Quando opera la “vis attractiva” del T.O. rispetto alla competenza del T.M.?

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
1.In data 30/07/2020 il Tribunale di Fermo veniva investito del giudizio di separazione tra i coniugi
A.A. e B.B., che si concludeva con decreto di omologazione di separazione consensuale del
17/12/2020, pubblicato il 02/01/2021.
1.1. – Frattanto, in data 09/09/2020 la Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di
Ancona chiedeva al Tribunale per i minorenni di Ancona l’adozione dei provvedimenti ex artt. 330 e
333 c.c., a carico dei predetti A.A. e B.B., nell’interesse del minore C.C..
1.2. – Con ordinanza del 10.02.2021 il Tribunale per i minorenni di Ancona si è dichiarato
incompetente ex art. 38 disp.att. c.c., stante la pendenza dinanzi al Tribunale di Fermo del giudizio di
separazione instaurato dai coniugi A.A.-B.B..
1.3. – Di conseguenza, in data 11/03/2021 la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Fermo
ha presentato allo stesso Tribunale la richiesta di adozione dei provvedimenti ex artt. 330 e 333 c.c. a
carico di A.A. e B.B..
1.4. – Con ordinanza del 10.02.2021 il Tribunale di Fermo, che precedentemente, in data 17/12/2020,
aveva omologato la separazione consensuale dei coniugi, ha sollevato d’ufficio conflitto negativo di
competenza, ritenendo che competente ad adottare i provvedimenti ex artt. 330 e 333 c.c., nei
confronti dei genitori del minore B.B. sia il Tribunale per i minorenni di Ancona.
2.Il P.G., premessa l’ammissibilità del regolamento di competenza d’ufficio, praticabile anche
nell’ambito dei procedimenti di volontaria giurisdizione (Cass. 6898/204, 16959-2011, 31770-2021)
ha concluso per la competenza del Tribunale ordinario di Fermo, in quanto dinanzi ad esso era
pendente, “al momento della proposizione del primo ricorso del P.M.”, il giudizio di separazione dei
coniugi A.A.-B.B., senza che la sopravvenuta conclusione di quel giudizio, in virtù di decisione non
più impugnabile, possa comportare il ripristino della competenza del tribunale per i minorenni, non
essendo l’art. 5 c.p.c., espressamente derogato dall’art. 38 disp.att. c.c..
2.1. In altri termini, la vis attractiva a favore del tribunale ordinario non potrebbe venir meno per
effetto di vicende nuove verificatesi in epoca successiva all’esercizio dell’azione (come si
desumerebbe a contrario da Cass. n. 2833 del 2015 e da Cass. n. 20202 del 2018).
Motivi della decisione
3. – Il regolamento è ammissibile, poichè, in tema di provvedimenti limitativi della responsabilità
genitoriale in pendenza di un giudizio di separazione personale, è sempre proponibile il regolamento
di competenza di ufficio per individuare chi sia competente tra il tribunale ordinario e quello per i
minorenni, in applicazione analogica dell’art. 45 c.p.c., trattandosi di materia nella quale il giudice
dispone di poteri officiosi d’iniziativa, ai fini tanto dell’instaurazione e della prosecuzione del
procedimento quanto della pronuncia di merito (Cass. 2073-2020).
4. – Nel caso in esame non è in discussione il principio – condiviso tanto dal Tribunale per i minorenni
di Ancona quanto dal Tribunale ordinario di Fermo – in base al quale, ai sensi dell’art. 38 disp.att. c.c.
(nel testo sostituito dalla L. n. 219 del 2012, art.3) la competenza del tribunale per i minorenni nei
procedimenti di cui all’art. 333 c.c. resta esclusa (…) nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti,
giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’art. 316 c.c. “; la questione sottoposta al
giudizio di questa Corte è invece quale sia la sorte di quel principio qualora venga meno il presupposto
della pendenza dei menzionati giudizi.
5. – Come visto, al relativo quesito la Procura generale ha risposto nel senso che “la individuazione
del giudice naturale deve essere compiuta tenendo conto della situazione di fatto e di diritto esistente
al momento della proposizione della domanda, come si evince dall’art. 5 c.p.c.”, e quindi “non vi
sono ragioni per affermare che competente ad adottare i provvedimenti limitativi della responsabilità
genitoriale debba tornare ad essere il Tribunale dei Minorenni quantunque il ricorso del P.M. sia stato
formalizzato a seguito di instaurazione dinanzi al tribunale ordinario del procedimento di
separazione”.
6. – Il Collegio ritiene invece che al quesito debba essere data soluzione opposta, in quanto l’art. 38
disp. att. c.c. introduce una deroga alla competenza del tribunale per i minorenni, quale giudice
naturale sui provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale, sicchè il venir meno del
presupposto di tale eccezione, su cui si fonda la “vis attractiva” del tribunale ordinario, deve
comportare il ripristino della regola ordinaria.
6.1. – A tale conclusione inducono la natura (derogatoria della competenza attribuita in via generale
ad un giudice specializzato: Cass. 3490-2021), la lettera (“nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse
parti, giudizio di separazione”: Cass. 16569-2021) e la ratio (evitare la futura emissione di pronunce
contrastanti e incompatibili: Cass. 16339/2021) dell’art. 38 disp.att. c.c., le quali convergono
sinergicamente a far ritenere che la deroga alla competenza del tribunale per i minorenni debba essere
interpretata in senso tassativo e restrittivo, con sua conseguente “riespansione” qualora il presupposto
della “vis attractiva” al tribunale ordinario (pendenza del giudizio di separazione, divorzio o ex art.
316 c.c.) venga meno, perchè è così che la causa torna effettivamente al suo giudice naturale.
7. – Anche il percorso tracciato dalla lettura nomofilattica dell’art. 38 disp. att. c.c. è coerente con una
simile conclusione.
7.1. – Questa Corte ha già avuto modo di circoscriverne l’ambito processuale di efficacia, affermando
che la “vis attractiva” esiste “fino alla definitiva conclusione” del giudizio di separazione (Cass.
3490/2021).
7.2. – E’ stato poi declinato il criterio della prevenzione, nel senso che la “vis attractiva” del tribunale
ordinario è limitata all’ipotesi in cui il procedimento dinanzi a questo sia stato instaurato per primo
(Cass. 16340-2021, 1866-2019), mentre l’art. 38 disp.att. c.c. non opera quando il procedimento di
separazione venga instaurato successivamente, nel qual caso i due giudizi proseguono
autonomamente, ferma restando la competenza del tribunale minorile sulla decadenza dalla
responsabilità genitoriale (Cass. 16569-2021).
In altri termini, il principio di prevenzione vale “a senso unico”, poichè quando il giudizio di
separazione, o di divorzio, o ex art. 316 c.c. viene promosso successivamente, esso non esercita
alcuna “vis attractiva” su quello già in corso per l’adozione dei provvedimenti nell’interesse dei minori
di cui agli artt. 330 ss. c.c., rispetto al quale prosegue autonomamente (Cass. 16340-2021, 1866-
2019), salva la precisazione sopra vista.
7.3. – Questa Corte ha affermato che l’interpretazione per cui il tribunale per i minorenni resta
competente a conoscere della domanda diretta ad ottenere la declaratoria di decadenza o la limitazione
della potestà genitoriale ancorchè, nel corso del giudizio, sia stata proposta innanzi al tribunale
ordinario domanda di separazione personale o di divorzio dei coniugi, è condivisibile perchè: i)
aderente al dato letterale dell’art. 38 disp.att. (“sia (già) in corso”); ii) rispettosa del principio della
“perpetuatio jurisdictionis” di cui all’art. 5 c.p.c.; iii) coerente con le ragioni di economia processuale
e di tutela dell’interesse superiore del minore, che trovano fondamento nella Cost., artt. 111 8 CEDU,
24 Carta di Nizza (Cass. 2833-2015 e 20202-2018).
8. – Può essere utile ricordare che il criterio della prevenzione è venuto meno con la c.d. “riforma
Cartabia” (L. n. 206 del 2021, art. 1, comma 28 d D.Lgs. n. 10 ottobre 2022, n. 149) – applicabile ai
procedimenti instaurati dal 22 giugno 2022 – che, intervenendo proprio sull’art. 38 disp.att. c.c., ha
modificato i criteri del riparto di competenza tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni,
estendendo la “vis attractiva” del primo al caso in cui il procedimento innanzi al tribunale ordinario
sia introdotto dopo l’instaurazione di quello innanzi al tribunale per i minorenni (salvo l’art. 709ter
c.p.c., in quanto il procedimento per l’attuazione dei provvedimenti emessi dal tribunale per i
minorenni deve essere necessariamente introdotto di fronte a quest’ultimo).
8.1. – L’intervento riformatore, valorizzando il concetto di effettiva pendenza dei procedimenti
dinanzi ai due diversi giudici, sembra esprimere la prevalenza della ratio di evitare pronunce
incompatibili anche sul principio della “perpetuatio jurisdictionis” ex art. 5 c.p.c. Tale scelta del
legislatore trova una giustificazione consistente altresì nella ratio complessiva sottesa alla regolazione
dei rapporti di competenza fra tribunale ordinario e tribunale minorile in questa materia e cioè quella
della concentrazione dell’accertamento giudiziale nelle ipotesi di limitazione della responsabilità
genitoriale che, per il carattere intrinseco di rilevanza e urgenza delle relative decisioni, richiede e
impone una conoscenza non parcellizzata della situazione familiare e la necessità di evitare decisioni
giudiziali contrastanti.
Dal punto di vista concettuale, la nuova voluntas legislatoris non solo non confligge con la soluzione
divisata dal Collegio nel caso in esame, ma anzi l’avvalora.
9. – In conclusione deve affermarsi che la “vis attractiva” del tribunale ordinario rispetto alla
competenza del tribunale per i minorenni opera, ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.c., a condizione che,
nel momento in cui perviene al medesimo tribunale ordinario una richiesta di adozione dei
provvedimenti ex artt. 330 e 333 c.c., il giudizio di separazione, divorzio o ex art. 316 c.c. non sia già
definitivamente concluso, nel qual caso resta ferma la competenza del tribunale per i minorenni.
P.Q.M.
La Corte dichiara la competenza del Tribunale per i minorenni di Ancona dinanzi al quale dovrà
proseguire il processo.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 6 dicembre 2022.

Violenza sessuale e attendibilità della persona offesa

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROSI Elisabetta – Presidente –
Dott. SOCCI Angelo M. – Consigliere –
Dott. PAZIENZA Vittorio – Consigliere –
Dott. SEMERARO Luca – Consigliere –
Dott. MAGRO Maria B. – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. Con sentenza della Corte di appello di Bari dell’8 novembre 2021, in parziale riforma della
decisione del Tribunale di Bari (giudizio abbreviato) del 25 novembre 2020, riqualificato il reato di
cui all’art. 56-628 c.p., ai sensi degli art. 56 e 610 c.p., unificati i reati con la continuazione, è stata
rideterminata la pena nei confronti di A.A. in anni 8 di reclusione (imputato dei reati, nei due
procedimenti riuniti RGNR 7594/2020 e 7395/2020, di cui agli art. 56 e 628 c.p., – capo 1, commesso
in danno di B.B. il (Omissis) -; L. n. 110 del 1975, art. 4 e art. 61 c.p., n. 2 capo 2, commesso il
(Omissis) -; art. 81 e 337 c.p., – capo 3, commesso in danno dei Carabinieri C.C. e D.D., il (Omissis)
-; art. 612 bis c.p., commi 1 e 2 – capo 1, commesso in danno di E.E., dal (Omissis) -; art. 609 bis,
comma 1 – in danno di E.E., commesso il (Omissis), capo 2 -; art. 605 c.p., comma 1, e art. 582 c.p., –
capo 3, commesso il (Omissis) in danno di E.E. -).
2. L’imputato ha proposto ricorso in cassazione, per i motivi di seguito enunciati, nei limiti
strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.
2. 1. Nullità della sentenza per violazione di legge processuale stabilita a pena di nullità (art. 178
c.p.p., lett. C). La difesa per il procedimento RGNR 7395/2020 (reati di cui agli art. 56 e 628 c.p. –
capo 1, commesso in danno di B.B. il (Omissis) -; L. n. 110 del 1975, art. 4 e art. 61 c.p., n. 2 capo 2,
commesso il (Omissis) -; art. 81 e 337 c.p., – capo 3, commesso in danno dei Carabinieri C.C. e D.D.,
il (Omissis) -) formulava richiesta di giudizio abbreviato, senza condizioni. Mentre per il
procedimento RGNR 7594/2020 il giudizio abbreviato era stato richiesto condizionato all’escussione
di due testi.
In data 24 novembre 2020 il Presidente della Sezione GIP / GUP del Tribunale disponeva
l’assegnazione di entrambi i procedimenti ad un solo giudice, per l’eventuale riunione richiesta dalla
difesa. Il provvedimento veniva notificato solo all’Avv. N.Q., di fiducia, ma non era notificato all’altro
difensore dell’imputato (Avv. A.D.B.) e neanche alla persona offesa e al suo difensore.
L’avviso di fissazione dell’udienza del 25 novembre 2020 doveva essere notificato a tutte le parti
processuali.
La Corte di appello, erroneamente, ha rigettato l’eccezione di nullità, in quanto il difensore
dell’imputato, presente all’udienza, non aveva eccepito l’omessa notifica all’altro difensore,
nonostante fosse stato specificamente interpellato dal giudice. Invece il giudice aveva verbalizzato la
correttezza delle notifiche e, pertanto, la difesa nulla avrebbe potuto eccepire. Infatti, il
provvedimento che aveva fissato l’udienza è del 24 novembre, per il giorno successivo (25 novembre
2020). Conseguentemente la verifica della regolarità della notifica poteva avvenire solo attraverso il
giudice, direttamente in udienza. La domanda posta dal giudice al difensore presente è stata solo
quella della sussistenza di altro codifensore, non già della regolarità della notifica all’altro difensore.
Non sussisteva alcun margine da parte del difensore presente di eccepire l’omessa notifica.
2. 2. Nullità della sentenza per violazione di legge processuale stabilita a pena di nullità (art. 438
c.p.p.).
All’udienza del 25 novembre 2020 il giudice, senza un provvedimento di ammissione del rito
abbreviato, ha disposto la discussione. Non sono state ammesse le prove testimoniali, alle quali il
ricorrente aveva subordinato la richiesta di giudizio abbreviato.
Per giurisprudenza consolidata il giudice prima di invitare le parti alla discussione avrebbe dovuto
ammettere il giudizio abbreviato (anche quello senza alcuna subordinazione).
In assenza di un’ordinanza di ammissione la difesa non poteva fare altrimenti; ha potuto solo eccepire
la nullità nell’atto di appello.
Per la Corte di appello, invece, l’assenza di eccezioni avrebbe sanato la nullità.
2. 3. Mancanza di motivazione sulla ritenuta attendibilità della persona offesa (E.E.).
Il giudice di secondo grado ha reiterato l’errore del Tribunale, ritenendo la parte offesa attendibile.
Nell’appello la difesa aveva evidenziato alcuni aspetti critici nelle dichiarazioni della donna. Alle
specifiche contestazioni dell’appello la sentenza non ha fornito adeguata motivazione. La sentenza
non ha dato spiegazioni del perchè la donna, pur sapendo di dover consumare rapporti sessuali con
l’imputato la sera del (Omissis), si era recata volontariamente in albergo; non chiese nessun aiuto
neanche al personale dell’albergo. L’imputato, se avesse voluto violentare la E.E. lo avrebbe fatto in
auto o in campagna e non in un albergo, dove la vittima avrebbe potuto chiedere aiuto facilmente.
L’imputato ha incontrato anche la figlia (insieme alla sua compagna) della donna e questo dimostra
che la parte offesa non aveva paura di lui.
La parte offesa, del resto, si era intrattenuta con l’imputato a parlare su dei gradini prima delle presunte
violenze. La donna, inoltre, ha sempre gestito la relazione con l’imputato nelle stanze di albergo. Il
portiere dell’albergo (F.F.) non riferisce di una donna impaurita all’arrivo in albergo. Durante la notte
la donna non ha mai urlato o chiesto aiuto; solo al momento dell’uscita la donna ha urlato.
2. 4. Violazione di legge (art. 62 bis c.p.).
La Corte di appello non riconosce all’imputato le circostanze attenuanti generiche omettendo qualsiasi
motivazione, nonostante specifica richiesta in sede di appello.
2. 5. Violazione di legge (art. 81, 132 e 133 c.p.) e vizio della motivazione sul trattamento
sanzionatorio superiore al minimo edittale.
La sentenza impugnata ha determinato la pena base per il reato più grave (art. 609 bis c.p.) in anni 8
di reclusione senza specifica motivazione. La pena superiore al minimo edittale non è stata
adeguatamente motivata. Anche gli aumenti per la continuazione risultano eccessivi (anni 1 di
reclusione per il delitto ex art. 612 bis c.p. ed anni 1 e mesi 6 di reclusione per il delitto ex art. 605
c.p.), senza specifica e dettagliata motivazione.
Ha chiesto pertanto l’annullamento della sentenza impugnata.
Motivi della decisione
3. Il ricorso è manifestamente infondato, in quanto i motivi sono generici e ripetitivi dell’appello,
senza critiche specifiche di legittimità alle motivazioni della sentenza impugnata. Inoltre, il ricorso,
articolato in fatto, valutato nel suo complesso, richiede alla Corte di Cassazione una rivalutazione del
fatto, non consentita in sede di legittimità.
4. I primi due motivi processuali sono in palese contrasto con la giurisprudenza consolidata della
Corte di Cassazione.
In caso di omesso avviso di fissazione udienza ad uno dei due difensori di fiducia dell’imputato, si
configura una nullità a regime intermedio che deve essere eccepita in udienza dal difensore presente,
sicchè la mancata proposizione dell’eccezione sana la nullità, a prescindere dal fatto che l’imputato,
regolarmente citato, sia presente o meno. (Sez. 5 -, Sentenza n. 55800 del 03/10/2018 Ud. (dep.
12/12/2018) Rv. 274620 – 01).
Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso in cassazione era onere dell’imputato presente
accertarsi della omessa notifica e proporre la relativa eccezione: “La nullità a regime intermedio,
derivante dall’omesso avviso dell’udienza a uno dei due difensori dell’imputato, è sanata dalla mancata
proposizione della relativa eccezione a opera dell’altro difensore comparso, pur quando l’imputato
non sia presente. (In motivazione la Corte ha precisato che è onere del difensore presente, anche se
nominato d’ufficio in sostituzione di quello di fiducia regolarmente avvisato e non comparso,
verificare se sia stato avvisato anche l’altro difensore di fiducia ed il motivo della sua mancata
comparizione, eventualmente interpellando il giudice)” (Sez. U, Sentenza n. 39060 del 16/07/2009
Ud. (dep. 08/10/2009) Rv. 244187 – 01).
5. L’ammissione del giudizio abbreviato, per fatti concludenti quali l’invito alla discussione, non
necessita di un provvedimento formale: “L’accesso al giudizio abbreviato non necessita di
un’ordinanza che disponga l’ammissione al rito con formula sacramentale, essendo sufficiente che il
giudice adotti un provvedimento equipollente, avente la stessa funzione di carattere ordinatorio e
propulsivo del procedimento. (Nella specie la Corte ha ritenuto legittimo il provvedimento del giudice
che, “dato atto della scelta del rito abbreviato”, aveva poi dichiarato ” aperta la discussione”)” (Sez.
6 -, Sentenza n. 34543 del 30/05/2018 Ud. (dep. 20/07/2018) Rv. 274021 – 01).
Anche la mancata ammissione delle testimonianze alle quali era stato subordinato il rito abbreviato
per uno dei procedimenti riuniti non comporta nessuna nullità, in quanto il difensore ha aderito
all’invito alla discussione senza nulla eccepire: “Qualora l’imputato, a seguito del rigetto della
richiesta di giudizio abbreviato condizionato ad una integrazione probatoria, non riproponga tale
richiesta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (come previsto dalla
sentenza della Corte costituzionale n. 169 del 2003, dichiarativa della parziale incostituzionalità
dell’art. 438 c.p.p., comma 6), ma chieda, invece, di definire il processo con giudizio abbreviato non
condizionato, la mancata ammissione della prova cui era subordinata l’iniziale richiesta non può
essere dedotta come motivo di gravame, ferma restando la facoltà di sollecitare l’esercizio dei poteri
di integrazione istruttoria “ex officio” ai sensi dell’art. 603 c.p.p., comma 3″ (Sez. 1 -, Sentenza n.
12818 del 14/02/2020 Ud. (dep. 23/04/2020) Rv. 279324 – 01; vedi anche Sez. 2 -, Sentenza n. 13368
del 27/02/2020 Ud. (dep. 30/04/2020) Rv. 278826 – 0).
6. Nel merito l’imputato contesta molto genericamente l’attendibilità della parte offesa senza
confrontarsi con le complete e logiche motivazioni della sentenza impugnata.
La decisione della Corte di appello (e la sentenza di primo grado, in doppia conforme) contiene ampia
e adeguata motivazione, senza contraddizioni e senza manifeste illogicità, sulla responsabilità del
ricorrente, e sulla piena attendibilità della donna, parte offesa, peraltro con numerosi riscontri alle sue
dichiarazioni.
In tema di giudizio di Cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di
fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri
di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati
di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. (Sez. 6, n. 47204
del 07/10/2015 – dep. 27/11/2015, Musso, Rv. 265482).
In tema di motivi di ricorso per Cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della
motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà
(intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti
essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze
che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa
illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei
significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a
conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza
probatoria del singolo elemento. (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015 – dep. 31/03/2015,0., Rv. 262965).
In tema di impugnazioni, il vizio di motivazione non può essere utilmente dedotto in Cassazione solo
perchè il giudice abbia trascurato o disatteso degli elementi di valutazione che, ad avviso della parte,
avrebbero dovuto o potuto dar luogo ad una diversa decisione, poichè ciò si tradurrebbe in una
rivalutazione del fatto preclusa in sede di legittimità. (Sez. 1, n. 3385 del 09/03/1995 – dep.
28/03/1995, Pischedda ed altri, Rv. 200705).
7. La Corte di appello (e il Giudice di primo grado), come visto, ha con esauriente motivazione,
immune da vizi di manifesta illogicità o contraddizioni, dato conto del suo ragionamento che ha
portato alla valutazione di attendibilità della parte donna.
Infatti, in tema di reati sessuali, poichè la testimonianza della persona offesa è spesso unica fonte del
convincimento del giudice, è essenziale la valutazione circa l’attendibilità del teste; tale giudizio,
essendo di tipo fattuale, ossia di merito, in quanto attiene il modo di essere della persona escussa, può
essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità,
specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi
probatoria. (Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006 – dep. 18/12/2006, Agnelli e altro, Rv. 235578).
Le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere
poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, corredata
da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del
suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui
vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. A tal fine è necessario che il giudice
indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo
così l’individuazione dell’iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata; mentre non ha
rilievo, al riguardo, il silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame qualora si tratti
di deduzione disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, non essendo necessaria
l’esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese ed essendo, invece, sufficiente una
ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione senza lasciare Spazio ad
una valida alternativa. (Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014 – dep. 14/01/2015, Pirajno e altro, Rv. 261730);
le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa,
le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale
responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità
soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso
essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi
testimone. (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012 – dep. 24/10/2012, Bell’Arte ed altri, Rv. 253214).
7. 1. Nel caso in giudizio le analisi delle due decisioni (conformi) sono precise, puntuali e rigorose
nell’affrontare l’attendibilità della donna, rilevando come i fatti sono emersi dalle dichiarazioni lineari
della stessa e dai riscontri. La Corte evidenzia come la sera del (Omissis) l’imputato aveva atteso la
donna sotto la sua abitazione e sotto minaccia grave fu costretta a recarsi con lui nell’Hotel (in passato
la donna era stata brutalmente picchiata e minacciata di morte dall’imputato, con riferimento al
possesso di una pistola). Conseguentemente la parte offesa non si è recata volontariamente in Hotel
per consumare rapporti sessuali consensuali con l’imputato, ma sotto la costrizione di minacce gravi
e per evitare di essere brutalmente picchiata, come era successo altre volte (come evidenziato dalle
annotazioni di servizio richiamate). La madre della ricorrente riferiva che la figlia tornava spesso a
casa con i cellulari distrutti dall’imputato durante gli attacchi di gelosia. Il portiere dell’albergo, G.G.,
ha riferito delle urla della donna la mattina. Il proprietario dell’albergo ha riferito del buco nel muro
(per il lancio del coltello da parte dell’imputato) e del danneggiamento di una sfera di cristallo, come
riferito dalla parte offesa.
Su questi aspetti il ricorso, articolato in fatto e in maniera del tutto generica, reitera le motivazioni
dell’atto di appello senza confrontarsi con la sentenza impugnata. Sostanzialmente non contiene
censure di legittimità nei confronti delle motivazioni della sentenza impugnata. Ripropone
acriticamente dubbi soggettivi, adeguatamente risolti dalle decisioni di merito.
8. Del tutto generici e manifestamente infondati i motivi sul trattamento sanzionatorio e sul mancato
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. La Corte di appello ha ritenuto adeguata ai
fatti la pena di anni 8 di reclusione (per il reato base) con un aumento per la continuazione di anni 1
di reclusione per il delitto ex art. 612 bis c.p. ed anni 1 e mesi 6 di reclusione per il delitto ex art. 605
c.p.
La pena, quindi, risulta al di sotto della media edittale e non necessitava di specifica e dettagliata
motivazione: “In tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di
sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del
giudice, se il parametro valutativo è desumibile dal testo della sentenza nel suo complesso
argomentativo e non necessariamente solo dalla parte destinata alla quantificazione della pena” (Sez.
3, n. 38251 del 15/06/2016 – dep. 15/09/2016, Rignanese e altro, Rv. 26794901; vedi anche Sez. 4, n.
46412 del 05/11/2015 – dep. 23/11/2015, Scaramozzino, Rv. 26528301 e Sez. 2, n. 28852 del
08/05/2013 – dep. 08/07/2013, Taurasi e altro, Rv. 25646401).
Inoltre, la sentenza impugnata evidenzia la gravità dei fatti in relazione “alo spessore criminale e alla
pericolosità dell’imputato appellante”.
9. Manifestamente infondato, anche, il motivo sul mancato riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche. La sentenza della Corte di appello pur non motivando sul motivo dell’appello
rileva, comunque, che la pena determinata, non molto distante dal minimo edittale risulta adeguata al
fatto.
La motivazione suddetta implicitamente rigetta la richiesta di riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche, in quanto la pena è stata ritenuta congrua per i fatti in giudizio e non era possibile
irrogare una pena al di sotto del minimo edittale.
Infatti, “La richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche deve ritenersi disattesa con
motivazione implicita allorchè sia adeguatamente motivato il rigetto della richiesta di attenuazione
del trattamento sanzionatorio, fondata su analogo ordine di motivi. (In applicazione del principio, la
Corte ha ritenuto immune da censure l’impugnata sentenza d’appello che, nel confermare la
determinazione della pena effettuata dal primo giudice, aveva evidenziato la pregnanza delle
circostanze aggravanti, dando implicitamente conto dell’impossibilità di addivenire ad una
mitigazione della pena inflitta)” (Sez. 1, n. 12624 del 12/02/2019 – dep. 21/03/2019, DULAN
CRISTIAN, Rv. 27505701).
Le attenuanti generiche previste dell’art. 62-bis c.p., sono state introdotte con la funzione di mitigare
la rigidità dell’originario sistema di calcolo della pena, per rimuovere il limite posto al giudice con la
fissazione del minimo edittale, allorchè questi intenda determinare la pena al di sotto di tale limite,
con la conseguenza che, ove questa situazione non ricorra, perchè il giudice valuta la pena da
applicare al di sopra del limite, o nel minimo edittale, il diniego di riconoscimento delle generiche
diviene solo elemento di calcolo e non costituisce mezzo di determinazione della sanzione e non può,
quindi, dar luogo nè a violazione di legge, nè al corrispondente difetto di motivazione (Vedi Sez. 3,
n. 44883 del 18/07/2014 – dep. 28/10/2014, Cavicchi, Rv. 260627).
Del resto, la richiesta delle circostanze attenuanti generiche in appello risulta proposta in modo
alquanto generico senza specificazione degli elementi positivi da considerare (Vedi Sez. 3, Sentenza
n. 57116 del 29/09/2017 Ud. (dep. 21/12/2017) Rv. 271869 – 0); nell’appello si censura solo l’omessa
motivazione della sentenza di primo grado, senza specificare elementi positivi da valutare per il
riconoscimento delle circostanze ex art. 62 bis c.p..
9. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza
13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono
elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima
consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonchè quello del
versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro
3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati significativi, a
norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 23 settembre 2022

