguentemente, che la proposizione del ricorso ha all’evidenza
avuto efficacia causale sulla nuova manifestazione di volontà provvedimentale
dell’Amministrazione, attuata mediante l’assegnazione al minore per cui è
causa, delle ore di sostegno nel numero richiesto dai ricorrenti mediante il
gravame in trattazione e disposto con la riportata ordinanza cautelare n.
42/2024;
Ritenuto, pertanto, che possa essere dichiarata la soccombenza virtuale
dell’Amministrazione, con la conseguente condanna al pagamento in favore
della parte ricorrente delle spese di lite, con attribuzione ai procuratori
dichiaratisi antistatari;
Ritenuto che debba essere accolta anche la domanda di risarcimento del danno
patito dai ricorrenti per l’illegittima privazione del minore dell’integralità del
sostegno scolastico, al riguardo evidenziandosi che la colpa
dell’Amministrazione discende dal patente contrasto degli impugnati
provvedimenti, con l’evidente necessità di integrale sostegno scolastico,
dovendosi annettere rilevo e valenza probatoria e tali fini , come del resto già
posto in luce con l’Ordinanza cautelare n. 142/2016, “ai verbali di
accertamento dell’handicap grave (all.ti.8 e 9 del ricorso) attestanti altresì il
riconoscimento dell’indennità di accompagnamento, nonché al verbale del
GLHO del 23 ottobre 2023 (all. 6 produz. cit.) nel quale si dichiara la “gravità
del caso” e sancisce la correlata “necessità di 30 ore” di sostegno scolastico al
fine di fronteggiare le esigenze di integrazione scolastica ed inclusione del
minore per cui è causa”;
Rammentato che in punto di responsabilità della P.A. da provvedimento
illegittimo nell’azione ex art. 30, c.p.a., “Il privato, che assume di essere stato
danneggiato da un provvedimento illegittimo dell’amministrazione pubblica,
non è tenuto ad un particolare impegno per dimostrare la colpa della stessa,
potendosi limitarsi ad allegare l’errore compiuto e la illegittimità dell’atto, oltre
alla mancanza di diligenza” (T.A.R. Campania – Napoli, sez. I, 17/04/2023,
n.2339);
Ritenuto, per converso, che non può l’Amministrazione invocare a discolpa, nel
paradigma della responsabilità ex lege aquilia de damno, che l’illegittimità
provvedimentale si sia prodotta “non iure” per effetto di incertezza normativa,
difficoltà e dubbi interpretativi, oscillazioni giurisprudenziali ovvero oscurità
della fattispecie in punto di fatto e documentale, conformemente a nota
giurisprudenza;
Rilevato, quanto al nesso causale, che secondo l’orientamento
giurisprudenziale consolidato della Sezione (ex plurimis, cfr. TAR Campania –
Napoli, Sez. IV, n. 3660/2024, n. 3534/2024 e n. 2367/2024), la seppur
temporanea sottrazione o diminuzione delle ore di sostegno, rispetto al monte
ore dovuto in virtù della patologia riscontrata nel minore e debitamente
certificata, provoca inevitabilmente danni allo sviluppo della personalità del
minore stesso nonché alla famiglia;
Segnalato che in via equitativa, quanto alla quantificazione, la Sezione è
orientata a riconoscere forfettariamente l’importo di 1000,00 € per ogni mese
di privazione dell’integrale monte ore di sostegno necessarie al minore, a far
tempo dalla data di adozione del provvedimento del dirigente scolastico che ha
assegnato il sostegno in misura inferiore, e fino alla data di integrazione del
monte ore;
Quanto al risarcimento del danno e, in particolare alla quantificazione del
relativo ammontare in virtù del periodo di tempo durante il quale il minore è
stato privato dell’integralità del sostegno scolastico, la difesa dei ricorrenti,
sulla base della giurisprudenza della Sezione, correttamente citata, che
riconosce l’importo di € 1000,00 per ogni mese di siffatta privazione, conclude
sostenendo che “ la quantificazione dei danni patiti dal minore è calcolabile in €
8.000,00 (ottenuto moltiplicano €1000,00 per 8 mensilità”, senza peraltro
precisare gli estremi temporali di riferimento di detto calcolo;
Ritiene infatti il Collegio di non poter concordare con tale quantificazione,
atteso che nel mentre nel caso di specie risulta certo il dies a quo di
produzione del lamentato pregiudizio, individuabile, come affermano i
ricorrenti, nella data di approvazione del P.E.I. (23 ottobre 2023) che
illegittimamente non attribuiva al minore la totalità delle ore di sostegno
(limitandosi a 18 ore), ma già auspicava la necessità di una copertura di
sostegno pari a 30 ore, viceversa non è certo il dies ad quem, da farsi
coincidere con il momento dell’attribuzione al medesimo delle ore mancanti,
ossia con l’integrazione del monte ore, pari nella specie a 30;
Rilevato che tale carenza è dipesa della mancata produzione da parte
dell’Amministrazione del provvedimento di assegnazione di tali ore aggiuntive,
nonché dal non avere i ricorrenti circostanziato la data dell’avvenuta
integrazione, peraltro in ciò agevolati dal principio della vicinanza alle fonti di
prova.
Giova rammentare al riguardo, in punto di diritto, che nel giudizio risarcitorio
non opera il principio dispositivo con metodo acquisitivo, fondato
sull’allegazione da parte del danneggiato di elementi di prova cui possa poi
sopperire il giudice acquisendo in via istruttoria elementi di certezza non
allegati, ma vige pienamente il principio dispositivo, che onera l’attore di
fornire piena prova degli elementi della fattispecie risarcitoria. Si è infatti anche
di recente, ribadito che “Nell’azione di responsabilità per danni il principio
dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo
proprio dell’azione di annullamento (..)” (Consiglio di Stato, Sez.VII ,
15ovembre 2023 , n. 9796;nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. IV ,
11/09/2023, n. 8259; T.A.R. Lazio – Roma, sez. II, 18 maggio 2023, n. 8451).
Con la precisazione, peraltro, che nel caso, come quello di specie, di
quantificazione equitativa del danno, il principio dispositivo e il correlato onere
della prova in capo al danneggiato declina sul versante dell’acclaramento della
durata del pregiudizio patito.
Osservato, invero, che per traguardare il richiesto importo di 8.000,00 Euro,
occorrerebbe poter affermare e provare che l’integrazione del sostegno sia
avvenuta dopo 8 mesi dal 23 ottobre 2023, ossia il 23 giugno 2024, il che non
è affatto documentato; e, del resto, collide con la stessa affermazione della
memoria dei ricorrenti sopra riportata, secondo cui “al fine di fugare ogni
dubbio, si rappresenta che l’Istituto Scolastico resistente, sin dalla ordinanza
interlocutoria n. 142/2024 provvedeva ad assegnare all’alunno -OMISSIS- le
ore di sostegno necessarie passando da 18 alla cattedra completa”; senonché
l’ordinanza cautelare n. 142/2024 è stata pubblicata il 16 gennaio 2024, ragion
per cui, se, per ammissione degli stessi ricorrenti, l’Istituto resistente ha
integrato le ore di sostegno fin dalla citata ordinanza, ne consegue che il
pregiudizio è durato all’incirca tre mesi.
Ritenuto quindi che l’Amministrazione, che in accoglimento della domanda
attorea viene condannata al risarcimento del danno per l’illegittima privazione
della totalità del sostegno scolastico ai danni del minore -OMISSIS-, debba
altresì essere onerata (criterio di determinazione del quantum dettato ai sensi
dell’art. 30, co.4, c.p.a.), di calcolare l’importo di 1000,00 € da riconoscere alla
parte ricorrente per ogni mese, con decorrenza dal 23 ottobre 2023 – data di
adozione del P.E.I. 2023/2024 – e fino alla data dell’effettiva integrazione del
monte ore di sostegno (non sono infatti emersi elementi atti ad inferire che
detta integrazione sia avvenuta solo quando il procuratore della ricorrente l’ha
dichiarata, ossia a con la suindicata memoria del 5 ottobre 2024, e non
antecedentemente);
Considerato, per converso, che avendo i ricorrenti, con la più volte citata
memoria del 5 ottobre 20234, affermato che l’Istituto Scolastico resistente
provvedeva ad assegnare all’alunno -OMISSIS- le ore di sostegno necessarie
passando da 18 alla cattedra completa, sin dalla ordinanza interlocutoria n.
142/2024, ed essendo stata la stessa comunicata all’Amministrazione dalla

Segreteria della Sezione in data 16 gennaio 2024 (come risulta dal Sistema
informativo della G.A.), emerge un elemento di certezza, ovverosia che
l’integrazione delle ore di sostegno è avvenuta non prima di mesi tre dal 23
ottobre 203; ragion per cui il Collegio può, intanto, riconoscere ai ricorrenti
l’importo di € 3.000,00 a titolo di danno non patrimoniale ex art. 2059, c.c.
sub specie di danno esistenziale sofferto dal minore; fermo restando che la
parte residua di risarcimento del danno, rapportata all’ulteriore periodo di
protrazione della illegittima privazione dell’integralità del sostegno, sarà
quantificata dall’Istituto scolastico resistente, in contraddittorio con i ricorrenti
(entrambe le parti, in realtà, sono in grado di pervenire agevolmente ad una
data certa, trattandosi di un dato di comune conoscenza);
Ritenuto, quindi, che l’Amministrazione, in accoglimento della domanda attorea
debba essere condannata, sulla scorta di quanto sopra osservato, al
risarcimento del danno per l’illegittima privazione della totalità del sostegno
scolastico ai danni del minore -OMISSIS-, a corrispondere ai ricorrenti
l’importo di € 3.000,00 (tremila), salvo l’eventuale maggior danno, calcolato,
ex art. 30, co.4, c.p.a., in applicazione del criterio dianzi illustrato; l’importo
complessivo così quantificato dovrà essere maggiorato di interessi legali e
rivalutazione maturandi dalla data di pubblicazione della presente sentenza
all’effettivo soddisfo
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale la Campania (Sezione Quarta),
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara
cessata la materia del contendere.
Condanna l’Amministrazione scolastica resistente al risarcimento del danno in
favore dei ricorrenti, liquidato in € 3.000,00 (tremila), fatto salvo l’eventuale
maggior danno calcolato, ex art. 30, co.4, c.p.a., in applicazione del criterio di
cui in parte motiva, maggiorato di interessi legali e rivalutazione maturandi
dalla data di pubblicazione della presente sentenza all’effettivo soddisfo.
Condanna l’Amministrazione scolastica resistente a corrispondere ai ricorrenti
le spese di lite, che liquida in Euro 1500,00 (millecinquecento) oltre accessori
di legge, con attribuzione al procuratore dichiaratosi antistatario.
Ordina che la presente Sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui agli articoli 6, paragrafo 1, lettera
f), e 9, paragrafi 2 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento
europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, all’articolo 52, commi 1, 2 e 5, e
all’articolo 2-septies, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come
modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla
Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente
provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato
idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.

La disparità reddituale determinata da impossibilità oggettiva di ricollocarsi nel mondo del lavoro in conseguenza delle scelte concordate in costanza di matrimonio determina il riconoscimento dell’assegno divorzile.

Cass. civ., Sez. I, Ord., 31/12/2024, n. 35225
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Dott. REGGIANI Eleonora – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 928/2024 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA PANAMA 52/54, presso lo studio
dell’avvocato CECINELLI GUIDO (Omissis) che lo rappresenta e difende per
procura speciale allegata al ricorso
Ricorrente
Contro
B.B., elettivamente domiciliata in ROMA VIGLIENA 10, presso lo studio
dell’avvocato MALARA ALESSANDRO (Omissis) che la rappresenta e difende per
procura speciale allegata al controricorso;
controricorrente
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di PERUGIA n. 799/2023
depositata il 09/11/2023;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/12/2024 dal
Consigliere CLOTILDE PARISE.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 104/2023 il Tribunale di Spoleto, stante l’intervenuta
dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio tra B.B. e A.A.
con la sentenza n. 654/2020 dello stesso Tribunale, rigettava la domanda
proposta della B.B. avente ad oggetto il riconoscimento dell’assegno divorzile
nell’importo pari ad Euro 700,00, da rivalutare annualmente secondo l’indice
ISTAT, o, comunque, la somma maggiore o minore ritenuta di giustizia, e
compensava le spese di lite tra le parti.
2. La Corte d’Appello di Perugia, con sentenza 799/2023 pubblicata il
09/11/2023, accoglieva l’appello proposto avverso la citata sentenza da B.B. e
poneva a carico di A.A. il pagamento in favore dell’appellante, a titolo di
assegno divorzile, dell’importo di Euro 300,00 mensili, rivalutabili annualmente
secondo gli indici ISTAT, a decorrere dalla domanda, compensando le spese di
lite tra le parti.
3. Avverso la suddetta sentenza, A.A. propone ricorso per cassazione, affidato
a quattro motivi, nei confronti di B.B., che resiste con controricorso.
4. Il ricorso è stato fissato per la trattazione in camera di consiglio. Il ricorrente
ha depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1. I motivi di ricorso sono così rubricati: i) “Violazione e falsa applicazione
dell’art. 342 , comma 1 c.p.c., – mancata indicazione delle parti della sentenza
che si intendeva impugnare – mancata indicazione delle modifiche da apportare
alla ricostruzione dei fatti compiuti dal giudice di primo grado – violazione e
falsa applicazione dell’art. 163 c.p.c. – mancata indicazione del domicilio e del
difensore dell’appellato, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 c.p.c.”;
ii) “Violazione e/o errata interpretazione dell’art. 5 n. 6 1. 898/70 con
riferimento all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. per l’omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio già oggetto di discussione fra le parti”; iii) “Della
violazione in relazione alla ritenuta mancanza di mezzi adeguati e
all’impossibilità di poterseli procurare, con riferimento alle risultanze istruttorie

acquisite agli atti. Carenza di prova in ordine alla mancanza di mezzi adeguati –
art. 360 , comma 1, n. 5 c.p.c.” (rubricato sub 2.2.);” iv)” Violazione e falsa
applicazione dei criteri attributivi e determinativi dell’assegno divorzile indicati
nella legge n. 898/70 art. 5 n. 6 in ordine al suo riconoscimento, art. 360 ,
comma 1, n. 3 c.p.c.”
2. Il primo motivo è inammissibile.
2.1. Il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 342 ,
comma 1, c.p.c., deducendo che l’appello dell’ex moglie era inammissibile in
quanto si limitava a riportare la sintesi di quanto accaduto in primo grado e a
ricostruire i fatti di causa, dando conto in maniera acritica e non
contestualizzata delle ragioni in diritto per cui avrebbe dovuto essere riformata
l’impugnata sentenza.
2.2. Secondo l’orientamento di questa Corte che il Collegio condivide, poiché
l’appello è un mezzo di gravame con carattere devolutivo pieno, non limitato al
controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel
merito, il principio della necessaria specificità dei motivi – previsto dall’art. 342
, comma 1, c.p.c. – prescinde da qualsiasi particolare rigore di forme, essendo
sufficiente che al giudice siano esposte, anche sommariamente, le ragioni di
fatto e di diritto su cui si fonda l’impugnazione, ovvero che, in relazione al
contenuto della sentenza appellata, siano indicati, oltre ai punti e ai capi
formulati, anche, seppure in forma succinta, le ragioni per cui è chiesta la
riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi posti a base
dell’impugnazione, in modo tale che restino esattamente precisati il contenuto
e la portata delle relative censure (tra le altre Cass. 2320/2023).
2.3. Nella specie, la Corte di merito si è attenuta ai suesposti principi ed ha
rigettato motivatamente l’eccezione di inammissibilità dell’appello, rimarcando
che risultavano individuate le parti della sentenza di primo grado impugnate (in
ordine alla mancata dimostrazione da parte della B.B. della sua oggettiva
impossibilità di procurarsi i mezzi di sostentamento e in ordine alla disparità
economica tra i coniugi) e risultava chiaro il contenuto delle critiche espresse al
riguardo. Rispetto a questa puntuale argomentazione, la doglianza espressa
con il primo motivo di ricorso non si confronta.
Non risulta, inoltre, dalla sentenza ora impugnata che fosse stata eccepita
dall’odierno ricorrente anche la mancata indicazione del domicilio
dell’appellante e del nome del difensore dell’appellato costituito in primo grado,
sicché anche su questo punto la censura è generica e difetta di autosufficienza,
in quanto nel ricorso non è compiutamente precisato quando, come e dove
dette questioni fossero state poste nel giudizio d’appello.
3. Anche gli altri motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro
connessione, sono inammissibili.
3.1. Il ricorrente deduce (secondo motivo) che la Corte di merito non ha
valutato l’esistenza del diritto all’assegno divorzile in relazione
all’inadeguatezza dei mezzi a disposizione della B.B. o all’impossibilità per la
stessa di procurarseli per ragioni oggettive, operando poi un raffronto con un
tenore di vita analogo a quello condotto in costanza di matrimonio, nonché
applicando, attraverso una valutazione ponderata e bilaterale, gli altri criteri
previsti dalla L. n. 898 del 1970 , art. 5 , comma 6. Inoltre la Corte territoriale
non avrebbe considerato il più basso costo della vita in Russia e soprattutto il
fatto, ritenuto decisivo dal ricorrente, che l’ex moglie aveva abbandonato per
propria volontà il domicilio coniugale al fine di andare a convivere con un altro
uomo (tale C.C.) ed aveva cessato, sua sponte, di svolgere tutte le attività
lavorative fino a quel momento svolte (presso il Centro Commerciale di
Bracciano e quale interprete russo/italiano). Il ricorrente sostiene, inoltre, che
la B.B. aveva allegato di aver svolto, per il C.C., attività indicative della sua
capacità lavorativa, tra cui l’assistenza al padre anziano dello stesso C.C. e la
cura dell’orto, e che aveva allegato, invece, a riprova della propria oggettiva
impossibilità di procurarsi mezzi di sostentamento, documentazione reddituale
in lingua russa sprovvista di traduzione asseverata. Nella memoria illustrativa,
il ricorrente, riportando in sintesi le argomentazioni svolte con i motivi terzo e
quarto, deduce che “La Corte d’Appello ha omesso di considerare e valutare
che la Sig.ra B.B., prima ha abbandonato il domicilio coniugale in M, dove
lavorava (docc. in atti) e subito dopo stabilito la propria residenza in Spoleto
(dove è iniziato il procedimento odierno) presso l’abitazione del Sig. C.C. con il
quale intratteneva una stabile relazione (indice di stabilità della relazione). La
Sig.ra B.B. non ha provato di aver dato apporto alla realizzazione del
patrimonio familiare e personale del ricorrente il quale, all’epoca del
matrimonio, era già titolare di un rapporto di lavoro subordinato, e già era
proprietario del piccolo immobile (circa 60 mq.) in M. Ancora la Corte d’Appello
non ha considerato che la B.B. ha sempre prestato attività lavorativa (poi
abbandonata per andare a convivere con il Sig. C.C. a Spoleto) e per precisa
scelta di vita della stessa, si trasferiva in Russia dove vive con la madre.
Ancora la Corte d’Appello ha omesso di valutare e di verificare se la Sig.ra B.B.
sia priva di mezzi adeguati per vivere dignitosamente (è esperta di vendite di
articoli di abbigliamento ed è bilingue russo-italiano oltre alla lingue inglese)”.
3.2. Tutte le censure di cui trattasi sono in realtà impropriamente dirette alla
rivalutazione dei fatti e difettano pure di specificità.
Occorre premettere che la Corte di merito si è attenuta ai noti principi
affermati da questa Corte (Cass. sez. Un. 18287/2018 e successive conformi),
secondo cui “il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge,
cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e
perequativa, ai sensi dell’art. 5 , comma 6, della L. n. 898 del 1970 , richiede
l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e
dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri
equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il
parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla
quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare,
alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-
patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente
alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune,
nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata
del matrimonio ed all’età dell’avente diritto”.
Nello specifico, la Corte territoriale, dopo aver accertato il prerequisito dello
squilibrio patrimoniale e reddituale scrutinando in dettaglio e in comparazione
le condizioni economico-patrimoniali delle parti, ha valutato approfonditamente
e con motivazione congrua ogni profilo di rilevanza, anche sul contributo dato
alla famiglia dall’ex moglie nel corso del matrimonio e in ordine all’oggettiva
impossibilità per quest’ultima di superare la disparità economica evidenziata
attraverso un collocamento nel mondo del lavoro, ritenuto estremamente
difficile, soprattutto in Russia e a maggior ragione nell’attuale stato di guerra,
avuto altresì riguardo all’età della beneficiaria (54 anni) e alla durata del
matrimonio (18 anni).
La Corte d’Appello ha rimarcato trattarsi di un lasso di tempo sicuramente
ragguardevole, aggiungendo che nel corso di esso “la B.B. ha investito il suo
tempo nel ruolo di moglie-lavoratrice, contribuendo al soddisfacimento anche
economico (e non solo) delle esigenze di famiglia, in quanto si è anche presa
cura dell’ex coniuge assistendolo durante il suo periodo di malattia nel 2009;
sul punto non vi è contestazione tra le parti. Né può essere inteso come rifiuto
della B.B. a reinserirsi nel mondo del lavoro il fatto che non riesca a trovare, a
54 anni, un impiego fisso. Non vi sono elementi probatori al riguardo. Anzi, al
contrario, è emerso che la B.B. ha sempre lavorato ed ha tentato in tutti i modi
di proseguire a lavorare, anche nel periodo di attuale crisi dovuto allo stato di
guerra in cui verte la Russia, dove vive. Ciò smentisce l’assunto dello A.A. in
ordine ad una inerzia della B.B. e, quindi, ad una sua colpevole impossibilità di
trovare un lavoro”.
La Corte territoriale ha inoltre dato atto che i documenti prodotti dall’ex moglie
sulla sua condizione reddituale erano stati tradotti da un traduttore
professionista dell’Agenzia di traduzioni “(Omissis)”, che aveva apposto il
proprio timbro e la propria firma sulla traduzione, mentre l’appellato, odierno
ricorrente, nulla aveva contestato in merito alla qualifica di esperto da parte
del suddetto né, tanto meno, aveva contestato la veridicità in concreto delle
circostanze rappresentate e certificate nei documenti tradotti, quale ad
esempio l’erogazione da parte del Fondo Pensionistico dell’indennità pari ad
appena Euro 12.
3.3. A fronte di detto chiaro, preciso e lineare percorso motivazionale, il
ricorrente genericamente richiama il requisito del “tenore di vita”, inconferente
in base alla più recente giurisprudenza di questa Corte in tema di assegno
divorzile, e si limita a riproporre la propria ricostruzione dei fatti, senza
svolgere una critica compiuta e pertinente alle argomentazioni svolte nella
sentenza impugnata, nonché sollecitando impropriamente una rivisitazione del
merito.
3.4. Resta aggiungere che non si rinviene nella sentenza impugnata alcun
riferimento all’asserita convivenza della B.B. con il C.C., nel ricorso non si
precisa se si trattò di convivenza more uxorio con le connotazioni di rilievo ai
fini che qui interessano (e che comunque non rileverebbe ai fini compensativo –
perequativi – cfr. Cass. Sez. Un. 32198/2021 ), ma soprattutto non si indica
compiutamente quando, come e dove la questione sia stata sottoposta
all’esame della Corte d’Appello. La controricorrente afferma sul punto che “nel
giudizio di separazione giudiziale non è mai stato accertato giudizialmente
l’adulterio e che, in ogni caso, la separazione giudiziale è stata poi trasformata
in separazione consensuale con conseguente rinuncia da parte del A.A. alla
domanda sull’addebito” (pag.16 controricorso).
4. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.
Ai sensi dell’art.13 , comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002 , deve darsi atto
della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso
art. 13, ove dovuto (Cass. S.U. n.5314/2020 ).
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le
generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30
giugno 2003 n. 196 , art. 52.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione
delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 3.200,00, di cui Euro
200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali (15 per cento) ed accessori,
come per legge.
Ai sensi dell’art.13 , comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso
art.13, ove dovuto.
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le
generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30
giugno 2003 n. 196 , art. 52 .