Accertamento filiazione e rimborso oneri in unico giudizio

Tribunale sez. I – Messina, 17/11/2022, n. 1918
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
Il Tribunale di Messina, Prima Sezione Civile, composto dai Sigg.ri
Magistrati:
1) dott.ssa Caterina Mangano Presidente
2) dott. Corrado Bonanzinga Giudice,
3) dott. Ssa Viviana Cusolito Giudice est.,
ha emesso la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n. 6293/2019 R.G., posta in
decisione, con concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.,
all’udienza di precisazione delle conclusioni del 13.7.2022 e
promossa da
C. R.S., c.fisc. .., elettivamente domiciliata presso lo studio
dell’avv. CURRO’ GIOVANNI che la rappresenta e difende giusta
procura in atti
PARTE ATTRICE
CONTRO
C. S., c.fisc. .., elettivamente domiciliato presso lo studio
dell’avv. GIORDANO PIERO che lo rappresenta e difende giusta procura
in atti
PARTE CONVENUTA
E con l’intervento del PM presso il Tribunale di Messina.
OGGETTO: Dichiarazione giudiziale di paternità.
CONCLUSIONI
All’udienza di precisazione delle conclusioni i procuratori delle
parti hanno concluso come da verbale.
Con atto di citazione ritualmente notificato C. R.S. citava in giudizio C. S., esponendo che
dalla relazione con lo stesso, protrattasi per dieci anni, dal 1999 all’aprile 2009, erano nati i
figli C. A., il .., ed C. E., il .. riconosciuti solo dalla stessa. Esponeva che il convenuto non si
era mai occupato dei figli, disinteressandosi degli stessi sia sotto il profilo morale che
materiale e che solo in rarissime occasioni lo stesso aveva fatto loro dei regali ed aveva
elargito minime somme ricaricando una Postepay. Precisava che, anche attese le
accresciute esigenze dei ragazzi, ella non riusciva più da sola a fare fronte alle stesse ed,
in particolare, alle spese universitarie per la figlia C. A., anche tenuto conto che ella, con lo
stipendio di funzionario amministrativo presso il Commissariato di PS di Milazzo, doveva
anche provvedere al pagamento delle rate di mutuo per la casa di abitazione anche dei
ragazzi e della rata della automobile. Ancora aggiungeva che il convenuto non aveva voluto
raggiungere alcun accordo e solo raramente aveva fornito un aiuto per il pagamento di
qualche bolletta, pur essendo lo stesso un imprenditore, titolare di una ditta individuale.
Tutto ciò premesso concludeva chiedendo che fosse accertato e dichiarato che il convenuto
è il padre di C. A. e C. E., con ordine all’Ufficiale di Stato Civile di procedere alla trascrizione
della sentenza e con aggiunta del cognome qualora i figli avessero manifestato il loro
consenso. Chiedeva, altresì, la condanna dello stesso al rimborso delle spese sostenute in
via esclusiva per il mantenimento dei ragazzi, nonché la condanna a corrispondere una
somma mensile per il mantenimento degli stessi, fino al raggiungimento della indipendenza
economica. Chiedeva, ancora, la condanna del convenuto al risarcimento del danno
familiare, con riserva di richiedere il sequestro conservativo sui beni dello stesso e con
vittoria di spese e compensi.
Con comparsa depositata in data 30.4.2020 si costituiva il convenuto contestando il
contenuto dell’atto di citazione e chiedendone il rigetto. Rilevava che egli si era occupato
dei ragazzi, anche acquistando regali per gli stessi, corrispondendo somme di denaro e
financo provvedendo alla ristrutturazione dell’immobile di proprietà della attrice. Escludeva,
inoltre, di essersi disinteressato dei figli sotto il profilo morale e, pertanto, chiedeva il rigetto
della domanda di risarcimento del danno endofamiliare. In ultimo, rilevava la infondatezza
della richiesta di mantenimento.
Nel corso del giudizio veniva ammessa ed espletata ctu al fine di accertare la compatibilità
biologica fra il convenuto ed i figli della attrice nonché interrogatorio formale delle parti e
prova per testi. Alla udienza del 13.7.2022, dopo la audizione dei figli della attrice, la causa
veniva assunta in decisione.
Tutto ciò premesso preliminarmente deve rilevarsi la inammissibilità, stante la tardività, della
eccezione di prescrizione sollevata da parte convenuta esclusivamente nella comparsa
conclusionale, atto destinato esclusivamente ente ad illustrare le difese già svolte in giudizio.
Nel merito, la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità avanzata dalla attrice è
fondata e deve essere accolta.
Sul punto deve rilevarsi che la attrice ha agito ai sensi dell’art. 269 c.c. affinchè fosse
dichiarata giudizialmente la paternità del C. S. dei figli C. A. ed C. E..
La attrice era legittimata ad agire ai sensi dell’art. 273 c.c. avendo ella agito quale genitore
esercente la responsabilità sui figli minori. Risulta, inoltre, dagli atti del giudizio che i minori,
ai sensi del secondo comma della norma citata, hanno espresso il consenso per la
proposizione della azione, consenso peraltro dagli stessi ribadito in sede di audizione
davanti al giudice istruttore.
Del tutto non pertinente dunque appare il riferimento contenuto nella comparsa di risposta
del C. S. alla previsione di cui all’art. 250 c.c. che disciplina la diversa ipotesi del
riconoscimento effettuato dal genitore ed, al quarto comma, la ipotesi ulteriore nella quale il
genitore che non ha riconosciuto per primo può ottenere dal tribunale una pronunzia che
rimuova il rifiuto del consenso dell’altro genitore.
Pertanto, la affermazione del C. S. – ripetuta in tutti gli atti del giudizio secondo la quale “La
C. R.S. non ha mai richiesto al convenuto alcun consenso affinché questi potesse effettuare,
nelle forme e modi di legge, il riconoscimento spontaneo dei minori, né d’altronde ha dato
prova di ciò nel ricorso” – appare giuridicamente del tutto errata.
Invero, a fronte del riconoscimento effettuato per prima dei minori da parte della C. R.S., si
sarebbero potute verificare le seguenti ipotesi:
1) Il C. S., con il consenso della C. R.S., senza alcuna necessità di provvedimento
giurisdizionale, avrebbe potuto procedere davanti all’Ufficiale di Stato civile al
riconoscimento dei figli che non avessero compiuto i 14 anni;
2) Il C. S., con l’assenso dei figli che avessero già compiuto i 14 anni, senza alcuna necessità
di provvedimento giurisdizionale, avrebbe potuto procedere davanti all’Ufficiale di Stato
civile al riconoscimento degli stessi;
3) Nel caso in cui la C. R.S. avesse rifiutato il consenso, il C. S. avrebbe potuto azionare la
previsione di cui all’art. 250, 4° comma cpc per ottenere una sentenza che – ove sussistenti
i presupposi – tenesse luogo del consenso mancante.
In nessun caso, dunque, la attrice avrebbe dovuto richiedere al C. S. un consenso e, a fronte
del mancato riconoscimento da parte dello stesso, la stessa ha correttamente agito ai sensi
dell’art. 269 c.c. per sentire dichiarare giudizialmente la paternità.
Ciò premesso, la consulenza espletata ha consentito di affermare che il C. S. è il padre
biologico dei figli della attrice.
Invero, il ctu ha così concluso:
“A seguito dei prelievi di DNA, dei test biomolecolari-genetici e della conseguente analisi
biostatistica, i risultati ottenuti precedentemente descritti permettono di accertare che:
– i profili genetici di C. S. e C. A. sono totalmente compatibili con il rapporto di filiazione
naturale, avendo la figlia ed il padre biologico almeno un allele in comune per ciascun locus
nel profilo di DNA autosomico (si veda tabella 7.1). I calcoli biostatistici di PP, illustrati
precedentemente, danno un valore di 99,99999049%, con un LR> 10.000 (precisamente
10511165.27), come descritto nell’allegato n.6A, e confermano matematicamente la
paternità.
– i profili genetici di C. S. e C. E. sono totalmente compatibili con il rapporto di filiazione
naturale, avendo il figlio ed il padre biologico almeno un allele in comune per ciascun locus
nel profilo di DNA autosomico (si veda tabella 7.1). I calcoli biostatistici di PP, illustrati
precedentemente, danno un valore di 99,99992741%, con un LR> 10.000 (precisamente
1377520.5), come descritto nell’allegato n.6B, e confermano matematicamente la
paternità.”.
Pertanto, deve essere qui dichiarato giudizialmente che C. S. è il padre di C. A. e C. E..
Parte attrice ha chiesto che, una volta dichiarata la paternità del C. S., fosse posto a carico
dello stesso l’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli.
Rileva in proposito il Collegio che il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole,
stabilito dall’art. 147 cod. civ., obbliga i genitori a far fronte ad una molteplicità di esigenze
dei figli, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo,
scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna
predisposizione – fino a quando la loro età lo richieda – di una stabile organizzazione
domestica, adeguata a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione.
Tale principio trova conferma nel nuovo testo dell’art. 337 ter c.c. il quale, nell’imporre a
ciascuno dei genitori l’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli in misura
proporzionale al proprio reddito, individua, quali elementi da tenere in conto nella
determinazione del contributo, oltre alle esigenze del figlio, il tenore di vita dallo stesso
goduto in costanza di convivenza e le risorse economiche dei genitori, nonché i tempi di
permanenza presso ciascuno di essi e la valenza economica dei compiti domestici e di cura
da loro assunti.
Nel caso di specie è pacifico che il C. S. non ha mai convissuto con la C. R.S. e con i figli
né mai lo stesso ha tenuto presso di sé gli stessi.
Inoltre dalla documentazione acquisita risulta che solo per un limitato periodo (da settembre
2005 a marzo 2006) lo stesso ha inviato delle somme con cadenza mensile mentre, per i
restanti anni, dalla documentazione prodotta dallo stesso C. S., risultano pagamenti per
singoli acquisiti (abbigliamento, spesa alimentare, biciclette) ed alcune ricariche di poste
pay ed il pagamento di alcune bollette della utenza della energia elettrica, senza, tuttavia,
alcuna regolarità. Non appare, invero, sufficiente la dichiarazione della teste L. che ha
affermato – senza che ciò corrisponda alcun supporto documentale – che il C. S.
corrispondeva alla attrice, durante l’anno, somme per € 8.000,00 per il mantenimento dei
ragazzi.
Deve, dunque, ritenersi che la C. R.S. abbia, di fatto provveduto quasi integralmente da sola
al mantenimento dei figli, considerato che – a parte quei pochi mesi in cui risulta una
contribuzione mensile – è stata la stessa a dovere provvedere alle esigenze di
organizzazione domestica ed a tutti gli altri aspetti sopra richiamati. Inoltre, come già
rilevato, la presenza del C. S. risulta essere stata del tutto sporadica e, pertanto, non può
affermarsi che lo stesso abbia contribuito in via diretta al mantenimento dei figli, tenendoli
con sè.
Per questi motivi, la domanda avanzata dalla C. R.S. in ordine al rimborso di quanto speso
per i figli deve trovare accoglimento nei termini che seguono.
Ha chiarito, sul punto, la Suprema Corte che in materia di mantenimento del figlio naturale,
la domanda di rimborso delle somme anticipate da un genitore può essere proposta nel
giudizio di accertamento della paternità o maternità naturale (Cass. 17914/2010).
Per costante giurisprudenza “L’obbligazione di mantenimento del figlio riconosciuto da
entrambi i genitori, per effetto della sentenza dichiarativa della filiazione naturale,
collegandosi allo “status” genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio, con la
conseguenza che il genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del
mantenimento del minore anche per la porzione di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di
regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dagli artt. 148 e 261
del cod. civ. da interpretarsi però alla luce del regime delle obbligazioni solidali stabilito
nell’art. 1299 cod. civ. Pertanto, il “quantum” dovuto in restituzione nel periodo di
mantenimento esclusivo non può essere determinato sulla base dell’importo stabilito per il
futuro nella pronuncia relativa al riconoscimento del figlio naturale, via via devalutato, in
quanto l’ammontare dovuto trova limite negli esborsi presumibilmente sostenuti in concreto
dal genitore che ha per intero sostenuto la spesa senza però prescindere né dalla
considerazione del complesso delle specifiche e molteplici esigenze effettivamente
soddisfatte o notoriamente da soddisfare nel periodo in considerazione né dalla
valorizzazione delle sostanze e dei redditi di ciascun genitore quali all’epoca goduti ed
evidenziati, eventualmente in via presuntiva, dalle risultanze processuali, né infine dalla
correlazione con il tenore di vita di cui il figlio ha diritto di fruire, da rapportare a quello dei
suoi genitori.” (Cass., 4 novembre 2010, n. 22506; da ultimo Cass., 22 luglio 2014, n.
16657).
Pertanto “nell’ipotesi in cui al mantenimento abbia provveduto, integralmente o comunque
al di là delle proprie sostanze, uno soltanto dei genitori, a lui spetta il diritto di agire in
regresso, per il recupero della quota del genitore inadempiente, secondo le regole generali
del rapporto tra condebitori solidali” (Cass., 22 novembre 2000, n. 15063).
Il genitore avrà, dunque, il diritto di ripetere nei confronti di quest’ultimo, qualora questi non
abbia partecipato alle spese di mantenimento, una quota delle spese sostenute.
L’art. 1299 c.c., prevede il regresso tra condebitori solidali, quando l’obbligazione sia stata
adempiuta da uno solo di essi. L’azione di regresso presuppone che il coobbligato solidale
abbia adempiuto per l’intero l’obbligazione. La domanda di rimborso delle spese avanzata
dalla madre, pertanto, può esercitarsi nei limiti degli obblighi gravanti sui genitori in base ai
principi di cui agli artt. 316 e 316 bis c.c. (che hanno sostituito dopo la riforma della filiazione
attuata con l.n.219/2012 e con d. l.gvo 154/2013 gli art.147 e 148 e abrogato l’art. 261 c.c.),
nel senso che è obbligo dei genitori adempiere ai loro doveri nei riguardi dei figli in
proporzione alle loro sostanze e capacità di lavoro professionale e casalingo, ma trattandosi
di rimborso di spese, già sostenute, queste devono essere, almeno attraverso l’applicazione
di un metodo presuntivo, adeguatamente provate nel loro an e nel quantum da chi alleghi
di averle sostenute anche in luogo dell’altro obbligato, secondo le regole generali dell’azione
di regresso.
E’ possibile chiederne la rifusione, applicando matematicamente al tempo passato la misura
del contributo di mantenimento da fissarsi per il futuro, solo qualora con l’applicazione dei
criteri presuntivi questo parametro appaia congruo, mentre qualora non si possa ricorrere a
tale criterio, il genitore che formula la domanda di regresso è onerato di fornire la prova,
quanto meno presuntiva degli esborsi effettivamente sostenuti (v. Cass., 4 novembre 2010,
n. 22506; Cass., 22 luglio 2014, n. 16657).
Come sopra rilevato, parte attrice ha dedotto di avere provveduto sostanzialmente da sola
a tutte le esigenze dei figli e che il C. S. aveva solo sporadicamente provveduto.
Sulla base di quanto documentato dal C. S., deve affermarsi che la contribuzione da parte
dello stesso sia stata limitata e, dunque, deve affermarsi che sia stata la attrice ad avere
provveduto alle esigenze dei figli da sola dalla nascita degli stessi (avvenute nel 2002 e
2004) sino ad oggi, con eccezione di quel breve periodo in cui la contribuzione è stata
mensile ed ad eccezione di quelle sporadiche elargizioni (per regali, acquisto di
abbigliamento e, solo per un limitato periodo, per il pagamento delle utenze).
Ciò fonda il diritto della stessa ad ottenere il rimborso di una quota di quanto speso che,
considerata la parziale e limitata partecipazione del C. S., può attestarsi intorno al 40%.
Tenuto conto che la attrice è dispendente del Ministero dell’Interno e percepisce una
retribuzione di circa € 1200,00 mensili, considerato anche che la stessa ha anche una altra
figlia, può ritenersi congruo affermare che la stessa abbia destinato a C. A. e C. E. una
somma mensile pari ad € 300,00 (pari ad € 150,00 ciascuno) e considerato che gli stessi
sono nati nel .. e nel .. e considerato, altresì, quanto detto sulla parziale contribuzione del
C. S., lo stesso deve essere condannato a corrispondere alla C. R.S., a titolo di regresso
per le spese dalla stessa sostenute in via esclusiva per il mantenimento dei figli, la somma
di € 25.000,00, importo determinato equitativamente tenuto conto dei bisogni dei figli – in
assenza di prove specifiche su spese straordinarie- e di quanto avrebbe potuto la attrice
destinare alle esigenze degli stessi.
Detta somma deve essere maggiorata di interessi dalla domanda (16.12.2019) al soddisfo,
avendo chiarito sul punto la Suprema Corte che in materia di filiazione naturale, il diritto al
rimborso delle spese a favore del genitore che ha provveduto al mantenimento del figlio fin
dalla nascita, ancorché trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile
anche all’altro genitore, ha natura in senso lato indennitaria, in quanto diretto ad
indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, degli esborsi sostenuti da solo per il
mantenimento della prole. Ne consegue che il giudice di merito, ove l’importo non sia
altrimenti quantificabile nel suo preciso ammontare, legittimamente provvede, per le somme
dovute dalla nascita fino alla pronuncia, secondo equità trattandosi di criterio di valutazione
del pregiudizio di portata generale, fermo restando che, essendo la richiesta di indennizzo
assimilabile ad un’azione di ripetizione dell’indebito, gli interessi, in assenza di un
precedente atto stragiudiziale di costituzione in mora, decorrono dalla data della domanda
giudiziale (Cass. 16657/2014).
Quanto, invece, al contribuito per il mantenimento, si rileva che dagli atti risulta che entrambi
i ragazzi non sono ancora autonomi essendo impegnati in attività di studio.
Da ciò discende il diritto degli stessi a percepire dal C. S., quale genitore, un contributo
mensile per il proprio mantenimento, da corrispondersi alla C. R.S., in quanto genitore con
essi conviventi.
Tenuto conto della documentazione in atti (dalla quale risulta che, negli ultimi anni il C. S.
ha dichiarato redditi imponibili compresi fra i € 20.00,00 ed i 24.000,00 e che lo stesso è
titolare di numerosi beni immobili, alcuni produttivi di reddito), considerato altresì che seppur
dalla istruttoria emerge che lo stesso ha una moglie ed altri tre figli ma non ha fornito prova
in ordine alla mancata indipendenza economica dei figli o della moglie, ritiene il Collegio che
possa porsi a carico dello stesso l’obbligo di versare alla C. R.S., a titolo di contributo per i
ragazzi, la somma mensile di € 500,00 oltre aggiornamento istat annuale ed oltre la quota
del 50% delle spese straordinarie da compiersi nell’interesse dei figli.
Quanto alla domanda di condanna del convenuto al risarcimento del danno endofamiliare
avanzata dalla attrice nell’interesse dei figli si rileva che, secondo la Suprema Corte, “Il diritto
del figlio ad essere educato e mantenuto (artt. 147 e 148 cod. civ.) è, in conclusione,
eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione (Cass. 5562 del 2012). Alla
formula costituita dall’endiadi “diritto ad essere educato e mantenuto” non può attribuirsi un
valore soltanto descrittivo. Essa contiene e presuppone il più ampio ed immanente diritto,
desumibile dalla lettura coordinata degli artt. 2 e 30 Cost., di condividere fin dalla nascita
con il proprio genitore la relazione filiale, sia nella sfera intima ed affettiva, di primario rilievo
nella costituzione e sviluppo dell’equilibrio psicofisico di ogni persona, sia nella sfera sociale,
mediante la condivisione ed il riconoscimento esterno dello status conseguente alla
procreazione. Entrambi i profili integrano il nucleo costitutivo originario dell’identità
personale e relazionale dell’individuo e la comunità familiare costituisce la prima formazione
sociale che un minore riconosce come proprio riferimento affettivo e protettivo. Nell’art. 24
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, fonte integratrice dello statuto dei
diritti fondamentali di rango costituzionale delle persone, è specificamente contenuto, al
comma 3, il diritto per il bambino alla protezione e alle cure necessarie al suo benessere
nonché quello d’intrattenere relazioni e contatti diretti con i propri genitori. La privazione di
entrambi gli elementi fondanti il nucleo dei doveri di solidarietà del rapporto di filiazione
costituisce una grave violazione dell’obbligo costituzionale (nel senso rafforzato
dall’integrazione con la fonte costituzionale costituita dal diritto dell’Unione europea e dalla
Convenzione di New York del 20.11.89 ratificata con L. n. 176 del 1991, sui diritti del
fanciullo) sopra delineato. Si determina, pertanto, un automatismo tra procreazione e
responsabilità genitoriale, declinata secondo gli obblighi specificati negli artt. 147 e 148 cod.
civ., che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare,
nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli
obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Nella recente pronuncia di questa sezione
n. 5652 del 2012, relativa ad una fattispecie del tutto analoga a quella formante oggetto del
presente giudizio, la Corte, oltre ad aver ribadito il principio sopra esposto, secondo il quale
gli obblighi contenuti negli artt. 147 e 148 cod. civ., di diretta derivazione costituzionale,
sorgono per il mero fatto della nascita, ha, specificamente affermato che “La violazione dei
doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole (nella specie il
disinteresse mostrato dal padre nei confronti del figlio per lunghi anni) non trova sanzione
solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, potendo integrare gli estremi
dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti; questa, pertanto,
può dar luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai
sensi dell’art. 2059 cod. civ. esercitatile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione
giudiziale di paternità e maternità”.
Ritiene il Collegio che, dagli elementi raccolti, emerge che i figli hanno senza dubbio subito
un pregiudizio dalla condotta del C. S., il quale, pur consapevole della paternità, non ha
comunque proceduto al riconoscimento degli stessi. Risulta dalla testimonianze acquisite
che la C. R.S. aveva più volte richiesto al C. S. di riconoscere i figli ma non lo stesso non vi
ha mai provveduto. Risulta anche che siffatta richiesta era stata avanzata anche tramite
legale già nel 2016 e che alla stessa non era seguita alcuna risposta.
Il pregiudizio è apparso evidente anche dalla audizione dei figli i quali, con sofferenza, hanno
affermato che il padre era solito “rinviare tutte le questioni importanti, come quella del
riconoscimento e del cognome” e, proprio in virtù della sofferenza dagli stessi maturata in
proposito, hanno chiesto di non assumere, all’esito del presente giudizio, il cognome dello
stesso.
Pertanto, tenuto conto dei principi espressi dalla Suprema Corte in proposito, deve
affermarsi la sussistenza, in capo a C. A. e C. E., di un danno morale che può essere
liquidato, in via equitativa, nella misura di € 5.000,00 ciascuno, somma aggiornata alla data
odierna e da maggiorarsi di interessi dalla presente sentenza al soddisfo.
Le spese del giudizio, comprese quella della consulenza espletata, in base alla
soccombenza, devono essere poste a carico del C. S. e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale di Messina, Prima Sezione Civile, uditi i procuratori delle parti, definitivamente
pronunciando sulla domanda proposta da C. R.S. con atto di citazione ritualmente notificato
nei confronti di C. S., e con l’intervento del Pubblico Ministero presso il Tribunale di Messina,
disattesa ogni contraria domanda, eccezione e difesa, così provvede:
1) Dichiara che C. S. è il padre di C. A. nata a Catania il.. (atto di nascita del Comune di
Catania n. .., parte 2, serie B) e di C. E., nato a Catania il .. (atto di nascita del Comune di
Catania n. .., parte 2, serie B);
2) condanna C. S. a corrispondere, per le causali di cui in motivazione, a C. R.S., la somma
di € 25.000,00 oltre interessi dal 16.12.2019;
3) condanna C. S. al risarcimento del danno, in favore di C. A. e C. E., che liquida in €
5.000,00 per ciascuno, oltre interessi legali dalla presente sentenza al soddisfo;
4) dispone che C. S. versi a C. R.S., a titolo di contributo per il mantenimento dei figli C. A.
e C. E., entro il 5 di ogni mese, la somma di € 500,00 oltre aggiornamento istat annuale ed
oltre la quota del 50% delle spese straordinarie;
5) condanna C. S. alla rifusione delle spese processuali in favore di C. R.S. che liquida in €
48,87 per spese vive ed € 7616,00 per compensi, oltre spese generali, iva e cpa;
6) pone le spese di ctu in via definitiva a carico di C. S..

Risarcimento dei danni e autonomia del danno morale rispetto al danno biologico

Cass. Civ., Sez. III, Ord., 09 novembre 2022, n. 32935; Pres. Scarano, Rel. Cons. Ambrosi
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente –
Dott. CIRILLO Maria Francesco – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –
Dott. AMBROSI Irene – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 36681/2018 R.G. proposto da:
A.A., interdetto, rappresentato dalla madre e tutrice B.B., a ciò autorizzata in forza di provvedimento
del Giudice Tutelare di Viterbo del 18/10/2018, rappresenta e difesa dall’avvocato G. R.G., giusta
procura a margine del ricorso ed elettivamente domiciliata presso lo studio del medesimo in ROMA,
….;
– ricorrente –
contro
U. A. Spa , già UFG Assicurazioni Spa , in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso
dall’avvocato M. R., giusta procura speciale in calce al controricorso, elettivamente domiciliato presso
lo studio del medesimo, in Roma, …;
– controricorrente –
e contro
C.C., e D.D.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 7125/2017 della Corte d’Appello di Roma, depositata il 13/11/2017, non
notificata;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 marzo 2022 dalla Consigliera Irene
Ambrosi.
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Roma, accogliendo l’appello proposto da UFG Assicurazioni Spa avverso la
sentenza del Tribunale di Viterbo, ha rideterminato in misura del 32% il danno biologico permanente
in favore di A.A., da questi patito a seguito di un sinistro stradale, avvenuto in (Omissis) in data
(Omissis) a seguito del quale riportava lesioni gravissime, quale terzo trasportato, sull’autovettura
condotta da E.E., il quale perdeva il controllo del veicolo – che capovolgendosi, finiva contro un
albero fuori della sede stradale – e decedeva a seguito dell’impatto.
Il Tribunale di Viterbo, in parziale accoglimento della domanda risarcitoria proposta da A.A. e B.B.,
esercenti la potestà genitoriale sul minore A.A., nei confronti di C.C. e D.D. e di A.A. Spa,
rispettivamente i primi proprietari dell’autovettura e la seconda come responsabile civile, condannava
quest’ultima al pagamento in favore degli attori della complessiva somma di Euro 375.202,00, oltre
interessi legali e spese di lite.
Avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma, B.B. “nella spiegata qualità” ha proposto ricorso
per cassazione illustrato da undici motivi. Ha resistito con controricorso U.A. Spa, già UFG
Assicurazioni Spa , incorporante A. A. Spa .
La trattazione del ricorso, già fissata per l’adunanza camerale in data 24 settembre 2019, è stata
rinviata a nuovo ruolo in attesa della decisione della Corte Costituzionale, che con sentenza n. 41 del
2021 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quelle disposizioni, contenute nel D.L. n. 69 del
2013 (conv. con modif. nella L. n. 98 del 2013) – le quali conferiscono al giudice ausiliario di appello
lo status di componente dei collegi nelle sezioni delle corti di appello – statuendo che queste ultime
potranno legittimamente continuare ad avvalersi dei giudici ausiliari, fino a quando, entro la data del
31/10/2025, si perverrà ad una riforma complessiva della magistratura onoraria, affermando che fino
a quel momento, infatti, la temporanea tollerabilità costituzionale dell’attuale assetto è volta ad evitare
l’annullamento delle decisioni pronunciate con la partecipazione dei giudici ausiliari, e a non privare
immediatamente le corti di appello dei giudici onorari al fine di ridurre l’arretrato nelle cause civili.
E’ stata poi nuovamente fissata la trattazione del ricorso in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380
bis c.p.c., comma 1.
Il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni.
Parte ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo parte ricorrente denuncia “Violazione degli artt. 196, 194 e 62 c.p.c., con
riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4: sulla illegittimità della declaratoria di nullità della documentazione
sanitaria acquisita dal CTU per il supplemento di perizia”, lamentando che la Corte di appello, in
accoglimento del gravame della compagnia di assicurazioni, erroneamente ha dichiarato irritualmente
acquisiti e valutati dal CTU nonostante l’autorizzazione del giudice di primo grado – la
documentazione proveniente da strutture ospedaliere prodotta dall’esponente dopo il deposito della
CTU, e cioè all’udienza fissata per le osservazioni alla relazione, e confluita nella consulenza
integrativa del CTU in quanto ritenuta indispensabile per quantificare esattamente il danno biologico
sofferto dal A.A..
Lamenta che nella sentenza impugnata la Corte di merito abbia ritenuto la consulenza integrativa
basata su atti tardivamente depositati dalla parte, laddove il giudice di prime cure – ritenendo che il
CTU non avesse risposto esaurientemente ai quesiti posti, con particolare riferimento alla mancata
valutazione della pregressa frattura cervicale (attestata dal referto medico del 2007 già in possesso
del CTU) – aveva disposto un supplemento di perizia volto a stabilire l’effettiva entità dei postumi
invalidanti subiti dal danneggiato a seguito dell’evento dannoso. In particolare, contesta il punto
motivazionale ove la Corte ha ritenuto l’appello fondato, in quanto “errata sotto il profilo processuale
appare l’ammissione della produzione documentale fornita dall’attore oltre i termini processuali e
dopo il deposito della relazione peritale”, erroneamente affermando che alla “espressione contenuta
nel mandato peritale di “…verifica dei documenti sanitari in atti o eventualmente esistenti presso
strutture pubbliche o private…” non può attribuirsi il significato di conferimento di un potere
investigativo demandato al CTU che, pertanto, non poteva ritenersi onerato della ricerca della
documentazione sanitaria inerente l’evento dannoso subito dal danneggiato” (pag. 4 sentenza
impugnata).
2. Con il secondo motivo, denunziando “Violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 104 Cost.,
comma 1, e art. 101 Cost., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4: sulla
contraddittorietà/incomprensibilità nella motivazione con riferimento agli accertamenti della CTU
del 24.4.09 (doc 3 del fascicolo riepilogativo F) in merito al riconoscimento eziologico tra frattura
cervicale e sinistro del 2.12.2001” contesta, in particolare, l’apparenza della motivazione in quanto la
Corte di appello nella sentenza impugnata, dopo aver ritenuto “erronea” la “valutazione della
rilevanza della documentazione prodotta a posteriori dal danneggiato”, ha ritenuto che detta erronea
valutazione “si è traslata nel supplemento disposto per la sua valutazione anche in termini di postumi
invalidanti”. Nello specifico, si duole che, dopo aver sottolineato l’impossibilità per il CTU di
affermare con certezza l’esistenza del nesso di causalità, abbia poi, con “claudicante motivazione (…)
ridotto la percentuale di invalidità riconosciuta in primo grado di entità pari al 40%, al 32%”; si duole
che tale motivazione sia illogica e contraddittoria, al punto da implicare una obiettiva non
comprensibilità della stessa laddove la Corte di appello esclude la riconoscibilità del danno biologico
in questione, sebbene asseritamente riconosciuto dal CTU e, contestualmente, censura questi per aver
sommato algebricamente la appurata frattura cervicale come danno permanente quantificato nella
percentuale dell’8 agli altri postumi invalidanti accertati nella percentuale del 32.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la “Violazione dell’art. 115 c.p.c. commi 1 e 2, art. 116
c.p.c. comma 1, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4: illegittimità della sentenza impugnata per
essersi avvalsa ai fini del convincimento sull’assenza di nesso eziologico tra frattura cervicale e
sinistro del 2.12.2001 di una informazione probatoria tratta dalla CTU suppletiva del 24.4.09 (doc 3
del fascicolo riepilogativo F) utilizzata in modo distorto per fondare la propria decisione e
palesemente contraddetta dalle stesso ridetto elaborato”; si duole che la Corte di appello abbia
“veicolato il contenuto della CTU suppletiva del 20.04.2009 in maniera distorta all’interno della
motivazione della propria sentenza”, utilizzandone il contenuto per fondare una decisione diversa e
inconciliabile con quella contenuta nel predetto elaborato che, invece, ove trascritto in modo
conforme alla realtà contenutistica, avrebbe comportato la conferma della sentenza di primo grado
con il riconoscimento in favore del A.A. del danno biologico dell’8 per postumo permanente
rappresentato dalla frattura cervicale (Soma C5), così violando le regole della logica e della comune
esperienza che costituiscono le basi per il ragionamento valutativo delle prove ex artt. 115 c.p.c.
4. Con il quarto motivo contesta “erronea applicazione delle Tabelle di Milano in vigore nel 2010.
Conseguente violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2056 e 2059 c.c., in relazione all’art.
360 c.p.c., n. 3, ed all’orientamento di codesta Suprema Corte espresso ex multis con sentenza n.
4447/2014”, lamentando che la Corte di merito nella sentenza impugnata, invece delle Tabelle vigenti
all’epoca della statuizione (ottobre 2017), abbia applicato quelle obsolete risalenti all’anno 2010,
laddove la scelta sulle Tabelle vigenti sarebbe dovuta avvenire d’ufficio.
5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la “Violazione degli artt. 112 e 324 c.p.c., ai
sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4: illegittimità della sentenza impugnata per mancato riconoscimento del
danno morale, malgrado il cui an debeatur fosse passato in giudicato”; si duole che nella sentenza
impugnata non sia chiaro se il danno morale sia stato (seppur erroneamente) considerato quale
componente del danno biologico.
6. Con il sesto motivo di impugnazione proposto “con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 3”,
lamenta “la violazione degli artt. 2 e 3 Cost., anche in relazione all’art. 1 della Carta di Nizza,
contenuta nel Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con L. 2 agosto 2008, n. 190, nonchè violazione
dell’art. 2059 c.c., per mancato riconoscimento dell’autonoma rilevanza e risarcibilità del danno
morale rispetto al danno biologico in violazione dei dicta resi sulla specifica questione anche da
Codesta Suprema Corte da ultimo con sentenza n. 901 del 2018”; parte ricorrente osserva che non è
dato sapere come sia stato valutato e liquidato il danno relazionale, nella specie particolarmente grave,
le lesioni riportate in realtà avendogli provocato una invalidità pari al 100%, con l’interdizione e
ricoveri coatti in Centri di Salute mentale e TSO. Si duole non essersi considerata la sofferenza
interiore provata per non poter essere più come gli altri suoi coetanei e per aver dovuto interrompere
l’attività scolastica e sportiva e per non aver potuto estrinsecare i suoi talenti.
7. Con il settimo motivo denuncia la “Violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 104 Cost., comma
1, e art. 101 Cost. nonchè dell’art. 132, comma 2, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, e violazione
dell’art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1, con riferimento al n. 4 dell’art. 360 c.p.c.: carenza di
motivazione circa i criteri applicati per la quantificazione del danno morale”, ribadendo che nella
sentenza impugnata non sia chiaro se il danno morale sia stato effettivamente risarcito, in che misura
e con quali criteri.
8. Con l’ottavo motivo denuncia la “Violazione dell’art. 112 con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4, e
violazione degli artt. 24 e 111 Cost., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3: omessa pronuncia sul
danno da perdita della capacità lavorativa” in quanto la Corte di appello – non soffermandosi sul
contenuto sostanziale della domanda ma sul mero nomen iuris utilizzato dalla difesa del A.A. – ha
ritenuto che nella fattispecie concreta non potesse essere accolta la domanda di risarcimento del danno
patrimoniale da ridotta capacità lavorativa specifica, non avendo il A.A. dato prova di godere di una
fonte di reddito lavorativo nè di aver la probabilità di svolgere nel futuro una determinata attività.
9. Con il nono motivo di impugnazione proposto “con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3”, la menta
“la violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 – 2043 – 2054 – 2056 – 2059 – 2729 c.c., come
sancito da codesta Corte, in ultimo con ordinanza n. 11750/18: illegittimità della sentenza impugnata
per mancato riconoscimento della perdita della capacità lavorativa generica in favore di un minore
gravemente invalidato in forza di macro permanenti per mancata prova circostanziata del lavoro che
con ogni probabilità avrebbe svolto da adulto”.
10. Con il decimo motivo proposto “con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3”, lamenta “la violazione
degli artt. 1226 – 2043 – 2054 – 2056 – 2059 c.c., come sancito da codesta Corte con sentenza n.
15674/11: illegittimità della sentenza per mancato riconoscimento della perdita della capacità di
lavoro specifica”. Si duole non essergli stato riconosciuto il danno da incapacità lavorativa generica
e da perdita di chance, per aver in citazione fatto riferimento alla incapacità lavorativa specifica in
termini solo formalmente erronei, avendo fatto sostanzialmente riferimento all’impossibilità di
svolgere qualsiasi lavoro, atteso che all’epoca del sinistro studiava e tali studi era stato costretto poi
ad abbandonare.
11. I motivi, che per ragioni di reciproca connessione possono essere congiuntamente scrutinati, sono
fondati e meritano accoglimento nei limiti e secondo le seguenti considerazioni.
Con gli stessi viene dall’odierna ricorrente censurata la decisione impugnata sotto tre principali
distinti profili, che possono essere così riassunti:
a) illegittimità della declaratoria di nullità della documentazione sanitaria acquisita dal CTU per il
supplemento peritale e contraddittorietà e incomprensibilità della motivazione con riferimento agli
accertamenti della CTU del 24.4.09 (doc 3 del fascicolo riepilogativo F) in merito al riconoscimento
eziologico tra frattura cervicale refertata nel 2007 e sinistro occorso nel 2001;
b) mancato riconoscimento del danno morale;
c) mancato riconoscimento della capacità lavorativa generica e specifica.
11.1. Quanto al primo profilo, il Collegio osserva che erroneamente la Corte di appello romana, in
accoglimento del gravame della compagnia di assicurazioni, ha dichiarato irritualmente acquisito e
valutato dal CTU un referto medico del 2007, attestante la pregressa frattura cervicale del Soma C5
diagnosticata al danneggiato odierno ricorrente, benchè il Consulente fosse stato autorizzato dal
Tribunale all’acquisizione della documentazione presso strutture pubbliche e private riguardanti il
danneggiato, e nonostante che proprio quel referto, in particolare, fosse stato ritenuto indispensabile
dal giudice di primo grado per la integrale e unitaria valutazione e quantificazione (con un
supplemento peritale) del danno biologico sofferto dal danneggiato.
Atteso che il CTU, già in possesso del referto de quo, attestante la pregressa frattura cervicale, aveva
ritenuto di non valutarlo nel primo elaborato, dato il tempo trascorso dal sinistro (2001-2007), il
Tribunale dispose un supplemento peritale proprio al fine di valutarlo, al fine di procedere ad un
accertamento integrale del danno.
Giova richiamare in proposito il principio espresso, di recente, da questa Corte, nel suo più alto
consesso, secondo cui in materia di consulenza tecnica d’ufficio, il consulente nominato dal giudice,
nei limiti delle Indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può acquisire,
anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti – non applicandosi alle attività del
consulente le preclusioni istruttorie vigenti a loro carico -, tutti i documenti necessari al fine di
rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non siano diretti a provare i fatti principali dedotti
a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e salvo, quanto a queste
ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio (Cass. Sez.
U, 01/02/2022 n. 3086; vedi, altresì, Cass. Sez. 2, 30/07/2021 n. 21926).
Questa Corte, inoltre, ha più volte affermato che la consulenza tecnica di ufficio, non essendo
qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, perchè volta ad aiutare il giudice nella
valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze,
è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito.
Questi può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti
(consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal
caso è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che
il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (Cass. Sez. 3, 08/02
/2019 n. 3717; in senso conforme. Cass. Sez. 3, 13/03/2009 n. 6155).
Tanto richiamato, la motivazione della sentenza impugnata, nel punto ove ha ritenuto “errata sotto il
profilo processuale” (…) “l’ammissione della produzione documentale fornita dall’attore oltre i termini
processuali e dopo il deposito della relazione peritale”, affermando che “non può attribuirsi il
significato di conferimento di un potere investigativo demandato al CTU che, pertanto, non poteva
ritenersi onerato della ricerca della documentazione sanitaria inerente l’evento dannoso subito dal
danneggiato”, non si è posta in linea con quanto da questa Corte affermato nell’enunziare i suindicati
principi.
Sotto altro aspetto, in merito al riconoscimento del nesso eziologico fra frattura cervicale, refertata
nel 2007, e sinistro del 2001, in ordine alla quale la Corte di appello romana ha ravvisato “l’erronea
valutazione della rilevanza della documentazione medica prodotta a posteriori dal danneggiato si è
traslata nel supplemento di perizia disposto per la sua valutazione anche in termini di postumi
invalidanti”, va evidenziato che la stessa Corte non ha tenuto conto del criterio funzionale probatorio
“del più probabile che non” di cui si era avvalso correttamente il giudice di prime cure per delimitare
il perimetro di accertamento del danno-evento in un caso, come quello di specie, di concorrenza di
più cause possibili ed alternative del danno (si cfr. in proposito, Cass. Sez. 3 06/07/2021 n. 19033,
avente ad oggetto un caso di demenza post-traumatica riconducibile a più cause possibili ed
alternative, fra le quali, poteva annoverarsi il trauma cranico provocato dal sinistro).
La sentenza impugnata, infine, ha criticato la quantificazione operata dal CTU che “contrariamente
ai criteri elaborati dalle principali scuole in materia di valutazione e quantificazione dei postumi
invalidanti, erroneamente procedeva a somma algebricamente alla invalidità accertata per il
32% giungendo ad un giudizio conclusivo di un complesso invalidante pari al 40%” (pag.5 della
sentenza impugnata).
In proposito, la decisione gravata non ha tenuto conto dei criteri di liquidazione del danno in tema di
lesione della salute, da effettuarsi con il c.d. “sistema a punto variabile”, fondato sulla misurazione
delle conseguenze invalidanti in punti percentuali in base a “barèmes” medico legali che, se non
imposti dalla legge, costituiscono criteri di giudizio discrezionali la cui scelta spetta esclusivamente
al giudice nel rispetto della regola di liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c., al fine di garantire non
solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio
a fronte di casi analoghi (v. da ultimo, Cass. Sez. 3 05/05/2021 n. 11724). Criteri che, nella specie,
sono stati correttamente valutati dal giudice di prime cure sulla base degli accertamenti peritali
disposti.
Pertanto, la motivazione della sentenza impugnata merita di essere cassata in relazione all’intero
profilo qui considerato perchè obiettivamente incomprensibile e effettivamente viziata dalla nullità
processuale dedotta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 196 c.p.c.
11.2. Sotto il secondo profilo, riguardante la mancata liquidazione del danno morale, va condivisa la
censura proposta dalla parte ricorrente in relazione alla dedotta violazione degli artt. 1226, 2056 e
2059 c.c.
La Corte, in proposito, dapprima ha ritenuto che il danno da sofferenza morale si esaurisca nella
componente tabellare; poi ha affermato la necessità della personalizzazione; infine ha ritenuto
sufficiente quello che è stato liquidato a titolo di danno biologico (cfr. sentenza impugnata pag. 6).
Anche sotto tale profilo la motivazione non appare conforme ai principi in tema di danno non
patrimoniale da lesione della salute affermati da questa Corte, come ripetutamente affermato, il danno
morale consiste in uno stato d’animo di sofferenza interiore del tutto prescindente dalle vicende
dinamico relazionali della vita del danneggiato (che pure può influenzare) ed è insuscettibile di
accertamento medico-legale, sicchè, ove dedotto e provato, deve formare oggetto di separata
valutazione ed autonoma liquidazione rispetto al danno biologico. (cfr. Cass. Sez. 3, 21/03/2022, n.
9006, che, in applicazione del suddetto principio, ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, nel
liquidare il danno non patrimoniale subito dalla vittima di un incidente stradale sulla base delle
Tabelle di Milano del 2018, aveva negato il riconoscimento del danno morale quale autonoma voce
di pregiudizio, ritenendo che la considerazione della sofferenza interiore patita dal danneggiato
potesse incidere unicamente sulla personalizzazione del risarcimento del danno biologico; cfr. altresì,
in senso conforme, Cass. Sez. 6 – 3, 19/02/2019, n. 4878; Cass. Sez. 3, 27/03/2018 n. 7513;).
Va al riguardo ribadito che il positivo riconoscimento e la concreta liquidazione, in forma monetaria,
dei pregiudizi sofferti dalla persona a titolo di danno morale mantengono integralmente la propria
autonomia rispetto ad ogni altra voce del c.d. danno non patrimoniale, non essendone in alcun modo
giustificabile l’incorporazione nel c.d. danno biologico, trattandosi (con riguardo al danno morale) di
sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, meritevole di un compenso aggiuntivo al di
là della personalizzazione prevista per la compromissione degli aspetti puramente dinamico-
relazionali della vita individuale (in tal senso, Cass. Sez. 3, 11/11/2019, n. 28989).
In relazione a quest’ultima forma di personalizzazione (relativa al c.d. danno biologico), va
sottolineato come la stessa abbia trovato una sua specifica disciplina normativa nell’art. 138, comma
3, nuovo testo cod. ass., secondo cui “qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante
su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati,
l’ammontare del risarcimento del danno, calcolato secondo quanto previsto dalla tabella unica
nazionale LI può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni
soggettive del danneggiato, fino al 30%”.
Il comma 2, lett. a), della citata disposizione definisce il danno biologico come “la lesione temporanea
o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale, che
esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita
del danneggiato”, raccordandosi con la successiva lettera e) del medesimo comma 2 secondo cui “al
fine di considerare la componente morale da lesione dell’integrità fisica, la quota corrispondente al
danno biologico (…) è incrementata in via progressiva e per punto, individuando la percentuale di
aumento di tali valori per la personalizzazione complessiva della liquidazione”.
Ha trovato, pertanto, definitiva conferma, sul piano normativo, il principio già in precedenza
affermato da questa Corte dell’autonomia del danno morale rispetto al danno biologico, atteso che il
sintagma “danno morale” allude a una realtà che (diversamente dal danno biologico) rimane in sè
insuscettibile di alcun accertamento medico-legale, e si sostanzia nella rappresentazione di uno stato
d’animo di sofferenza interiore del tutto autonomo e indipendente (pur potendole influenzare) dalle
vicende dinamico-relazionali della vita del danneggiato (v. Cass. Sez.3, 10/11/2020 n. 25164).
Ne consegue che, nel procedere alla liquidazione del complessivo danno non patrimoniale, il giudice
di merito deve:
1) accertare l’esistenza, nel singolo caso, di un eventuale concorso del danno dinamico-relazionale
(c.d. danno biologico) e del danno morale;
2) in caso di positivo accertamento dell’esistenza (anche) di quest’ultimo, determinare il quantum
risarcitorio applicando integralmente le tabelle di Milano, che prevedono la liquidazione di entrambe
le voci di danno, ma pervengono (non correttamente, per quanto si dirà nel successivo punto 3)
all’indicazione di un valore monetario complessivo (costituito dalla somma aritmetica di entrambe le
voci di danno);
3) in caso di negativo accertamento, e di conseguente esclusione della componente morale del danno
(accertamento da condurre caso per caso), considerare la sola voce del danno biologico, depurata
dall’aumento tabellarmente previsto per il danno morale secondo le percentuali ivi indicate,
liquidando, conseguentemente il solo danno dinamico-relazionale (biologico);
4) in caso di positivo accertamento dei presupposti per la c.d. personalizzazione del danno (biologico),
procedere all’aumento fino al 30% del valore del solo danno biologico, depurato, analogamente a
quanto indicato al precedente punto 3, dalla componente morale del danno automaticamente (ma
erroneamente) inserita in tabella, giusta il disposto normativo di cui al già ricordato art. 138, comma
3, del novellato codice delle assicurazioni (Cass. Sez. 3, 17/05/2022 n. 15733).
11.3. Sono fondate anche le censure proposte dai ricorrenti in merito al terzo profilo della omessa
pronuncia sul danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa.
Emerge ex actis evidente che, come dagli odierni ricorrenti sostenuto, nonostante l’erroneo
riferimento formale alla perdita della capacità di lavoro specifica del medesimo (che, all’epoca del
sinistro, era quindicenne e frequentava un istituto tecnico per diventare meccanico riparatore di
vetture da turismo) è stato dai medesimi sostanzialmente lamentato il subito danno da impossibilità
di espletare qualsivoglia tipo di lavoro, e pertanto da perdita della capacità lavorativa generica e di
chance (cfr. Cass. Sez. 3, 12/06/2015, n. 12211; Cass. Sez. 3, 14/07/2015, n. 14645; Cass. Sez. 1,
31/07/2015, n. 16222; Cass. Sez. 3, 15/02/2018, n. 3691).
In proposito, come ripetutamente affermato da questa Corte, il danno da perdita o riduzione della
capacità lavorativa di un soggetto adulto che al momento dell’infortunio non svolgeva alcun lavoro
remunerato va liquidato con equo apprezzamento delle circostanze del caso ai sensi dell’art. 2056
c.c. (cfr. Cass. Sez. 3, 26/05/2020 n. 9682).
Se poi, come nella specie, il danno è patito da persona che al momento del fatto non era in età da
lavoro, la liquidazione deve avvenire sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima
tra il momento in cui ha raggiunto l’età lavorativa e quello della liquidazione e capitalizzando i redditi
futuri in base al coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al tempo della
liquidazione (Cass. Sez. 3, 12/04/2018 n. 9048).
Si è pure affermato che il danno da riduzione della capacità di guadagno subito da un minore in età
scolare, in conseguenza della lesione dell’integrità psico-fisica, può essere valutato attraverso il
ricorso alla prova presuntiva allorchè possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro il
danneggiato percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza
dell’evento lesivo, tenendo conto delle condizioni economico-sociali del danneggiato e della sua
famiglia e di ogni altra circostanza del caso concreto. Ne consegue che, ove l’elevata percentuale di
invalidità permanente renda altamente probabile, se non certa, la menomazione della capacità di
svolgere qualsiasi attività lavorativa il giudice può accertare in via presuntiva la perdita patrimoniale
occorsa alla vittima e procedere alla sua valutazione in via equitativa, pur in assenza di concreti
riscontri dai quali desumere i suddetti elementi (Cass. Sez. 3, 15/05/2018 n. 11750).
Orbene, emerge ex actis che al momento del fatto l’odierno ricorrente, quindicenne, fosse privo di
reddito, che frequentasse un istituto tecnico per diventare meccanico riparatore di vetture da turismo
e che, a seguito dei postumi invalidanti derivanti dall’incidente de quo, dovette interrompere il
percorso di istruzione tecnica intrapreso. Che, ancora, a causa dei gravissimi postumi permanenti è
stato ricoverato ripetutamente in Centri di Salute mentale e sottoposto a trattamento sanitario
obbligatorio tanto da essere, dapprima, sottoposto all’amministrazione di sostegno e poi, dopo il
giudizio di appello, interdetto.
12. Dall’accoglimento, nei suindicati termini e limiti, dei motivi di ricorso dal primo al decimo,
discende l’assorbimento dell’undicesimo con cui denuncia la “Violazione dell’art. 92 c.p.c., con
riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4, e violazione del D.L. n. 223 del 2006. Art. 2 e dell’art. 4 D.M. n.
55 del 2004, e delle relative tabelle professionali con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, come sancito
da Codesta Corte in ultimo con ordinanza n. 29594 dell’11.12.17”. Ne consegue la cassazione della
impugnata sentenza in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di appello di Roma, in diversa
composizione.
In sede di rinvio, la Corte territoriale dovrà rinnovare la statuizione sulla domanda di condanna al
risarcimento del danno morale e su quella al risarcimento per la perdita della capacità lavorativa e di
chance formulate dalla parte ricorrente nei confronti della parte resistente; infine, sulle spese del
giudizio di legittimità (art. 385 c.p.c., comma 3).
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata in relazione
e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche in ordine alle spese del
giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 6 giugno 2022.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2022