L’allontanamento dalla casa familiare non è motivo di addebito della separazione qualora non abbia incidenza causale sulla crisi coniugale.

Cass. civ., Sez. I, Ord., 28/01/2025, n. 2007
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 4713/2024 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in M VIA (Omissis), presso lo studio
dell’avvocato GASSANI GIAN ETTORE (Omissis) che lo rappresenta e difende
– ricorrente –
contro
B.B., elettivamente domiciliata in R VIA (Omissis), presso lo studio
dell’avvocato PATTI SALVATORE LUCIO (Omissis) che lo rappresenta e difende
unitamente all’avvocato GIOVANDO CRISTINA (Omissis)
– controricorrente –
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO TORINO n. 1164/2023 depositata il
20/12/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21/01/2025 dal
Consigliere FILIPPO D’AQUINO.
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Torino, con sentenza in data 15 novembre 2022, previa
riunione dei ricorsi promossi da A.A. e B.B., sposati in data 30 ottobre 2002 in
C (TO), ha pronunciato la separazione dei coniugi, rigettando le reciproche
domande di addebito.
2. La Corte di Appello di Torino ha rigettato l’appello principale del marito e ha
accolto l’appello incidentale della moglie. Ha ritenuto il giudice di appello, per
quanto qui rileva, che la separazione fosse da addebitare a reiterate “condotte
offensive e maltrattanti nei confronti della moglie”, tali da costituire violenze
fisiche e verbali di un coniuge ai danni dell’altro. In particolare, il giudice di
appello ha ritenuto che la convivenza fosse già deteriorata a partire dal periodo
2012 – 2013, valorizzando, in termini di condotte causalmente rilevanti ai fini
della intollerabilità della convivenza, un carteggio mail risalente al periodo
2013 – 2014, ascrivendo al comportamento del marito l’intenzione della moglie
di allontanarsi periodicamente dal marito con la figlia; per effetto
dell’accoglimento della domanda di addebito, il giudice di appello ha dichiarato
assorbita la pronuncia relativa alla domanda di mantenimento. La sentenza
impugnata ha, di converso, ritenuto non provato l’addebito della separazione
alla moglie, fondato sul dedotto intento della madre di allontanare la figlia dal
padre dalla casa coniugale di C, né ha tenuto conto di una successiva crisi della
coppia, intervenuta nel periodo 20192020, per effetto di una relazione
extraconiugale intrattenuta dal marito.
3. Propone ricorso per cassazione il A.A., affidato a cinque motivi,
ulteriormente illustrato da memoria, cui resiste con controricorso la B.B., la
quale ha anch’essa depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 , primo comma, n. 3,
cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 151 e 2697 cod. civ.,
nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto sussistente il nesso di
causalità tra il comportamento assunto dal ricorrente e il giudizio di
addebitabilità della separazione.
Osserva parte ricorrente che la sentenza impugnata avrebbe valorizzato
comportamenti estrapolati da conversazioni avvenute nel periodo 2012 – 2015,
laddove la crisi coniugale si sarebbe manifestata solo nel 2019, così
palesandosi per il periodo pregresso, da parte della moglie, la tollerabilità del
clima familiare. In particolare, la moglie avrebbe imposto al marito di rimanere
nella casa coniugale in C, laddove lei si sarebbe trasferita a Torino con la figlia
da circa un decennio (2008 – 2009), per tornarvi durante i fine settimana. I
comportamenti assunti da parte ricorrente sarebbero, quindi, da inquadrare in
una relazione di coppia caratterizzata dalla decisione della moglie di
allontanarsi periodicamente, da un decennio, dalla casa coniugale. Deduce,
pertanto, che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente considerato
assolto da parte della moglie l’onere di comprovare l’esistenza del nesso di
causalità tra comportamento del ricorrente e intollerabilità della convivenza.
2. Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 , primo comma, n.
3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ.,
nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto addebitabile la separazione
al marito, incorrendo in ultrapetizione, laddove il nesso eziologico tra
intollerabilità della convivenza e condotte del ricorrente sarebbe stato
incentrato su una relazione extraconiugale intrattenuta dal marito durante il
periodo pandemico del 2020.
3. Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 , primo comma, n. 3,
cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli art. 151 e 2697 cod. proc.
civ., nonché, in relazione all’art. 360 , primo comma, n. 5, cod. proc. civ.,
omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione fra
le parti, nella parte in cui la sentenza impugnata ha omesso di considerare che
i comportamenti oggetto di valutazione erano successivi all’allontanamento
della moglie dalla casa coniugale e alla interruzione della convivenza coniugale.
Parte ricorrente osserva che sin dal 2009 la presenza del coniuge nella casa
coniugale si era fatta via via più saltuaria (con assenza ingiustificata, come
ribadito in memoria), sicché – trattandosi di violazione del dovere di
coabitazione – sarebbe essa stessa circostanza idonea e decisiva a determinare
l’addebito della separazione alla moglie.
4. Con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 , primo comma, n. 3,
cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 151 e 156 cod. civ.,
nella parte in cui la sentenza impugnata ha disconosciuto il diritto del marito
all’assegno di mantenimento, trattandosi di questione dipendente
dall’illegittima declaratoria di addebito della separazione al ricorrente.
5. Con il quinto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 , primo comma, cod.
proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ., per avere
la sentenza di appello condannato il ricorrente al pagamento dei due gradi delle
spese di giudizio.
6. Il primo motivo e il terzo motivo, i quali possono essere esaminati
congiuntamente, sono inammissibili, in conformità all’eccezione articolata da
controricorrente e ribadita in memoria. I motivi non sono incentrati su una
erronea ripartizione dell’onere della prova, bensì su una revisione della
valutazione delle prove, preclusa in sede di legittimità, in un ambito familiare
in cui la convivenza ha vissuto (come risulta dalla sentenza impugnata) tre
distinte fasi di criticità, rispettivamente nel periodo 2008/2009, nel periodo
20122014 e, infine, nel periodo 2019/2020.
7. La sentenza impugnata ha valorizzato in termini causali, ai fini
dell’intollerabilità della convivenza, la seconda fase di criticità, incentrata sul
clima di tensione e di ripetute offese che si era generato per effetto di
comportamenti ascrivibili al marito nel periodo 2012 -2014. Di converso, il
giudice di appello ha escluso che avesse incidenza causale il comportamento
posto in essere dalla moglie di iscrivere la figlia a una scuola a Torino nel
periodo 2008/2009, così allontanando la figlia dalla casa coniugale (“Il A.A. non
ha provato che l’origine della frattura coniugale fosse da ricondursi alla
decisione unilaterale della moglie di iscrivere la figlia in una scuola a Torino,

distante una trentina di chilometri da C, circostanza (risalente al 2009) che
avrebbe comportato l’allontanamento dalla casa coniugale di moglie e figlia e la
violazione dei doveri di assistenza morale e materiale fra i coniugi”: pag. 5
sent. imp.). Nella specie, il giudice di appello ha escluso che l’allontanamento
della figlia dalla casa coniugale sia avvenuto senza il consenso del padre,
atteso il periodico ritorno di moglie e figlia in C e atteso il contributo dato dalla
moglie al marito nel 2017 al pagamento delle spese della casa coniugale. E’
stato, inoltre, valorizzato l’originario ricorso introduttivo del marito, ove si
deduceva che “i coniugi e C. si riunivano il mercoledì sera a C e trascorrevano
tutti i fine settimana in montagna o al mare, fino a che gli incontri vennero
progressivamente a ridursi, per decisione della resistente” (sent. imp., loc.
cit.). Ha, infine, ritenuto il giudice di appello di trascurare, come elemento
causale idoneo a rendere intollerabile la convivenza, la relazione extraconiugale
intrattenuta dal marito nel periodo 2019/2020, cosi ritenendo che
l’intollerabilità della convivenza fosse causalmente da ricollegare al secondo ed
esteso momento di crisi coniugale.
8. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’allontanamento dalla casa
familiare, costituendo violazione del dovere di coabitazione, è fortemente
pregnante come motivo di addebito, benché a condizione che abbia assunto
efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale, salvo che la
convivenza fosse già in quel momento intollerabile (Cass., n. 11032/2024 ;
Cass., n. 25966/2016 ); efficacia causale esclusa, dal giudice di appello, in
quanto allontanamento concordato tra i coniugi, di carattere non definitivo,
così come è stata esclusa l’efficacia causale della relazione extraconiugale del
marito intrattenuta successivamente; valutazioni che rientrano nel potere-
dovere del giudice di valutare e scegliere gli elementi di prova nell’esaminare le
domande proposte dalle parti. Valutazioni che, a loro volta, incidono sul
giudizio di efficienza causale di intollerabilità della convivenza, giudizio fondato
pertanto su valutazioni in fatto incensurabili in sede di legittimità.
9. Infondato è, invece, il secondo motivo, posto che – secondo la
giurisprudenza di questa Corte – il principio di corrispondenza fra il chiesto e il
pronunciato, fissato dall’art. 112 cod. proc. civ., implica unicamente il divieto
per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di
emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non
osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base a una ricostruzione dei
fatti di causa – alla stregua delle risultanze istruttorie – autonoma rispetto a
quella prospettata dalle parti nonché in base all’applicazione di una norma
giuridica diversa da quella invocata dall’istante (Cass., n. 16809/2008 ).
10. Non vi è, pertanto, violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e
pronunciato ove il giudice proceda a una ricostruzione dei fatti differente da
quella prospettata dalle parti, a condizione che la statuizione trovi
corrispondenza nei fatti di causa e si basi su elementi di fatto ritualmente
acquisiti in giudizio e oggetto di contraddittorio (Cass., n. 11112/2019 ; Cass.,
n. 3353/2016 ; Cass., n. 2209/2016 ; Cass., n. 18922/2011 ). Nella specie, il
ricorrente non ha censurato la statuizione del giudice di appello, secondo cui i
fatti valorizzati ai fini dell’addebitabilità della separazione erano stati introdotti
nel corso del giudizio di primo grado (“che ella veniva insultata e denigrata
anche avanti alla figlia, e che “Le violenze (fossero) passate ben presto da
verbali a fisiche””). Pertanto, come deduce parte controricorrente, spetta al
giudice del merito, nei limiti della domanda proposta, la valutazione dei fatti
posti a fondamento della domanda e l’individuazione di quelli rilevanti ai fini
della decisione. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei
suddetti principi.
11. Sono, per l’effetto, assorbiti gli ultimi due motivi. Il ricorso va, pertanto,
rigettato, con spese regolate dalla soccombenza e liquidate come da
dispositivo, oltre raddoppio del contributo unificato.
Va disposto l’oscuramento delle generalità e dei dati identificativi degli
interessati.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali del giudizio di legittimità in favore della controricorrente, che
liquida in complessivi Euro 4.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, 15%
rimborso forfetario e accessori di legge; dà atto che sussistono i presupposti
processuali, a carico di parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13 comma 1 – quater
D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 , inserito dall’art. 1 , comma 17 della l. 24
dicembre 2012, n. 228 , per il versamento di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 –
bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Va disposto l’oscuramento delle generalità e dei dati identificativi degli
interessati.
Conclusione
Così deciso in Roma il 21 gennaio 2025.
Depositata in Cancelleria il 28 gennaio 2025.

Inammissibile l’azione di riduzione promossa dal legittimario che non abbia compiuto l’inventario nei termini di legge.