Rilascio C.I.E. del minore valida per l’espatrio: è irrilevante la specificazione della caratterizzazione di genere di ciascun genitore

Trib. di Roma, Sez. XVIII, Ord., 9 settembre 2022
(Sezione specializzata in materia di diritti della persona e immigrazione)
ORDINANZA
Il giudice
nel procedimento civile di primo grado in epigrafe, introdotto da:
M.E.,
M. S.,
in proprio e nella qualità di genitori esercenti la responsabilità genitoriale sulla minore
M. M.G.,
rapp. e dif. dall’avv. M. V. e dall’avv. T. F.,
nei confronti di:
MINISTERO INTERNO,
rapp. e dif. dall’avv. AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO,
ROMA CAPITALE
rapp. e dif. dall’avv. P. L.P. dell’Avvocatura capitolina,
sciogliendo la riserva, osserva quanto segue.
Si premette che, in ragione del carattere personalissimo delle situazioni e dei diritti degli
interessati, ed in aderenza all’espressa richiesta formulata nell’atto introduttivo ai sensi dell’art. 52
D.LGS. n° 196/2003, si omettono nel corpo del provvedimento i nomi delle parti ricorrenti, che
andranno oscurati, unitamente ad ogni altro dato identificativo, nell’intestazione e nel dispositivo in
caso di diffusione dell’ordinanza.
Va ancora premesso, sul piano processuale, che – come già correttamente osservato dal precedente
giudice assegnatario presso altra Sezione del Tribunale – la controversia non riguarda la
rettificazione di atti dello stato civile e non si qualifica ai sensi dell’art. 95 D.P.R. n° 396/2000;
onde la non necessità della pur disposta ed eseguita comunicazione al Pubblico Ministero (che non
ha, del resto, inviato osservazioni) e la corretta trasformazione del rito in sommario di cognizione
(nell’accordo delle parti), ritenuto il più adatto alla trattazione del procedimento, in quanto
meramente documentale e involgente soltanto questioni di diritto.
La MINORE G. Y.X. è figlia della SIG.RA S. Y., SECONDA RICORRENTE, sua madre naturale,
e della SIG.RA E. X., PRIMA RICORRENTE, che l’ha adottata, in forza della sentenza n° 47/19 in
data 08/02/2019, passata in giudicato, ai sensi dell’art. 44, c. 1, lett. d), L. n° 184/1981.
In data 28/05/2019, la PRIMA RICORRENTE e la SECONDA RICORRENTE hanno
congiuntamente richiesto agli uffici di ROMA CAPITALE l’emissione di una carta d’identità
elettronica (C.I.E.), valida per l’espatrio, a nome della figlia minore G. Y.X., con l’indicazione dei
proprî nominativi con la qualifica di «madre» e «madre» o, in alternativa, con la dicitura “neutra” di
«genitore» per entrambe.
Con comunicazione in pari data, i suddetti uffici di ROMA CAPITALE hanno evidenziato
l’impossibilità di accogliere la richiesta in ragione delle specifiche tecniche del programma
informatico di emissione della C.I.E. che, in conformità a quanto disposto dal decreto del Ministro
dell’interno del 31/01/2019, prevede esclusivamente la dicitura «padre» e «madre» per la
compilazione dei campi contenenti i nominativi dei genitori.
Le tre ricorrenti hanno impugnato dinanzi al T.A.R. del Lazio il citato decreto ministeriale
sollevando plurimi motivi di illegittimità. Il giudice amministrativo adito ha tuttavia declinato la
propria giurisdizione sul presupposto che il ricorso avesse ad oggetto la tutela di diritti soggettivi
perfetti, azionabili dinanzi al giudice ordinario, e che quest’ultimo disponesse di idonei strumenti
processuali per emettere una decisione utile a detta tutela, in particolare mediante la disapplicazione
dell’atto amministrativo illegittimo.
Le ricorrenti hanno quindi riassunto nei termini il processo, riproducendo e confermando
argomentazioni e censure già sollevate dinanzi al primo giudice e adattando le domande alle
peculiarità del giudizio civile.
Si sono costituite nel giudizio riassunto entrambe le amministrazioni resistenti.
La difesa di ROMA CAPITALE ha preliminarmente sollevato un’eccezione di difetto di
legittimazione passiva e denunciato un vizio di instaurazione del contraddittorio. Rileva che il
Sindaco agisce, in materia di atti dello stato civile, in qualità di ufficiale di Governo, mentre l’atto
introduttivo pare evocarlo in giudizio nella diversa qualità di capo dell’amministrazione di ROMA
CAPITALE, ed osserva che, qualora fosse stata intenzione delle ricorrenti agire nei suoi confronti
nella sua corretta qualificazione, il ricorso avrebbe dovuto essere notificato presso l’Avvocatura
generale dello Stato. Deduce ancora la difesa capitolina che, comunque, il Sindaco, pur nella sua
qualità di ufficiale di Governo, non dispone di alcun margine di discrezionalità che gli consenta di
disattendere le istruzioni contenute nel già ricordato decreto del Ministro dell’interno (titolare della
funzione di responsabile dei registri dello stato civile e dei poteri ad essa conseguenti, tra cui
l’emissione della C.I.E.) e non potrebbe, d’altro canto, neppure sul piano pratico, discostarsene, dal
momento che il software dedicato all’emissione delle carte d’identità è fornito dallo stesso
Ministero e non consente tecnicamente alcuna modifica delle qualifiche assegnate ai genitori,
quanto meno ad opera degli addetti degli uffici anagrafici. Eccepisce, infine, che la comunicazione
di rifiuto di emissione della C.I.E. con le diciture richieste dalle ricorrenti non assurge ad atto
amministrativo di rigetto della domanda, ma costituisce semplicemente una comunicazione
esplicativa delle ragioni – anche tecniche – dell’impossibilità di accoglierla.
L’Avvocatura generale dello Stato, costituitasi per il Ministero, contesta la sussistenza delle plurime
violazioni di legge e di diritti fondamentali della persona denunciate dalle ricorrenti (e riferite tanto
alle genitrici quanto alla minore) e, facendo leva su un nutrito corredo normativo riguardante la
filiazione, sostiene l’irrilevanza, ai fini che interessano, di molteplici disposizioni invocate dalle
ricorrenti e la piena conformità del decreto ministeriale alle previsioni di legge ed ai principî, anche
fondamentali e di ordine pubblico, che informano la Repubblica ed il suo ordinamento.
Per quanto riguarda l’eccezione (invero, le due eccezioni) riguardante il difetto di legittimazione
passiva di ROMA CAPITALE e la non corretta instaurazione del contraddittorio nei
confronti del Sindaco quale ufficiale di Governo, occorre dare atto che la difesa ricorrente, a verbale
dell’udienza tenutasi il 20/12/2021, ha concordato sul fatto che, in subjecta materia, il Sindaco
agisce in funzione di ufficiale di Governo; ha altresì giustificato la chiamata in causa di ROMA
CAPITALE sul rilievo che questo Tribunale (ed analogamente anche altri) avrebbe spesso ordinato
la notifica anche ad essa in quanto soggetto legittimato ad interloquire sull’istruttoria
amministrativa. Inoltre, nelle note autorizzate depositate in data 11/02/2022, ha sottolineato che
ROMA CAPITALE ha comunque svolto difese anche nel merito del ricorso, in particolare per
sostenere il carattere vincolato del rifiuto di emissione della C.I.E. con le diciture richieste dalle
ricorrenti.
Premesso che è indubitabile – ed ormai anche pacifico tra le parti – che il Sindaco agisce,
nell’esercizio delle funzioni delegate di ufficiale dello stato civile, come ufficiale di Governo,
delegato alla tenuta dei registri dello stato civile, osserva il Tribunale che, in tale qualità, esso
avrebbe dovuto semmai essere chiamato in giudizio personalmente, nella specifica qualità e
funzione che nella specie incarna (sebbene in realtà non fosse affatto necessario chiamarlo in causa,
poiché la responsabilità dello stato civile e la paternità del decreto ministeriale qui contestato
appartengono al Ministro dell’interno, del quale il Sindaco è mero delegato); mentre il (diverso)
soggetto evocato in giudizio è ROMA CAPITALE in persona del Sindaco, cioè una distinta
amministrazione – l’ente locale – di cui, in altra veste, il Sindaco è a capo ed è legale
rappresentante, la quale non esercita, come tale (cioè come ente territoriale), alcuna competenza in
materia di stato civile e di rilascio di documenti di identità. Pertanto, non si può non nutrire
perplessità in ordine a precedenti decisioni che avrebbero affermato la legittimazione di ROMA
CAPITALE in quanto competente ad interloquire nell’istruttoria amministrativa; nella fattispecie,
non viene del resto in considerazione alcun aspetto riguardante l’istruttoria, ma soltanto la dedotta
impossibilità (anche pratica) di emettere un documento conforme ai desiderata delle ricorrenti, in
ragione di una disposizione ministeriale e di uno strumento tecnico informatico predisposto e
fornito dal medesimo Ministero che né il Sindaco, né tanto meno i singoli operatori addetti, sono
autorizzati o anche semplicemente in grado di aggirare.
Deve quindi accogliersi l’eccezione di difetto di legittimazione passiva di ROMA CAPITALE,
restando così assorbita la distinta questione della notificazione dell’atto presso l’indirizzo P.E.C.
della Casa comunale.
Si è detto poc’anzi che all’accoglimento della richiesta delle ricorrenti osterebbe, oltre alle
disposizioni del decreto ministeriale del 31/01/2019 in quanto tali (sul piano giuridico), anche un
problema di natura tecnica afferente alla struttura del programma informatico predisposto per
l’emissione delle carte d’identità elettroniche, siccome elaborato in applicazione del suddetto
decreto.
A questo specifico riguardo – anche nella prospettiva di evitare una lunga e costosa consulenza
tecnica che avrebbe potuto rivelarsi necessaria per risolvere questo aspetto della questione – il
giudice ha chiesto delucidazioni alla difesa erariale, la quale ha fornito risposta con la nota
depositata in data 09/02/2022, allegando una relazione del Ministero dell’interno – Dipartimento
per gli Affari interni e territoriali – Direzione centrale per i Servizi demografici. La relazione
fornisce un esaustivo excursus dell’articolato ed a tratti impervio procedimento che ha condotto
all’emanazione del decreto ministeriale qui contestato, ritracciando le difficoltà manifestatesi nelle
varie fasi del relativo iter, e fa presente che, allo stato attuale, «sono tuttora in corso specifiche
interlocuzioni con l’Ufficio Legislativo del Ministro della Pubblica Amministrazione, volte al
superamento delle suesposte criticità». La relazione ministeriale, le cui conclusioni sono riprese
nella nota dell’Avvocatura, si chiude con l’affermazione che la «modifica dei software e della
configurazione degli impianti di stampa [sarebbe] senz’altro tecnicamente fattibile», ma
«comporterebbe la messa in circolazione di una carta d’identità elettronica non conforme al quadro
normativo vigente, con tutte le possibili conseguenze che potrebbero sorgere in caso di operazioni
di controllo da parte delle Forze dell’ordine».
Alla luce di questa conclusione, si può serenamente affermare, quindi, che l’accoglimento del
ricorso (e di altri analoghi eventualmente proposti) non porrebbe l’amministrazione dell’interno (e,
con essa, il Sindaco di Roma e, più in generale, i Sindaci competenti ad esercitare le funzioni
delegate di ufficiali dello stato civile) di fronte ad insormontabili difficoltà, o addirittura
all’impossibilità tecnica, di attuare la decisione giurisdizionale. L’obiezione che il Ministero
solleva alla (pur tecnicamente possibile) modifica del software, invece, è di natura giuridica, ed
attiene al merito delle censure sollevate dalle ricorrenti e contestate dalla difesa erariale, che ora
occorre passare ad esaminare.
Al fine di fugare ogni equivoco e di ricondurre l’argomentazione entro il perimetro tracciato
dalla questione sollevata nel presente giudizio, è opportuno chiarire sin d’ora che l’impostazione
generale e (per la maggior parte) le singole argomentazioni difensive svolte dalla difesa erariale non
colgono nel segno.
La memoria cita una lunga serie di disposizioni normative (12 articoli del codice civile, l’art.
5 della L. n° 40/2004, l’art. 6, c. 1, L. n° 184/1983, nonché gli artt. 29, 30 e 31 Cost.) che hanno ad
oggetto, in vario modo, il fenomeno della filiazione e le situazioni e vicende che, in tale contesto,
possono verificarsi e che necessitano di una regolamentazione giuridica.
Non desta meraviglia, e non ha alcuna incidenza sull’oggetto del presente litigio, il fatto che
il codice civile faccia riferimento, in più articoli, al «padre» e alla «madre». A parte il fatto che,
all’epoca della sua approvazione, né la società né la scienza potevano suggerire il verificarsi di
situazioni di altro tipo, è del tutto evidente che, ancor oggi, esistono pur sempre famiglie formate da
un padre, una madre e uno o più figli da loro generati (e sembrano essere, per ora, la maggior parte).
Non è dunque sorprendente, né in alcun modo significativo, ai fini che qui interessano, che queste
situazioni siano disciplinate: forse che un dato ordinamento, per il solo fatto di riconoscere altre
morfologie di famiglia (per fare un’ipotesi estrema, ancorché non consentita in Italia, la filiazione
da coppie omosessuali maschili sterili con dono di sperma ed ovuli e per maternità surrogata),
dovrebbe ipso facto rinunciare a disciplinare il caso, non eccezionale, ma anzi ordinario, di una
famiglia formata da una coppia eterosessuale con figli nati all’esito di una procedura, per così dire,
meno tecnologicamente avanzata e più “tradizionale”? E allora, che conclusioni si potrebbe
pretendere di trarre dal mero fatto che esistono leggi che si riferiscono, a fini ben determinati, come
meglio si vedrà, al «padre» e alla «madre»? E come l’esistenza di tali leggi dovrebbe influire sulla
possibilità di garantire determinati diritti a coppie ed a famiglie, già esistenti e riconosciute (il dato
non è trascurabile, come poi si vedrà), altrimenti costituite? E, ancor più specificamente, sul diritto
di ciascuno dei genitori, naturali e giuridici, di un minore nato in una tal famiglia, di essere
identificato/a in termini coerenti con il proprio sesso e genere?
Esaminando più da vicino le disposizioni normative interne citate da parte resistente, si
osserva, innanzitutto che gli articoli del codice civile riguardano, a fini determinati, situazioni ed
evenienze che si presentano nelle famiglie “tradizionali” (ma non, invece, in famiglie altrimenti
composte) e che vanno ovviamente regolamentate indipendentemente dal riconoscimento di altre
morfologie familiari:
– art. 231 (unitamente all’art. 232): stabilisce una presunzione di paternità in caso di coppia
(eterosessuale) sposata; non riguarda (ed evidentemente non potrebbe riguardare) le coppie
omosessuali, ma non contempla neppure le coppie eterosessuali non sposate;
– art. 243 bis: disciplina il disconoscimento di paternità: è evidentemente una disposizione utile
e di possibile applicazione solo per coppie eterosessuali, e solo per il padre, che, certa matre,
è l’unico a poter essere disconosciuto; lo stesso deve dirsi per gli artt. 246 e 247, che
disciplinano aspetti particolari della medesima azione; si consideri, peraltro, che un genitore
adottivo (ancorché “padre” ad ogni effetto) non può, per ovvii motivi, essere disconosciuto,
ma può soltanto promuovere o subire l’azione di revoca nei casi previsti dagli artt. 51 e 52 L.
n° 184/1983 ovvero, in caso di adozione del maggiorenne, dagli artt. 305 e sgg. C.C.: il che
dimostra che la ratio del riferimento al “padre” nell’articolo in commento non risiede nel suo
sesso o genere (che si pretenderebbe essere “obbligatoriamente” maschile), ma
semplicemente nel fatto incontrovertibile che soltanto del padre (maschio), e soltanto nel
contesto di una filiazione “naturale” (nel caso di fecondazione medicalmente assistita
eterologa, il disconoscimento da parte del “padre” è addirittura vietato: art: 9 L. n° 40/2004) è
ipotizzabile e rilevante una discrasia tra la situazione giuridica e quella genetica;
– art. 250: il riconoscimento da parte di un genitore ha senso soltanto in caso di coppia
eterosessuale, poiché consiste nella dichiarazione di aver generato il figlio; trattandosi della
dichiarazione di un fatto, non può avere ad oggetto un fatto biologicamente impossibile, salvo
casi particolari del concepimento e della gestazione (fecondazione medicalmente assistita in
vitro o in utero, uso di gameti propri o altrui, maternità surrogata), in quanto siano consentiti
o comunque disciplinati; ma, in assenza di tali specifiche possibilità alternative di
riproduzione, vi sono altri modi di costituzione del rapporto di filiazione (adozione ex art. 44,
c. 1, lett. d));
– art. 262: la disciplina dell’attribuzione del cognome in caso di riconoscimento si ispira alla
parità tra i genitori ed alla prevalenza cronologica del riconoscimento; solo in caso di
contemporaneità è prevista l’attribuzione automatica del cognome del padre (oggi rimessa in
discussione da una recente, nota sentenza della Corte costituzionale: n° 131/22); si tratta
quindi di rispondere ad un’esigenza specifica di certezza nelle relazioni familiari in casi in
cui, comunque, per le ragioni di cui sopra, vi è per forza di cose una coppia eterosessuale;
– art. 269: prevede la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, necessaria per mettere in
armonia il dato giuridico della filiazione con quello biologico della procreazione, ove i due
aspetti del fenomeno coincidano; valgono considerazioni analoghe a quelle svolte per il
disconoscimento di paternità;
– art. 408: l’indicazione di «padre» e «madre» (unitamente all’elencazione di diversi altri
parenti) serve soltanto ad indicare in modo specifico i diversi soggetti preferiti come
amministratori di sostegno, considerando che, in molti casi, ci saranno un padre e una madre;
ma ciò non esclude che uno dei due membri di una coppia omosessuale venga nominato
amministratore di sostegno e, soprattutto, non impone che, ove ciò si verifichi, tale soggetto
debba essere qualificato con un termine non appropriato al suo genere;
– art. 566: la disposizione regola solo il rapporto successorio dei fratelli figli di una medesima
persona, sia essa il padre o la madre (come il più delle volte avviene), ma non può in alcun
modo essere interpretata nel senso di escludere che, attraverso gli strumenti giuridici
consentiti dall’ordinamento, i fratelli in questione siano giuridicamente figli di due padri o di
due madri, e soprattutto non incide minimamente sulla possibilità e necessità che costoro
vengano identificati con una denominazione appropriata al loro genere; lo stesso può dirsi
dell’art. 568;
– art. 599: elenca le figure parentali tradizionali, ma non implica che non vi possano essere
figure parentali particolari di genere diverso dalla tradizionale coppia uomo-donna, alle quali
la norma si applicherebbe comunque;
– art: 643: disciplina una situazione in cui vi è necessariamente un «padre», per le ragioni dette
in materia di riconoscimento.
Come si vede, nessuna di queste disposizioni codicistiche è sufficiente a fornire una base
giuridica sulla quale possa fondarsi un obbligo di nominare espressamente, in ogni circostanza ed a
qualsiasi fine, un «padre» ed una «madre».
Non diversamente deve ragionarsi in relazione agli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione. Che la
«famiglia», della quale l’art. 29 Cost. riconosce i diritti, sia «fondata sul matrimonio» non significa
affatto che la sua esistenza sia comunque “condizionata” dal matrimonio, né tanto meno che uguali
o analoghi diritti non possano essere riconosciuti, in tutto o in parte, anche a “società naturali”
diversamente “fondate” o conformate. E lo dimostra il fatto che proprio l’art. 30 Cost. (che, tra
parentesi, parla proprio di «genitori», e non già di «padre» e «madre», e che laddove evoca il
concetto di «paternità» lo fa in relazione ad uno scopo ben preciso – la sua ricerca – che per forza
di cose, per le ragioni già dette, si riferisce soltanto al padre biologico, e non anche alla madre o al
genitore adottivo, a qualunque sesso o genere esso appartenga) si premuri di garantire il diritto al
mantenimento, all’istruzione e all’educazione anche ai figli nati fuori dal matrimonio: a riprova del
fatto che il matrimonio non è se non il “fondamento” (ed oggi deve aggiungersi: “ordinario”, o
“prevalente”) della famiglia, non certo una sua precondizione indefettibile. Tanto è poi dimostrato
anche da una pluralità di norme ordinarie che hanno via via riconosciuto, negli ultimi decenni,
“nuovi” diritti che si inquadrano nel perimetro logico-giuridico e sociale del concetto di “famiglia”
a coppie diversamente formate (il riconoscimento delle unioni civili ne è un evidente esempio) o a
persone singole (art. 44, c. 3, L. n° 184/1983).
Quanto all’art. 31 Cost., la protezione della «maternità» ivi garantita risponde ad una esigenza
specifica connessa al ruolo biologico della donna nella procreazione, che si declina nella
gravidanza, nel parto e nell’allattamento. Non v’è modo di inferirne che il genitore adottivo, anche
se donna, debba necessariamente essere qualificato «padre» (o viceversa).
Infine, l’art. 5 L. 40/2004 riguarda l’accesso alla procedura procreativa, ma non incide sulla
conformazione della famiglia già costituita mediante idonei atti giuridici (adozione), né tanto meno
sulle qualificazioni di genere da attribuire ai componenti di tale famiglia; l’art. 6 L. 184/1983, che
limita l’adozione «ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni», è controbilanciato dall’art.
44, comma 1, lettera d), norma applicata, nella specie, dal Tribunale per i minorenni al caso della
piccola G. Y.X.; l’art. 1, c. 20, L. 76/2016 si riferisce all’estensione semantica del termine
«coniugi» ed è tale estensione che viene limitata, escludendo che operi in relazione ad articoli del
codice civile non richiamati o nella legge sul «Diritto del minore ad una famiglia»; per l’adozione,
del resto, è espressamente mantenuta la disciplina della legge vigente.
Ma non mette conto dilungarsi oltre su questa linea argomentativa, perché tutta la materia
della filiazione (ed anche, più in generale, della famiglia e del matrimonio) è estranea all’oggetto
del contendere.
Il punto fermo dal quale occorre prendere le mosse è il fatto che il Tribunale per i minorenni
di Roma, con la citata sentenza n° 47/19, ha già disposto farsi luogo all’adozione, da parte della
SIG.RA E. X., della MINORE G. Y.X., con l’attribuzione a quest’ultima del doppio cognome e
con l’ordine (già debitamente eseguito) di procedere alle corrispondenti annotazioni ad opera
dell’ufficiale dello stato civile.
Esiste quindi, ad oggi, una situazione giuridica e di fatto incontrovertibile – perché coperta
dal giudicato – e risultante dagli atti dello stato civile, consistente nel rapporto di filiazione (naturale
e adottiva) della MINORE G. Y.X. con due genitrici, entrambe di sesso e genere femminile e
costitutiva di una famiglia. Di fronte a tale situazione, non ha alcun rilievo il margine di
discrezionalità riconosciuto agli Stati contraenti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in materia
di regolamentazione, più o meno permissiva o restrittiva, di questa o quella tecnica di procreazione
o di questa o quella forma di riconoscimento del rapporto di filiazione prodotto con tali tecniche,
poiché in questa sede non si discute della possibilità di riconoscere la SIG.RA E. X. come genitrice
della minore, cosa che è stata già fatta dal giudice competente e che costituisce ormai un fatto
acquisito.
Di quel margine di discrezionalità riconosciuto dalla CEDU il Tribunale per i minorenni ha già fatto
applicazione, utilizzando appropriatamente gli strumenti disponibili nel diritto italiano (il passo del
parere consultivo reso dalla Grande Chambre il 10/04/2019, citato anche dalla difesa erariale, lo
conferma, laddove indica, a titolo esemplificativo, l’adozione come strumento adeguato a garantire i
diritti riconosciuti al minore dall’art. 8 della Convenzione del 1950), con effetti che non sono, né
potrebbero essere, rimessi in discussione in questa sede.
Qui si discute, invece, dell’esistenza (o no) di un diritto delle due donne giuridicamente
riconosciute come genitrici della bambina (l’una per esserne anche madre naturale, l’altra per averla
adottata) a vedersi identificate, nella carta d’identità della figlia, in modo conforme alla loro identità
sessuale e di genere, o comunque in termini neutri; e del diritto della minore stessa ad una corretta
rappresentazione della sua situazione familiare, come figlia (naturale e giuridica) di due donne,
quindi di due “madri”, o comunque di due “genitori”.
Sull’esistenza di tali diritti, in capo alle ricorrenti, non può nutrirsi alcun serio dubbio.
Per quanto riguarda le prime due ricorrenti, l’indicazione, nel documento d’identità della
figlia, di una di esse (probabilmente la SIG.RA E. X., che non è la madre biologica e naturale) con
una qualifica («padre»), difforme dalla sua identità sessuale e di genere, costituirebbe senz’altro
un’ingerenza nel suo diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 CEDU,
priva dei connotati di necessità e proporzionalità che potrebbero giustificarla. Quanto al requisito
della necessità, esso è declinato in termini esaustivi dal secondo comma della disposizione; esclusi
la sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza, il benessere economico del paese, la difesa dell’ordine
e la prevenzione dei reati, la protezione della salute e la protezione dei diritti e delle libertà altrui,
che non hanno manifestamente nulla a che vedere con la fattispecie, non resterebbe che invocare la
difesa della morale. Ma (ribadito che qui non si tratta di riconoscere diritti procreativi non previsti
dall’ordinamento) non si vede come il fatto di indicare correttamente, su un documento di
riconoscimento, la qualifica di una persona con un termine corrispondente alla sua identità sessuale
e di genere (o almeno con un termine neutro) possa portare pregiudizio alla morale pubblica.
Escluso il requisito della necessità, diviene superfluo indagare quello della proporzionalità (non
potendo, per definizione, un intervento non “necessario” essere “proporzionato” ad uno scopo che si
riconosce inesistente). In ogni caso, stante lo scopo dell’indicazione dei soggetti che esercitano la
responsabilità genitoriale (già in fase di richiesta della C.I.E., e poi) nella compilazione del
documento (scopo che consiste nella formulazione di una richiesta valida in nome e per conto del
soggetto privo della capacità di agire e nell’individuazione delle persone che possono validamente
acconsentire all’espatrio del minore ed accompagnarlo all’estero o indicare i soggetti autorizzati a
farlo), è del tutto irrilevante la specificazione della caratterizzazione sessuale e di genere del ruolo
ricoperto da ciascuno dei genitori: l’ingerenza non sarebbe, dunque, neppure proporzionata allo
scopo legittimo individuabile nell’indicazione nominativa dei genitori (ma non nella connotazione
di genere espressa dalle parole «padre» e «madre»).
Un’indicazione con un termine che indichi un ruolo sociale e parentale incongruo rispetto
all’identità sessuale e di genere di una delle due genitrici costituirebbe quindi un’ingerenza nel suo
diritto al rispetto della vita privata e familiare vietata dall’art. 8 e, pertanto, una violazione di tale
norma.
La Corte di Strasburgo non ha avuto occasione di pronunciarsi sulla questione specifica;
tuttavia, la sua giurisprudenza si muove certamente in tal senso allorché, fin dal 1992 in modo
implicito (B. c. Francia, ric. n° 13343/87, Sessione plenaria, sent. 25/03/1992), e poi, con maggior
vigore, nel 2002 (Christine Goodwin c. Regno Unito, ric. n° 28957/95, G.C., sent. 11/07/2002) ha
affermato – sia pure in contesti di altra natura – che la sfera personale, protetta dall’art. 8, include i
dettagli della propria identità come individuo («Under Article 8 of the Convention in particular,
where the notion of personal autonomy is an important principle underlying the interpretation of its
guarantees, protection is given to the personal sphere of each individual, including the right to
establish details of their identity as individual human beings»). E tra questi dettagli non può non
ricomprendersi anche l’indicazione del ruolo sociale e familiare, che deve essere compatibile con
l’identità sessuale e di genere della persona (il caso Christine Goodwin aveva, del resto, proprio ad
oggetto il diritto della ricorrente a far coincidere la propria identificazione sessuale formale con la
sua identità sessuale – o “di genere” – sostanziale).
Identica violazione si riscontra anche nei confronti della MINORE G. Y.X., la quale ha un
analogo diritto, ai sensi dell’art. 8 CEDU, a vedere correttamente rappresentata, sul documento di
riconoscimento, la propria condizione di figlia di due madri. L’identità familiare è infatti parte
integrante dell’identità personale dell’individuo, e fa parte dei diversi aspetti nei quali si declina il
diritto al rispetto della vita privata e familiare. Questo principio emerge con chiarezza dal parere
consultivo del 10/04/2019 della Corte di Strasburgo (e dalla precedente giurisprudenza ivi
richiamata) che, pur non imponendo agli Stati contraenti uno specifico strumento per il
riconoscimento giuridico di una filiazione avvenuta con metodologie non ammesse dal diritto
interno, sottolinea la ridotta ampiezza del loro margine di apprezzamento discrezionale ed esige
che, in un modo compatibile con il diritto interno, i legami di filiazione del minore con le figure
genitoriali sia ufficialmente riconosciuto. L’affermazione, resa in un contesto in cui la domanda di
parere pregiudiziale era condizionata dalla fattispecie concreta, non può essere correttamente inteso
se non inserendolo in una prospettiva più ampia, che abbracci anche la corretta identificazione del
ruolo di ciascun genitore, che dev’essere conforme alla sua identità sessuale e di genere: altrimenti,
il riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione, in ipotesi attuato con formulazioni lessicali
difformi dalla realtà dei rapporti familiari e non coerenti con l’identità sessuale e di genere dei due
genitori, finirebbe col produrre il paradossale effetto di pregiudicare, anziché di tutelare, il diritto
all’identità del minore nella specifica forma dell’identità relazionale intra-familiare e
dell’identificazione delle sue radici (e sulla rilevanza delle radici familiari per l’identità personale di
un figlio, anche divenuto maggiorenne, basterebbericordare le sentenze in tema di ricerca delle
origini biologiche dell’adottato: Odièvre c. Francia e Godelli c. Italia).
Con riguardo alla TERZA RICORRENTE, peraltro, il diritto alla corretta rappresentazione delle
sue origini familiari trova conferma anche in altri strumenti internazionali ai quali l’Italia ha aderito,
primo fra tutti la Convenzione di New York del 20/11/1989 sui diritti del fanciullo, ratificata e resa
esecutiva con L. n° 176/1991, il cui art. 8, in particolare, impegna le Alte Parti Contraenti a
«rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità», comprendente «le sue relazioni
famigliari», ed il cui art. 3 prescrive che «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia
delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative
o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione
preminente».
La violazione dei diritti sanciti da fonti internazionali come quelle richiamate – ed in
particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – non è certamente consentita ad un atto
amministrativo, per di più di natura non regolamentare (che non integra la nozione di “legge”, pur
ampia e non “tecnica”, adottata dalla Corte di Strasburgo, e perciò non idoneo ad soddisfare il
requisito della “legalità” ai sensi e per gli effetti del comma 2 dell’art. 8 CEDU), ma non sarebbe
legittima neppure ove fosse realizzata mediante lo strumento della legge o dell’atto avente valore di
legge.
Siffatta violazione, infatti, si porrebbe comunque in contrasto (in assenza di ragionevoli
“contro-limiti” di stringente rilevanza costituzionale che possano giustificarlo) con l’art. 117 Cost.,
per il tramite della norma interposta costituita dall’art. 8 CEDU, e solleverebbe più che giustificati
dubbi di legittimità costituzionale anche alla luce del parametro costituito dall’art. 2 Cost.,
dovendosi ritenere che una rappresentazione distorta della figura di uno dei genitori (sotto il profilo
dell’identità sessuale e di genere e del ruolo sociale e parentale rivestito) costituisca una violazione
della dignità personale garantita da tale disposizione.
Discutendosi, nella fattispecie, del rilascio della C.I.E. valida per l’espatrio, la falsa
rappresentazione del ruolo parentale di una delle due genitrici, in evidente contrasto con la sua
identità sessuale e di genere, comporta poi conseguenze (almeno potenziali) rilevanti sia sul piano
del rispetto dei diritti garantiti dalla Costituzione, sia sul piano della necessaria applicazione del
diritto primario e derivato dell’Unione europea.
Non è molto difficile, invero, rappresentarsi mentalmente le manifeste perplessità di un
pubblico ufficiale che, all’uscita dall’Italia o all’ingresso nel territorio di un altro Paese, si trovasse
di fronte una bimba accompagnata da una gentile signora che, al riscontro dei rispettivi documenti,
risulterebbe essere “suo padre”. Né è difficile ipotizzare che il suddetto pubblico ufficiale, posto di
fronte ad una così patente difformità tra la realtà fattuale presente con incontrovertibile evidenza
davanti ai suoi occhi e le risultanze dei documenti di identità dei due soggetti, si veda costretto a
rifiutare loro l’uscita dal, o l’ingresso nel, territorio.
Ove ciò si verificasse in occasione di un viaggio con destinazione verso un Paese non membro
dell’Unione europea (ma che accetta la carta d’identità come documento valido per l’espatrio), la
situazione si porrebbe in insanabile contrasto con l’art. 16, c. 2, Cost., che garantisce la libertà dei
cittadini di «uscire dal territorio della Repubblica e di rientravi, salvo gli obblighi di legge». Stante
l’efficacia “orizzontale” e l’immediata precettività delle norme costituzionali, non può ritenersi
ammissibile che un atto amministrativo faccia ostacolo alla loro applicazione. Ma, come si è detto
dianzi in relazione alle violazioni di norme internazionali, neppure la legge potrebbe farlo senza
esporsi a gravi dubbi di costituzionalità.
Se, poi, la descritta vicenda si verificasse in occasione di un viaggio all’interno dell’Unione
europea, l’impedimento determinato – almeno potenzialmente – dalla falsa rappresentazione della
realtà manifesta, contenuta nel documento d’identità della minore, si tradurrebbe – come
recentissimamente affermato, in un caso ampiamente sovrapponibile a questo, dalla Corte di
giustizia del Lussemburgo, in causa C-490/20, V.M.A. c. Stolichna obshtina, rayon «Pancharevo»,
G.S., sent. 14/12/2021 – in una violazione dell’art. 21, par. 1, TFUE, che garantisce la libertà dei
cittadini dell’Unione di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri;
libertà che il cittadino dell’Unione minore di età deve poter esercitare accompagnato da «ciascuna
delle sue due madri». Sempre secondo la citata sentenza, «Gli Stati membri sono […] liberi di
prevedere o meno, nel loro diritto nazionale, il matrimonio tra persone dello stesso sesso e la
genitorialità di queste ultime. Tuttavia, nell’esercizio di tale competenza, ciascuno Stato membro
deve rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, le disposizioni del Trattato FUE relative alla
libertà riconosciuta a ogni cittadino dell’Unione di circolare e di soggiornare nel territorio degli
Stati membri, riconoscendo, a tal fine, lo status delle persone stabilito in un altro Stato membro
conformemente al diritto di quest’ultimo». D’altra parte – precisa ancora la Corte – «il rapporto del
minore interessato con ciascuna delle due persone con cui ha una vita familiare effettiva nello Stato
membro ospitante e che sono menzionate come suoi genitori nell’atto di nascita emesso dalle
autorità di tale Stato è protetto dall’articolo 7 della Carta». Infine, richiamando gli artt. 7 e 24 della
Carta dei diritti fondamentali dell’UE e gli artt. 2 e 7 della già ricordata Convenzione di New York,
il giudice europeo sottolinea il divieto di far subire al minore discriminazioni, «comprese quelle
basate sull’orientamento sessuale dei suoi genitori». E discriminazione vi sarebbe, se i minori aventi
una relazione parentale (biologico-naturale e/o giuridica) con genitori dello stesso sesso dovessero
esibire documenti di identità sui quali i genitori risultano indicati in termini manifestamente falsi e
identici a quelli dei minori aventi genitori di sesso opposto.
In quest’ultima ipotesi, dunque, non si porrebbe neppure un problema di legittimità
costituzionale di un’eventuale disposizione di legge che imponesse, direttamente o indirettamente,
l’indicazione di due donne genitrici (o di due uomini genitori) come «padre» e «madre» del minore:
una simile legge dovrebbe, infatti, essere direttamente disapplicata dal giudice ordinario per
contrasto con la normativa eurounionale. È del tutto evidente che analoga sorte deve toccare, ed a
fortiori, ad un semplice atto amministrativo non regolamentare che – peraltro – trascende anche
(come meglio si dirà in séguito) i limiti della competenza attribuitagli dal legislatore primario.
Prima però di passare a quest’ultimo snodo motivazionale, è opportuno segnalare brevemente
che – come del resto già rilevato, con argomentazioni esaustive che non lasciano spazio a dubbi, dal
Garante per la protezione dei dati personali, nel parere del 31/10/2018, che va pienamente condiviso
– l’indicazione della qualifica di «padre» nel campo corrispondente al nome di una delle due donne
costituisce, in maniera addirittura evidente, una violazione dell’art. 5, par. 1, lettere c) (principio di
«minimizzazione») e d) (principio di «esattezza»), del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento
europeo e del Consiglio del 27/04/2016 (R.G.P.D.).
Il principio di minimizzazione consiste – secondo le parole dello stesso legislatore europeo –
nella corrispondenza dei dati a criteri di adeguatezza, di pertinenza e di limitazione da valutarsi alla
luce delle «finalità per la quale sono stati trattati». Poiché l’indicazione dei nomi dei genitori sulla
carta d’identità del minore persegue chiaramente la finalità di rendere noto a chi di dovere (in
occasione di controlli, in particolare ai valichi di frontiera, ma eventualmente anche all’interno del
territorio nazionale o di un Paese estero, appartenente o no all’Unione europea) chi siano le persone
investite della responsabilità genitoriale ed autorizzate, in caso di espatrio, ad accompagnare il
minore, e non certo di rivelare da chi e come il minore sia stato generato (tanto è vero che è
contemplata l’ipotesi dell’indicazione del tutore), o quale sia il sesso o il genere delle persone di cui
sopra, è di immediata evidenza che l’indicazione di ruoli genitoriali prestabiliti e corrispondenti ad
una specifica identità sessuale e di genere è del tutto superflua e non può considerarsi né adeguata,
né pertinente, né tanto meno limitata allo scopo legittimo perseguito. Un profilo, questo, che sembra
invece essere sfuggito all’attenzione del Garante nel successivo parere (del 25/03/2021), laddove
suggerisce di indicare, unitamente alla qualifica neutra di “genitore”, anche quella di “padre” e
“madre”, così reintroducendo una specificazione di sesso e genere del tutto estranea alla finalità
dell’indicazione dei soggetti che esercitano la responsabilità sul minore, e perciò di dubbia
compatibilità con i principî di limitazione delle finalità e di minimizzazione di cui all’art 5 R.G.P.D.
Il principio di esattezza non abbisogna di particolari spiegazioni: è palese per chiunque che,
se le parole hanno un senso, il principio di esattezza è soddisfatto soltanto se il dato è, appunto,
esatto.
E cioè (per aggirare l’inevitabile tautologia terminologica) se esso corrisponde alla realtà. Ora, non
v’è chi non veda che né una donna che ha partorito un figlio, né un’altra donna che l’ha adottato
possono essere qualificate come «padre» di quel figlio e che, se questo tuttavia avviene, il dato è
ovviamente inesatto e viola la disposizione in commento. Disposizione, peraltro, che trova un
rafforzamento nel diritto di rettifica garantito dal successivo art. 16 R.G.P.D.
Ancora una volta, questo profilo di illegittimità del decreto ministeriale del 2019 non dipende
strettamente dalla sua natura di semplice atto amministrativo non regolamentare (di cui tra breve si
dirà): quand’anche, infatti, fosse la legge stessa a disporre l’obbligo di indicare i genitori come
«padre» e «madre», essa andrebbe a sua volta disapplicata, in applicazione della regola della
prevalenza del diritto eurounionale su quello nazionale (ed in difetto di alcun sacrificio di quei
principî supremi dell’ordinamento costituzionale e di quei diritti inalienabili che potrebbero fungere
da “controlimiti”).
Trasferendoci ora sul piano del diritto interno, si deve innanzitutto contestare l’affermazione
della difesa erariale secondo cui l’art. 3 T.U.L.P.S. non avrebbe attinenza con la materia del
presente giudizio («risponde ad una finalità diversa», ma non meglio specificata) e menzionerebbe
«in maniera atecnica la figura del genitore». Invero, l’oggetto dell’intero articolo è proprio il
rilascio delle carte d’identità, le loro tipologie, i dati che possono o debbono riportare, ecc. La sua
asserita estraneità alla materia (e la sua rispondenza ad un’ignota «finalità diversa») appare quindi
priva di riscontro ed è del resto platealmente smentita proprio dal fatto che tale disposizione è la
prima tra quelle espressamente richiamate nelle premesse del decreto ministeriale qui contestato.
Quanto all’affermazione secondo cui l’uso del termine «genitore» sarebbe, in quel contesto
“atecnico”, la sua apoditticità rende alquanto arduo contestarla mettendo in discussione argomenti
inesistenti o comunque non esplicitati, e non lascia altra via se non quella di adottare un analogo
atteggiamento affermando, semplicemente, che essa non è vera; si può solo aggiungere che, quando
si vuol sostenere che il legislatore ha fatto cattivo uso di un termine, o comunque lo ha adoperato in
modo difforme «dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» (primo criterio
d’interpretazione della legge secondo l’art. 12 DISP. PREL. C.C.) è buona norma diffondersi
alquanto per giustificare una tale eccentrica tesi.
La “motivazione” delle modifiche apportate dal decreto ministeriale del 2019 al D.M. del
23/12/2015 (quart’ultimo paragrafo delle premesse), fa leva sulla necessità di «adeguarlo [il decreto
oggetto delle modifiche] alla normativa dello stato civile, in particolare per quanto attiene alla
qualificazione dei soggetti legittimati a presentare agli ufficiali d’anagrafe la richiesta di emissione
del documento elettronico in favore di minori d’età, in un contesto di complessiva coerenza
nell’esercizio delle funzioni governative delegate».
Tralasciando di tentare una perigliosa interpretazione del «contesto di complessiva coerenza
nell’esercizio delle funzioni governative delegate» (concetto di ardua definizione, in difetto di
qualsiasi indicazione sul perimetro dell’invocata «coerenza» e sulle fonti dalle quali esso sarebbe
tracciato), osserva innanzitutto il Tribunale che la normativa dello stato civile è assai più risalente
del decreto del 2015 e da allora non è radicalmente cambiata: non si comprende, quindi, quale
impellente necessità imponesse di modificare, nel 2019, il decreto esistente.
Comunque, le modifiche al decreto del Ministro dell’interno del 2015, introdotte dal D.M. del
2019:
– non sono coerenti con, ma anzi si discostano dal, dettato del già citato art. 3 T.U.L.P.S.;
– non sono utili ad assicurare una coerenza necessaria con l’art. 17 D.P.R. n° 396/2000, il quale si
riferisce al padre ed alla madre, o agli avi paterni o materni, al solo limitato fine di individuare i
possibili uffici territorialmente competenti a ricevere le comunicazioni dell’autorità diplomatica o
consolare; la disposizione non prende in considerazione l’ipotesi che il soggetto possa avere due
madri o due padri, perché ciò sarebbe ininfluente ai fini della sua applicazione (ci sarà comunque
almeno uno dei due soggetti che corrisponde alla qualifica); anche in questo senso, si deve quindi
escludere, ai fini della deroga al disposto dell’art. 8 CEDU, la necessità e proporzionalità
dell’ingerenza e, sotto il profilo della corretta applicazione dei principî regolatori del trattamento
dei dati personali, il rispetto del principio di minimalizzazione dei dati;
– non sono coerenti con, ma anzi si discostano dal, linguaggio adoperato dall’art. 30 D.P.R. n°
396/2000, che parla ripetutamente dei «genitori» o di «uno dei genitori», o di «uno di essi»;
peraltro, la disposizione riguarda la dichiarazione di nascita, cioè un atto che si forma
nell’immediatezza della nascita, fenomeno che presuppone necessariamente l’esistenza di una
«madre» partoriente: in questo particolare contesto, gli sporadici riferimenti alla «madre», limitati
alla risoluzione di particolari situazioni (residenze separate dei genitori, mancanza di accordo fra
di essi), sono giustificati dalla tirannia della realtà e non implicano affatto che, sui documenti
d’identità del nato, debba poi essere specificato (peraltro in modo difforme dal vero) il ruolo
sessualmente determinato di ciascun genitore;
– non sono coerenti con, ma anzi si discostano dal, linguaggio adoperato dall’art. 33 D.P.R. n°
396/2000, che usa il termine «genitore» o «genitori»;
– non hanno alcuna attinenza con il successivo art. 34, c. 1, che riguarda i divieti di attribuzione di
determinati nomi al figlio; il riferimento al nome del «padre vivente», di cui è vietato imporre il
nome al figlio, può bensì rivelare una differenza di trattamento tra padre e madre, e tra figli maschi
(che non possono chiamarsi come il padre, pena l’irriducibile confusione tra due soggetti aventi lo
stesso nome e lo stesso cognome) e figlie femmine (che invece possono chiamarsi come la madre,
perché quella confusione non può verificarsi: ma anche questa ipotesi andrà, de jure condendo,
riesaminata alla luce della sentenza della Corte costituzionale); di certo, tale riferimento non ha
alcun rapporto con la pretesa necessità di indicare, nei documenti di un minore, una donna come
«padre» (o un uomo come «madre») e, ancora una volta, vengono così travalicati i confini della
necessità e proporzionalità (art. 8 CEDU) e della minimizzazione ed esattezza dei dati (art. 5
R.G.P.D.).
Per quanto riguarda l’art. 1, c. 20, L. n° 76/2016, è agevole osservare:
a) che esso si riferisce all’estensione semantica del termine «coniuge» ai partners registrati dello
stesso sesso: non ha quindi alcuna attinenza con le indicazioni da iscrivere sui documenti
d’identità dei minori;
b) che la sua dichiarata inapplicabilità agli articoli del codice civile non espressamente
menzionati non incide in nulla sulla risoluzione della presente controversia, giacché significa
semplicemente che in tali articoli non opera la predetta estensione semantica; e comunque non
vi sono articoli del codice che impongano l’indicazione di «padre» e «madre» sulla carta
d’identità di un minore;
c) che altrettanto deve dirsi per quanto riguarda la legge n° 184/1983: l’inapplicabilità
dell’estensione semantica di cui sopra non incide per nulla sulla possibilità (ribadita dal
periodo successivo della disposizione legislativa) di applicare all’adottante le norme già
vigenti nella materia (come ha fatto il Tribunale dei minorenni di Roma) e di far conseguire a
tale applicazione la creazione di un legame giuridico di filiazione anche con una persona unita
da un legame omosessuale con il genitore “naturale” del figlio; e soprattutto non implica in
alcun modo che il genitore adottante (o anche, eventualmente, quello “naturale”) debba
assumere, nei documenti d’identità del minore, una qualifica palesemente contrastante con la
sua identità sessuale e di genere e con la manifesta realtà dei fatti.
Non è poi superfluo osservare che neppure la sentenza della Corte di cassazione citata dalla
difesa erariale (Cass. n° 12193/19) giova a sostenere le ragioni della parte resistente. Al netto dello
stupore che si può provare nello scoprire che «l’istituto dell’adozione» si annovera tra i «valori
fondamentali», al pari della «dignità umana della gestante», la condivisibile decisione dei giudici di
legittimità, dopo aver escluso che si possa conferire efficacia nell’ordinamento italiano ad un
provvedimento straniero che accerta un rapporto di filiazione originato da un procedimento di
procreazione assistita espressamente vietato, ha poi subito riconosciuto che tale rapporto può però
essere costituito ex novo, con piena validità ed efficacia nel nostro ordinamento, mediante altri
istituti: per l’appunto, mediante l’adozione ex art. 44, c. 1, lettera d), L. n° 184/1983. Onde si trae il
principio che, con l’adozione, si costituisce una relazione genitoriale che non dev’essere
stigmatizzata e mortificata dall’attribuzione, in ipotesi al genitore adottante (ma evidentemente ciò
varrebbe ugualmente per il genitore “naturale”), di un ruolo parentale in contrasto con la sua
identità sessuale e di genere. E, al tempo stesso, che anche la situazione familiare del minore, così
come costituitasi per effetto dell’adozione, non dev’essere stigmatizzata con l’indicazione, sul suo
documento d’identità, di una “genealogia formale” difforme dalla realtà.
Peraltro, per chiudere un ormai troppo lungo discorso su una questione la cui soluzione
dovrebbe risultare di immediata percezione, gioverà ricordare che la carta d’identità è un
documento con valore certificativo, destinato a provare l’identità personale del titolare, che deve
rappresentare in modo esatto quanto risulta dagli atti dello stato civile di cui certifica il contenuto.
Ora, un documento che, sulla base di un atto di nascita dal quale risulta che una minore è figlia di
una determinata donna ed è stata adottata da un’altra donna ex art. 44, c. 1, lett. d), L. n° 184/1983,
indichi una delle due donne come «padre», contiene una rappresentazione alterata, e perciò falsa,
della realtà ed integra gli estremi materiali del reato di falso ideologico commesso dal pubblico
ufficiale in atto pubblico (artt. 479 e 480 C.P.). Si deve quindi dissentire dalla tesi esposta nella nota
del Ministero dell’interno, citata in precedenza, relativa alla possibilità tecnica di modificare il
programma informatico di emissione delle carte e, però, alle connesse difficoltà di ordine giuridico,
in particolare in caso di controlli da parte delle forze dell’ordine. Invero, è proprio l’attuale
conformazione della C.I.E., che, indicando una donna come «padre» della minore, potrebbe
suscitare dubbi e conseguenti difficoltà, non soltanto ai controlli di frontiera, ma persino ad un
normale controllo di polizia in Italia, nel corso del quale l’agente non potrebbe che costatare una
discrepanza evidente tra la realtà sotto i suoi occhi e le risultanze del documento.
Infine, rileva il Tribunale che al decreto del Ministro dell’interno del 31/01/2019, così come
a quello del 23/12/2015 da esso modificato, la legge assegnava la limitata funzione di definire «le
caratteristiche tecniche, le modalità di produzione, di emissione, di rilascio della carta d’identità
elettronica» (art. 7 vicies-ter, c. 2 bis, D.L. n° 7/2005, convertito in legge, con modificazioni, dalla
L.n° 43/2005, come modificato dall’art. 10, c. 3, D.L. n° 78/2015, convertito in legge, con
modificazioni, dalla L. n° 125/2015). In nessun modo l’attribuzione di una tale limitata funzione
poteva legittimare l’imposizione di modalità di elaborazione del software tali da incidere –
mediante l’escamotage di un’istruzione apparentemente tecnica – su aspetti coperti da norme di
grado costituzionale, primario o sub-primario.
Il decreto del Ministro dell’interno del 31/1/2019 – oltre a violare l’innumerevole elenco di
principî e diritti di fonte costituzionale ed internazionale di cui si è sino a qui discusso – è (last but
not least) viziato da un evidente eccesso di potere.
Esso va quindi disapplicato, ed il ricorso dev’essere accolto.
Le ricorrenti, nelle loro conclusioni, propongono l’alternativa tra l’indicazione, in
corrispondenza dei nomi di E. X. e S. Y., della doppia dicitura “madre” e “madre”, ovvero della
dicitura neutra “genitore”.
Opina il Tribunale che questa seconda opzione sia la più idonea a soddisfare il legittimo
interesse delle ricorrenti bilanciandolo con l’esigenza – ben evidenziata nel già citato parere del
31/10/2018 del Garante per la protezione dei dati personali, di cui si è discorso in precedenza – di
rispettare i criteri di minimizzazione e di necessità del trattamento dei dati personali, imposti dal
R.G.P.D., giacché è la funzione genitoriale esercitata nei confronti della minore che deve emergere
dal documento, e che costituisce il fondamento legittimante il trattamento, e non l’indicazione
specifica del ruolo parentale specifico sessualmente caratterizzato.
In conclusione, il Ministro dell’interno – e per esso il Sindaco di Roma Capitale, quale
ufficiale del Governo – è tenuto ad indicare (apportando al software e/o dell’hardware predisposto
per la richiesta, la compilazione, l’emissione e la stampa delle carte d’identità elettroniche le
modifiche che si rendessero all’uopo necessarie) le qualifiche “neutre” di «genitore» in
corrispondenza dei nomi delle ricorrenti E. X. (PRIMA RICORRENTE) e S. Y. (SECONDA
RICORRENTE ) sulla C.I.E. della minore G. Y.X. (TERZA RICORRENTE).
In considerazione della novità delle questioni trattate, si ritiene equo compensare integralmente le
spese tra tutte le parti.
P.Q.M.
il Tribunale accoglie parzialmente il ricorso e per l’effetto:
– dichiara il difetto di legittimazione passiva di ROMA CAPITALE;
– disapplica il decreto del Ministro dell’interno del 31/01/2019 perché illegittimo;
– ordina al Ministro dell’interno, e per esso al Sindaco di Roma Capitale quale ufficiale del
Governo, di indicare, sulla carta d’identità elettronica della minore M.
M.G., in corrispondenza dei nomi di M.E. e di M. S., la qualifica neutra di «genitore», previa, ove
necessario, ogni opportuna modifica tecnica del software e dell’hardware destinato alla richiesta, la
compilazione, l’emissione e la stampa delle carte d’identità elettroniche;
– compensa le spese;
– ordina l’oscuramento dei dati identificativi delle parti ricorrenti in caso di diffusione
della presente ordinanza, ai sensi dell’art. 52 D.LGS. n° 196/2003.