Corte d’Appello di Lecce, Sentenza del 19 novembre 2024,
n.940, Relatore Brocca
Presidente Esposito – Relatore Brocca
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 1144 emessa il 14.07.2022, pubblicata il 20.07.2022, il
Tribunale di Brindisi, in composizione collegiale, decidendo sulla domanda
formulata da R.A., N.M. e N.F., con atto di citazione notificato nei confronti di
S.P.G., così provvedeva: “Condanna S.P.G. alla restituzione della somma di
euro 26.532,14 in favore della massa ereditaria, per le causali di cui in
premessa; Dispone lo scioglimento della comunione ereditaria sulla ridetta
somma di euro 26.532,14 secondo le regole della successione legittima,
attribuendo a ciascuno dei tre coeredi la somma di 8.844,04 e condanna per
l’effetto S.P.G. al pagamento in favore di N.F. e N.M. della somma di euro
13.266,07 per ciascuno di essi, oltre ad interessi legali dalla domanda al
soddisfo; Accoglie per quanto di ragione la domanda proposta da R.A., e per
essa dai suoi eredi N.F. e N.M., in relazione alla reintegra della quota di
legittima spettante alla stessa sull’eredità di N.G., deceduto il 16.09.2009; Per
l’effetto, dichiara che la donazione disposta in favore di S.P.G. da N.G. con il
testamento olografo del 24.07.2009 e pubblicato il 23.04.2010 dal notaio L.CH.
in Grottaglie, lede la quota di legittima spettante a R.A. (e per essa ai suoi
eredi N.F. e N.M.) nella misura di euro 30.350,91, alla stregua del valore del
patrimonio ereditario stimato dal CTU ing. F.D’A. nella relazione peritale; Per
l’effetto, dispone la reintegra di detta quota di legittima, condannando S.P.G. al
pagamento in favore di R.A., e per essa dei suoi eredi N.F. e N.M., della
somma di euro 30.350,91 oltre interessi legali sulla somma rivalutata anno per
anno dal dì dell’apertura della successione alla pubblicazione della presente
decisione, a decorrere dalla quale saranno dovuti i soli interessi legali sino al
soddisfo; Condanna la convenuta alla refusione delle spese di lite in favore
dell’attore in misura di 2/3, dichiarandole compensate per il resto e con
distrazione in favore dei difensori distrattari ex art. 93 c.p.c., spese liquidate
per l’intero in complessivi euro 13.411,83, di cui euro 411,83 per esborsi, oltre
rimborso spese generali al 15%, iva e cpa come per legge; Spese di CTU a
carico degli attori in misura di 1/3 e della convenuta in misura di 2/3”.
Con atto di citazione dell’8.03.2011, R.A., N.M. e N.F., rispettivamente moglie
e figli di N.G., deceduto in Villa Castelli (Br) il (omissis), convenivano innanzi al
Tribunale di Brindisi S.P.G. per far accertare e dichiarare l’inefficacia nei loro
confronti della disposizione contenuta nel testamento olografo redatto dal de
cuius in data 24.07.2009, in quanto lesiva della quota di riserva loro spettante,
con riconoscimento del diritto alla reintegra della stessa e con condanna di
S.P.G. al risarcimento del danno in loro favore nella misura di € 30.110,47 in
ragione degli illegittimi ed immotivati prelievi effettuati dal conto corrente del
de cuius.
Esponevano gli attori che il de cuius, successivamente alla separazione di fatto
dalla moglie R.A., aveva intrattenuto una relazione sentimentale con S.P.G.
convivendo con la stessa presso l’abitazione sita in Villa Castelli (Br) alla
(omissis), di proprietà esclusiva del de cuius.
Era accaduto, poi, che N.G. si fosse ammalato di una grave malattia polmonare
che lo aveva costretto nel suo ultimo anno di vita a diversi ricoveri nei mesi di
agosto, settembre e dicembre 2009 e lo aveva portato alla morte in data
16.12.2009.
Successivamente, essi eredi erano venuti a conoscenza del fatto che il de cuius
aveva disposto con testamento olografo della abitazione di Via Kennedy in
favore della S.P.G., con lesione della quota legittima ad essi spettante e senza
nulla disporre in merito alla mobilia ivi presente, e che nel periodo del ricovero
del N.G. da agosto a ottobre 2009, la convenuta aveva eseguito prelievi e
spese con il bancomat dal conto del de cuius, tanto che avevano sporto nei
suoi confronti denuncia querela per appropriazione indebita. Promuovevano,
pertanto, azione di riduzione per lesione della quota legittima spettante a
ciascuno di essi, chiedendo disporsi CTU al fine di calcolare la quota disponibile
e quella legittima del patrimonio relitto dal de cuius, nonché la restituzione alla
massa ereditaria delle somme acquisite senza titolo da S.P.G..
Si costituiva in giudizio S.P.G., con comparsa di costituzione e risposta
depositata il 3.6.2011, eccependo preliminarmente l’inammissibilità della
domanda di riduzione ex art. 564 c.c. per non avere gli attori preventivamente
accettato l’eredità di N.G. con beneficio di inventario e instando, nel merito,
per il rigetto della domanda.
In particolare, deduceva che gli attori avevano già colmato la quota di riserva,
avendo ricevuto in donazione l’appartamento sito in Taranto alla Via Veneto n.
116, che, per dimensioni e caratteristiche nonché per posizione, era da
considerarsi di notevole valore economico.
Formulava altresì domanda riconvenzionale per l’importo complessivo di €
155.965,99 quale retribuzione maturata per l’attività di natura domestica e di
assistenza domiciliare prestata in favore del de cuius, oltre interessi e
rivalutazione.
Veniva disposta la separazione della causa avente ad oggetto la domanda
riconvenzionale per competenza del Giudice del Lavoro e, in attesa della sua
definizione, sospesa la causa principale che, una volta intervenuta la decisione
del Tribunale di Brindisi – Sezione Lavoro di rigetto della domanda di S.P.G.,
veniva riassunta da N.M. e N.F., in proprio e anche quali eredi di R.A. nelle
more deceduta, ed istruita con prove orali, interrogatorio formale di S.P.G. e
con una CTU tecnica e una CTU contabile.
Precisate le conclusioni, previa concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.,
la causa veniva decisa con la sentenza in epigrafe.
Il primo giudice preliminarmente rigettava, ritenendola infondata, l’eccezione
di inammissibilità dell’azione ex art. 564 c.c. per aver gli attori documentato di
aver accettato con beneficio di inventario l’eredità di N.G. in data antecedente
all’instaurazione del giudizio.
Osservava, in particolare, che, comunque, l’art. 564 c.c. nulla prescriveva in
ordine al fatto che l’accettazione beneficiata dovesse essere effettuata prima
della dichiarazione di successione che, peraltro, rilevava solo sotto il profilo
fiscale.
Riteneva parimenti infondata e meritevole di rigetto, oltre che tardiva in
quanto sollevata solo in comparsa conclusionale, l’eccezione di improponibilità
della domanda di riduzione per la mancata redazione dell’inventario nei termini
di legge, sul presupposto che l’art. 564 c.c. fa salva l’ipotesi dell’erede che
abbia accettato col beneficio di inventario e che ne sia decaduto, non
prevedendo in tal caso l’inammissibilità dell’azione di riduzione.
Quanto al merito della domanda attorea, la riteneva fondata e meritevole di
accoglimento. Osservava che il de cuius, avendo donato in favore della S.P.G.,
con testamento olografo del 24.7.2009, l’immobile sito in Villa Castelli e ai figli,
con atto del 31.10.2006, la nuda proprietà dell’immobile sito in Taranto –
riservando per sé l’usufrutto- aveva di fatto così esaurito tutto il suo
patrimonio e totalmente pretermesso la moglie R.A., attrice deceduta in corso
di causa e di cui gli attori erano gli unici eredi.
Quanto alla donazione in favore dei figli, riteneva che la stessa dovesse
qualificarsi come ordinaria donazione in conto di legittima – attesa la
contraddizione testuale relativa alla clausola di dispensa da imputazione ex se
in essa contenuta e la non chiara ed inequivoca volontà del donante di
dispensare i donatari dall’imputazione – e che, dunque, gli attori N.F. e N.M.
dovessero imputare alla propria quota di riserva la donazione ricevuta in vita
dal de cuius.
Richiamando le risultanze della CTU dell’ing. D’A. in quanto condivise, per cui
l’asse ereditario di N.G. era pari ad un valore di € 204.000,00, reputava che,
detratte le spese funerarie per € 3.000,00, dovessero aggiungersi € 26.532,14,
appartenenti al de cuius e di cui la S.P.G. aveva disposto ingiustificatamente.
Riteneva, infatti, il Tribunale, con riferimento alla domanda attorea di
risarcimento del danno ex art. 2043 per gli illegittimi prelievi effettuati dal
conto corrente del de cuius, da qualificarsi in realtà quale azione di rendiconto,
che, per quanto accertato dal CTU dott. MA., della somma oggetto di
prelevamento pari ad € 30.110,47, appariva giustificata alla luce della
documentazione depositata dalla convenuta, solo la spesa di € 3.000,00 per
spese funerarie e di € 578,33 per il pagamento di bollette, non avendo per la
restante parte la N.G. dato prova rigorosa che gli importi fossero stati usati
nell’interesse del de cuius.
In particolare, sotto tale profilo risultava ingiustificato il prelevamento della
somma di € 9.137,00 mediante assegno circolare emesso in favore di Compass
s.p.a. e le dichiarazioni rese al riguardo della teste C.B. apparivano
scarsamente credibili e inverosimili, oltre che non suffragate da ulteriori
elementi di prova.
Riteneva, pertanto, che la S.P.G. fosse tenuta alla restituzione della somma di
€ 26.532,14 che doveva essere devoluta secondo le regole della successione
legittima e divisa in parti uguali tra gli attori, con conseguente condanna della
convenuta al pagamento in favore di N.F. e N.M. della somma di € 13.266,07
ciascuno in virtù della ripartizione in parti uguali fra gli stessi anche della quota
della loro madre R.A., deceduta nelle more.
Ricostruito l’asse ereditario per un valore pari ad € 227.532,14 (valore stimato
dal CTU in € 204.000,00, sottratti € 3.000,00 per spese funerarie e aggiunti €
26.532,14 da restituirsi da parte della S.P.G. all’asse ereditario) e stimato il
valore della quota disponibile (pari a ¾ del totale in 170.649,10), la quota di
riserva per ciascuno degli attori risultava pari ad € 56.883,03.
Stante il valore dell’immobile ricevuto in vita da N.F. e N.M. stimato in €
117.000,00 (58.500,00 per ciascuno), reputava che nessuna lesione della loro
quota di riserva potesse ravvisarvi, anzi per effetto della restituzione delle
somme ad opera della S.P.G., essi venivano a ricevere una quota in eccedenza
(58.500,00+8.844,04 quale quota parte di € 26.532,14).
Riteneva, invece, che la quota di legittima spettante a R.A., erede
pretermessa, era stata lesa in conseguenza della donazione disposta dal de
cuius in favore di S.P.G., e ne disponeva, pertanto, la riduzione con reintegra
in favore della R.A. nella misura di € 48.038,99 (sottraendo dalla quota di
riserva € 56.883,03 l’importo di € 8.844,04 pari ad 1/3 di € 26.532,14) e, per
effetto della riduzione delle quote legali ab intestato di N.F. e N.M. pari ad €
17.688,08 (8.844,04 ciascuno), nella misura di 30.350,91, con condanna della
convenuta al pagamento di detto importo in favore degli eredi F. e M., oltre
interessi e rivalutazione e alle spese del giudizio in misura di 2/3, compensate
per il resto tra le parti.
Avverso la suddetta sentenza ha proposto appello S.P.G. con citazione
notificato il 19.10.2022, articolando diversi motivi di gravame, più avanti
sintetizzati, ed insistendo nelle originarie deduzioni e richieste, previa richiesta
di sospensione dell’esecutività della impugnata sentenza.
Si sono costituiti in giudizio, con comparsa depositata in data 29.12.2022, N.M.
e N.F., chiedendo il rigetto dell’appello in quanto infondato e la conferma della
sentenza di primo grado, con vittoria di spese della presente fase di giudizio.
All’udienza del 18.06.2024, precisate dalle parti le conclusioni, la causa è stata
trattenuta per la decisione con concessione dei termini di cui all’art.190 cpc.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di appello parte appellante si duole dell’ingiustizia e
illegittimità della sentenza nella parte in cui rigetta l’eccezione di
inammissibilità ed improponibilità dell’azione di riduzione per mancato
compimento dell’inventario, per violazione degli artt. 564 e 487 c.c. ed erronea
valutazione delle risultanze processuali.
Avrebbe errato il primo giudice, in primo luogo nel ritenere improponibile la
detta eccezione poiché tardivamente sollevata dalla convenuta, odierna
appellante, solo in sede di comparsa conclusionale, laddove, invece, sin dalla
comparsa di costituzione e risposta del 3.06.2011, S.P.G. aveva eccepito che
gli attori legittimari, pur essendosi dichiarati eredi e rivendicando l’eredità
anche dei beni mobili dell’ultimo domicilio del de cuius, non avevano accettato
l’eredità con beneficio di inventario, e, a seguito dell’allegazione di parte attrice
della accettazione avvenuta in data 27.12. 2020, non allegata all’atto di
citazione, e senza redazione dell’inventario, per come dedotto dagli stessi, alle
udienze istruttorie del 3.06.2019 e del 3.10.2019, insisteva per
l’inammissibilità della domanda di riduzione ai sensi dell’art. 564 per
intervenuta decadenza dal beneficio d’inventario non avendo compiuto
l’inventario nel termine prescritto dall’art. 487 c.c.
Parimenti erroneo sarebbe, a dire dell’appellante, il successivo passaggio della
sentenza in cui ritiene comunque l’eccezione infondata nel merito sul
presupposto che l’art. 564 c.c., facendo salva l’ipotesi dell’erede che abbia
accettato col beneficio d’inventario e che ne sia decaduto, non prevede in
siffatta ipotesi l’inammissibilità dell’azione di riduzione.
Evidenzia l’appellante che perché possa dirsi perfezionata la fattispecie di cui
all’art. 564 c.c., trattandosi di fattispecie a formazione progressiva, è
necessario il compimento di entrambi i momenti che la costituiscono, quello
dichiarativo di formalizzazione dell’accettazione e quello fattivo di concreta
esecuzione dell’inventario (entro tre mesi dall’apertura della successione),
entrambi secondo le modalità di legge.
Pertanto, si deduce, avendo gli attori meramente accettato l’eredità con
beneficio di inventario ma senza provvedere alla redazione dello stesso, tale
omessa redazione avrebbe comportato il mancato acquisto del beneficio e non
la decadenza dal medesimo, con la conseguenza dell’inammissibilità della
domanda di riduzione per carenza del presupposto al riguardo richiesto dall’art.
564, comma 1, c.c., cioè l’accettazione con beneficio d’inventario. Parimenti
erronea sarebbe la sentenza nella successiva parte in cui fonda ancora
l’infondatezza dell’eccezione della convenuta sulla circostanza che R.A. non
aveva ricevuto alcunché rimanendo totalmente pretermessa dalla successione
del marito, avendo questi esaurito tutti i suoi beni con la donazione a S.P.G.
dell’immobile di Villa Castelli e ai figli dell’immobile in nuda proprietà sito in
Taranto.
Deduce l’appellante che, in realtà, nella fattispecie si verterebbe in un’ipotesi di
successione ab intestato apertasi con la morte del N.G. e con la quale N.M.,
N.F. e R.A. hanno assunto la qualità di legittimari sull’universalità dei beni
mobili ed immobili relitti in successione, come confermato anche dalla
circostanza che gli attori hanno rivendicato con la citazione introduttiva del
giudizio i beni mobili del de cuius presenti nell’immobile donato alla S.P.G.
La disposizione testamentaria olografa del 24.07.2009 avrebbe disposto un
mero legato in favore della S.P.G., avente ad oggetto l’immobile sito in Villa
Castelli, senza che il testatore abbia inteso assegnare quel bene come quota
del patrimonio complessivo. Con la conseguenza che la R.A. non era stata
totalmente pretermessa dall’eredità del N.G. in quanto ad egli era succeduta
per successione legittima sugli altri beni mobili relitti (la mobilia
dell’appartamento donato alla S.P.G., oggetto di valutazione da parte del CTU).
Conclude l’appellante chiedendo, in riforma della sentenza impugnata, una
pronuncia di declaratoria di inammissibilità della azione di riduzione spiegata
dagli eredi N.G.
2. Con il secondo motivo di appello parte appellante reputa ingiusta ed
illegittima la sentenza di primo grado per erronea valutazione delle risultanze
processuali, violazione di legge in relazione all’art. 132 c.p.c. e per apparente
e/o carente motivazione in relazione alle risultanze della CTU.
Deduce l’appellante che il primo giudice avrebbe acriticamente letto e fatto
proprie le risultanze della CTU dell’Ing. D’A. – relative alla stima del valore
dell’immobile sito in Taranto alla Via Veneto n.116 ed oggetto di donazione del
N.G. in favore dei figli – in contrasto con le risultanze istruttorie emerse in sede
di controdeduzioni alla CTU, omettendo la valutazione delle deduzioni tecniche
offerte dalla convenuta.
In particolare, le valutazioni compiute dal CTU sarebbero incomplete e del tutto
inattendibili in quanto rese in assenza del rituale sopralluogo e solo sulla base
di fotografie prodotte dagli attori che nelle more avevano alienato l’immobile,
senza aver acquisito il prezzo di vendita applicato dagli stessi in sede di
vendita e senza considerare il valore di mercato del bene al momento della
successione (2009).
Sul punto, la sentenza di primo grado sarebbe priva di valida motivazione.
Non sarebbe stato valutato, in tal modo, il valore dell’immobile in relazione alla
posizione semicentrale e signorile della città che comporterebbe, a dire
dell’appellante, un valore di mercato a mq compreso tra € 1.300,00 e €
1.700,00 e non già di € 875,00 euro al mq come stimato dal CTU, con la
conseguenza che la stima effettuata dal CTU per un valore dell’immobile pari
ad € 117.000,00 non sarebbe attendibile, aggirandosi invece il reale valore al
momento dell’apertura della successione intorno ai 210.000,00 euro.
Chiede, pertanto, la rinnovazione nella presente fase di giudizio della CTU per
rideterminare il valore della donazione del de cuius in favore dei figli M. e F.
N.G., ai fini della riunione fittizia dei beni e della imputazione in conto di
legittima con il supero sulla disponibile.
Parimenti inattendibile sarebbe, inoltre, la CTU con riferimento alla stima
dell’immobile legato dal de cuius a S.P.G. con il testamento olografo del
24.07.2009, valutazione acriticamente fatta propria dal primo giudice senza
considerare, e conseguentemente accertare, se per il detto immobile,
accatastato come locale uso deposito C/2 e utilizzato di fatto a fini abitativi,
potessero trovare o meno applicazione i valori relativi ad un’abitazione civile
A/3.
Il valore dell’immobile, pertanto, sarebbe stato sovrastimato in € 87.000,00 e,
in conseguenza, erroneamente determinati, in percentuale su tale eccessivo
valore, gli oneri per la sua sanatoria.
Anche con riferimento all’immobile donato dal de cuius a S.P.G., pertanto,
l’appellante chiede la rinnovazione della CTU.
3. Con il terzo motivo di appello si impugna, per erronea valutazione delle
risultanze processuali, la parte della sentenza che ha condannato S.P.G. a
restituire in favore degli eredi legittimi le somme prelevate dal conto corrente
bancario del de cuius, pari a complessivi € 26.532,14, nel periodo da agosto
2009 fino al 9.12.2009, data del decesso di N.G.
Parte appellante reputa che, anche con riferimento alla domanda restitutoria
e/o di rendiconto, il primo giudice abbia recepito acriticamente le valutazioni
del CTU dott. MA. – che ha verificato unicamente la presenza di partite in
entrata ed in uscita sul conto corrente bancario del de cuius e quindi l’esistenza
o meno di pezze contabili a giustificazione delle uscite effettuate dal conto –
senza considerare che il de cuius, il quale aveva sempre conservato le piene
facoltà cognitive, ben poteva materialmente eseguire le operazioni di prelievo
direttamente dallo sportello bancomat; che, in virtù del rapporto affettivo tra il
N.G. e la S.P.G., il conto corrente del de cuius veniva dalla stessa movimentato
in numerose occasioni con prelievi di modesti importi per far fronte alle
esigenze della vita quotidiana del compagno e ciò anche nei periodi in cui lo
stesso non era ricoverato ed era in grado di procedere materialmente alla loro
esecuzione, peraltro senza considerare che i ricoveri ospedalieri del N.G. non
erano avvenuti con soluzione di continuità ma con diverse interruzioni e che
nei periodi di ricovero si sono registrati unicamente quattro prelievi di somme
pari e/o superiori ad euro 1.000,00.
4. Con il quarto motivo di appello, l’appellante reputa errata la sentenza nella
parte in cui ha ritenuto non giustificato il movimento effettuato sul conto
corrente del de cuius con l’emissione di un assegno circolare di euro 9.137,00
in data 26.08.2009 in favore di Compass Spa.
Avrebbe errato il primo giudice a valutare inattendibili le dichiarazioni rese
dalla teste C.B. sul presupposto che non fosse credibile la circostanza, in
assenza di documentazione che la comprovasse, che la stessa fosse creditrice
del N.G., alla luce del fatto che questi si trovava in buone condizioni
finanziarie, e fosse contraddittorio che la C. dapprima avesse contratto un
finanziamento con Compass Spa e allo stesso tempo avesse prestato soldi in
contanti al N.G., in realtà omettendo di considerare che le dichiarazioni della
teste collocano il prestito non nell’anno 2009, ma nell’anno precedente. A ciò si
aggiunge, a dire dell’appellante, che l’assenza di documentazione a supporto
del prestito effettuato in favore del de cuius è ricollegabile alla natura dei
rapporti in essere tra le parti, in considerazione della relazione di vita
ultraquarantennale tra il N.G. e la S.P.G. che ha necessariamente coinvolto
anche i figli di questa e che avrebbe dovuto portare a ritenere giustificato il
detto esborso.
5. Con il quinto motivo di appello, rubricato “rideterminazione dell’asse
ereditario e conseguente rigetto della domanda di riduzione e di restituzione”,
parte appellante, dalle argomentazioni svolte con i precedenti motivi di appello
fa discendere la rideterminazione dell’asse ereditario sulla scorta di una diversa
valutazione dei beni relitti, senza riduzione della disposizione testamentaria
effettuata in favore di essa appellante e con rigetto della domanda di
restituzione somme a titolo di rendiconto.
Conseguentemente chiede, in riforma della impugnata sentenza, il rigetto della
domanda di riduzione del legato disposto in favore di S.P.G. per violazione
della quota di riserva; con vittoria di spese di giudizio della fase cautelare e di
entrambi i gradi del giudizio di merito.
– Questo Collegio ritiene che vada accolto il primo motivo di appello e vada
dichiarata la inammissibilità della domanda di riduzione.
L’art 564 c.c prevede la accettazione con beneficio di inventario quale
condizione di ammissibilità della azione di riduzione rivolta nei confronti di terzi
non coeredi (come è nel caso in esame). Si tratta non di requisito costitutivo
ma appunto di condizione di ammissibilità, né può il legittimario sanare la
situazione con successiva accettazione beneficiata, essendo egli ormai erede
puro e semplice, in quanto ha accettato l’eredità con il fatto stesso di aver
proposto l’azione. Il difetto dell’accettazione dell’eredità con beneficio
d’inventario, quale condizione di ammissibilità dell’azione di riduzione delle
liberalità in favore di persone non chiamate alla successione come eredi, non è
oggetto di un’eccezione in senso tecnico, sicché la mancanza di tale condizione,
come per tutte le altre condizioni dell’azione, deve essere rilevata d’ufficio dal
giudice, anche in grado di appello (Cassazione civile, sez. II, 19/10/2012, n.
18068).
Osserva il Collegio che in tema di successioni “mortis causa”, l’art. 484 cod.
civ., nel prevedere che l’accettazione con beneficio d’inventario si faccia con
dichiarazione, preceduta o seguita dalla redazione dell’inventario, delinea una
fattispecie a formazione progressiva di cui sono elementi costitutivi entrambi
gli adempimenti ivi previsti; infatti, sia la prevista indifferenza della loro
successione cronologica, sia la comune configurazione in termini di
adempimenti necessari, sia la mancata di una distinta disciplina dei loro effetti,
fanno apparire ingiustificata l’attribuzione all’uno dell’autonoma idoneità a dare
luogo al beneficio, salvo il successivo suo venir meno, in caso di difetto
dell’altro. Ne consegue che, se da un lato la dichiarazione di accettazione con
beneficio d’inventario ha una propria immediata efficacia, determinando il
definitivo acquisto della qualità di erede da parte del chiamato che subentra
perciò in “universum ius defuncti”, compresi i debiti del “de cuius”, d’altro
canto essa non incide sulla limitazione della responsabilità “intra vires”,che è
condizionata (anche) alla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza
dell’inventario, in mancanza del quale l’accettante è considerato erede puro e
semplice (artt.485, 487,488 cod. civ.) non perché abbia perduto “ex post” il
beneficio, ma per non averlo mai conseguito. Infatti, le norme che impongono
il compimento dell’inventario in determinati termini non ricollegano mai
all’inutile decorso del termine stesso un effetto di decadenza, ma sanciscono
sempre come conseguenza che l’erede venga considerato accettante puro e
semplice, mentre la decadenza è chiaramente ricollegata solo ed
esclusivamente ad alcune altre condotte, che attengono alla fase della
liquidazione e sono quindi necessariamente successive alla redazione
dell’inventario (e di seguito si illustreranno).
Se invece il legittimario, dopo aver dichiarato di accettare con il predetto
beneficio, non compie l’inventario nei termini di legge, l’azione di riduzione, nei
casi previsti dall’art 564 c.c., non può essere esercitata: e ciò perché in tal
caso non si verifica una decadenza dal beneficio, bensì manca la fattispecie da
cui deriva l’applicazione di esso. L’omessa redazione dell’inventario comporta il
mancato acquisto del beneficio e non la decadenza dal medesimo, ne consegue
che all’erede, il quale agisce contro i terzi non chiamati alla successione, è
precluso l’esperimento dell’azione di riduzione, non sussistendo il presupposto
al riguardo richiesto dall’art. 564 primo comma ultima parte cod. civ., cioè
l’accettazione con beneficio d’inventario (v Cass.civ. 16739 del 09/08/2005).
Ad avviso della dottrina assolutamente prevalente il fondamento della norma,
dell’art 564 c.c. che pone una condizione di procedibilità dell’azione di
riduzione, è individuato nella tutela dei donatari e legatari estranei, per i quali
è necessaria la preventiva constatazione ufficiale della consistenza dell’asse
ereditario. Altre sono le ipotesi di decadenza che, come dispone l’ultimo inciso
del primo comma dell’art 564 c.c., non fanno perdere all’erede il diritto di
chiedere la riduzione: si tratta delle ipotesi previste dagli artt 493 e 494 c.c.
(alienazione dei beni senza autorizzazione e infedeltà o omissioni
nell’inventario ).
La legge intende subordinare l’esercizio dell’azione al fatto che la consistenza
dei beni ereditari venga accertata per mezzo dell’inventario, e ciò al fine di
tutelare i donatari e i legatari i quali, se una parte dell’attivo ereditario venisse
loro occultata, correrebbero il rischio di subire una riduzione non giustificata.
Ciò spiega l’esclusione del requisito in caso di azione contro coeredi in quanto
costoro, se il legittimario non si comporta correttamente, possono promuovere
essi stessi la redazione dell’inventario.
Pertanto erra il Tribunale quando sostiene che la disposizione del primo comma
non si applica nel caso di specie perché l’erede è decaduto dal beneficio di
inventario per non averlo redatto nei termini.
In realtà il richiamo operato dall’ultimo inciso del primo comma dell’art 564
non si riferisce all’ipotesi de qua della mancata redazione dell’inventario ma,
come sopra illustrato, alle ipotesi di decadenza previste dagli artt 493 e 494
c.c.
Si ribadisce che invece la fattispecie della mancata redazione dell’inventario
comporta l’effetto della accettazione pura e semplice e quindi ricade
pienamente nella regola della inammissibilità della azione di riduzione verso i
terzi.
Va anche sgombrato il campo da eventuali dubbi sulla natura di terzo da parte
della S.P.G.. Infatti dal tenore letterale della disposizione testamentaria si
evince la costituzione di un legato e non la istituzione di erede. L’atto contiene
una disposizione particolare a titolo gratuito senza che il testatore abbia inteso
assegnare quel bene come quota del patrimonio complessivo.
Infine coglie nel segno la censura relativa alla inammissibilità della azione
anche con riferimento alla posizione di R.A.
E’ noto il principio per cui a norma dell’art. 564 cod. civ., il legittimario che
abbia la qualità di erede non può esperire l’azione di riduzione delle donazioni e
dei legati lesivi della sua quota di legittima ove non abbia accettato l’eredità
con beneficio d’inventario, non potendo tale condizione valere, invece, per il
legittimario totalmente pretermesso, il quale può acquistare i suoi diritti solo
dopo l’esperimento delle azioni di riduzione o di annullamento del testamento
(v per tutte Cass Civ. n. 24836 del 17/08/2022). La pretermissione del
legittimario può verificarsi anche nella successione “ab intestato”, qualora il
“de cuius” si sia spogliato in vita del suo patrimonio con atti di donazione.
Tale fattispecie è stata erroneamente richiamata nel caso in esame laddove la
stessa R.A. e poi i suoi eredi, hanno sin dall’atto introduttivo del giudizio di
primo grado, allegato la presenza di beni mobili relitti. La circostanza che il
CTU abbia attribuito ai beni mobili un valore esiguo di 2.000-3.000 euro, non
fa venire meno la natura di relictum e il diritto dei terzi (legatari e\o eventuali
creditori) alla redazione dell’inventario.
Ma a ben vedere, nel caso in esame, il relictum è costituito anche dal denaro
esistente sul conto corrente. Lo stesso giudice di primo grado scrive (a pag 4 e
a pag 6 ) che l’importo di euro 26.532,14 (proveniente dal conto corrente del
de cuius) va aggiunto all’asse ereditario. Detto denaro deve entrare nella
massa ereditaria ai fini della determinazione della quota di legittima e della
successiva riduzione della donazione.
Anche sotto questo profilo, esistendo un relictum, la R.A. e per essa i suoi
eredi, non potevano ritenersi totalmente pretermessi e quindi erano soggetti
alla regola dell’art 564 comma primo ed erano tenuti all’inventario.
Resta da valutare se la inammissibilità della domanda di riduzione, produca i
suoi effetti anche sulla ulteriore domanda avente ad oggetto l’accertamento
dell’illecito prelevamento delle somme dal c.c. bancario intestato a N. G. e, per
l’effetto, di condanna al risarcimento del danno arrecato nella misura
corrispondente a detto prelevamento.
La originaria domanda era stata formulata come richiesta di risarcimento del
danno ed è stata riqualificata dal giudice di primo grado come azione di
rendiconto “ tenuto conto del principio iura novit curia e del fatto che gli attori
hanno dedotto in citazione l’esistenza di tutti i fatti costitutivi della azione di
rendiconto” (v sentenza impugnata).
L’azione di rendiconto è effettivamente esperibile nei confronti di chi, tramite
delega bancaria, svuoti il conto corrente del defunto ed è volta alla condanna
di chi abbia male operato sul conto corrente del defunto, appropriandosi
indebitamente del denaro di quest’ultimo.
Nel caso in esame, tuttavia va rilevato che i prelievi che si assumono indebiti
non sono avvenuti dopo il decesso del N.G., ma mentre questi era in vita.
Osserva la Corte che in realtà la domanda era rivolta non a rendere il conto
della gestione del denaro, bensì a recuperare nella massa ereditaria il denaro
proveniente dal conto corrente de cuius e in tal senso è stata accolta dal
Tribunale. Quindi si trattava di una domanda di natura petitoria volta a
reintegrare la pienezza e l’esclusività del diritto degli eredi sull’asse ereditario
mediante il recupero all’asse ereditario, anche del denaro già depositato su
conto corrente e incassato dalla S.P.G. prima del decesso del de cuius.
La domanda di accertamento e di “risarcimento” è stata esercitata dagli attori-
eredi legittimi non autonomamente ma in maniera connessa alla azione di
riduzione e al fine di comprendere nella azione di riduzione, anche quel denaro.
Per tale motivo ritiene la Corte che anche tale domanda venga travolta dal
giudizio di inammissibilità della azione di riduzione.
In ogni caso appaiono fondate anche le censure nel merito formulate nel terzo
e quarto motivo di appello in quanto, trattandosi di prelievi di somme
effettuate non dopo il decesso ma prima della morte del dante causa, era
necessario provare in maniera rigorosa non solo gli avvenuti prelievi, ma il
dissenso del titolare del conto e la destinazione delle somme contro la volontà
del de cuius.
Il ricovero del N.G., non gli impediva di gestire i suoi beni, la convivenza
quarantennale con la S.P.G. giustifica una presunzione di consenso nell’impiego
delle somme prelevate e gli attori non hanno assolto all’onere probatorio a loro
carico che non era solo quello di provare i prelievi, ma di provare il dissenso
del N.G.
Anche con riferimento all’assegno di euro 9.137,00, la teste C.B. ha illustrato
le causali del versamento. I dubbi sulla attendibilità della teste non portano a
ritenere provata la tesi degli originari attori perché era loro onere fornire la
prova della illegittima destinazione del denaro e, anche a non prendere in
considerazione le risultanze della prova testimoniale, resterebbe non provata la
loro tesi con il conseguente rigetto della domanda nel merito.
Pertanto, in accoglimento del primo motivo di appello e assorbendo ogni
motivo e ogni altra questione e richiesta, la sentenza impugnata va riformata e
va dichiarata la inammissibilità della domanda formulata in primo grado dagli
attori.
La soccombenza degli appellati e la riforma integrale della sentenza di primo
grado comportano la condanna degli stessi al pagamento, in solido tra loro, a
favore della S.P.G., delle spese di entrambi i gradi del giudizio che si liquidano
come in dispositivo.
La complessiva regolamentazione delle spese di lite all’esito della decisione di
merito (con applicazione per la fase di appello di importo superiore al minimo
dello scaglione da 52.001 a 260.000), comprende anche le spese del
procedimento cautelare in corso del presente giudizio, atteso che l’esito della
fase cautelare endoprocessuale non ha un’autonoma rilevanza ai fini della
complessiva regolamentazione delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Lecce, sezione seconda civile, definitivamente decidendo
sull’appello proposto da S.P.G., con atto di citazione notificato il 19.10.2022
nei confronti di N.M. e N.F., avverso la sentenza di primo grado n. 1144 del
Tribunale di Brindisi pubblicata il 20.07.2022 così provvede:
accoglie l’appello e in riforma della sentenza impugnata, dichiara inammissibile
la domanda formulata dagli attori in primo grado.
Condanna N.M. e N.F. in solido tra loro, al pagamento a favore di S.P.G. delle
spese processuali che liquida in euro 7.200,00 per il primo grado e euro
8.000,00 per il secondo grado, oltre IVA e CAP per legge, rimborso forfetario al
15% e CU del grado di appello.

Il sostegno è diretto a permettere al beneficiario di esercitare in prima persona i suoi diritti.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 29 dicembre 2024, n. 34854
Svolgimento del processo
G.A. e G.G. odierni ricorrenti, sono fratelli di G. P., beneficiario di amministrazione di
sostegno aperta, su istanza del Pubblico Ministero, dal giudice tutelare del Tribunale di
Padova, con ricorso depositato il 15 novembre 2022, sulla base di quanto riferito dai
vigli urbani e dai servizi sociali in merito allo stato di trascuratezza e di scarsa igiene
in cui viveva il beneficiario.
Il giudice tutelare, sentito il beneficiario e nella opposizione dei suoi fratelli, ha
ritenuto opportuna la nomina quale amministratore di un terzo estraneo alla famiglia
nella persona dell’avv. E.C. (in sostituzione di altro avvocato che aveva rinunciato
all’incarico).
I fratelli del beneficiario hanno proposto reclamo, deducendo l’assenza dei presupposti
per l’apertura della misura e comunque che il loro congiunto può essere
adeguatamente protetto dalla rete familiare.
La Corte d’appello di Venezia ha confermato il provvedimento di apertura di
amministrazione di sostegno sul rilievo che lo stesso interessato ha dichiarato di avere
bisogno di qualcuno che lo aiuti nelle faccende, e che, come segnalato dei vigili urbani
e degli assistenti sociali, la persona viveva in una condizione di degrado e di scarsa
igiene personale, ed erano stati trascurati i suoi affari quali la richiesta di pensione e la
dichiarazione della successione materna; che i fratelli si sono dimostrati poco
collaborativi giungendo persino a rifiutare la fornitura di pasti messa a disposizione dal
servizio sociale.
Avverso il predetto provvedimento hanno proposto ricorso per cassazione i fratelli del
beneficiario affidandosi a quattro motivi.
Si è costituito con controricorso l’avv. C. nella qualità di amministratore di sostegno di
G. P.. I ricorrenti hanno depositato memoria.
In esito alla udienza camerale del 12 luglio 2024 la causa è stata rimessa alla pubblica
udienza, disponendo la notifica del ricorso a G. P., beneficiario, e sollecitando le parti
ad interloquire sulla regolare instaurazione del contraddittorio nei gradi di merito.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta chiedendo la declaratoria di
nullità dell’intero procedimento.
Alla pubblica udienza del 14 novembre 2024 il Pubblico Ministero nella persona del
Sostituto procuratore generale Luisa De Renzis ha concluso come da requisitoria
scritta.
I procuratori delle parti hanno insistito in atti. Non costituito G. P..
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art.
404 c.c. per non aver il Giudice valutato correttamente la capacità del beneficiario di
provvedere ai propri interessi, requisito fondamentale di applicazione dell’istituto. I
ricorrenti deducono che il fratello P. non ha alcuna alterazione psichica e che
comunque l’amministrazione di sostegno non è stata aperta per provvedere a queste
esigenze ma per occuparsi essenzialmente della gestione patrimoniale. Osservano che
all’amministratore sono stati affidati molteplici compiti, tra cui gli atti di straordinaria
amministrazione, la gestione dei conti correnti, la scelta del medico di famiglia, il
compito di prestare il consenso informato ai trattamenti sanitari al trattamento dei
dati personali l’assunzione di colf, la richiesta di prestazioni previdenziali, esorbitanti le
effettive esigenze dell’interessato ed inutilmente invasivi.
2.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta la violazione e/o falsa applicazione di
norme di diritto in relazione all’art. 112 c.p.c. laddove il Giudice non si è pronunciato
in ordine alla richiesta di accertamento della presenza di un’adeguata rete familiare. I
ricorrenti deducono di essere in grado di occuparsi del fratello e che la Corte d’appello
non ha adeguatamente valutato questo profilo.
3.- Con il terzo motivo del ricorso si lamenta la violazione e/o falsa applicazione di
norme di diritto in relazione in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., ovvero
travisamento della prova sul punto della ritenuta fragilità psichica dell’interessato,
nonché l’erronea interpretazione delle dichiarazioni rese dal beneficiario in sede di
ascolto con conseguente violazione del principio di autodeterminazione. I ricorrenti
deducono che la circostanza che il fratello abbia manifestato la volontà di essere
aiutato non costituisce condizione necessaria per l’applicazione di tale misura. Egli,
infatti, è capace di intendere e volere, è in salute e non deve assumere medicinali e in
occasione delle ultime elezioni ha regolarmente votato; la volontà di essere aiutato è
stata manifestata con riferimento alla cura quotidiana.
4.- Con il quarto motivo del ricorso si lamenta la violazione e/o falsa applicazione di
norme di diritto in relazione all’art. 409 c.c. nonché dell’art. 194 c.p.c. laddove il
giudice di merito non ha espletato consulenza tecnica di ufficio in assenza di
qualsivoglia motivazione. I ricorrenti osservano che prima di poter procedere alla
nomina di un amministratore di sostegno, si deve accertare che nel singolo caso
specifico ricorrano tutti i presupposti previsti dall’art. 404 c.c., ossia: la sussistenza o
meno di una infermità e/o di una menomazione, fisica o psichica; una effettiva
impossibilità, anche parziale, della persona beneficiaria di attendere ai propri
interessi; l’esistenza di un nesso causale tra le circostanze sopraddette. L’esistenza di
tali presupposti – imprescindibile per poter nominare un amministratore di sostegno –
può essere accertata solo attraverso un’indagine condotta da un tecnico del settore;
indagine alle cui conclusioni il giudicante deve eventualmente riportasi. Invece, il
giudice ha fondato il suo convincimento sulla base delle sole relazioni fornire dai
servizi sociali e dalla polizia locale mancando, pertanto, una analisi completa sugli
aspetti psicologici che dovevano essere vagliati anche da uno specialista e che di
ritiene necessaria ai fini del riconoscimento dei presupposti legittimanti l’adozione
della misura.
5. Con la ordinanza interlocutoria n. 19935/ 2024 emessa in esito alla udienza
camerale del 12 luglio 2024, il Collegio ha rilevato che l’odierno ricorso per
cassazione, promosso dai fratelli del beneficiario, è stato notificato al soggetto
nominato amministratore di sostegno (avv. C.) di G. P., ma non a quest’ultimo
personalmente; che ugualmente non risulta che gli sia stato notificato il reclamo,
promosso sempre dai fratelli, notificato invece all’amministratore di sostegno nella
supposizione che egli sia legittimato a rappresentare il beneficiario nel presente
procedimento; che non risulta dal tenore degli atti portati alla attenzione del Collegio,
che il giudice tutelare, pur procedendo alla audizione del beneficiario, lo abbia avvisato
della facoltà di nominare un difensore. Di conseguenza il Collegio, nella ordinanza
interlocutoria, oltre a disporre la notifica del ricorso per cassazione nei confronti del
diretto interessato, ha invitato le parti a interloquire sulla regolarità della procedura in
particolare sulla integrità o meno del contraddittorio, invitandoli espressamente a
indicare se vi sono ulteriori atti cui fare riferimento, al fine di verificare se il
beneficiario è stato preventivamente invitato a esercitare le garanzie difensive che gli
competono.
6.- Il Procuratore generale evidenzia come effettivamente la procedura in oggetto
abbia avuto inizio e prosecuzione in difetto di idoneo contraddittorio perché il
beneficiario; che il beneficiario rappresenta la (vera) parte legittimata a stare in
giudizio nei procedimenti riguardanti la propria persona così da consentirgli l’esercizio
dei diritti fondamentali; che il quadro normativo, quale già delineato nell’ordinanza
interlocutoria, non consente di derogare alla regola della conservazione (piena) della
capacità processuale dell’interessato ed al necessario coinvolgimento dello stesso nei
giudizi che lo riguardano che non risulta dagli atti la notifica del reclamo (incardinato
dai fratelli del beneficiario) notificato esclusivamente all’amministratore di sostegno
sulla erronea presupposizione che costui fosse l’unico soggetto legittimato a poter
rappresentare il beneficiario nel procedimento giudiziario; che questa lacuna ha viziato
e vizia l’intero procedimento e non può dirsi sanata dalla partecipazione in giudizio
dell’amministratore di sostegno. Sulla scorta di queste considerazioni ha chiesto
dichiararsi la nullità dell’intero procedimento.
7.- Le considerazioni del Procuratore generale sono condivisibili e si deve rilevare e
dichiarare la nullità del decreto di apertura della amministrazione di sostegno.
La questione è stata sottoposta al contraddittorio delle parti invitandole anche ad
indicare eventuali atti ulteriori rispetto a quelli già portati all’attenzione delle Corte,
rilevanti al fine di valutare se il contraddittorio è stato o meno instaurato. Il ricorso per
cassazione, unitamente alla ordinanza interlocutoria è stato notificato all’interessato,
ma nessun altro atto oltre a quelli già depositati è stato indicato o allegato dalle parti.
7.1.- Si deve quindi rilevare che il presente procedimento è stato aperto ad iniziativa
del Pubblico Ministero che aveva ricevuto segnalazioni da parte dei servizi sociali circa
la mancata cura in cui versava la persona di P. G. e la sua abitazione.
Non risulta dagli atti disponibili che questo ricorso sia stato notificato al beneficiario, il
quale è stato tuttavia condotto in udienza innanzi al giudice tutelare. Dal verbale di
udienza del 17/3/2023 non risulta che l’interessato abbia avuto la possibilità di
leggere il ricorso, né che gli sia stata spiegata adeguatamente la natura e la finalità
del procedimento, né che sia stato avvisato che il provvedimento avrebbe potuto
comportare limitazioni della capacità di agire; non risulta neppure che gli sia stato
rivolto l’invito a munirsi di un difensore. Il giudice tutelare si è limitato a chiedergli
“cosa ne pena se individuiamo una persona che la aiuta e la segue e la supporta nella
gestione della vita quotidiana?” domanda incongrua e fuorviante rispetto a quello che
sarà poi il contenuto del provvedimento adottato, ove sono previste limitazioni
importanti della capacità del beneficiario.
Il giudice tutelare ha infatti disposto che l’amministratore di sostegno è autorizzato a
compiere in sostituzione dell’interessato e in nome e per conto dello stesso tutti gli atti
di gestione patrimoniale, ordinaria e straordinaria, quali la riscossione della pensione,
l’utilizzo di carte di credito, la chiusura e apertura di conto correnti bancari, la
presentazione di dichiarazioni di redditi, gli investimenti mobiliari, la assunzione di
personale di servizio, la prestazione del consenso ai trattamenti chirurgici e sanitari
nonché al trattamento dei dati personali. Da questo momento in poi il beneficiario
scompare dal processo, posto che il reclamo è stato notificato soltanto al suo
amministratore di sostegno e non gli è stato notificato il ricorso per cassazione, se non
dopo che il Collegio ha ordinato la integrazione del contraddittorio.
7.2.- Di queste evidenti e palesi violazioni del principio del contraddittorio, nonché del
principio di salvaguardia della dignità della persona fragile, non si è preoccupata la
Corte d’appello, la quale si è limitata ad affermare che sussistono i presupposti per la
nomina di un amministratore di sostegno dal momento che il beneficiario, pur essendo
una persona colta, è affetto da “un disturbo schizoaffettivo di tipo residuale” e il suo
comportamento è incongruo: è trasandato, non è in grado di curare la propria persona
negli aspetti igienico sanitari, è uso a indossare abiti non adeguati alle condizioni
meteorologiche e girovagare per la città, non ha curato le pratiche di successione e
previdenziali.
8.- La descritta condizione di fragilità non giustifica però – ancor prima che la adozione
di una misura fortemente limitativa della capacità- il trattamento processuale ricevuto
dal G. e l’errore in cui sono incorse non solo le parti, ma anche entrambi i giudici di
merito nel non considerare che nella procedura per la istituzione di
un’amministrazione di sostegno non esistono parti necessarie al di fuori del
beneficiario dell’amministrazione (Cass. n.14190 del 05/06/2013) e che
l’amministratore di sostegno non può rappresentare il beneficiario nel giudizio di
impugnazione (Cass. n. 451 del 08/01/2024). L’art. 720-bis ratione temporis vigente
richiama infatti l’art. 716 c.p.c. sulla conservazione della capacità processuale
dell’interessato, e negli stessi termini oggi dispone l’ art.473- bis.55 in relazione
all’art. 473-bis.58 c.p.c.
8.1.- La conservazione della capacità processuale del diretto interessato nei giudizi
ablativi o limitativi della capacità di agire è un principio consolidato nel nostro
ordinamento, già previsto in tema di interdizione ed inabilitazione dall’art. 716 c.p.c.,
ancora prima della entrata in vigore della legge 9 gennaio 2004 n. 6, e risponde ai
principi costituzionali espressi dagli artt.24 e 111 Cost., in ragione dei quali deve
essere assicurata al titolare di diritti e interessi legittimi la piena capacità di agire e
difendersi nel processo ove questi diritti vengono in discussione, a maggior ragione se
si tratta di diritti fondamentali della persona.
8.2.- In termini, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che la ratio dell’art.
716 c.p.c., a norma del quale l’interdicendo non perde la capacità processuale di agire
e contraddire nel giudizio di interdizione, pur dopo che gli è stato nominato un tutore
provvisorio (e quindi deroga in parte qua all’art. 75 c.p.c.), è di consentirgli di
difendere il diritto all’integrale conservazione della capacità di agire. Ne deriva da un
lato che il predetto tutore non è parte necessaria di tale giudizio, non configurandosi
un interesse della tutela all’esito del medesimo; dall’altro che il tutore provvisorio non
assume la veste, nel giudizio di interdizione, di rappresentante processuale
dell’interdicendo (Cass. 16/11/2000, n.14866). Questo principio è stato applicato dalla
giurisprudenza di legittimità anche in tema di amministrazione di sostegno, pur
prendendo atto che si tratta di misura che non necessariamente comporta la
limitazione della capacità di agire; tuttavia ogniqualvolta si discuta, in un giudizio
promosso per la apertura della amministrazione sostegno della possibilità di applicare
l’art 411 c.c. che consente al giudice tutelare di estendere al beneficiario determinati
effetti, limitazioni o decadenze previsti per l’interdetto o l’inabilitato, una lettura
costituzionalmente orientata della normativa di riferimento esige che il destinatario
della misura ablativa di diritti disponga delle medesime garanzie che assistono le
procedure di interdizione o di inabilitazione, con particolare riferimento al rispetto del
diritto di difesa e del contraddittorio, non potendo ragionevolmente riconoscersi
garanzie differenziate in relazione a provvedimenti che spieghino pari effetti
sostanziali (Cass. 29/11/2006, n.25366; Cass. n. 6861 del 20/03/2013).
8.2.- Anzi, a maggior ragione le garanzie processuali devono essere applicate nel caso
dell’amministrazione di sostegno che, pur potendo comportare la limitazione delle
capacità del beneficiario, resta pur sempre una misura tendente a valorizzare
l’autonomia della persona ed a proteggerla senza mortificarne, se non nella misura
strettamente necessaria, la facoltà di autodeterminarsi (Cass. civ. 11/05/ 2017, n.
11536; Cass. civ. 26/10/ 2011, n. 22332).
E’ necessario quindi che il processo ove si discute delle misure dirette ad incidere sulla
vita e sulla capacità della persona abbia una struttura partecipativa e che il
beneficiando non venga considerato alla stregua di un semplice oggetto sul quale
compiere l’accertamento istruttorio, ma soggetto di diritto, protagonista, nei limiti in
cui lo consente la sua condizione, dei procedimenti che lo riguardano.
8.3.- Il beneficiando conserva dunque la capacità processuale per tutta la durata del
procedimento, anche se gli è stato nominato un amministratore provvisorio, e pur
quando il provvedimento di apertura dell’amministrazione è divenuto definitivo
conserva la facoltà di chiederne la revoca (art 413 c.c.). Egli conserva inoltre il diritto
di essere informato e di esprimere la propria opinione ed eventualmente il dissenso su
tutti gli atti dell’amministratore, il che costituisce uno spazio di libertà e di
autodeterminazione incomprimibile, anche nei casi in cui ne venga fortemente limitata
la capacità; e conserva la facoltà di rivolgersi in qualunque momento al giudice
tutelare anche in modo informale (Cass. n. 7414 del 20/03/2024).
9.- Di contro, l’amministratore di sostegno provvisoriamente nominato non può
costituirsi in nome e per conto del beneficiario, il quale ha diritto di difendersi
scegliendo liberamente il suo difensore (Cass. n. 451 del 08/01/2024);
l’amministratore, nel presente processo, non ha neppure la facoltà di proporre una
autonoma impugnazione perché l’art. 720- bis c.p.c. ratione temporis vigente non
richiama(va) l’art. 718 c.p.c. (sulla legittimazione alla impugnazione del tutore e
curatore). Diversamente, nel rito disegnato dal D.lgs. n. 149/2022, applicabile ai
procedimenti instaurati successivamente al 28 febbraio 2023, l’amministratore di
sostegno ha il potere di impugnare il provvedimento di primo e secondo grado, atteso
che l’articolo 473- bis. 58 c.p.c. richiama, in quanto compatibili, tutte le norme della
sezione terza, ferma restando però la conservazione della capacità processuale da
parte del beneficiario.
10.- Ciò non significa che il beneficiando debba necessariamente costituirsi nel giudizio
di apertura della amministrazione a mezzo di un difensore, o avere un difensore
d’ufficio, ma, dovendo fruire delle stesse garanzie previste per l’interdicendo e per
l’inabilitando deve essere informato della pendenza del procedimento e della facoltà di
difendersi in esso, pur avendo la libertà di restare – consapevolmente- contumace. Per
questa ragione si è affermato, nella consolidata giurisprudenza di questa Corte, che il
giudice deve, ogni caso in cui il provvedimento da emettere, sia o non corrispondente
alla misura richiesta, incida in maniera diretta sui diritti inviolabili della persona,
invitare la parte a nominare un difensore nel rispetto dei principi costituzionali in
materia di diritto di difesa e del contraddittorio (Cass. n. 25366 del 29/11/2006; Cass.
civ. n. 6861 del 20/03/2013).
11.- Il principio richiede talune precisazioni alla luce delle affermazioni contenute nella
sentenza delle sezioni unite di questa Corte n. 2198 del 30 luglio 2021 ove si afferma
che l’amministrazione di sostegno si configura come un istituto nel cui contenitore
sono riunite ed unificate fattispecie che secondo il sistema previgente erano
considerate tra loro ontologicamente diverse; e che prevede rimedi e forme di tutela,
anch’essi radicalmente nuovi e non compatibili con le preesistenti – ma rimaste in
vigore- figure normative di protezione degli incapaci. L’unicità del nuovo istituto che
combina in sé tratti disciplinari tradizionali con elementi del tutto innovativi, impedisce
quindi di pervenire ad una soluzione di carattere unitario, valida per tutti i casi
indistintamente, non potendosi quindi risolvere le varie problematiche che possano
insorgere in nome della generalizzata applicazione delle norme del procedimento
camerale ovvero di quello a cognizione ordinaria, imponendosi piuttosto soluzioni
differenziate a seconda delle varie fattispecie per le quali è richiesta l’amministrazione
di sostegno ovvero in relazione al contenuto del provvedimento emesso dal giudice
tutelare.
12.- L’amministrazione di sostegno è infatti disegnata dalla legge n. 6 del 9 gennaio
2004 come uno strumento volto a proteggere senza mortificare la persona affetta da
disabilità, chiamando il giudice all’impegnativo compito di adeguare la misura alla
situazione concreta della persona e di variarla nel tempo, così da assicurare
all’amministrato la massima tutela possibile con il minor sacrificio della sua capacità di
autodeterminazione. Introducendo l’amministrazione di sostegno, il legislatore ha
dotato l’ordinamento di una misura che può essere modellata dal giudice tutelare in
relazione allo stato personale e alle circostanze di vita di ciascun beneficiario e in vista
del concreto e massimo sviluppo delle sue effettive abilità.
La funzione della misura non è rassicurare i familiari sulla conservazione del
patrimonio, o preservare i terzi dal fastidio della convivenza civile con le persone
fragili, ma migliorare la qualità di vita del soggetto protetto soddisfacendo i suoi
bisogni e le sue esigenze; a questa condizione si giustifica l’intervento dell’autorità
giudiziaria ed è in vista di questa finalità che si assicura la partecipazione del
soggetto, nei limiti in cui le sue condizioni lo consentono, alle scelte che lo riguardano.
E’ di fondamentale importanza, quindi, che l’interessato abbia piena contezza della
ragioni per cui è richiesta la misura e delle sue possibili conseguenze, in modo da
potersi compiutamente esprimere in merito. Ciò anche al fine di consentire al giudice
verificare, da un lato, le competenze della persona e cioè le sue capacità e abilità, e,
dall’altro, le sue carenze, poiché la persona potrebbe essere in grado di
autodeterminarsi e di esercitare con sufficiente avvedutezza taluni diritti, ovvero
operare in taluni ambiti della vita sociale ed economica, mentre potrebbe non essere
abile e competente in altri settori. In esito a tale verifica il giudice, oltre a decidere
l’an della misura, deve anche definire e perimetrare i compiti e i poteri
dell’amministratore, in termini direttamente proporzionati all’incidenza degli accertati
deficit sulla capacità del beneficiario di provvedere ai suoi interessi, di modo che la
misura risulti specifica e funzionale agli obiettivi individuali di tutela, altrimenti
implicando un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona (Cass.
02/11/2022, n.32321).
12.1.- Una rivoluzione copernicana, quindi, che sostituisce alla idea che il soggetto
minus habens debba essere escluso (id est interdetto) dalla partecipazione alla società
civile, l’idea della inclusione, in conformità a quanto stabilisce l’art. 12 della
Convenzione di New York del 2006 sui diritti delle persone con disabilità, il quale
vincola gli Stati parte a consentire alle persone con disabilità l’accesso «al sostegno di
cui dovessero necessitare per esercitare la propria capacità giuridica». Il “sostegno”, in
questa prospettiva, è diretto a permettere al soggetto di esercitare in prima persona i
suoi diritti.
13.- Il modello ideale dell’amministrazione di sostegno è quindi quello di una misura di
mero supporto, che non comprime in alcun modo la capacità del soggetto ma la
potenzia, affiancandogli una persona che lo aiuta ad esercitare in prima persona i suoi
diritti. Ed è evidente che se ci si muove nell’ambito di questo modello ideale, lo
schema processuale da seguire non è quello del giudizio contenzioso, ma di una
procedura di gestione di interessi la cui attivazione è rimessa in primo luogo allo
stesso interessato (art 406 c.c.).
14.- I modelli ideali devono però far conto con la realtà e cioè con la possibilità che la
fragilità del soggetto richieda, per poter proteggere la persona e realizzare il suo
miglior interesse, una limitazione della capacità, come è consentito dall’art 411 c.c. La
misura, ove il giudice tutelare ritenga di estendere al beneficiario le limitazioni e
decadenze previste per l’interdetto o l’inabilitato comporta il conferimento
all’amministratore di specifici poteri di rappresentanza o di assistenza rispettivamente
analoghi a quelli del tutore o del curatore, nei limiti strettamente necessari a
proteggere gli interessi del beneficiario.
14.1.- In questo caso il giudizio è contenzioso perché si discute di diritti e cioè di
possibili limitazioni della capacità di agire; ed il fatto stesso che se ne debba discutere
impone il rispetto del diritto di difesa e del contradditorio, anche qualora l’esito del
giudizio sia poi nel senso della piena conservazione della capacità. Con la conseguenza
che, in questo caso, è doverosa una regolare vocatio in ius del diretto interessato, e
quindi la notifica non solo del ricorso ma anche di un decreto di comparizione con la
indicazione della data dell’udienza, che contenga l’avviso che la parte ha facoltà di
costituirsi conferendo mandato difensivo ad un avvocato, che in ogni caso si procederà
alla sua audizione e che il beneficiando conserva la capacità processuale per tutta la
durata del giudizio, anche nel caso di provvisoria apertura della amministrazione di
sostegno.
14.3.- Soltanto così la parte, edotta della natura del processo, delle sue finalità e dei
suoi diritti viene messa in condizione di partecipare consapevolmente al giudizio.
La possibilità che la persona interessata possa non comprendere il contenuto del
decreto di comparizione non esime certamente le parti ed il giudice dal promuovere e
istruire un regolare processo; si avrebbe altrimenti una anticipazione di giudizio sulla
mancanza di capacità dell’interessato. E non vi è ragione per ritenere che in un
giudizio ove si discuterà della sua capacità di agire il possibile beneficiario di
un’amministrazione di sostegno limitativa debba godere di garanzie processuali
inferiori a quelle di qualsiasi cittadino convenuto in giudizio per diritti patrimoniali,
garanzie disegnate dall’art. 163 c.p.c. che impone di offrire al convenuto tutte le
informazioni su ciò che deduce colui che ha promosso il giudizio, delle richieste che
costui muove all’autorità giudiziaria, nonché sulle modalità della costituzione e della
facoltà di ricorrere alla difesa tecnica, anche a spese dello Stato ricorrendone i
presupposti.
15.- Una ulteriore notazione deve farsi: poiché nel procedimento per l’apertura di
un’amministrazione di sostegno il giudice tutelare gode di ampi poteri ufficiosi, tra i
quali appunto quello di limitare la capacità a prescindere dalla domanda, non è
dirimente -al fine di valutare se si tratti di un procedimento contenzioso o meno- il
contenuto del ricorso introduttivo. Infatti, anche qualora i soggetti legittimati
propongano l’apertura di una mera amministrazione di supporto, in esito alla audizione
dell’interessato e delle parti il giudice tutelare potrebbe adottare un provvedimento
limitativo. Di conseguenza la regolare vocatio in ius del soggetto interessato -con la
notifica del ricorso e di un decreto di comparizione che riporti le indicazioni sopra
precisate- è sempre doverosa, salvo che nei casi in cui il giudice tutelare sia in grado
di escludere con assoluta certezza che in quel giudizio non si dovrà discutere di
limitazioni di capacità, oltre che nel caso in cui l’interessato stesso abbia proposto il
ricorso conferendo mandato ad un avvocato (difesa tecnica), perché in questo caso le
piene garanzie processuali sono già realizzate. Non così nel caso in cui il ricorso sia
proposto personalmente dall’interessato ma senza difesa tecnica; in tal caso va
comunque avvisato della facoltà di nominare un difensore.
16. Devono quindi enunciarsi i seguenti principi di diritto
A) Nel procedimento per l’apertura della amministrazione di sostegno, avendo il
giudice tutelare la facoltà di estendere al beneficiario, anche d’ufficio, effetti,
limitazioni o decadenze previste da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato,
è doverosa una regolare vocatio in ius del diretto interessato, con la notifica non solo
del ricorso ma anche di un decreto di comparizione con la indicazione della data
dell’udienza e che contenga l’avviso che la parte ha facoltà di costituirsi tramite un
avvocato, che può presentare istanza per la ammissione al patrocinio a spese dello
Stato, che in ogni caso si procederà alla sua audizione e che il beneficiando conserva
la capacità processuale per tutta la durata del giudizio, anche nel caso di provvisoria
apertura della amministrazione di sostegno. L’adempimento può essere omesso solo
qualora il giudice tutelare sia in grado di escludere con assoluta certezza che in quel
giudizio non si dovrà discutere di limitazioni di capacità, oltre che nel caso in cui
l’interessato stesso abbia proposto il ricorso conferendo mandato ad un avvocato; se
l’interessato ha proposto ricorso personalmente, senza ricorrere alla difesa tecnica,
dovrà essere avvisato dal giudice tutelare della facoltà di nominare un difensore.
B) Il beneficiario di una amministrazione di sostegno conserva, per tutta la durata del
giudizio, la capacità processuale e la facoltà di scegliere il difensore di sua fiducia e
non può essere rappresentato nel giudizio stesso dal nominato amministratore di
sostegno. Egli conserva in ogni caso, anche qualora la misura divenga definitiva, la
facoltà di chiedere la revoca della misura e di interloquire direttamente, anche per via
informale, con il giudice tutelare.
Da quanto sopra esposto consegue, in accoglimento per quanto di ragione del ricorso
e in conformità alle conclusioni del Pubblico Ministero la cassazione del provvedimento
impugnato, la dichiarazione di nullità del decreto di apertura della amministrazione di
sostegno e dell’intero processo, con rinvio ai sensi dell’art 383 comma 3 c.p.c. al
giudice tutelare del Tribunale di Padova in persona di magistrato diverso da quello che
ha emesso il decreto di apertura della amministrazione di sostegno, per un nuovo
esame previa regolare instaurazione del contraddittorio.
P.Q.M.
Accoglie per quanto di ragione il ricorso, cassa il provvedimento impugnato dichiara la
nullità del decreto di apertura della amministrazione di sostegno e dell’intero processo,
con rinvio al giudice tutelare del Tribunale di Padova in persona di magistrato diverso
da quello che ha emesso il decreto di apertura della amministrazione di sostegno, per
un nuovo esame, previa regolare instaurazione del contraddittorio.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri titoli
identificativi a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/2003.