Quando il “paparazzo” può diventare uno stalker?

Cass. Pen., Sez. V, Sent., 10 dicembre 2022, n. 42856: Pres. Zaza, Rel. Cons. Bifulco
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZAZA Carlo – Presidente –
Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –
Dott. SESSA Renata – Consigliere –
Dott. BIFULCO Daniela – rel. Consigliere –
Dott. FRANCOLINI Giovanni – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.A., nato a (Omissis);
avverso la sentenza del 18/05/2021 della CORTE APPELLO di TORINO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA BIFULCO;
letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale SABRINA PASSAFIUME, che ha concluso
chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Torino ha confermato il provvedimento con
cui Giudice di primo grado aveva affermato la penale responsabilità di A.A. per il reato di cui all’art.
612 bis c.p., comma 1, con condanna alla pena di mesi 4 di reclusione, al pagamento delle spese
processuali e alla rifusione delle spese di assistenza e rappresentanza in favore della parte civile, B.B..
2. Avverso la sentenza, ricorre l’imputato, per il tramite del suo difensore di fiducia, articolando le
proprie censure in un unico motivo, col quale eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione,
per avere la Corte d’appello erroneamente ravvisato la penale responsabilità dell’imputato per il delitto
di atti persecutori. Del tutto genericamente sarebbe descritto, nella parte motiva dell’impugnata
sentenza, l’evento delle alterate abitudini di vita della p.o., così come inesplorato sarebbe rimasto il
profilo dell’impatto emotivo sulla vittima concretamente ingenerato dal comportamento
dell’imputato. I fatti ascritti alla condotta di quest’ultimo, pur se percepiti come “molesti e fastidiosi”
dalla p.o., avrebbero dovuto, al limite, essere ricondotti all’ipotesi contravvenzionale di cui all’art.
660 c.p.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile.
2. L’unico motivo è manifestamente infondato, in quanto reitera i medesimi rilievi prospettati con
l’atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli
argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato, ma limitandosi, in maniera generica, a lamentare
una presunta carenza o illogicità della motivazione (così, tra le altre, Sez. 4, n. 30810 del 10/05/2022,
Ragusa, n. m.; Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv. 276970-01; Sez. 3, n. 44882 del
18/07/2014, Cariolo, Rv. 260608-01; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838- 01). La
motivazione dell’impugnata sentenza è priva di aspetti di illogicità, mostrandosi, al contrario, dotata
di completezza e rigore logico sia per quel che ha riguardo alla puntuale ricostruzione del fatto sia in
relazione alla qualificazione giuridica prescelta dalla Corte d’appello. A tal proposito, va condivisa la
scelta dei giudici di merito di disattendere l’ipotesi contravvenzionale evocata dal ricorrente: invero,
i comportamenti ascritti all’imputato, avendo determinato una alterazione delle quotidiane abitudini
di vita della p.o., non possono essere ricondotti all’alveo dell’art. 660 c.p.
Il giudizio della Corte territoriale, oltre a poggiare su una corretta lettura dei principi posti dalla Corte
di cassazione in ordine ai criteri discretivi tra reato di atti persecutori e fattispecie contravvenzionale
di molestie o disturbo di cui all’art. 660 c.p., si è basata altresì sull’attenta disamina dei comportamenti
contestati. Infatti, i frequenti appostamenti di fronte all’ingresso dell’ufficio del B.B., e in altri luoghi
frequentati dallo stesso per ragioni lavorative, le insistenti telefonate mirate a ottenere notizie sugli
spostamenti dei calciatori, il seguire la vittima in auto, la pretesa, insistita e molesta, che la p.o.
intercedesse a suo favore presso calciatori al fine di ottenere servizi fotografici, gli insulti rivolti alla
p.o., pubblicamente e con aggressività, per non avere ottenuto dette intercessioni, hanno portato la
Corte territoriale a formulare un coerente giudizio di penale responsabilità per atti persecutori, alla
luce, come si è anticipato, di una motivazione priva di censure sia dal punto di vista giuridico sia da
quello del logico argomentare.
A fronte dei comportamenti contestati, a nulla vale il rilievo difensivo teso a giustificare i predetti
comportamenti data l’attività di “paparazzo” svolta dall’imputato. L’impatto della condotta
dell’imputato sulle abitudini -segnatamente, quelle lavorative- della vittima è chiaramente illustrato
dalla Corte territoriale, la quale, nel far riferimento alle ripercussioni negative di quei comportamenti
sulla vita e sulle quotidiane abitudini della vittima, ha evidentemente tenuto in conto l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui l’evento tipico della alterazione o cambiamento delle abitudini di vita
della persona offesa non possa intendersi come puramente occasionale (Sez. 5, n. 17552 del
10/03/2021, B., Rv. 281078 – 01). La p.o. si è infatti vista costretta a ricevere i propri clienti in luoghi
diversi dal proprio ufficio, con detrimento per la propria riservatezza, a non utilizzare la propria
autovettura per non lasciare segni tangibili della propria presenza in ufficio o nei luoghi frequentati
per motivi di lavoro, a bloccare le telefonate in entrata, e così via. I Giudici di merito hanno
chiaramente illustrato la dinamica con cui dette reazioni e escamotages della p.o., indotti dal
comportamento dell’imputato, hanno cagionato un perdurante e grave stato d’ansia e di paura, tale da
ingenerare un giustificato timore per la propria sicurezza personale e da portare a un’alterazione delle
abitudini di vita (cfr., ex plur., Sez. 5, n. 1813 del 17/11/2021, dep. 2022, Biundo Rv. 282527 – 01).
I Giudici d’appello, nell’analizzare i vari comportamenti persecutori ponendoli in relazione agli effetti
provocati sulla p.o., hanno altresì fatto buon governo dei canoni di giudizio elaborati dalla
giurisprudenza, a iniziare da quella costituzionale. Come infatti ricordato da Corte Cost. n. 172 del
2014, il riferimento del legislatore alle abitudini di vita costituisce un chiaro e verificabile rinvio al
complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito familiare, sociale e
lavorativo, e che la vittima è costretta a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata dall’attività
persecutoria, mutamento di cui l’agente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato,
trattandosi di reato per l’appunto punibile solo a titolo di dolo.
3. Il ricorso va dichiarato, pertanto, inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese
processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. In caso di diffusione
del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs.
n.196 del 2003 art. 52 in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. In caso di diffusione del presente
provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n.196 del 2003
art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2022