Il compenso del Curatore Speciale del minore va posto a carico dei genitori soccombenti.

Tribunale di Pisa, decreto 9 ottobre 2024
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
Vista la richiesta di liquidazione del compenso avanzata dal curatore del
minore, Avv. XX, in ragione dell’attività svolta e dell’impegno profuso;
considerato che – benché la nomina del curatore del minore nel presente
procedimento sia stata assunta in applicazione delle norme antecedenti alla
c.d. Riforma Cartabia e quindi ai sensi del disposto dell’art. 78 c.p.c., al fine di
tutelare al meglio l’interesse del minore, vista la peculiare problematicità del
caso – tale nomina si inserisce nel solco che il legislatore della riforma ha poi
tracciato con il rafforzamento dell’istituto;
considerato che, nel perdurante silenzio sul punto del legislatore (anche nelle
nuove norme di cui all’art. 473 bis. 7 e 473 bis.8 c.p.c.), i curatori dei minori
sono nella prassi, nella stragrande maggioranza dei casi, avvocati specializzati
nel diritto di famiglia, quindi professionisti che fanno applicazione nell’esercizio
dell’incarico, oltre che delle proprie doti umane di equilibrio e buon senso,
anche e soprattutto del proprio bagaglio di conoscenze tecnico-professionali
(tanto che nelle prassi di molti uffici giudiziari costituisce titolo preferenziale
per la nomina l’aver svolto specifici corsi di formazione);
ritenuto che si debba far ricorso ai principi generali e in particolare al principio
dell’eccezionalità del carattere gratuito o meramente volontario di un’attività
lato sensu professionale e dunque pur sempre lavorativa, quale quella in
questione;
considerato altresì che, allorché il legislatore ha voluto stabilire la gratuità di
un incarico lo ha fatto espressamente come ad esempio per il tutore
dell’incapace (art. 379 c.c.) o per l’amministratore di sostegno (art. 411 c.c.
nella parte in cui fa rinvio anche all’art. 379 c.c.);
ritenuto, conseguentemente, che in assenza di un’analoga norma che preveda
la gratuità dell’Ufficio di curatore del minore, non è lecito inferirne la gratuità,
ma sia invece necessario ritenerne l’essenziale onerosità;
considerate le peculiarità della figura e del ruolo del curatore del minore, e
ritenuto che essa non sia inquadrabile nella nozione di mandatario, come
ritenuto da alcuni giudici di merito, in quanto la figura del mandatario
presuppone appunto il “mandato” ossia un incarico di compiere uno o più atti
giuridici nell’interesse del mandante, mentre nel caso del curatore l’incarico
non proviene dall’interessato, bensì dal giudice e ha ad oggetto non tanto e
non solo atti giuridici, ma una variegata attività anche fattuale (come ad
esempio i colloqui con i genitori, l’ascolto del minore…) non riconducibile
quindi ad atti giuridici in senso tecnico;
letto l’art. 3, lett. n del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, il quale dà una
definizione ampia di “ausiliario del magistrato” e vi ricomprende, tra gli altri,
“qualunque altro soggetto (…) comunque idoneo al compimento di atti, che il
magistrato o il funzionario addetto all’ufficio può nominare a norma di legge”;
ritenuto che tale ampia definizione si attagli al caso di specie e che pertanto,
anche in assenza di una normativa specifica e in forza del tenore letterale di
tale ultima norma, sia applicabile il Capo V del Titolo II delle Disposizione di
attuazione del c.p.c.;
letto, conseguentemente, l’art. 52 disp. att. c.p.c., in base al quale il compenso
deve essere liquidato con decreto dal Giudice che ha nominato l’ausiliario
“tenuto conto dell’attività svolta” e il decreto con cui i compensi sono liquidati,
a norma dell’art. 53 disp. att. c.p.c., deve contenere l’indicazione della “parte
che è tenuta a corrisponderli”;
ritenuto, quanto ai criteri e parametri di liquidazione da applicare, che il
Decreto Ministeriale 13 agosto 2022, n. 147 (regolamento recante modifiche al
decreto 10 marzo 2014, n. 55, concernente la determinazione dei parametri
per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo
13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247) al cui art. 10-septies
prevede che “Per le attività difensive svolte dall’avvocato in qualità di curatore
del minore, il compenso è liquidato applicando i parametri previsti dalle tabelle
allegate al presente decreto relative alle procedure e ai giudizi in cui è di volta
in volta nominato”;
ritenuto che ove il curatore speciale del minore non abbia svolto attività
prettamente “difensive”, ma abbia invece rappresentato l’interesse del minore
nei rapporti con i genitori e con il giudice e proceduto all’ascolto del minore,
non sia applicabile tale norma, quanto piuttosto, in base a criteri generali
stabiliti, la normativa per la liquidazione del compenso degli ausiliari del
giudice e quindi innanzitutto dell’art. 49 L DPR 115/01 cit. (“agli ausiliari del
magistrato spettano l’onorario, l’indennità di viaggio e di soggiorno, le spese di
viaggio e il rimborso delle spese sostenute per l’adempimento dell’incarico”) e
dell’art. ART. 51 (L) DPR cit. (“Nel determinare gli onorari variabili il magistrato
deve tener conto delle difficoltà, della completezza e del pregio della
prestazione fornita”);
ritenuto che, quanto alla misura degli onorari, sia applicabile l’art. 50 DPR
115/01 e poiché l’attività del curatore non rientra in alcuna delle attività per le
quali sono previsti onorari a tariffa, che debba conseguentemente farsi ricorso
agli onorari a vacazioni;
ritenuto che l’onere del pagamento dei compensi debba gravare sui genitori
esercenti la responsabilità genitoriale, non essendovi motivo alcuno per
discostarsi dal principio generale in forza del quale le spese legittimamente
dovute in favore dei figli devono essere sostenute innanzitutto dai genitori
(artt. 147, 148, 316, 316 bis, 320 c.c.);
ritenuto, infatti, di non condividere la diffusa tesi secondo la quale, mutuando
l’orientamento consolidatosi presso i tribunali per i minorenni, dovrebbe
ritenersi onerato del pagamento del compenso direttamente il minore, il quale
quindi, in quanto di regola privo di redditi, dovrebbe sempre beneficiare
dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (facendo anche leva, da parte
dei sostenitori di questa tesi, sulla norma di cui all’art. 76 L DPR 115/02 cit.
che consente – in caso in cui gli interessi del richiedente siano in conflitto con
quelli degli altri familiari con lui conviventi – di tener conto solo dei redditi del
richiedente (in questo caso appunto del solo minore);
ritenuto, infatti, che debbano valutarsi a tal fine i seguenti elementi, in senso
contrario alla tesi anzidetta:
– nella grande maggioranza dei casi, dinanzi al TO si verte in situazioni in cui i
genitori si trovano ancora nella piena titolarità della responsabilità genitoriale e
quindi, come tali, sono direttamente obbligati col proprio patrimonio a far
fronte agli obblighi civili della prole minorenne – al contrario di quanto accade
comunemente presso i Tribunali per i minorenni;
– la nozione di conflitto di interessi che è alla base della norma di cui all’art. 76
L DPR 115/02 che non si attaglia al caso in questione: infatti, tra il genitore
esercente la responsabilità genitoriale ed il proprio figlio minore può sussistere
un mero conflitto di fatto, ma mai un conflitto di interesse in senso tecnico,
come quello delineato da tale norma, atteso che il genitore ha l’obbligo
giuridico di perseguire l’interesse vero ed ultimo del figlio minore (e quindi
anche eventualmente ove diverso da quello che egli/ella ritenga tale);
– ragioni di giustizia sostanziale impongono di tenere nella debita
considerazione il fatto che, ove il tribunale debba nominare un curatore
speciale del minore per individuare quale sia l’interesse del minore e tutelarlo
anche nei confronti del genitore, la relativa spesa debba essere sostenuta dal
genitore stesso, trattandosi di spesa stabilita dal giudice, necessaria nel
superiore interesse del figlio minore;
– sarebbe inoltre contrario a giustizia far ricadere sull’Erario e dunque sulla
collettività, notevolissimi oneri di spesa, connessi ai compensi e spese del
curatore (attesa l’implementazione che all’istituto ha dato la Riforma Cartabia,
munendo alcune ipotesi di nomina obbligatoria addirittura della sanzione della
nullità processuale, in caso di omessa nomina), spesso derivanti da patenti
violazioni da parte dei genitori, o di uno di essi, ai propri basilari doveri nei
confronti dei propri figli minori;
– ritenuto infatti che, diversamente opinando, tali genitori si vedrebbero
ingiustificatamente sollevati, magari pur in presenza di una situazione
finanziaria florida, dalle conseguenze patrimoniali delle proprie condotte illecite
e inadempienti ai propri doveri genitoriali;
ritenuto, pertanto, per quanto precede, che l’onere del compenso del curatore
del minore debba essere posto in capo ai genitori, e che debba applicarsi, al
pari del compenso per gli altri ausiliari del giudice, la regola della
soccombenza;
ritenuto, tuttavia che, al pari di quanto accade per gli ausiliari, non possa
procedersi alla liquidazione, una volta che la causa sia definita, posto che dopo
tale momento il giudice perde il potere di emettere il provvedimento con cui
grava le parti delle spese del giudizio, (in tal senso, sulla liquidazione del ctu
dopo la definizione della causa, Cass. civ. Sez. IV, ord. 30/11/2021 n.
37480/21, nella quale la Suprema Corte ricorda che al professionista rimane la
possibilità di richiedere l’emissione di un decreto ingiuntivo);
rilevato, infatti che una volta definito il giudizio e regolato con sentenza l’onere
delle spese processuali, il giudice non ha più il potere di provvedere alla
liquidazione del compenso di un ausiliario, pena l’emissione di un
provvedimento abnorme, emesso da un Giudice in carenza di potere, che
andrebbe ad incidere in modo definitivo su posizioni di diritto soggettivo (Cass.
civ. VI sez., Ord. 3/8/2021 n. 24101);
ritenuto, per quanto precede, di non poter procedere alla liquidazione;
P.Q.M.
Rigetta l’istanza.

Dichiarazione giudiziale di paternità: anche il test del DNA sui figli del genitore biologico costituisce mezzo di prova.

Cass. Civ., Sez. I, Ordinanza del 31 dicembre 2024, n. 35232,
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2423/2024 R.G. proposto da:
A.A., B.B., in qualità di eredi di C.C., elettivamente domiciliati in ROMA VIA
BEVAGNA 3, presso lo studio dell’avvocato DE GASPERIS MAURIZIO (Omissis)
che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato DE MARZIO STEFANIA
MARIA (Omissis) per procura speciale allegata al ricorso;
ricorrente
Contro
D.D., elettivamente domiciliato in ROMA VIA CASSIA 1606, presso lo studio
dell’avvocato LAPENNA ALBERTO (Omissis) che lo rappresenta e difende per
procura speciale allegata al controricorso
Controricorrente
Avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 7717/2023
depositata il 29/11/2023;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/12/2024 dal
Consigliere CLOTILDE PARISE.
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 2212/2022 del 27 gennaio 2022,
all’esito dell’espletamento di C.T.U. genetica, dichiarava che C.C. era padre di
D.D., nato il (Omissis), ordinava all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune di
Roma di annotare la sentenza, al passaggio in giudicato, nel registro degli atti
di nascita di D.D. e condannava in solido i convenuti A.A., B.B., in qualità di
eredi di C.C., al pagamento delle spese di lite, ponendo le spese di C.T.U. per
metà a carico di parte attrice e per metà a carico dei convenuti. L’attore, a
sostegno della domanda, aveva dedotto di aver sempre sospettato di non
essere il figlio biologico di E.E., marito della propria madre, e di avere avuto la
certezza di ciò solo in data 14 Luglio 2013, data in cui aveva ricevuto una
lettera confessoria con la quale sua madre H.H. aveva dichiarato di aver
intrattenuto, da giovane, una relazione adulterina con C.C., nel corso della
quale ella sarebbe rimasta incinta; tale relazione si era di seguito interrotta, a
causa dell’imminente matrimonio del C.C. con F.F., madre di B.B. e di A.A.
La confessione della madre aveva quindi indotto l’attore ad adire il Tribunale di
Roma per sentir dichiarare che E.E., marito della H.H., deceduto in data 3
Aprile 1977, non era in effetti il suo genitore biologico. Con sentenza n.
16719/2017 il suddetto Tribunale aveva accolto la domanda, dichiarando che
E.E. non era il padre biologico dell’attore. Di conseguenza, quest’ultimo aveva
incardinato il giudizio di riconoscimento della paternità nei confronti degli eredi
di C.C., e specificamente dei figli G.G. e B.B., giudizio che si era concluso con la
citata sentenza n. 2212/2022.
2. La Corte d’Appello di Roma, con sentenza 7717/2023 pubblicata il
29/11/2023, rigettava l’appello proposto da A.A. e B.B., nella qualità di eredi di
C.C., avverso la suddetta sentenza. La Corte di merito riteneva attendibile la
dichiarazione olografa sottoscritta da H.H., con la quale quest’ultima rivelava al
figlio l’identità del suo genitore biologico, anche se avvenuta a distanza di molti
anni dalla morte del marito della donna e dalla morte dello stesso C.C., e
riteneva non rilevanti alcune discrasie cronologiche evidenziate dagli appellanti.
La Corte d’Appello aggiungeva che la suddetta dichiarazione, di indubbio valore
indiziario, era stata avvalorata, nel corso dell’istruttoria di primo grado,
dall’accertamento peritale disposto dal Tribunale, all’esito del quale il nominato
consulente tecnico di ufficio, dopo accurata verifica tecnica ed approfondito
esame scientifico del materiale biologico acquisito, aveva inequivocabilmente
affermato che i risultati ottenuti sulla base della comparazione genetica dei
campioni analizzati (quello del D.D. e quelli dei germani C.C.) erano
“fortemente indicativi di una comune discendenza in linea paterna tra D.D. e
C.C. A.A. e B.B. con una probabilità superiore al 99,70 per cento e che tale
condivisione non presenta le caratteristiche della casualità”. Dette conclusioni
erano state poi integralmente confermate dal tecnico dell’ufficio, anche in
seguito alla valutazione delle osservazioni formulate dai consulenti di parte dei
convenuti.
3. Avverso la suddetta sentenza, A.A. e B.B., nella qualità di eredi di C.C.,
propongono ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei confronti di D.D.,
che resiste con controricorso.
4. Il ricorso è stato fissato per la trattazione in camera di consiglio. Le parti
hanno depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
1. I ricorrenti denunciano: i) con il primo motivo la violazione e falsa
applicazione, ai sensi dell’art. 360 , comma 1, n. 3 c.p.c., dell’art. 115 c.p.c. e,
per l’effetto, la violazione e falsa applicazione degli artt. 269 e 2697 Cod. Civ.,
per avere il Giudice di appello illegittimamente ritenuto che la sentenza emessa
dal Tribunale di Roma dovesse essere confermata sul presupposto che la prova
della paternità di D.D. potesse essere, in primo luogo, desunta dalla
dichiarazione confessoria di sua madre H.H.; deducono che avevano sempre
contestato la valenza probatoria della suddetta dichiarazione confessoria e, con
evidente travisamento, la Corte di merito aveva affermato che tale
dichiarazione non avesse costituito oggetto “di specifica contestazione da parte
dei convenuti, quanto alla provenienza e al contenuto”; denunciano la
violazione dell’art. 115 c.p.c. e deducono che il decisum si poneva, altresì, in
contrasto di cui agli artt. 269 e 2697 c. c., poiché non poteva ritenersi, in
alcun modo, raggiunta la prova dell’accertamento di paternità; ii) con il
secondo motivo la nullità della sentenza in relazione all’art. 360 , comma 1, n.
4 c.p.c., per violazione degli artt. 132 e dell’art. 115 c.p.c., e, comunque, per
difetto assoluto di motivazione e/o motivazione inesistente o solamente
apparente in relazione ad un fatto decisivo per la controversia, per avere la
Corte di appello fondato la propria decisione su un dato probatorio inesistente,
e frutto di un evidente travisamento; deducono che, come evidenziato di
consulenti di parte, l’analisi era stata effettuata sia in assenza del presunto
padre sia in assenza della madre del probando, atteso che si disponeva
unicamente di un numero esiguo di parenti (i fratelli C.C.) ed, oltretutto,
l’indagine era stata svolta esclusivamente sulla linea paterna, sicché ad avviso
del ricorrenti era assolutamente e scientificamente impossibile l’esatta
ricostruzione del profilo genetico del presunto padre; iii) con il terzo motivo la
violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 , comma 1, n. 3 c.p.c.,
degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione all’esame effettuato dalla Corte di
appello del presupposto legittimante la condanna alle spese di lite dei
ricorrenti, che non potevano considerarsi soccombenti, data la peculiarità della
situazione, e anche perché in sede di costituzione in giudizio avevano
dichiarato la propria disponibilità a sottoporsi agli esami, genetici ed
ematologici, necessari all’accertamento della dedotta paternità.
2. I motivi primo e secondo, da esaminarsi congiuntamente per la loro
connessione, sono inammissibili.
2.1. Circa le doglianze svolte con il primo mezzo, si osserva che la Corte di
merito ha in dettaglio esaminato la valenza probatoria della confessione della
madre del controricorrente e, con motivazione congrua, l’ha ritenuta solo un
indizio avvalorato dal test del DNA ed ha in ogni caso espresso la valutazione di
attendibilità di quella dichiarazione non solo richiamando il principio di non
contestazione, ma anche e soprattutto valorizzando plurimi elementi fattuali,
analiticamente indicati, anche a confutazione degli argomenti contrari addotti
dagli odierni ricorrenti.
Le articolate censure svolte a tale riguardo dai ricorrenti non si confrontano
compiutamente con il percorso argomentativo della sentenza impugnata e si
risolvono, in realtà, impropriamente in una richiesta di riesame dei fatti e delle
risultanze probatorie. Occorre ribadire che in tema di ricorso per cassazione, la
violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice
abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso
avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie
basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, mentre, per dedurre la
violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice,
contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale
disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte
dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli,
non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia
attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre,
essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. 26769/2018 ; Cass.
26739/2024 ).
Nella specie i ricorrenti, tramite l’apparente denuncia di vizi di violazione di
legge (artt.115 c.p.c., 269, 2697 c. c.), censurano la valutazione dei fatti e
delle risultanze probatorie effettuata dalla Corte di merito, sollecitandone il
riesame in sede di legittimità.
Quanto alle doglianze riferite all’accertamento peritale e all’esame genetico
ricostruito solo mediante indagine sugli altri figli di C.C. (secondo motivo),
secondo l’orientamento consolidato di questa Corte che il Collegio condivide, in
tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’ammissione degli
accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova
storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre,
giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269 ,
comma 2, c.c., non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di
una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella
paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una
sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per
converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e
risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento
all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali
attinenti allo status (tra le altre Cass. 3479/2016 ). In tema di mezzi utilizzabili
per provare la paternità naturale, l’art. 269 c. c. ammette anche il ricorso ad
elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base del canone
dell’id quod plerumque accidit, risultino idonei, per attendibilità e concludenza,
a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della paternità, sicché risultano
utilizzabili, raccordando tra loro le relative circostanze indiziarie, sia l’accertato
comportamento del preteso genitore che abbia trattato come figlio la persona a
cui favore si chiede la dichiarazione di paternità (cd. tractatus), sia la
manifestazione esterna di tale rapporto nelle relazioni sociali (cd. “fama”), sia,
infine, le risultanze di una consulenza immuno-ematologica eseguita su
campioni biologici di stretti parenti (nella specie, i figli) del preteso genitore
(Cass. 1279/2014 ). L’art. 269 cod. civ. – che, nel testo antecedente alle
modifiche introdotte dall’art. 113 della legge di riforma del diritto di famiglia,
ammetteva la ricerca della paternità naturale solo nell’ambito di alcune
presunzioni legali espressamente previste – nella sua attuale formulazione, che
consente di utilizzare ogni mezzo di prova, non pone alcun limite in ordine ai
mezzi attraverso i quali può essere dimostrata siffatta paternità, onde il giudice
di merito, dotato di ampio potere discrezionale al riguardo, può legittimamente
fondare il proprio convincimento sulla effettiva sussistenza di un rapporto di
filiazione anche su risultanze istruttorie dotate di valore puramente indiziario,
senza che assuma carattere di indefettibilità neppure la dimostrazione
dell’esistenza di rapporti sessuali tra la madre ed il preteso padre durante il
periodo del concepimento (Cass. 12166/2005 ).
La Corte d’Appello si è attenuta ai suesposti principi, disponendo il test
genetico con riguardo ai figli del soggetto della cui paternità si trattava e
nominando altresì il consulente tecnico d’ufficio, che, dopo accurata verifica
tecnica ed approfondito esame scientifico del materiale biologico acquisito,
aveva affermato che i risultati ottenuti sulla base della comparazione genetica
dei campioni analizzati (quello del D.D. e quelli dei germani C.C.) erano
“fortemente indicativi di una comune discendenza in linea paterna tra D.D.
Dario e C.C. A.A. e B.B. con una probabilità superiore al 99,70 per cento e che
tale condivisione non presenta le caratteristiche della casualità”. La Corte di
merito ha aggiunto che dette conclusioni erano state integralmente confermate
dal tecnico dell’ufficio, anche in seguito alla valutazione delle osservazioni
formulate dai consulenti di parte dei convenuti, e neppure rispetto a detta
ultima affermazione si rinviene in ricorso una critica compiuta e pertinente. In
definitiva, pure le doglianze di cui trattasi sono generiche e inconferenti, poiché
si risolvono in una mera reiterazione di argomenti già sottoposti ai giudici
d’appello e confutati con idonea motivazione, anche in ordine al diniego di
rinnovazione della C.T.U.
3. Anche il terzo motivo è inammissibile.
La Corte territoriale ha ritenuto corretta e condivisibile la statuizione del
Tribunale sulle spese di lite, stante la integrale soccombenza degli appellanti,
odierni ricorrenti, rispetto alla domanda. Nello specifico la Corte di merito ha
rimarcato che gli appellanti, pur essendosi dichiarati disponibili a fornire tutto il
materiale necessario allo svolgimento degli accertamenti tecnici, avevano
tuttavia decisamente resistito alla domanda, rilevandone la assoluta
infondatezza e invocandone il rigetto. A fronte di detto lineare percorso
argomentativo, e in disparte il rilievo dell’incensurabilità in sede di legittimità
della statuizione di compensazione delle spese di lite nel senso precisato da
questa Corte (Cass. 17816/2019 ), ancora una volta non è dato rinvenire nel
ricorso una critica compiuta e pertinente, ma una mera riproposizione delle
difese svolte nel giudizio di merito.
4. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo, con distrazione in favore del difensore del controricorrente
dichiaratosi antistatario.
Ai sensi dell’art.13 , comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002 , deve darsi atto
della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei
ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso
art.13, ove dovuto (Cass. S.U. n.5314/2020 ).
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le
generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30
giugno 2003 n. 196 , art. 52 .
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna i ricorrenti in solido alla
rifusione delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 3.700,00, di
cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali (15 per cento) ed
accessori, come per legge, con distrazione in favore del difensore del
controricorrente avv. Alberto Lapenna dichiaratosi antistatario.
Ai sensi dell’art.13 , comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002 , dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei
ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso
art.13, ove dovuto.
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le
generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30
giugno 2003 n. 196 , art. 52 .
Conclusione
Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2024.