La mala gestio comporta la radiazione dell’avvocato amministratore di sostegno

Consiglio Nazionale Forense, sent. 5 settembre 2022
CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio Nazionale Forense, riunito in seduta pubblica, nella sua sede presso il
Ministero della Giustizia, in Roma, presenti i Signori:
con l’intervento del rappresentante il P.G. presso la Corte di Cassazione nella persona del
Sostituto Procuratore Generale dott. Pietro Molino ha emesso la seguente
SENTENZA
Su ricorso recante r.g. 7/22, presentato al Consiglio Nazionale Forense in data 8 gennaio
2022, dall’Avv. [RICORRENTE], nata a [OMISSIS] il [OMISSIS], C.F. [OMISSIS], quale
procuratore di sé stessa, e residente in [OMISSIS], avverso la sentenza del Consiglio
Distrettuale di Disciplina Forense di Brescia, emessa il 14 maggio 2021, depositata il 7
dicembre 2021 e notificata all’incolpata il 10 dicembre 2021, con cui veniva irrogata
all’Avv. [RICORRENTE] la sanzione disciplinare della radiazione.
per la ricorrente nessuno è comparso;
Per il Consiglio dell’Ordine regolarmente citato, nessuno è comparso;
Udita la relazione del Consigliere Francesco Caia;
Inteso il P.G., Dott. Pietro Molino, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO
Con segnalazione pervenuta al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Bergamo del 23 aprile 2018, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo
comunicava l’esercizio dell’azione penale nei confronti dell’Avv. [RICORRENTE] “1) per il
reato di cui agli artt. 61 n. 5 e 7, 81 e 314 c.p., poiché con più azioni esecutive del
medesimo disegno criminoso, in qualità di amministratore di sostegno di [AAA] (nominato
con decreto del Tribunale di Bergamo del 21 febbraio 2014) e avendo la disponibilità del
denaro di quest’ultimo, se ne appropriava prelevando dal suo conto corrente denaro
contante allo sportello, il tutto per un importo complessivo di 7.500,00 euro. Con le
circostanze aggravanti di aver commesso il tutto approfittando di circostanze di persona
tali da ostacolarne la privata difesa ([AAA] è affetto da grave atrofia cerebrale esotossica
diffusa e polineuropatia,con seria compromissione delle capacità cognitive e psicofisiche)
e di aver cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante
gravità. In Lallio e Bergamo negli anni 2014 e 2015. 2) per il reato di cui agli artt. 61 n. 5 e
7, 81 e 314 c.p., poiché con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in
qualità di amministratore di sostegno di [BBB] (nominato con decreto del Tribunale di
Bergamo del 3 agosto 2007) e avendo la disponibilità del denaro di quest’ultimo, se ne
appropriava prelevando dal suo conto corrente denaro contante allo sportello, il tutto per
un importo complessivo di 65.310,00 euro. Con le circostanze aggravanti di aver
commesso il fatto approfittando di circostanze di persona tali da ostacolarne la privata
difesa ([BBB] è persona affetta da varie patologie in un quadro di ritardo mentale medio,
con assoluta incapacità di attendere autonomamente alle ordinarie occupazioni) e di aver
cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità. In
Scanzorosciate e Bergamo dall’anno 2008 fino al 31.03.2017. 3) per il reato di cui agli artt.
61 n. 5 e 7, 81 e 314 c.p., poiché con più azioni esecutive del medesimo disegno
criminoso, in qualità di amministratore di sostegno di [CCC] (nominato con decreto del
Tribunale di Bergamo del 10.10.2012) e avendo la disponibilità del denaro di quest’ultima,
se ne appropriava prelevando dal suo conto corrente denaro contante allo sportello, il tutto
per un importo complessivo di 11.390,00 euro. Con le circostanze aggravanti di aver
commesso il fatto approfittando di circostanze di persona tali da ostacolarne la privata
difesa ([CCC] è, tra l’altro, affetta da deficit mnesico/attentivo con riverbero prassico in
esiti di trauma cranico encefidieo, con incapacità di gestire se stessa e il suo patrimonio) e
di aver cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità.
In Bergamo, dal 2013 al 30.09.2015. 4) per il reato di cui agli artt. 61 n. 5 e 7, 81 e 314
c.p., poiché con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in qualità di
curatore dell’inabilitata [DDD] (nominato con decreto del Tribunale di Bergamo del 16
novembre 2007) e avendo la disponibilità del denaro di quest’ultima, se ne appropriava
prelevando dal suo conto corrente denaro contante allo sportello ovvero tramite
bancomat, il tutto per un importo complessivo di 41.825,76 curo. Con le circostanze
aggravanti di aver commesso il fatto approfittando di circostanze di persona tali da
ostacolarne la privata difesa ([DDD] è persona con patologie di cui soffre dalla nascita
nonché affetta da decadimento psicotico generale e morbo di Fahr) e di aver cagionato
alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità. In Bergamo dal
2008 al 27.04.2017”.
Trasmessi gli atti al Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense di Brescia, all’esito
dell’istruttoria preliminare, con delibera del 3 aprile 2019, veniva approvato il seguente
capo di incolpazione: “per avere, in violazione degli artt. 9 comma 2, 10, 30 comma 1, 63
e 64 del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014 nonché, per quanto di
rispettiva ragione ratione temporis, in violazione degli artt. 5, 7, 41 e 56 del previgente
codice deontologico forense, nell’esercizio della sua funzione di amministratore di
sostegno e/o curatore dei soggetti di seguito specificati, in violazione dei doveri ed abuso
dei poteri inerenti a tale funzione, compiuto le seguenti condotte lesive della propria
reputazione professionale nonché della dignità della professione e dell’affidamento dei
terzi, in particolare: A. poiché, in qualità di amministratore di sostegno di [AAA] (nominato
con decreto del Tribunale di Bergamo del 21 febbraio 2014), soggetto affetto da grave
atrofia cerebrale esotossica diffusa e polineuropatia con seria compromissione delle
capacità cognitive e psicofisiche, e avendo in ragione di tale ufficio la disponibilità del
denaro del medesimo, se ne appropriava prelevando dal suo conto corrente denaro
contante allo sportello per un importo complessivo di 7.500,00 euro; in Lallio e Bergamo
negli anni 2014 e 2015; B. poiché, in qualità di amministratore di sostegno di [BBB]
(nominato con decreto del Tribunale di Bergamo del 3 agosto 2007), persona affetta da
varie patologie in un quadro di ritardo mentale medio con assoluta incapacità di attendere
autonomamente alle ordinarie occupazioni, e avendo in ragione di tale ufficio la
disponibilità del denaro del medesimo, se ne appropriava prelevando dal suo conto
corrente denaro contante allo sportello per un importo complessivo di 65.310,00 euro; in
Scanzorosciate e Bergamo dall’anno 2008 fino al 31/3/2017; C. poiché, in qualità di
amministratore di sostegno di [CCC] (nominato con decreto del Tribunale di Bergamo del
10/10/2012), persona affetta da deficit mnesico-attentivo con riverbero prassico in esiti di
trauma cranico encefalico con incapacità di gestire sé stessa e il suo patrimonio, e avendo
in ragione di tale ufficio la disponibilità del denaro della medesima, se ne appropriava
prelevando dal suo conto corrente denaro contante allo sportello per un importo
complessivo di 11.390,00 euro; in Bergamo dal 2013 al 30/9/2015; D. poiché, in qualità di
curatore dell’inabilitata [DDD] (nominato con decreto del Tribunale di Bergamo del 16
novembre 2007), persona affetta da patologie di cui soffre dalla nascita nonché affetta da
decadimento psicotico generale e morbo di Fahr, e avendo in ragione di tale ufficio la
disponibilità del denaro della medesima, se ne appropriava prelevando dal suo conto
corrente denaro contante allo sportello ovvero tramite bancomat per un importo
complessivo di 43.340,00 euro; in Bergamo dal 2008 al 27/4/2017”.
Disposta la citazione a giudizio dell’incolpata, nel corso dell’istruttoria
dibattimentale venivano sentiti testimoni ed acquisita la sentenza n. [OMISSIS] emessa in
data [OMISSIS]/2019 del Tribunale di Bergamo, Sezione Penale del Dibattimento, relativa
al procedimento penale [OMISSIS]/18 Reg. Gen. (n. [OMISSIS]/16 R.G.N.R.), con cui
l’Avv. [RICORRENTE] è stata ritenuta colpevole delle imputazioni e per gli importi risultanti
dalla citata segnalazione del P.M. (ad eccezione di euro 500,00 quanto alla parte offesa
[BBB] ed euro 60,00 quanto alla parte offesa [DDD]), e per l’effetto condannata alla pena
di sei anni di reclusione. Successivamente, all’udienza del 13 maggio 2021 veniva, altresì,
acquisita dalla Corte di appello di Brescia, Sezione Prima Penale, con cui è stata
confermata la sentenza di primo grado.
Il Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense di Brescia, ritenuta accertata la
responsabilità dell’incolpata per le violazioni deontologiche contestate, con sentenza
emessa in data 14 maggio 2021 all’esito del procedimento avente n. 190-BG/2018,
depositata il 7 dicembre 2021 e notificata all’avv. [RICORRENTE] il 10 dicembre 2021,
irrogava nei confronti della medesima la sanzione della radiazione.
Con ricorso pervenuto a mezzo PEC in data 8 gennaio 2022, l’Avv.
[RICORRENTE] propone impugnativa avverso la predetta decisione innanzi a Codesto
Consiglio, affidando le proprie difese a due motivi di doglianza. Con il primo, la ricorrente
eccepisce il difetto di motivazione della sentenza impugnata per mancanza di prova in
ordine alla circostanza che i prelevamenti dalla stessa eseguiti fossero estranei alle
necessità dei soggetti amministrati. Con il secondo motivo, la ricorrente eccepisce, invece,
l’incongruità della sanzione irrogata alla luce della condotta complessivamente tenuta,
della “sostanziale “incensuratezza disciplinare”” della incolpata e del tentativo di
“ravvedimento operoso” della stessa, non conclusosi a causa del sequestro conservativo
subito a seguito della condanna penale.
Chiede, pertanto, la riforma della sentenza impugnata con conseguente
mitigazione della sanzione irrogata.
All’udienza del 28 aprile 2022, le parti presenti rassegnavano le conclusioni
come da separato verbale
DIRITTO
Con il primo motivo di ricorso, l’Avv. [RICORRENTE] eccepisce il vizio di motivazione della
sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto provata la responsabilità dell’incolpata. Il
Collegio ritiene che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, alcun dubbio può
sussistere in ordine alla prova della responsabilità della incolpata, non ravvisando alcun
difetto di motivazione della sentenza impugnata, che, sul punto, appare immune da vizi
logici e giuridici, avendo diffusamente analizzato le risultanze istruttorie, da cui emerge
chiaramente la responsabilità dell’Avv. [RICORRENTE] per i fatti ascritti. Invero, gli
elementi che fanno protendere per la colpevolezza dell’Avv. [RICORRENTE] sono plurimi
e concordanti. Come correttamente osservato dal Consiglio di Disciplina di Brescia la
ricorrente deteneva la carta associata al conto corrente dei soggetti amministrati ed i testi
escussi hanno riconosciuto che era l’incolpata ad eseguire materialmente le operazioni di
prelievo allo sportello, come peraltro si evince dalle ricevute contabili dalla stessa
sottoscritte. Peraltro, la paternità dei prelievi in capo alla medesima ricorrente, oltre ad
essere stata provata dai testi escussi, non risulta neppure contestata dalla incolpata, che
si è limitata, piuttosto, a riferire, senza invero fornire alcuna prova al riguardo, che tali
operazioni erano effettuate nell’interesse dei soggetti beneficiari. Ancora, risulta
ripetutamente violato il dovere di presentare i rendiconti e/o i bilanci annuali al Giudice
Tutelare, non risultando seriamente sostenibile, né provato che tale omissione sia stata
determinata da un atto di pirateria informatica del 2014, in quanto la ricorrente ha omesso
di depositare i bilanci anche per le annualità successive a tale data. Le risultanze
istruttorie del procedimento disciplinare risultano peraltro confermate dalle risultanze del
giudizio penale innanzi al Tribunale di Bergamo, conclusosi con sentenza di condanna n.
[OMISSIS] del 14 novembre 2019, confermata dalla Corte di appello di Brescia, Sezione
Prima Penale con sentenza emessa il 13 maggio 2021. Il CDD di Brescia, con motivazione
del tutto congrua ha correttamente riconosciuto non solo la violazione delle infrazioni
tipiche di cui agli articoli del Codice Deontologico richiamati nel capo di incolpazione, ma
anche dell’illecito deontologico atipico.
La condotta posta in essere dall’Avv. [RICORRENTE] integra gli estremi di un
comportamento certamente lesivo dei canoni di cui all’art e 9, co. 2 del Codice vigente,
non avendo tenuto una condotta ispirata ai canoni di lealtà e correttezza nell’esercizio
della professione e danneggiando, in tal guisa, l’immagine dell’intera categoria e
l’affidamento che la collettività ripone nell’Avvocato stesso quale professionista leale e
corretto in ogni ambito della propria attività.
A tal riguardo preme ribadire che “Il principio di stretta tipicità dell’illecito,
proprio del diritto penale, non trova applicazione nella materia disciplinare forense,
nell’ambito della quale non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti vietati,
giacché il nuovo sistema deontologico forense -governato dall’insieme delle norme,
primarie (artt. 3 c.3 – 17 c.1, e 51 c.1 della L. 247/2012) e secondarie (artt. 4 c.2, 20 e 21
del C.D.)- è informato al principio della tipizzazione della condotta disciplinarmente
rilevante e delle relative sanzioni “per quanto possibile” (art. 3, co. 3, cit.), poiché la
variegata e potenzialmente illimitata casistica di tutti i comportamenti (anche della vita
privata) costituenti illecito disciplinare non ne consente una individuazione dettagliata,
tassativa e non meramente esemplificativa. Conseguentemente, l’eventuale mancata
“descrizione” di uno o più comportamenti e della relativa sanzione non genera l’immunità,
giacché è comunque possibile contestare l’illecito anche sulla base della citata norma di
chiusura, secondo cui “la professione forense deve essere esercitata con indipendenza,
lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale e
della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza” (Consiglio Nazionale
Forense, sentenza del 22 novembre 2018, n. 141).
Non vi è dubbio alcuno che la valutazione disciplinare, avvenuta non solo sulla
base delle dichiarazioni testimoniali, ma anche sulla base dell’analisi delle risultanze
documentali acquisite agli atti del procedimento, risulti compiutamente motivata, nella
parte in cui ha rilevato la gravità della condotta tenuta dall’Avv. [RICORRENTE],
riconoscendo a carico della stessa la violazione dell’illecito deontologico atipico, anche in
ragione della funzione pubblica rivestita.
Il primo motivo di ricorso va dunque disatteso.
Venendo al secondo motivo di gravame, questo Collegio ritiene che, contrariamente a
quanto ritenuto dall’Avv. [RICORRENTE], la sanzione comminata dal C.D.D. risulta
congrua in relazione alla gravità e alla natura del comportamento deontologicamente non
corretto tenuto dalla stessa anche alla luce della rilevanza penale della condotta, dovendo
la mala gestio essere valutata con particolare severità, stante il ruolo di garante
riconosciuto alla ricorrente quale amministratore di sostegno e/o curatore dei soggetti
danneggiati dalla sua condotta. A tal riguardo è ormai pacifico che “la determinazione
della sanzione disciplinare non è frutto di un mero calcolo matematico, ma è conseguenza
della complessiva valutazione dei fatti, della gravità dei comportamenti contestati, violativi
dei doveri di probità, dignità e decoro sia nell’espletamento dell’attività professionale che
nella dimensione privata” (ex plurimis, Consiglio Nazionale Forense sentenza n. 9 del 15
aprile 2019); “conseguentemente, in forza del criterio di proporzionalità, qualora da siffatto
giudizio emerga la strutturale incapacità dell’incolpato a ravvedersi, ovvero la sua
irrecuperabilità, tanto che la sua permanenza nel Ceto Forense sarebbe altrimenti fonte di
irreparabile vulnus per la reputazione del ceto stesso, la sanzione disciplinare da irrogarsi
in concreto ben può consistere nella radiazione, quand’anche per nessuno dei
comportamenti contestati, singolarmente considerati, fosse prevista una sanzione tanto
grave” (così Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 2 del 23 gennaio 2016). Nel caso
in esame, alcun dubbio può sussistere in ordine al fatto che l’appropriazione di somme di
danaro appartenenti ai propri assistiti, mediante abuso della disponibilità ottenuta,
approfittando della funzione pubblica rivestita quale amministratore di sostegno o curatore
dello stesso, costituisce un comportamento certamente rilevante, non solo dal punto di
vista deontologico, e tale da giustificare la sanzione della radiazione (cfr. Consiglio
Nazionale Forense, sentenza n. 225 del 20 novembre 2020).
Pertanto, appare pienamente condivisibile la sentenza del CDD di Brescia nella
parte in cui ha sanzionato con il provvedimento espulsivo la ricorrente, che con il proprio
comportamento ha arrecato un grave pregiudizio non solo ai propri assistiti ma anche
all’immagine della avvocatura. Come giustamente rilevato nella sentenza impugnata, è
stato accertato che le condotte erano in atto quantomeno fin dal 2008; l’Avv.
[RICORRENTE], una volta scoperta, lungi dal desistere dalla sua condotta, ha tentato di
nascondere i propri illeciti; ancora, nel corso del giudizio disciplinare, non ha mai
ammesso la propria responsabilità, tentando di riparare i danni derivanti dalla propria
condotta. Orbene, il vigente codice deontologico forense tipizza la determinazione della
sanzione disciplinare “nei casi più gravi” e per quanto possibile (art. 22), tuttavia, al fine di
individuare la sanzione disciplinare più adeguata, “il potere di irrogare una sanzione
disciplinare adeguata alla gravità ed alla natura dell’offesa arrecata al prestigio dell’ordine
professionale è riservato agli organi disciplinari che in mancanza di una previsione di
legge contraria si avvalgono, in via di applicazione analogica, dei principi desumibili dagli
art. 132 e 133 del codice penale” (Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 77 del 24
giugno 2020). Nel caso di specie, la gravità e la pluralità dei comportamenti
deontologicamente rilevanti accertati a carico della ricorrente, il contesto in cui è avvenuta
la violazione ed il grave pregiudizio subito dai beneficiari consentono di ritenere congrua la
sanzione espulsiva inflitta all’Avv. [RICORRENTE].
Alla luce di tutto quanto innanzi considerato, anche il secondo motivo di gravame non può
trovare accoglimento.
Il ricorso va dunque rigettato.
P.Q.M.
visti gli artt. 36 e 37 L. n. 247/2012 e gli artt. 59 e segg. del R.D. 22.1.1934, n. 37;
il Consiglio Nazionale Forense rigetta il ricorso, confermando l’impugnato provvedimento.
Dispone che in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma per finalità
di informazione su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione
elettronica sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli
interessati riportati nella sentenza.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del 28 aprile 2022

Frequentazione paritaria in regime di affidamento del minore ai Servizi Sociali.

Corte di Appello di Firenze, Sentenza 15 ottobre 2021
Sezione Prima Civile
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Nella causa iscritta a ruolo al n. R.G. 304 2021
AVENTE AD OGGETTO: Regolamentazione visite
Giurisprudenza di merito Ondif
Promossa da
TIZIO, elettivamente domiciliato in VIA__________ FIRENZE presso lo studio dell’avv. _________,come da
mandato a margine dell’atto di citazione in appello.
APPELLANTE
Contro
MEVIA, elettivamente domiciliata in VIALE ________FIRENZE presso lo studio dell’avv. ___________ come
da mandato in calce alla costituzione in appello
APPELLATO – APPELLANTE INCIDENTALE
SERVIZI SOCIALI COMUNE DI LUCCA
PG presso la Corte di Appello di Firenze
FATTO E DIRITTO
Il Tribunale di Lucca con provvedimento ____/2021, decideva come segue in relazione al ricorso proposto
da TIZIO contro MEVIA per la regolamentazione dei rapporti con il figlio della coppia CAIO, sia relativi
all’affidamento al collocamento e alle visite che agli aspetti economici:
• ha disposto l’affidamento ai servizi sociali di Lucca con attribuzione allo stesso servizio del potere
genitoriale esclusivo con riguardo alle scelte di natura sanitaria, educativa e scolastica, quanto al
minore.
• ha disposto una frequentazione sostanzialmente paritaria con i genitori e altresì disponendo per il
periodo estivo e per il periodo natalizio.
• Ha disposto che I genitori eserciteranno i poteri genitoriali solo per gli affari di ordinaria
amministrazione nel rispetto della delega dei servizi sociali.
• La casa familiare viene assegnata alla madre poiché residenza anche formale del minore e anche
alla luce delle sue disponibilità economiche.
• È legittima la concessione di un assegno perequativo a carico del padre per consentire che il
minore possa godere del medesimo tenore di vita presso ciascun genitore. L’assegno viene
valutato in 1800 € oltre al 50% delle spese straordinarie.
Ha altresì disposto la presa in carico del nucleo familiare da parte dei servizi sociali del Comune di Lucca, la
presa in carico del minore ad opera della Ufsmia competente delegando al servizio sanitario anche il
compito ed anche eventualmente con Ufsma di intervenire nel rapporto genitori figlio, il monitoraggio
attraverso accessi domiciliari per valutare la situazione del minore eventualmente disponendo un servizio
di educativa domiciliare, la trasmissione della relazione al Gt entro il 30 luglio 2021 ed in ogni caso di
condotta distonica.
TIZIO ha proposto istanza di sospensione della efficacia esecutiva del provvedimento, in ordine a:
l’affidamento e il calendario di frequentazione paritario, assegnazione al padre della casa familiare di
proprietà dello stesso e comunque rigetto della domanda di assegnazione della casa alla MEVIA, il
mantenimento diretto del figlio con il 50% delle spese straordinarie. La MEVIA si è opposta e la corte ha
deciso, parzialmente accogliendo il ricorso, disponendo un calendario di visite del seguente tenore: un fine
settimana alternato dal venerdì dall’uscita della scuola sino al lunedì mattina; il mercoledì dalla uscita della
scuola sino alla mattina successiva nelle settimane in cui il weekend successivo è con il padre; nelle altre
settimane dal mercoledì all’uscita della scuola sino al venerdì con rientro a scuola, ed altresì diminuendo ad
euro 1000 il contributo al mantenimento per il figlio a carico del padre.
Nel merito TIZIO ha concluso reiterando la richiesta di modifiche al calendario di frequentazione con
disciplina dei periodi di vacanza come indicati dal consulente, per il monitoraggio suggerito dalla
consulenza con conferma del mandato ai servizi sociali per la assegnazione al padre della casa familiare con
termine per il rilascio e con previsione di mantenimento diretto del figlio con spese straordinarie al 50%. Ha
chiesto le indagini della Guardia di Finanza sulla situazione reddituale della ex compagna.
MEVIA costituendosi insta per il rigetto del reclamo, chiede l’accoglimento delle istanze istruttorie di CTU e
in via incidentale chiede la apposizione delle spese al 100% o in subordine al 70% a carico del padre,
l’affidamento esclusivo di CAIO alla madre con collocazione prevalente presso la stessa, con percorso di
sostegno alla genitorialità per entrambi con disposizione di diverso calendario di frequentazione con il
padre. Chiede altresì di rinnovo della CTU sulle capacità genitoriali del nucleo.
Le parti, dopo repliche autorizzate, hanno concluso alla udienza del 24 settembre 2021 come in atti.
Per giurisprudenza costante il provvedimento reso ai sensi dell’articolo 337 ter e seguenti c.c. ha natura di
sentenza e la impugnazione deve essere qualificata come appello.
• Regime di affidamento. L’appellante non chiede la modifica delle condizioni di affidamento mentre la
MEVIA chiede l’affidamento esclusivo a sè del figlio. La CTU ha concluso all’esito di una articolata analisi
delle parti e della situazione, verificando una relazione tra genitori disfunzionale e altamente conflittuale;
ha valutato la necessità di un supporto alle funzioni genitoriali, ha rilevato criticità a carico della figura
materna nel momento della valutazione dello spazio di frequentazione del figlio con entrambi i genitori
ovverosia nel criterio dell’accesso; ha concluso per un compromesso equilibrio di competenze genitoriali
con necessità di un percorso di superamento delle vicende giudiziarie legali e di coppia. Ha ritenuto regime
di affidamento adeguato l’affidamento al servizio sociale poiché i genitori non riescono a mantenere una
dinamica fra loro di collaborazione, condivisione e confronto. La esaustività della analisi, il breve tempo
trascorso dall’esaurimento della stessa, la mancanza di prova di sostanziali mutamenti nelle circostanze di
fatto che hanno portato alle conclusioni fatte proprie dal tribunale, induce a ritenere infondata la domanda
della MEVIA. D’altra parte, sono depositate in atti un profluvio di Mail, messaggi WhatsApp e quant’altro
che testimoniano la assoluta carenza di dialogo tra le parti, i quali discutono su qualsiasi minimo dettaglio
della vita del figlio. Non è dato più capire se le comunicazioni tra le parti hanno ad oggetto le parti stesse o
sono effettuate a meri fini di deposito in giudizio.
• Modalità di visita. La corte non può che riportarsi a quanto già disposto in sede di parziale accoglimento
della sospensiva, atteso che la stessa consulente, indica come necessario un rapporto tendenzialmente
paritario di CAIO con entrambi i genitori. Si richiama inoltre quanto già concordato dalle parti alla udienza
del 24 settembre del 2021, mentre per il resto il dispositivo rimane identico; s’intende che nei giorni in cui il
padre tiene con sé il figlio periodo non scolastico, la permanenza presso di sé corre dalle e fino alle
9:00/9:30 della mattina. Si richiamano pertanto le disposizioni sopra indicate. Il TIZIO chiede la modifica
delle condizioni di permanenza del figlio presso di sé nei periodi festivi. Il tribunale ha disposto sul punto,
due settimane non consecutive col figlio, l’alternanza dei giorni del 24 del 25 dicembre, una settimana
durante il periodo natalizio con ciascun genitore, l’alternanza della permanenza nel giorno di Pasqua.
L’unica discrasia rispetto alle valutazioni espresse dal CTU riguarda il periodo pasquale avendo il CTU
previsto “i giorni della sospensione scolastica saranno suddivisi a metà fra i genitori che quindi si
alterneranno nel trascorrere con il figlio ad anni alterni i giorni della Pasqua ed il giorno successivo.” Nel
senso indicato dal CTU, ragionevole e condivisibile, può pertanto modificarsi il provvedimento del tribunale
ferme rimanendo le altre statuizioni.
• Assegnazione della casa familiare. Atteso che il figlio è sempre vissuto nella casa familiare e dal tempo
della separazione di fatto, ivi con la madre, la casa deve essere assegnata alla MEVIA ed anche tenuto conto
delle differenti condizioni economiche delle parti. Le spese del mutuo verranno sostenute dal TIZIO che ne
è il proprietario e che si è dichiarato disposto all’esborso, avendovi sempre provveduto sino ad oggi.
• Mantenimento a favore del figlio CAIO. Deve darsi atto che il TIZIO si è dichiarato disposto e provvede alle
spese scolastiche (dovendosi intendere quelle relative alla retta scolastica), si è dichiarato disposto al
sostenimento delle spese sanitarie. Appare irrilevante disporre CTU o indagini attraverso la Guardia di
Finanza che sono esorbitanti rispetto alla decisione relativa al mantenimento di un bambino di tre anni.
Entrambe le parti sono confuse nelle loro allegazioni, l’uno tendendo a dimostrare un reddito minore di
quello indicato dall’altra, la seconda una incapacità reddituale. Entrambe le allegazioni appaiono prima
facie, infondate. Il TIZIO è socio di una società di famiglia che ha utili elevatissimi (vedi bilanci in atti e
destinazione degli utili) e nella quale è stato deciso egli non rivestisse più la qualità di consigliere di
amministrazione. A titolo di esempio, nel 2015 gli importi per il consiglio di amministrazione era stabilito in
410.000 €, il compenso del TIZIO pari ad euro 230.000 lordi sino al 2017. Non consta che la S.p.A. sia stata
toccata dalla crisi. Trattasi quindi di scelta familiare, che nulla indica sul depotenziamento delle capacità
lavorative del TIZIO, il quale tra l’altro non sostiene spese di abitazione, convivendo con i genitori, i quali
hanno capacità reddituale assai elevata e della quale deve presumersi il figlio goda. La MEVIA ha prodotto
un reddito negli anni passati in ragione della sua attività che potrà ricominciare a produrre all’esaurirsi della
pandemia. Trattasi di giovane donna con una sua specifica capacità lavorativa che le ha consentito nel
passato (anno di imposta 2019), ricavi pari ad euro 125.000 circa. Sono documentati diversi rapporti
bancari ed altresì un tenore di vita di non indigenza. D’altra parte, si ripete che l’oggetto è il mantenimento
del minore e non della madre dello stesso. Tutto ciò considerato e richiamata la giurisprudenza della
suprema corte a tenore della quale il figlio deve mantenere presso le due abitazioni il medesimo tenore di
vita (Cass. civ. Sez. I Ord., 06/08/2020, n. 16739 L’obbligo di mantenimento del minore da parte del
genitore non collocatario deve far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo
alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e
materiale, alla opportuna predisposizione di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a
tutte le necessità di cura e di educazione, secondo uno standard di soddisfacimento correlato a quello
economico e sociale della famiglia di modo che si possa valutare il tenore di vita corrispondente a quello
goduto in precedenza.”), tenuto conto delle spese che comunque il TIZIO sostiene in solitudine, appare
congrua la cifra già indicata in sede di sospensiva (euro 1000 mensili) quale mantenimento a suo carico per
il figlio CAIO, per garantirgli uno standard qualitativo simile presso le due case. Tenuto conto delle spese
che gravano solo sul TIZIO e delle esigenze prevedibili di un minore di poco più di tre anni la ripartizione
delle spese straordinarie deve essere mantenuta nel 50% a carico di ciascuno dei genitori.
Attesa la reciproca soccombenza le spese di causa sono compensate.
P. Q. M.
Decidendo sulle impugnazioni di TIZIO e MEVIA avverso il provvedimento del tribunale di Lucca ___/2021,
in parziale riforma dello stesso,
dispone che il minore permanga con il padre: un fine settimana alternato dal venerdì dall’uscita della scuola
sino al lunedì mattina; il martedì dalla uscita della scuola sino alla mattina successiva nelle settimane in cui
il weekend successivo è con il padre; nelle altre settimane dal mercoledì all’uscita della scuola sino al
venerdì con rientro a scuola, nel periodo non scolastico i giorni di permanenza col padre inizieranno e
termineranno alle norme 9:00/9 : 30 della mattina; nei giorni della sospensione scolastica Pasquale essi
saranno suddivisi a metà fra i genitori che quindi si alterneranno nel trascorrere con il figlio ad anni alterni i
giorni della Pasqua ed il giorno successivo; dispone che TIZIO versi per il mantenimento del figlio CAIO alla
madre MEVIA la somma di euro 1000 mensili oltre a sostenere la integralità del mutuo per la casa familiare,
la retta scolastica, le spese sanitarie al 100%.
Conferma nel resto il provvedimento impugnato