Reati sessuali. La valutazione delle dichiarazioni testimoniali del minore

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 10 dicembre 2024, n. 45239
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 08/04/2024, la Corte di appello di Salerno confermava la sentenza emessa in data
01/06/2023 dal Tribunale di Vallo della Lucania, con la quale A.A. e B.B. erano stati dichiarati
responsabili dei contestati reati di violenza sessuale aggravata e di atti sessuali con minorenne
commessi in danno di C.C. e, escluse le aggravanti di cui agli artt. 609-ter n. 5 quater e 5 sexies cod.
pen., e condannati, riconosciuta alla B.B. la diminuente di cui all’art. 11cod. pen., il A.A., alla pena
di anni quindici di reclusione e, la B.B. alla pena di anni tredici e mesi quattro di reclusione ed alle
correlate pene accessorie, nonché al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, a mezzo dei difensori di
fiducia, articolando cinque motivi di seguito enunciati.
Con il primo motivo deducono violazione dell’art. 178, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. ed
eccepiscono la nullità della sentenza di appello ai sensi degli artt. 604 e 179 cod. proc. pen.
Argomentano che tra le fonti di prova ritenute dirimenti ai fini dell’attribuzione della colpevolezza
degli imputati erano stati posti i risultati delle analisi del RIS di Roma sul materasso sequestrato
presso il casolare ubicato nella cd “terra degli animali”; tali risultati erano inficiati dall’assenza di
comunicazioni ai difensori degli imputati circa la sottoposizione a prelievo del DNA della persona
offesa, avvenuta in un momento successivo ed assolutamente sconosciuto rispetto a quello in cui gli
imputati, spontaneamente ed alla presenza del difensore avv. M. B., si sottoponevano alle operazioni
di prelievo del loro DNA da parte dei RIS (operazioni avvenute presso la Caserma CC di Vallo della
Lucania contemporaneamente al campionamento dei reperti sul materiale sequestrato ed al correlativo
prelevamento e catalogazione); la questione era stata erroneamente disattesa dalla Corte di appello
sul presupposto che trattavasi di nullità a regime intermedio per la quale era intervenuta sanatoria,
mentre essendo stato leso il diritto di intervenire dell’imputato, è configurabile una nullità assoluta ed
insanabile.
Con il secondo motivo deducono vizio assoluto di motivazione in relazione ai reati contestati per
omesso scrutinio del motivo di appello concernente la prova scientifica.
Argomentano che la sentenza impugnata non si era soffermata sulla censura relativa alla prova
scientifica, DNA, mossa con l’atto di appello e, cioè, al vizio inerente l’approccio
scientifico/metodologico, in relazione alla circostanza che l’imputata B.B. e la persona offesa sono
madre e figlia con identità di DNA mitocondriale e che, quindi, le tracce biologiche trovate sul
materasso erano da imputare all’imputata e non alla persona offesa.
Con il terzo motivo deducono motivazione illogica e contraddittoria in relazione alla valutazione delle
prove decisive ai fini della affermazione di responsabilità, lamentando che, come evidenziato in sede
di appello, il Tribunale aveva dato valenza ai fini dell’attendibilità della persona offesa alla perizia
espletata dal consulente dell’accusa, priva di una metodologia scientifica di riferimento, come
evidenziato dal consulente di parte in sede di esame dibattimentale.
Con il quarto motivo deducono carenza di motivazione in ordine alle divergenze e contraddizioni tra
la querela presentata dalla vittima e l’incidente probatorio espletato, lamentando che la Corte di
appello non aveva dato specifica risposta alle relative censure difensive inerenti il tempus ed il focus
commissi delicti come descritti dalla persona offesa (epoca del primo episodio di abuso, epoca di
assunzione della pillola anticoncezionale; data del primo rapporto sessuale di gruppo; descrizione del
terreno cd degli animali e del terreno cd degli ulivi).
Con il quinto motivo deducono l’illegalità della pena per i fatti ravvisati in continuazione, lamentando
che i Giudici di merito avevano applicato una cospicua frazione di pena a titolo di continuazione in
assenza di effettiva dimostrazione dei singoli episodi, costituenti ciascuno una ipotesi di reato, avvinti
dal vincolo della continuazione.
Chiedono, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.
3. Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio senza la partecipazione del Procuratore generale e
dei difensori delle parti. Il PG ha depositato requisitoria scritta. Il difensore della parte civile ha
depositato conclusioni scritte.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La Corte di appello ha correttamente disatteso la censura qui riproposta, evidenziando sia che le
operazioni di prelievo del DNA effettuate da parte dei Carabinieri del RIS di Roma sulla persona
offesa non costituivano accertamento irripetibile e, pertanto, non trovava applicazione la disciplina
prevista dall’art. 360 cod. proc. pen., sia che, comunque, l’eccezione era stata tardivamente proposta
solo con l’atto di appello.
Va osservato che l’omissione dell’avviso all’indagato, alla persona offesa e ai difensori di accertamenti
irripetibili integra un’ipotesi di nullità di ordine generale a regime intermedio, che deve essere eccepita
prima della deliberazione della sentenza di primo grado (Sez. 1, n. 28459 del 23/04/2013, Rv. 256105-
01; Sez. 6, n. 10688 del 15/10/1996, Rv. 206576-01).
L’eccezione in esame, pertanto, risulta intempestiva, perché proposta solo i motivi di gravame avverso
la sentenza di primo grado.
La doglianza, comunque, è anche manifestamente infondata.
Questa Corte ha precisato che l’attività di prelievo del DNA non ha una sua autonomia probatoria
essendo una operazione prodromica alla effettuazione di analisi tecniche successive che, nel caso
della analisi del Dna, si individuano nella attività tecnica di estrazione del profilo genetico sia dai
campioni prelevati coattivamente che dalle tracce presenti sui reperti e nella successiva attività di
comparazione dei profili estratti. Nel caso della attività di identificazione attraverso il Dna è
sufficiente carpire un campione salivare o acquisire capelli o peli: si tratta di un intervento che non
richiede l’utilizzo di competenze tecniche tali da attivare i presidi di tutela che regolamentano
l’acquisizione della prova scientifica (dr. Sez. 2, n. 2476 del 27/11/2014, dep. 20/01/2015, Rv. 261866-
01).
E si è osservato, ulteriormente, che occorre distinguere tra rilievi tecnici ed accertamento tecnici, e
all’interno di questi ultimi, tra accertamenti tecnici ripetibili ed accertamenti tecnici non ripetibili,
conformemente atte disposizioni di cui agli artt. 359 e 360 cod. proc. pen.
Il rilievo tecnico consiste nell’attività di raccolta di elementi attinenti al reato per il quale si procede,
mentre l’accertamento tecnico, ripetibile o irripetibile, si estende al toro studio e atta loro valutazione
critica, secondo canoni tecnici, scientifici ed ermeneutici (cfr. Sez. 2, n. 34149 del 10/07/2009, dep.
04/09/2009, Chiesa e altro, Rv. 244950). In questo contesto, i prelievi sul DNA (sulla persona o
attraverso il sequestro di oggetti contenenti residui organici), qualificabili come rilievi tecnici e
delegabili ex art. 370 cod. proc. pen., non sono atti invasivi o costrittivi, essendo semplicemente
prodromici all’effettuazione di successivi accertamenti tecnici – ripetibili o irripetibili – e non
richiedendo conseguentemente l’osservanza di garanzie difensive (cfr. Sez. 1, n. 18246 del
25/02/2015, Rv. 263859-01; Sez. 1, n. 8393 del 02/02/2005, dep. 03/03/2005, Candela e altro, Rv.
233448).
2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
La Corte di appello ha disatteso la deduzione difensiva qui riproposta, evidenziando che la doglianza
era priva di adeguato supporto scientifico idoneo a superare le risultanze dalla CTP dei Carabinieri
del RIS di Roma, posta a base della affermazione di responsabilità unitamente alle complessive
risultanze istruttorie (cfr. pp 14 e 15 della sentenza impugnata e paragrafo 2.8. della sentenza di primo
grado).
I ricorrenti, neppure confrontandosi con tali argomentazioni (confronto doveroso per l’ammissibilità
dell’impugnazione, ex art. 581 cod. proc. pen., perché la sua funzione tipica è quella della critica
argomentata avverso il provvedimento oggetto di ricorso, cfr Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Rv.
243838; Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, Rv. 244181), propongono censure orientate a sollecitare
una rivalutazione delle risultanze istruttorie, preclusa in sede di legittimità (Sez. U, n. 2110 del
23/11/1995, Fachini, Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U,
n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).
Da tanto discende l’inammissibilità della doglianza.
3. Il terzo motivo ed il quarto motivo di ricorso, che si trattano congiuntamente perché oggettivamente
connessi, sono manifestamente infondati.
3.1. Va premesso che, in caso di “doppia conforme” affermazione di responsabilità – come nella specie
– è pienamente ammissibile la motivazione della sentenza di appello per relationem a quella della
sentenza di primo grado, sempre che le censure formulate contro la decisione impugnata non
contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi. È, infatti, giurisprudenza
pacifica di questa Suprema Corte che la sentenza appellata e quella di appello, quando non vi è
difformità sui punti denunciati, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed
inscindibile, una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della
congruità della motivazione, integrando e completando con quella adottata dal primo giudice le
eventuali carenze di quella di appello (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Rv. 257595; Sez. 2 n. 34891
del 16.05.2013, Vecchia, Rv. 256096, non massimata sul punto; conf. Sez. 3, n. 13926 del 1.12.2011,
dep. 12.4.2012, Valerio, Rv. 252615: sez. 2, n. 1309 del 22.11.1993, dep. 4.2. 1994, Albergamo ed
altri, Rv. 197250).
Inoltre, secondo il costante orientamento di questa Corte, il Giudice di merito può trarre il proprio
convincimento circa la responsabilità penale anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa,
sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità, senza la necessità di applicare le
regole probatorie di cui all’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di
riscontri esterni (Cfr. Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Rv. 253214; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015,
Rv. 265104-01 Sez. 1, n. 29372 del 27/7/2010, Rv. 24801).
Si è anche precisato come tale controllo, considerato l’interesse di cui la persona offesa è naturalmente
portatrice ed al fine di escludere che ciò possa comportare una qualsiasi interferenza sulla genuinità
della deposizione testimoniale, debba essere condotto con la necessaria cautela, attraverso un esame
particolarmente rigoroso e penetrante, che tenga conto anche degli altri elementi eventualmente
emergenti dagli atti (Sez. 6, n. 33162 del 03/06/2004, Rv. 229755-01). Anche più di recente si è
ribadito che te dichiarazioni della persona offesa, costituita parte civile, possono essere poste, anche
da sole, a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, più
penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni,
della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto e, qualora
risulti opportuna l’acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento
idoneo a escludere l’intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove
del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione, posto che la loro funzione è sostanzialmente
quella di asseverare esclusivamente ed in via generale la sua credibilità soggettiva (Cfr. Sez. 5, n.
21135 del 26/03/2019, Rv. 275312-01).
Tali principi trovano applicazione ancor più rigorosa allorché la persona offesa sia un minore ed i fatti
narrati possano interagire con gli aspetti più intimi della sua personalità adolescenziale o infantile, sì
da accentuare il rischio di suggestioni, di reazioni emotive, di comportamenti di compiacenza o
autoprotettivi, in quanto – ancorché non esistano nel sistema processuale preclusioni o limiti generali
alla capacità del minore di rendere testimonianza (sez. 3, 6 maggio – 8 luglio 2008, n. 27742) – si
impone tuttavia una particolare cautela nello scandagliare il vissuto del bambino e la sua capacità
rielaborativa (sez. 3, 3 luglio 1997, Ruggeri).
In proposito va ricordato che questa Corte ha reiteratamente affermato che la valutazione delle
dichiarazioni testimoniali del minore, persona offesa di reati sessuali, presuppone un esame della sua
credibilità in senso onnicomprensivo e che tenga conto di più elementi.
È necessario, infatti, che l’esame della credibilità tenga conto dell’attitudine a testimoniare, della
capacità a recepire le informazioni, ricordarle e raccordarle (ovvero l’attitudine psichica, rapportata
all’età, a memorizzare gli avvenimenti e a riferirne in modo coerente e compiuto), nonché del
complesso dette situazioni che attingono la sfera inferiore del minore e le condizioni emozionali che
modulano i rapporti col mondo esterno, il contesto delle relazioni con l’ambito familiare ed
extrafamiliare e i processi di rielaborazione delle vicende vissute” (cfr. Sez. 3, n. 39994 del 26/9/2007,
Maggioni, Rv. 237952 e Sez. 3, n. 29612 del 27/7/2010, P.C. in proc. R. e altri., Rv. 247740).
Va anche ricordato che linee guida della Carta di Noto, nei casi in cui le prescrizioni non siano
nemmeno indirettamente trasfuse in analoghe previsioni del codice di rito (casi e modi in cui
procedere all’accertamento della capacità a testimoniare del minorenne – artt. 5 e 6 della Carta; modi,
procedure e protocolli scientifici da seguire in sede di assunzione di dichiarazioni dal minorenne –
art. 7 della Carta; metodiche più corrette che l’esperto deve seguire per esprimere il proprio parere ed
il contenuto del parere stesso – artt. 8, 9, 11, 12, 13, 14 e 16 della Carta), riguardano non tanto le
modalità estrinseche di assunzione della prova (peraltro già disciplinate dal codice di rito), ma le
modalità ritenute scientificamente e metodologicamente più adatte a garantire la genuinità intrinseca
delle dichiarazioni del minore e la loro capacità evocativa del fatto, preservandole, ad un tempo, dal
pericolo di manipolazioni di qualsiasi tipo, non necessariamente volontarie.
In questi casi, dunque, le linee guida della Carta di Noto acquistano rilevanza non nella fase di
assunzione estrinseca della prova (già disciplinata dal codice di rito), ma in quella della sua successiva
valutazione in relazione agli artt. 192 comma 1 cod. proc. pen. e 546 comma 1, lett. e) cod. proc. pen.
(Sez. 3, n. 39411 del 13/03/2014, Rv. 262976).
Ed è acquisizione pacifica che la valutazione circa l’attendibilità della persona offesa involge
un’indagine positiva sulla credibilità soggettiva del dichiarante e sulla attendibilità intrinseca del
racconto, che si connota quale giudizio di tipo fattuale, ossia di merito, in quanto attiene al modo di
essere della persona escussa; tale giudizio può essere effettuato solo attraverso la dialettica
dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito
abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria (Cfr. Sez. 2, n. 7667 del
29/01/2015, Rv. 262575; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, Rv. 239342; Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006,
Rv. 235578).
La valutazione di attendibilità della persona offesa va tenuta distinta dalla valutazione della capacità
di testimoniare, trattandosi di apprezzamenti che si pongono su piani distinti.
La valutazione della attendibilità è compito esclusivo del giudice, che deve procedere direttamente
all’analisi della condotta del dichiarante, della linearità del suo racconto e dell’esistenza di riscontri
esterni allo stesso, non potendo limitarsi a richiamare il giudizio al riguardo espresso da periti e
consulenti tecnici, cui non è delegabile tale verifica, ma solo l’accertamento dell’idoneità mentale del
teste, diretta ad appurare se questi sia stato capace di rendersi conto dei comportamenti subiti, e se sia
attualmente in grado di riferirne senza influenze dovute ad alterazioni psichiche (Sez. 3, n. 47033 del
18/09/2015, Rv. 265528; Sez. 4, n. 44644 del 18/10/2011, Rv. 251662; Sez. 3, n. 24264 del
27/05/2010, Rv. 247703).
Non vanno, quindi, confusi i due piani valutativi: la verifica dell’idoneità mentale del teste, diretta ad
accertare se questi sia stato nelle condizioni di rendersi conto dei comportamenti tenuti in suo
pregiudizio e sia in grado di riferire sugli stessi, senza che la sua testimonianza possa essere
influenzata da eventuali alterazioni psichiche, è demandabile al perito, mentre l’accertamento
dell’attendibilità del teste, in relazione agli aspetti connessi della credibilità soggettiva e della
attendibilità intrinseca del narrato, deve formare oggetto del vaglio del giudice. Il giudizio di
legittimità, però, rimane stretto essenzialmente negli angusti limiti del vizio di motivazione essendo
deducibile, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. solo la mancanza, contraddittorietà o
manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato
ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame.
Ed è stato precisato, a rimarcare la diversità degli ambiti di valutazione, che il mancato espletamento
della perizia in ordine alla capacità a testimoniare del minore non determina l’inattendibilità della
testimonianza della persona offesa, poiché tale accertamento, seppure utile laddove si tratti di minori
di età assai ridotta, non costituisce un presupposto indispensabile per la valutazione di attendibilità,
ove non emergano elementi patologici che possano far dubitare della predetta capacità (Sez. 3, n.
8541 del 18/10/2017, dep. 22/02/2018, Rv. 272299; Sez. 3, n. 25800 del 01/07/2015, dep. 22/06/2016,
Rv. 267323; Sez. 3, n.3 8211 del 07/07/2011, Rv. 251381; Sez. 3, n. 27742 del 06/05/2008, Rv.
240695).
L’esperto può giungere alla conclusione che il teste è idoneo a rendere testimonianza, nel senso che
nei suoi meccanismi psichici non si ravvisa, da un punto di vista clinico, alcun processo che possa
interferire con le facoltà della memoria e, quindi, con la capacità di rievocare il ricorso; stabilire se il
dichiarante ha detto il vero o il falso è una conclusione che riguarda, invece, la verità processuale e
che è di stretta competenza del giudice; in definitiva, l’esperto non può esprimersi sui fatti oggetto di
denuncia e, nello specifico, non può esprimersi sulla credibilità soggettiva della persona offesa e
sull’attendibilità intrinseca del racconto, ambiti che restano di competenza esclusiva del giudice.
3.2. Ciò posto, nella specie, i Giudici di appello hanno confermato l’affermazione di responsabilità
degli imputati, richiamando la ricostruzione in fatto e le valutazioni del primo giudice, fondate sulle
dichiarazioni rese dalla persona offesa, ritenuta capace di testimoniare e pienamente attendibile, ed
anche riscontrate dagli esiti della istruttoria svolta; hanno, quindi, esaminato e disatteso le doglianze
difensive mosse con l’atto di appello volte a contestare la valutazione di attendibilità della predetta,
rimarcando come le stesse fossero meramente ripetitive, in maniera acritica, delle questioni già
esaminate in maniera condivisibile dal primo giudice, le cui argomentazioni ha richiamato facendole
proprie (p. 16 della sentenza impugnata e pp 12,13,14,15,16 e 17, paragrafo 3., 3.1, 3.2., 3.3. della
sentenza di primo grado).
Dall’esame congiunto delle sentenze di primo e di secondo grado, emerge che i Giudici di merito,
hanno, innanzitutto, compiutamente valutato la capacità di testimoniare della minore, ma già in
avanzata età adolescenziale (16 anni) al momento del disvelamento degli abusi, richiamando le
positive risultanze della perizia (ad opera della dott.ssa D.D.) disposta dal Giudice per le indagini
preliminari in sede incidente probatorio (valutando anche la irrilevanza della consulenza tecnica della
difesa- ad opera della dott.ssa D.D. volta a confutare il giudizio del perito, in quanto fondata su
considerazioni apodittiche e prive di dimostrata conseguenzialità).
I Giudici di merito hanno, quindi valutato compiutamente la attendibilità della dichiarante. In
particolare, hanno valutato il vissuto emotivo e familiare della ragazza, evidenziando come le fonti
dichiarative dessero atto dell’ottimo inserimento nella giovane nel nuovo contesto familiare,
scolastico e sociale della ragazza, che era vissuta in precedenza all’estero e senza la presenza dei
genitori; hanno, quindi, evidenziato la spontaneità della prima rivelazione e la medesima spontaneità
nel racconto in sede di incidente probatorio (espletato nel rispetto dei canoni della Carta di Noto), la
coerenza intrinseca del narrato, l’assenza di inserzione di elementi accusatori aggiuntivi o di
circostanze additive non riferite nella prima denuncia, la presenza di plurimi riscontri costituite dalle
testimonianze assunte (dichiarazioni rese dal fidanzato della persona offesa, dalle compagne di classe
della stessa e dalla cugina di sua madre, in ordine alle confidenze della giovane circa i reiterati abusi
sessuali che elle aveva subito, in circostanze prossime o coeve ai fatti), nonchè dai risultati delle
analisi del RIS di Roma sul materasso sequestrato presso il casolare ubicato nella cd terra degli
animali”, luogo indicato e descritto dalla persona offesa come teatro di alcuni dei rapporti sessuali
contestati in imputazione; hanno, infine, esaminato esaustivamente le censure difensive volte ad
evidenziare inverosimiglianze ed incongruenze nel narrato accusatorio (inverosimiglianza del
racconto del primo rapporto sessuate avvenuto nella cd “terra degli ulivi; epoca di assunzione della
pillola anticoncezionale da parte della persona offesa; data del primo rapporto sessuale di gruppo).
Le argomentazioni, in linea con i suesposti principi di diritto, sono congrue e logiche e si sottraggono
al sindacato di legittimità.
I ricorrenti, neppure confrontandosi criticamente con il complessivo tessuto argomentativo,
ripropongono, in sostanza, le stesse censure già adeguatamente vagliate e disattese dai Giudici di
merito, sollecitando una rivalutazione dei fatti e delle risultanze probatorie, riportando stralci delle
risultanze istruttorie, rivalutazione preclusa in sede di legittimità.
Giova ricordare che, anche a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.
introdotte dall’art. 8 I. n. 46 del 2006, non è consentito dedurre il “travisamento del fatto”, stante la
preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze
processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. 6, n. 27429 del 04/07/2006, Rv.
234559; Sez. 5, n. 39048/2007, Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 2012, Rv. 253099) e, in particolare,
di operare la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione
di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Sez. 6, 26.4.2006, n. 22256,
Rv. 234148).
Ed è stato affermato che in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili quei motivi che,
deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, riportano meri
stralci di singoli brani di prove dichiarative, estrapolati dal complessivo contenuto dell’atto
processuale al fine di trarre rafforzamento dall’indebita frantumazione dei contenuti probatori – come
avvenuto nella specie -, o, invece, procedono ad allegare in blocco ed indistintamente le trascrizioni
degli atti processuali, postulandone la integrale lettura da parte della Suprema Corte (cfr. Sez. 1, n.
23308 del 18/11/2014 – dep. 29/05/2015, Savasta e altri, Rv. 263601).
5. Il quinto motivo di ricorso è inammissibile e, comunque, manifestamente infondato.
Va, innanzitutto, evidenziato che in sede di appello non veniva proposto uno specifico motivo di
gravame relativo al trattamento sanzionatorio. Va, quindi, richiamato l’orientamento costante di
questa Corte (Sez. U. 30.6.99, Piepoli, Rv. 213.981) secondo cui la denuncia di violazioni di legge
non dedotte con i motivi di appello costituisce causa di inammissibilità originaria dell’impugnazione;
non possono, quindi, essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di
appello abbia correttamente omesso di pronunciare, perché non devolute alla sua cognizione (Sez. 3,
n. 16610 del 24/01/2017, Rv. 269632), tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato
e grado del giudizio o che non sarebbe stato possibile dedurre in precedenza (Sez. 2, n. 6131 del
29/01/2016, Rv. 266202), ipotesi che non ricorre nella specie.
La doglianza proposta è, comunque, anche manifestamente infondato.
Il Tribunale, nel determinare l’aumento di pena a titolo di continuazione tra i reati ha specificamente
individuato il reato base (reato di cui all’art. 609-bis cod. pen, commesso in data 15.2.2022),
giustificandone l’individuazione con specifiche argomentazioni (modalità dell’azione caratterizzate
da maggiore violenza fisica rispetto agli altri episodi), determinato la pena base (anni sette di
reclusione – in misura inferiore alla media edittale – per A.A. e anni sei di reclusione – in misura pari
al minimo edittale – per la B.B., con applicazione per entrambi dell’aumento di 1/3 per l’aggravante
di cui all’art. 609 ter n. 5 cod. pen; ha, quindi, indicato specificamente il numero dei reati in
continuazione e l’epoca di commissione degli stessi, in aderenza alle dichiarazioni rese dalla persona
offesa; l’entità della pena base e l’aumento di pena per ogni singolo reato in continuazione,
determinato nel rispetto dei limiti di cui all’art. 8cod. pen., sono stati, poi, adeguatamente giustificati
attraverso l’indicazione di specifici parametri di cui all’art. 133 cod. pen. (gravità dei reati, rapporto
di genitorialità, elevata intensità del dolo dimostrata dal lungo periodo di tempo nel quale si sono
ripetute le condotte), specificandosi anche che il trattamento sanzionatorio maggiore della B.B. per
gli aumenti per la continuazione, rispetto al A.A. era giustificato dalla estrema gravità della condotta
per il suo ruolo di madre della ragazza e per averla convinta a partecipare ad incontri sessuali
trilaterali.
La motivazione è adeguata e priva di vizi logici, nonchè in linea con i principi di diritto affermati in
subiecta materia da questa Corte.
Va ricordato che costituisce principio consolidato che la motivazione in ordine alla determinazione
della pena base (ed alla diminuzione o agli aumenti operati per le eventuali circostanze aggravanti o
attenuanti) è necessaria solo quando la pena inflitta sia di gran lunga superiore alla misura media
edittale, ipotesi che qui non ricorre. Fuori di questo caso anche l’uso di espressioni come “pena
congrua”, “pena equa”, “congrua riduzione”, “congruo aumento” o il richiamo alla gravità del reato o
alla capacità a delinquere dell’imputato sono sufficienti a far ritenere che il giudice abbia tenuto
presente, sia pure globalmente, i criteri dettati dall’art. 133 cod. pen. per il corretto esercizio del potere
discrezionale conferitogli dalla norma in ordine al “quantum” della pena (Sez. 2, n. 36245 del
26/06/2009 Rv. 245596; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Rv. 256197); inoltre, in tema di reato
continuato, il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e
stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ciascuno
dei reati satellite, in quanto il grado di impegno motivazionale richiesto in ordine ai singoli aumenti
di pena è correlato all’entità degli stessi e tale da consentire di verificare che sia stato rispettato il
rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati, che risultino rispettati
i limiti previsti dall’art. 81 cod. pen. e che non si sia operato surrettiziamente un cumulo materiale di
pene (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Rv. 282269-01; Sez. U, n. 7930/94, Rv 201549-01).
6. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi.
7. Essendo i ricorsi inammissibili e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di
colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000),
alla condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento
della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.
8. I ricorrenti vanno condannati, inoltre, in base al disposto dell’art. 541 cod. proc. pen., in via
generica, alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese
dello Stato; spetterà, poi, al giudice che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato la liquidazione
di tali spese mediante l’emissione del decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82
e 83 D.P.R. n. 115/2002 (Sez. U, n. 5464 del 26/09/2019, dep. 12/02/2020, Rv. 277760-01).
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, gli imputati alla
rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile
ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di
Salerno con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. n. 115/2002, disponendo
il pagamento in favore dello Stato.
Così deciso il 6 novembre 2024.
Depositata in Cancelleria il 10 dicembre 2024.

Separazione. Occorre tenere conto della concreta e attuale capacità lavorativa del richiedente

Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 7 gennaio 2025 n. 234
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. …/2024 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA …, presso lo studio dell’avvocato …(c.f. Omissis) che
lo rappresenta e difende
– ricorrente –
Contro
B.B., rappresentata e difesa dall’avvocato …(c.f. Omissis)
– controricorrente –
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO NAPOLI n. …/2023 depositata il 26/10/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/12/2024 dal Consigliere RITA ELVIRA A.
RUSSO.
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Napoli ha dichiarato la separazione dei coniugi A.A. – B.B. addebitandola al marito e
respingendo l’addebito della separazione alla moglie, ponendo a carico del marito un assegno in
favore della moglie di Euro 2.300,00 e per il mantenimento dei figli di Euro 2.000,00 assegnando alla
moglie la ex casa coniugale sita in N piazza (Omissis).
A.A. ha proposto appello che la Corte d’Appello di Napoli ha respinto rilevando che dalla prova
escussa in primo grado non emergono ragioni per addebitare la separazione alla moglie; che il
reddito del A.A. non solo derivante da lavoro dipendente ma anche da lavoro autonomo è
“certamente capiente” rispetto all’assegno, avendo egli oltretutto ereditato dalla madre la casa di
piazza (Omissis) che pur se aggravata da un “temporaneo diritto abitazione in favore dei figli” gli
consentirebbe agevolmente se venduta di fare fronte per molti anni a venire degli oneri di
mantenimento.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione A.A. affidandosi a tre motivi. Ha
svolto difese con controricorso la B.B.
Le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 156 c.c.,
comma 1, essendosi la Corte territoriale limitata ad affermare che la moglie ha redditi assai modesti,
trascurando però che l’assegno di mantenimento nella separazione -contrariamente a quanto
affermato dalla Corte territoriale – non mira a mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il
matrimonio, ma assicura solo un contributo al coniuge economicamente più debole, sempre che,
però, lo stesso si sia attivato per la ricerca di un lavoro, e non sia invece rimasto al riguardo del tutto
inerte; in tal modo, la moglie ha aggravato ingiustificatamente la posizione debitoria del ricorrente.
Il ricorrente afferma che dopo il revirement del 2018 delle Sezioni Unite in tema di assegno di
divorzio si è ritenuto che la decisione assunta in tema di assegno divorzile possa applicarsi anche al
mantenimento, successivamente, pronunciandosi in tal senso la giurisprudenza di legittimità.
Deduce che la moglie non ha mai dato prova di essersi attivata per cercare di procurarsi i mezzi
adeguati in maniera autonoma, mentre dalle testimonianze risulta che la donna è laureata e che nel
2006 aveva svolto attività lavorativa per alcuni anni; l’attitudine al lavoro è uno degli elementi che è
indispensabile esaminare ed è stato e disatteso prima dal Tribunale di Napoli e poi dalla Corte la
quale ha semplicemente valorizzato l’esigenza di assicurare al coniuge un tenore di vita adeguato a
quello goduto in costanza di matrimonio.
2.- Il motivo è fondato nei termini di cui appresso.
La Corte territoriale si è limitata ad affermare che la moglie al momento della separazione non
lavorava e che ha diritto di conservare l’elevato tenore di vita mantenuto in costanza di convivenza,
senza valutare se ella sia in possesso di risorse economiche tra le quali rileva certamente, oltre che
l’eventuale patrimonio, anche la capacità lavorativa, da valutarsi in concreto e non in astratto (Cass.
n. 24049 del 06/09/2021).
2.1.- Non si tratta qui di estendere automaticamente alla separazione i principi affermati da questa
Corte in tema di assegno divorzile (Cass. S.U. 18287/2018), quanto di verificare se sussistano i
presupposti per ottenere l’assegno di mantenimento ed in che misura, con accuratezza e
considerando la concreta situazione, pur tenendo fermo che assegno di divorzio ed assegno di
mantenimento sono diversi quanto a natura presupposti e funzioni; e segnatamente, l’assegno di
mantenimento che il coniuge privo di mezzi può ottenere in sede di separazione è correlato al tenore
di vita ed è privo della componente compensativa, consistendo nel diritto di ricevere dall’altro
coniuge quanto è necessario mantenimento, in mancanza di adeguati redditi propri (art 156 c.c.).
2.2.- Nel quadro normativo del codice civile la separazione dei coniugi ha funzione conservativa,
pur se la legge sul divorzio le ha affiancato anche una funzione dissolutiva, tanto che questa Corte
ha affermato che in tema di crisi familiare, in ragione dell’unica causa della crisi, nell’ambito del
procedimento di cui all’art. 473-bis.51 c.p.c., è ammissibile il ricorso dei coniugi proposto anche con
domanda congiunta e cumulata di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del
matrimonio. Secondo l’id quod prelumque accidit, si osserva che la crisi separativa conduce, sia pure
attraverso la disciplina di una graduazione e assottigliamento delle posizioni soggettive (diritti e
doveri) dei coniugi, dal fatto separativo e con altissima probabilità all’esito divorzile successivo
(Cass. n. 28727 del 16/10/2023).
2.3.- Il diritto all’assegno di mantenimento è quindi fondato sulla persistenza del dovere di assistenza
materiale fintanto che il matrimonio non è sciolto; il principio di parità richiede che tale sostegno sia
reciproco, senza graduazioni o differenze, ma anche solidale (Cass. n. 34728 del 12/12/2023 in
motivazione).
3.- Il Collegio ritiene di aderire a tutt’oggi a questo orientamento, considerando che l’assegno di
mantenimento è fondato – come sopra si diceva – sulla persistenza di uno dei doveri matrimoniali e
non ha – a differenza dell’assegno di divorzio – componenti compensative. Tuttavia, deve rilevarsi
che l’accertamento del diritto ad esser mantenuti dall’altro coniuge a seguito di separazione non è
scisso dalla valutazione che la solidarietà presuppone un rapporto paritario e di reciproca lealtà,
incompatibile con comportamenti parassitari diretti a trarre ingiustificati vantaggi dal coniuge
separato. Più volte questa Corte ha sottolineato come anche nelle relazioni familiari valga il principio
di autoresponsabilità che è strettamente correlato alla solidarietà; tutte le comunità solidali
presuppongono che ciascuno contribuisca al benessere comune secondo le proprie capacità e che
nessuno si sottragga ai propri doveri.
4. – Deve quindi rilevarsi che ferma la differenza tra assegno di divorzio e assegno di separazione,
vi sono alcuni tratti comuni tra i due istituti e tra questi il presupposto che il richiedente sia privo di
risorse adeguate. L’art. 156 parla invero di mancanza di “adeguati redditi propri”, e non di “mezzi
adeguati” come l’art. 5 della legge divorzile, ma, ove il richiedente sia dotato di concreta e attuale
capacità lavorativa e non la metta a frutto senza giustificato motivo la assenza di adeguati redditi
propri non può considerarsi un fatto oggettivo involontario ma una scelta addebitabile allo stesso
interessato.
4.1.- Nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato che il riconoscimento dell’assegno previsto
dall’art. 156 c.c., pur essendo espressione del dovere solidaristico di assistenza materiale, non può
estendersi fino a comprendere ciò che, secondo il canone dell’ordinaria diligenza, l’istante sia in
grado di procurarsi da solo (Cass. n. 20866 del 21/07/2021). Ed ancora si è affermato che l’attitudine
al lavoro proficuo dei coniugi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento
valutabile ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento da parte del
giudice, qualora venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività
lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale e con
esclusione di mere valutazioni astratte e ipotetiche (Cass. n. 5817 del 09/03/2018; Cass. n. 24049 del
06/09/2021).
Nella specie la Corte d’Appello di Napoli non ha fatto buon governo di questi principi nell’omettere
qualsivoglia indagine sulle capacità lavorative concrete della richiedente assegno e non indagando
sulla possibilità che la moglie si procuri redditi diversi, ad esempio da patrimonio, limitandosi ad
affermare che la stessa al momento della separazione non lavorava.
5.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta il travisamento della prova in relazione all’art 360 n.
5 c.p.c. in combinato disposto con gli artt. 115 e 132 comma 4 c.p.c. Il ricorrente deduce che la Corte
d’Appello ha evidentemente travisato la prova circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato
oggetto di discussione tra le parti ed in particolare non ha valutato la relazione di consulenza tecnica
del dott. C.C. e la documentazione fiscale allegata depositata dal ricorrente nel giudizio di primo
grado, affermando sulla base di semplici presunzioni e considerazioni soggettive che esso ricorrente
avrebbe un reddito fortemente superiore a quanto emerge dagli atti di causa, non valutando il
documentato peggioramento delle sue condizioni economiche patrimoniali, né la effettiva
consistenza del suo reddito che è pari ad Euro 1.715,00 mensili; lamenta che il giudice d’appello
abbia omesso di valutare la situazione di sovraindebitamento dando valore al tenore di vita passato
dei coniugi e allo svolgimento di ulteriore attività lavorativa che non è stata provata.
6.- Il motivo è fondato.
La sentenza incorre nel vizio di nullità per omessa motivazione sul punto della capacità patrimoniali
del A.A. dal momento che la Corte napoletana, a fronte delle contestazioni dell’interessato il quale
ha documentato il suo reddito da lavoro dipendente anche con una consulenza di parte, si è limitata
a osservare che “come documenta la difesa dell’appellata” il reddito del A.A. è tuttora costituito non
solo da proventi di lavoro o dipendente ma anche da introiti da lavoro autonomo ed è un importo
complessivo lordo “certamente capiente” per il pagamento di cui è onerato.
Si tratta di una motivazione apparente, che per quanto graficamente esistente, non offre contezza
delle ragioni per le quali il A.A. è stato ritenuto in grado di pagare un assegno di mantenimento di
Euro 2.300,00 a fronte di un reddito documentato in misura inferiore. Segnatamente non è stato
specificato né che tipo di lavoro autonomo svolge, su quali prove si fonda l’accertamento dello
svolgimento di attività libero professionale e a quanto ammonta il reddito che ne ricaverebbe;
giungendo poi infine a valutare quale disponibilità economica l’essere proprietario della casa
coniugale assegnata alla moglie.
Peraltro, non è chiaro se la casa sia effettivamente gravata da “temporaneo” diritto di abitazione in
favore dei figli, come dice la Corte napoletana, verosimilmente male inquadrando la fattispecie,
posto che la assegnazione della casa al genitore convivente con i figli medesimi costituisce invece un
diritto personale di godimento (Cass. n. 4719 del 03/03/2006), mentre il diritto di abitazione è un
diritto reale. In ogni caso, la possibilità di venderla è stata valutata quale posta attiva del patrimonio
del soggetto obbligato in termini generici ed astratti. Se la casa è effettivamente gravata da diritto
reale di abitazione o da diritto personale di godimento opponibile ai terzi, avrebbe dovuto essere
valutata la concreta appetibilità sul mercato di un bene con tale vincolo; se libera da vincoli
opponibili a terzi, a parte l’incongruenza di suggerire una soluzione contraria all’interesse dei figli a
mantenere il loro ambiente domestico, avrebbe dovuto valutarsi che il padre in caso di rilascio della
casa in favore del terzo acquirente dovrebbe farsi carico delle spese abitative del nucleo familiare.
7.- Con il terzo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132
c.p.c., e la nullità della sentenza in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, in quanto il
giudice territoriale non si è pronunciato sul motivo di appello relativo all’addebito della separazione
posto a carico di esso ricorrente.
La parte deduce la sentenza impugnata ha omesso di pronunciarsi sulla richiesta di revoca
dell’addebito al marito sull’errato presupposto che lo stesso non avesse spiegato nessuna domanda
in tal senso. Invece nell’atto di appello si legge a pag. 24 e 25: “impugna altresì la suddetta sentenza
esattamente nella parte in cui la separazione viene addebitata al Dott. A.A. La causa della crisi
coniugale è da ascriversi in via esclusiva alla sig.ra B.B. per le gravi violazioni dei doveri coniugali
da lei posti in atto in costanza di matrimonio e, più precisamente, per i comportamenti gravemente
ingiuriosi ed irrispettosi rivolti al marito e ai di lui familiari, che hanno determinato l’intollerabilità
della prosecuzione della convivenza fra i coniugi” avendo peraltro esso ricorrente contestato che tra
i presunti tradimenti e la crisi coniugale vi fosse un nesso causale.
8. – Il motivo è fondato.
La Corte d’Appello, limitandosi ad esaminare la domanda di addebito alla moglie, ha omesso
effettivamente di pronunciarsi per intero sul motivo di appello, non cogliendone la effettiva portata.
Dal tenore dell’atto d’appello trascritto dalla parte, si desume che obiettivamente vi era
impugnazione del capo di sentenza di primo grado che ha addebitato la separazione al A.A., avendo
costui dedotto che la responsabilità della crisi non era sua ma esclusivamente della moglie, il che è
cosa ben diversa dal prospettare che la responsabilità sia di entrambi
Controparte eccepisce che il A.A. non abbia riportato le conclusioni dell’atto d’appello; tuttavia la
parte dell’atto d’appello che egli trascrive è più che sufficiente a fare ritenere che egli abbia proposto
detta questione, rendendo evidente che il suo obiettivo non era quella di ottenere una sentenza di
addebito reciproco bensì una sentenza di addebito in via esclusiva alla moglie, e ponendo quindi
una questione non adeguatamente esaminata dalla Corte d’Appello la quale si è limitata ad
affermare che i litigi di cui aveva riferito il teste Stara non avevano avuto incidenza casuale sulla fine
del rapporto e a richiamare, quanto alla incidenza causale dei comportamenti del A.A. una
valutazione, resa da una teste nel giudizio canonico, e non fatti oggettivi. Si tratta quindi di una
valutazione parziale che non tiene conto della complessiva esposizione del motivo di appello.
Deve qui ricordarsi che secondo la giurisprudenza adi questa Corte che tanto nel regime previgente
alla riforma operata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto
2012, n. 134, che in quello successivo la mancata riproduzione, nella parte dell’atto di appello a ciò
destinata, delle conclusioni relative ad uno specifico motivo di gravame non può per ciò solo
equivalere a difetto di impugnazione, ovvero essere causa di nullità della stessa, se dal contesto
complessivo dell’atto risulti, sia pur in termini non formali, una univoca manifestazione di volontà
di proporre impugnazione per quello specifico motivo (Cass. n. 25751 del 2013 e Cass. n. 41438 del
23/12/2021);
Ne consegue, in accoglimento di tutti i motivi del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata e
il rinvio alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione per un nuovo esame, attenendosi ai
principi sopra richiamati e in particolare al seguente principio di diritto:
In tema di separazione dei coniugi il diritto a ricevere un assegno di mantenimento ai sensi dell’art
156 c.c. è fondato sulla persistenza del dovere di assistenza materiale e morale, è correlato al tenore
di vita tenuto in costanza di matrimonio e non ha, a differenza dell’assegno di divorzio, componenti
compensative. Tuttavia, nel valutare se il richiedente è effettivamente privo di adeguati redditi
propri, deve tenersi conto anche della sua concreta e attuale capacità lavorativa, pur se l’istante non
la metta a frutto senza giustificato motivo, dal momento che l’assegno di mantenimento non può
estendersi fino a comprendere ciò che, secondo il canone dell’ordinaria diligenza, l’istante sia in
grado di procurarsi da solo.
La Corte d’Appello provvederà anche sulle spese in esse comprese le spese del giudizio di
legittimità.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri titoli identificativi
a norma dell’art. 52 D.Lgs. 196/2003.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia per un nuovo esame alla Corte di appello di
Napoli in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di
legittimità.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri titoli identificativi
a norma dell’art. 52 D.Lgs. 196/2003.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2025.

Testamento. L’indisponibilità dell’originale del documento è superata dagli esiti della C.T.U.

Cass. Civ., Sez. II, ordinanza 15 gennaio 2025 n. 1012
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. …/2023 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in…(Omissis), presso lo studio dell’avvocato ….(Omissis), che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato …(Omissis), con procura speciale in atti;
– RICORRENTE –
contro
B.B., elettivamente domiciliato all’indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE dell’avvocato
…(Omissis), che la rappresenta e difende, con procura speciale in atti;
– CONTRORICORRENTE-
e
C.C.;
– INTIMATO –
avverso la sentenza di Corte d’appello di Genova n. 675/2023, depositata il 09/06/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18/09/2024 dal Consigliere Giuseppe
Fortunato.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Con sentenza n. 675/2023, la Corte di appello di Genova ha respinto l’appello di D.D., confermando
la pronuncia di primo grado che aveva dichiarato l’autenticità del testamento redatto da E.E. in data
16.7.2015, il quale, nel disporre di tutto il patrimonio, aveva attribuito alla moglie B.B. il 50% dell’asse
ereditario, e all’attrice e al fratello C.C. esclusivamente la quota legittima.
Secondo il giudice distrettuale la consulenza svolta nel procedimento di mediazione, cui non
avevano partecipato tutti i chiamati alla successione e che, peraltro, neppure aveva accertato in modo
inequivoco la falsità della scheda testamentaria, data l’indisponibilità dei documenti in originale, era
superata dagli esiti della c.t.u., che aveva utilizzato la più avanzata metodologia di analisi dello
scritto e rilevato plurimi elementi di convergenza tra il testamento e le scritture di comparazione. Ha
respinto, dichiarandola generica e valutativa, la prova orale capitolata dall’appellante, regolando le
spese.
Per la cassazione della sentenza di appello …ha proposto ricorso affidato a sei motivi.
B.B. resiste con controricorso e con memoria illustrativa; C.C. non ha formulato difese.
Il Consigliere delegato ha formulato proposta di definizione anticipata ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.,
ravvisando la manifesta infondatezza del ricorso.
Su istanza del ricorrente, che ha chiesto la decisione, è stata fissata l’adunanza camerale.
2. È infondata l’eccezione di improcedibilità del ricorso per il mancato deposito della relata di
notifica della sentenza, dovendo evidenziarsi che la sentenza è stata depositata in data 9.6.2023 e che
l’impugnazione in cassazione è stata proposta con notifica avviata il 31.8.2023, entro il termine di
sessanta giorni dal deposito (Cass. 17066/2013; Cass. 11386/2019; Cass. 14839/2020; Cass. 15832/2021).
3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., sostenendo che la Corte di
merito non abbia pronunciato sulla questione proposta con la comparsa conclusionale di appello
circa il fatto che in calce al testamento era presente l’espressione “in fede” e non la sottoscrizione di
E.E., con conseguente nullità dell’atto rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.
Il secondo motivo deduce la violazione dell’art. 1421 c.c., per non aver la Corte rilevato d’ufficio il
difetto di sottoscrizione e l’invalidità del testamento.
Il terzo motivo il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 115 c.p.c., per non aver il giudice di
appello rilevato l’errore in cui era incorso il consulente, non avvedutosi che il testamento era privo
di firma, e per esser incorso in un errore di percezione riguardo alla completezza del documento.
I tre motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, non sono fondati.
L’assenza di sottoscrizione del testamento è smentita dalla Corte di merito, che ha accertato
l’autenticità della scheda in tutti i suoi elementi e la sua validità, con pronuncia esplicita anche
quanto alla presenza della firma, conformemente agli esiti della consulenza, fondata sulla
comparazione del testamento con documenti originali del testatore e con valutazione del tratto
grafico di tutto il testo della scheda testamentaria, condotto con strumentazione tecnica (cfr.
sentenza, pag. 9).
Non può neppure imputarsi alla Corte di merito un errore di percezione circa la presenza della
sottoscrizione invece che della dicitura “in fede” in calce al testamento, vizio peraltro denunciabile
con la revocazione per errore di fatto ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c., e non con il ricorso in cassazione.
Quanto all’omesso esame di un fatto decisivo, si versa in ipotesi di cd. doppia conforme, con la
preclusione sancita dall’art. 348, commi IV e V c.p.c. e comunque il testamento, quanto alla sua
completezza e validità, è stato specificamente esaminato (Cass., sez. un., 8053/2014).
4. Il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 115, 116, 183, settimo comma, c.p.c., 2697 c.c.,
censurando la mancata ammissione delle prove testimoniali, sull’assunto che il giudice era tenuto
ad utilizzare tutti i mezzi di prova per l’accertamento dell’autenticità della scheda.
Il quinto motivo denuncia la violazione degli artt. 112, 115, 116, 183, settimo comma, c.p.c. e 2697
c.c., per non aver il giudice dato ingresso alla prova orale vertente sugli accertamenti svolti dai periti
di parte sulla presenza di solchi ciechi nello scritto.
Il sesto motivo denuncia la violazione degli artt. 115, 116, 183, comma settimo, c.p.c. e 2697 c.c.,
lamentando la mancata ammissione della prova per testi volta a dimostrare che il teste, che aveva
lavorato con il de cuius, ne conosceva il tratto grafico ed era in condizione di riferire sull’autenticità
del documento.
I tre motivi sono infondati.
Il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale può essere denunciato per
cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della
controversia e, quindi, quando la prova non ammessa ovvero non esaminata sia in concreto idonea
a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità,
l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di
merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. 3075//2006; Cass.
11501/2006; Cass. 4178/2007; Cass. 11457/2007; Cass. 11353/2010; Cass. 16214/2019; Cass. 18072/2024).
Ha evidenziato la Corte d’appello che il capitolo di prova era privo di dettagli riguardo agli elementi
di divergenza del tratto grafico, verteva direttamente sulla riferibilità dello scritto alla mano del
testatore, oltre che sul fatto che il teste aveva lavorato per un lungo periodo fianco a fianco con il de
cuius, potendo il teste esprimere un proprio personale apprezzamento, non idoneo ad inficiare con
carattere di certezza il contrario accertamento fondato sulla c.t.u.
Risulta esplicito il giudizio di insufficienza del mezzo istruttorio rispetto alla finalità di dimostrare i
fatti controversi, senza alcuna assoluta negazione della possibilita che il giudizio di falso possa
fondarsi anche su elementi diversi dalla consulenza, se pertinenti.
Quanto all’audizione dei periti, si deve osservare che nel quadro del principio, espresso nell’art. 116
c.p.c., di libera valutazione delle prove – salvo che non abbiano natura di prova legale – il giudice
civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti
per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente gli altri
mezzi istruttori richiesti dalle parti.
La presenza di solchi ciechi nello scritto è risultata non decisiva alla luce dei plurimi elementi di
conferma dell’autenticità della scheda (cfr. sentenza pag. 9). Il relativo apprezzamento è
insindacabile in sede di legittimità, essendo logico e coerente il valore preminente ed esaustivo
attribuito alla consulenza tecnica (Cass. 11176/2017).
Il ricorso è respinto, con aggravio delle spese processuali.
Poiché l’impugnazione è stata definita in senso conforme alla proposta formulata ai sensi dell’art.
380 – bis, c.p.c., vanno applicati – come previsto dal terzo comma, ultima parte, dello stesso art. 380 –
bis, cod. proc. civ. – il terzo e il quarto comma dell’art. 96, cod. proc. civ., con conseguente condanna
della ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, di una somma equitativamente
determinata (nella misura di cui in dispositivo), nonché al pagamento in favore della cassa delle
ammende, di una somma di denaro nei limiti di legge (non inferiore ad Euro 500 e non superiore a
Euro 5.000; cfr. Cass., sez. un., 27433/2023; Cass., sez. un., 27195/2023; Cass., sez. un., 27947/2023).
Si dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro
8.500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese
generali in misura del 15%, nonché di Euro 8.500,00 ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., e
dell’ulteriore importo di Euro 4.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma il 18 settembre 2024.
Depositata in Cancelleria il 15 gennaio 2025.