Costituisce indebita diffusione dei dati personali l’affissione nella bacheca dell’androne condominiale dell’ordine del giorno indicante posizioni debitorie di un condomino

Cassazione civile, sez. I, 07 Ottobre 2022, n. 29323. Pres. Genovese. Est. Caprioli.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 30839/2020 proposto da:
C.G., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA
della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato * in forza di
procura speciale a margine del ricorso per cassazione;
– ricorrente –
contro
S.G., CONDOMINIO IN (*), elettivamente domiciliati in ROMA *, presso lo studio
dell’avvocato * rappresentati e difesi dall’avvocato * come da procure speciali allegate
al controricorso;
– controricorrenti –
avverso SENTENZA di TRIBUNALE di BARI n. 3453/2020 depositata il 11/11/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27/09/2022 dal Consigliere
FRANCESCO TERRUSI.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza pronunciata l’11-11-2020 il Tribunale di Bari ha respinto la domanda di
risarcimento dei danni proposta ai sensi dell’art. 15 del D.Lgs. n. 196 del 2003 da C.G.
nei confronti del Condominio di (*) e dell’amministratore S.G..
Secondo la postulazione, tali danni erano conseguiti all’illegittimo trattamento dei dati
personali determinato (i) dalla divulgazione, per mezzo di affissione in una bacheca
condominiale esposta alla possibile visione di terzi, di un avviso di convocazione
assembleare con relativo ordine del giorno indicante una richiesta di conciliazione a
riguardo di un decreto ingiuntivo, (ii) dalla successiva consegna ai condomini, per il
tramite di un’addetta alle pulizie, di un ulteriore documento, aperto e liberamente
leggibile, teso a chiarire il motivo della convocazione suddetta con specifico riguardo
alla posizione di C..
Il tribunale ha respinto la domanda ritenendo che l’attore non avesse adempiuto
all’onere della prova in ordine ai danni patiti e al nesso causale col trattamento dei dati.
Tale trattamento ha anche ritenuto che fosse stato improntato al rispetto dei principi di
pertinenza e non eccedenza rispetto ai fini, volta che il dato inserito nell’ordine del
giorno era comunque utile per far conoscere all’assemblea il motivo della
convocazione.
Ha soggiunto che non era stato provato il fatto che terzi soggetti, al di fuori dei
condomini, avessero preso visione del documento, né che l’addetta alle pulizie avesse
potuto leggerlo sui fogli aperti.
Ha infine escluso che la lesione arrecata fosse grave e che il danno lamentato fosse
serio.
C. ha proposto ricorso per cassazione in quattro mezzi.
Gli intimati hanno replicato con controricorso.
Le parti hanno infine depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
I. – Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione degli artt. 72, 83, 182 c.p.c.,
D.Lgs. n. 196 del 2003 art. 152, artt. 420 e 421 c.p.c. nella parte in cui il tribunale ha
consentito al condominio di sanare il vizio di costituzione nonostante codesto fosse
stato tempestivamente eccepito.
Il motivo è fondato.
II. – Dalla stessa sentenza emerge che l’attore aveva eccepito la nullità della procura ad
litem del condominio “sin dall’udienza dell’8-10-2014”.
Il tribunale ne ha disposto la sanatoria ai sensi dell’art. 182 c.p.c. con ordinanza del 28-
11-2018, dopo diverse udienze, e ha dato atto che infine il condominio aveva sanato il
vizio in conseguenza della detta ordinanza, a distanza di quattro anni dall’eccezione.
III. – Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale in tema di rappresentanza
nel processo, qualora una parte sollevi tempestivamente l’eccezione di difetto di
rappresentanza, sostanziale o processuale, ovvero un vizio della procura ad litem, è
onere della controparte interessata produrre immediatamente, con la prima difesa utile,
la documentazione necessaria a sanare il difetto o il vizio, senza che operi il
meccanismo di assegnazione del termine ai sensi dell’art. 182 c.p.c., prescritto solo per
il caso di rilievo officioso (v. Cass. Sez. 1 n. 29244-21, Cass. Sez. 2 n. 22564-20, Cass.
Sez. 2 n. 24212-18).
A questo orientamento si è in effetti contrapposta la tesi alla quale hanno alluso i
controricorrenti nel dire che non devesi distinguere a seconda che il vizio sia rilevato
d’ufficio o eccepito dalla parte.
Ma la tesi è minoritaria.
Essa in definitiva assume che, pur a fronte della proposizione di specifica eccezione a
opera della controparte di difetto o di nullità della procura ad litem, la parte destinataria
non sia necessariamente tenuta a produrre immediatamente una procura che possa
ritenersi valida, spettando il rilievo dell’effettività della sussistenza di un vizio
invalidante, ai fini della conseguente necessità della sua regolarizzazione, solo al
giudice, che ha il compito, appunto, di rilevarlo e di assegnare alla parte, da ritenersi
onerata, il relativo termine, come prescrive l’art. 182, comma 2, del codice di rito (v. in
motivazione Cass. Sez. 2 n. 23958-20).
IV. – Questa tesi non merita adesione.
E’ in vero chiara la differenza che corre tra le due situazioni processuali, poiché ai sensi
dell’art. 182 deve promuovere la sanatoria il giudice che rilevi d’ufficio il difetto di
rappresentanza, assistenza o autorizzazione, ovvero il vizio che determina la nullità
della procura, proprio perché il vizio, sebbene esistente, non è stato eccepito; e tanto
deve fare assegnando alla parte un termine di carattere perentorio senza il limite delle
preclusioni derivanti da decadenze di carattere processuale.
A detta situazione non è minimamente equiparabile quella in cui, viceversa, il vizio sia
stato tempestivamente eccepito dalla controparte.
In questo caso l’opportuna documentazione in funzione sanante va prodotta
immediatamente, e non v’e’ necessità di assegnare un termine, salvo che questo non sia
motivatamente richiesto, proprio perché sul rilievo di parte l’avversario è comunque
chiamato a contraddire di per sé, in forza della stessa dinamica del processo e del
principio di eventualità che la sorregge.
Il principio di eventualità si fonda – come esattamente è stato sostenuto in dottrina –
sulla dialettica tra le parti informata al criterio di dipendenza. È in pratica ispirato
dall’oralità della trattazione, dietro la quale si cela l’esigenza di far valere prontamente
e congiuntamente tutti i mezzi difensivi che si richiedono rispetto alle eventualità date
dalle prospettazioni avversarie.
D’altronde anche le Sezioni unite hanno reso il senso della differenziazione sopra detta
rispetto all’art. 182 c.p.c., allorché hanno affermato che il difetto di rappresentanza
processuale della parte può essere sanato in fase di impugnazione senza che operino le
ordinarie preclusioni istruttorie, e, qualora la contestazione avvenga in sede di
legittimità, la prova della sussistenza del potere rappresentativo può essere data ai sensi
dell’art. 372 c.p.c.
Per l’appunto a corredo di tale principio, le Sezioni unite hanno precisato che, tuttavia,
“qualora il rilievo del vizio in sede di legittimità non sia officioso, ma provenga dalla
controparte, l’onere di sanatoria del rappresentato sorge immediatamente, non
essendovi necessità di assegnare un termine che non sia motivatamente richiesto,
giacché sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire” (Cass. Sez. U n. 4248-
16).
Sulla scorta dei citati principi il primo motivo deve trovare accoglimento, in quanto il
vizio della procura ad litem del condominio, a differenza di ciò che il tribunale di Bari
ha ritenuto, non poteva essere sanato sulla base della disciplina dettata dall’art. 182
c.p.c.
V. – I restanti motivi possono essere esaminati congiuntamente.
Col secondo si deduce la violazione degli artt. 2727, 2729 c.c., 115 e 116 c.p.c., 11, 15
e 152 D.Lgs. n. 196 del 2003, 2697 c.c., nella parte in cui il tribunale ha ritenuto non
provato il danno senza considerare la rilevanza degli elementi presuntivi sottesi.
La prima affermazione è intrinsecamente in contrasto con la ritenuta non eccedenza del
trattamento.
La seconda è in apicibus giuridicamente errata.
La terza è lapidaria e non correttamente argomentata, non foss’altro perché non tiene
conto dell’allegazione che era stata fatta così come emergente dal ricorso e dal
controricorso.
VIII. – Questa Corte ha già avuto modo di stabilire che la disciplina del codice in
materia di protezione dei dati personali, di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, prescrivendo
che il trattamento dei dati personali avvenga nell’osservanza dei principi di
proporzionalità, di pertinenza e di non eccedenza rispetto agli scopi per i quali i dati
stessi sono raccolti (v. Cass. Sez. 1 n. 18443-13), non consente che gli spazi
condominiali, aperti all’accesso di terzi estranei rispetto al condominio, possano essere
utilizzati per la comunicazione di dati personali riferibili al singolo condomino; ne
consegue che – fermo restando il diritto di ciascun condomino di conoscere, anche di
propria iniziativa, gli inadempimenti altrui rispetto agli obblighi condominiali
l’affissione nella bacheca dell’androne condominiale, da parte dell’amministratore,
dell’informazione concernente le posizioni di debito del singolo condomino costituisce
un’indebita diffusione di dati personali, come tale fonte di responsabilità civile ai sensi
degli artt. 11 e 15 del citato codice (v. Cass. Sez. 2 n. 186-11).
Il principio si coniuga con la precisazione che, ai sensi di legge, “dato personale”,
oggetto di tutela, è “qualunque informazione” relativa a persona fisica, giuridica, ente
o associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente (Cass. Sez. 2 n. 17665-
18, Cass. Sez. 1 n. 15161-21).
È perfino ovvio, quindi, che in tale nozione debbano essere ricondotti i dati dei singoli
partecipanti a un condominio, seppur raccolti e utilizzati per le finalità di cui agli artt.
1117 e seg. c.c.
IX. – Certamente ragioni di buon andamento e di trasparenza giustificano una
comunicazione di questi dati ai condomini, su iniziativa dell’amministratore in sede di
rendiconto annuale di assemblea, o nell’ambito delle informazioni periodiche trasmesse
nell’assolvimento degli obblighi scaturenti dal mandato ricevuto, e anche su richiesta
di ciascun condomino, investito di un potere di vigilanza e di controllo sull’attività di
gestione delle cose, dei servizi e degli impianti comuni, che lo facoltizza a richiedere
in ogni tempo all’amministratore informazioni sulla situazione contabile del
condominio, comprese quelle che riguardano eventuali posizioni debitorie degli altri
partecipanti (v. in proposito Cass. Sez. 3 n. 159313).
Tuttavia non può sostenersi che sia giustificata e non eccedente l’affissione in una
bacheca – esposta al pubblico e soggetta a possibile visione da parte di un numero
indefinito di soggetti – di un avviso di convocazione del tenore di quello indicato dallo
stesso tribunale (“richiesta di conciliazione del sig. C. a riguardo di decreto ingiuntivo
subito per consuntivo anno 2010 (decisioni sulla causa in corso)”), in particolar modo
quando – come pure contraddittoriamente il tribunale dice avvenuto – l’avviso risulti
esser stato già comunicato a tutti i condomini.
Proprio l’avvenuta previa comunicazione indurrebbe ad affermare semmai l’ultroneità
dell’affissione in bacheca, e dunque l’eccedenza del trattamento rispetto al fine, sicché
da tal punto di vista l’impugnata sentenza non soddisfa minimamente la conclusione
infine ritenuta.
X. – Ne’ si può sostenere, nei termini così genericamente affermati dal giudice a quo,
che, palesata la situazione illecita e forniti gli elementi dai quali potersi presumere
l’effettività di un danno, vi fosse altro da dimostrare a onere del danneggiato.
Nell’art. 15 del codice in materia di dati personali il legislatore ha ritenuto opportuno
estendere la tutela anche ai danni non patrimoniali, a mezzo di uno strumento
risarcitorio di grande ampiezza teso a garantire l’effettiva operatività della
corrispondente sanzione a carico del responsabile dell’illecito e la conseguente
maggiore incisività alla norma afferente.
In tema di danno non patrimoniale il danneggiato può ricorrere e anzi normalmente
ricorre – alla prova presuntiva, tenuto conto ella natura immateriale del bene della vita
concretamente leso (v. la fondamentale Cass. Sez. U n. 26972-08). Donde una volta
stabilita la lesione degli interessi protetti, salvo che non sia appurata in modo plausibile
e congruente la natura bagatellare del pregiudizio allegato, il danno va liquidato su base
equitativa, mediante un modello di stima prudenziale che è connaturato alla natura del
diritto leso.
XI. – Ora l’attore aveva allegato, per quanto si comprende, un danno non patrimoniale
correlato all’incidenza del trattamento illecito sul piano reputazionale, essendo egli un
avvocato con studio nel medesimo condominio ed essendo stata l’affissione esposta per
oltre un mese in una bacheca ben visibile anche da parte dei suoi potenziali clienti.
L’allegazione era (ed è) più che sufficiente a soddisfare il relativo onere, cosicché al
tribunale competeva di accertare se l’illecito fosse stato effettivamente commesso nei
termini detti, onde provvedere, di conseguenza, alla determinazione equitativa del
danno in proporzione alla lesione dell’interesse protetto.
Da questo punto di vista è apodittico, ai fini dell’art. 132 c.p.c., il rilievo secondo cui
sarebbero stati da escludere “recisamente” i connotati di gravità e di serietà della
lesione allegata.
Il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 15 del D.Lgs. n. 196 del 2003
(codice della privacy) è determinato da una lesione del diritto fondamentale alla
protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU.
Esso non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno”,
in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex
art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato (v.
Cass. Sez. 6-1- n. 17383-20, Cass. Sez. 3 n. 16133-14).
Ma è di tutta evidenza che una verifica in tal senso, per quanto rimessa al giudice del
merito, implica che sia pur sempre soddisfatto l’onere di una motivazione aderente alla
specificità dei fatti, e funzionale a render conto della conclusione sostenuta in rapporto
alla lesione concretata dal comportamento illecito specificamente individuato.
Questo è mancato del tutto, nella decisione impugnata, la quale dunque va cassata con
rinvio al medesimo tribunale, in diversa composizione, per nuovo esame.
Il tribunale si uniformerà ai principi sopra evidenziati e provvederà anche sulle spese
del giudizio svoltosi in questa sede di legittimità.
p.q.m.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia al tribunale di Bari
anche per le spese del giudizio di cassazione.
Dispone che, in caso di diffusione della presente ordinanza, siano omesse le generalità
e gli altri dati significativi.
Così deciso in Roma, il 27 settembre 2022

Cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni. Il padre deve fornire la prova del suo adempimento

Cass. Civ., Sez. VI – 1, ord., 7 novembre 2022, n. 32727 – Pres. Scotti, Cons. Rel. Casadonte
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso …/2022 proposto da:
A.A., B.B., elettivamente domiciliati in Roma, Via…, presso lo studio dell’avvocato…, che li
rappresenta e difende unitamente all’avvocato …;
– ricorrenti –
contro
C.C.;
– intimato –
avverso il decreto della Corte d’appello di Bari, depositata il 07/10/2021;
udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 11/10/2022 dalla consigliera
Annamaria Casadonte.
Svolgimento del processo
Che:
1. Con ricorso ex art. 710 c.p.c., e L. n. 898 del 1970, art. 9, depositato il 18/02/2020, C.C. ha chiesto al
tribunale di Bari la modifica delle condizioni di divorzio vigenti tra lui e l’ex moglie, A.A., instando
in particolare per la revoca degli assegni di mantenimento e di ogni altro onere a qualsiasi titolo
gravante in capo al ricorrente in favore dei due figli D.D. e B.B. (n. il (Omissis)) ed in subordine per
la riduzione di quello a favore di B.B. in Euro 300,00. Quanto alla figlia D.D., la revoca era chiesta
per avere quest’ultima contratto matrimonio a giugno 2019; quanto al figlio B.B., per non aver
portato a compimento gli studi universitari, nonostante l’avanzata età adulta ormai raggiunta.
2. Si sono costituiti in giudizio A.A. e i figli, deducendo che B.B. non aveva potuto portare a
compimento gli studi universitari proprio per l’inadempimento del padre C.C. al suo obbligo di
contribuire, nella misura del settanta percento, al pagamento delle tasse universitarie. La figlia
maggiore D.D., avendo contratto matrimonio nel 2019, aderiva alla richiesta di revoca, pur non
rinunciando a tutti i crediti maturati e maturandi in corso di accertamento nei giudizi pendenti
contro il padre. Chiedevano pertanto la conferma dell’assegno di mantenimento nella misura di Euro
1.200,00, con adeguamento Istat, o di altra somma riconosciuta di giustizia in favore di B.B..
3. Con decreto pubblicato in data 21 dicembre 2020, il tribunale di Bari ha accolto la domanda del
padre, revocando ogni onere economico di quest’ultimo nei confronti di entrambi i figli, prendendo
atto, da un lato, dell’adesione della figlia maggiore D.D. alla richiesta di revoca, dall’altro,
dell’avanzata età di E.E. (29 anni) e della mancata conclusione del percorso universitario intrapreso
dallo stesso, nonostante il padre avesse garantito per un lungo lasso di tempo le condizioni
economiche atte a portare a termine gli studi intrapresi.
4. Con decreto n. 937/2021, reso pubblico mediante deposito in cancelleria il 7 ottobre 2021, la corte
d’appello di Bari ha rigettato il reclamo proposto da A.A. e B.B. avverso il citato provvedimento.
4.1. La corte distrettuale, invero, ha ritenuto non provata l’assoluta impossibilità economica della
A.A. ad anticipare il pagamento delle tasse universitarie, salvo rimborso da parte dell’altro genitore
obbligato. Al contrario, la corte territoriale ha affermato sussistere la prova che l’altra figlia della
coppia, pur scontando il medesimo inadempimento all’obbligo di versamento da parte del padre,
era comunque riuscita a concludere il percorso universitario, impegnandosi a perseguire l’obiettivo.
4.2. Dette evidenze, unitamente all’età raggiunta dal figlio più giovane B.B., alla mancata conclusione
del percorso scolastico triennale in giurisprudenza dallo stesso prescelto senza essersi determinato,
tenuto conto del lungo lasso di tempo intercorso, a raggiungere una propria autonomia e
indipendenza economica, costituivano, a giudizio della corte d’appello, elementi idonei a far venire
meno in capo allo stesso il diritto al mantenimento prescindendo da ogni valutazione in merito alle
capacità reddituali del padre C.C.. 5. A.A. e B.B. hanno proposto ricorso per la cassazione della
predetta sentenza, con atto notificato in data 14 gennaio 2022, sulla base di due motivi, mentre C.C.
è rimasto intimato.
Motivi della decisione
Che:
6. Il primo motivo (violazione o falsa applicazione degli artt. 147, 316 bis e 2967 c.c., in relazione
all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) denuncia l’erroneità della decisione impugnata per aver ritenuto il
genitore istante per la revoca del contributo di mantenimento non gravato dell’onere di provare che
il figlio a carico non avesse compiuto il percorso formativo, pur avendone avuto la possibilità.
6.1. I ricorrenti sostengono, in particolare, che la corte distrettuale avrebbe errato nel limitarsi a
prendere atto del comportamento inadempiente del genitore onerato del mantenimento, facendo
addirittura assurgere tale condotta a dato di fatto idoneo ad escludere l’impossibilità, dedotta dalla
madre e dal figlio B.B., di portare a compimento gli studi universitari.
6.2. Secondo la tesi dei ricorrenti, il genitore che agisca per la revoca del contributo economico per il
mantenimento dei figli, deve in primo luogo provare di aver effettivamente fornito tale contributo,
non risultando ammissibile ogni ulteriore indagine sulla pretesa responsabilità del figlio per il
fallimento del percorso formativo, là dove il presupposto minimo di fatto di tale percorso – id est il
pagamento degli studi – non sia stato rispettato.
7. Il secondo motivo (omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), deduce l’erroneità della
decisione impugnata per non aver tenuto conto del fatto che E.E. non è riuscito a concludere il
percorso scolastico non per sua inerzia ma per impossibilità di sostenere gli esami a causa del
mancato pagamento di numerose tasse universitarie da parte del padre, il quale ha cessato di
contribuire a dette spese a partire dal 2017, anno in cui si è laureata la figlia maggiore D.D..
7. 1. Ad avviso dei ricorrenti, ove la corte territoriale avesse esaminato dette circostanze decisive,
sarebbe giunta all’indefettibile conclusione per cui se il padre non avesse interrotto, a far data
proprio dalla laurea della sorella maggiore D.D., ogni pagamento al figlio B.B., quest’ultimo ben
avrebbe potuto essere già laureato.
8. I due motivi si possono trattare congiuntamente perchè strettamente connessi e sono fondati.
8.1. In base al consolidato orientamento di legittità, la cessazione dell’obbligo di mantenimento dei
figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia
riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica,
all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa nonchè, in particolare, alla
complessiva condotta personale tenuta, dal raggiungimento della maggiore età, da parte dell’avente
diritto (Cass., n. 12952/2016, Cass., n. 5088/2018; Cass., n. 17183/2020).
8.2. Orbene, detta valutazione, pur dovendo riguardare senz’altro la complessiva condotta tenuta da
parte dell’avente diritto dal momento del raggiungimento della maggiore età in poi, non può
prescindere dal pregiudiziale accertamento circa l’assolvimento, da parte del genitore gravato,
dell’obbligo di mantenimento. Ciò in quando l’adempimento di tale dovere costituisce la condizione
imprescindibile per lo sviluppo personale e professionale del figlio maggiorenne.
8.3. Invero, l’obbligo del genitore separato o divorziato di concorrere al mantenimento del figlio non
cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte di quest’ultimo, ma
perdura finchè il genitore interessato non dia prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza
economica, ovvero è stato posto nelle concrete condizioni per potere essere economicamente
autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta (cfr. Cass.,
1830/2011; id., 1773/2012; id., 38366/2021).
8. 4. Nella specie, la corte d’appello, di fronte alla deduzione della madre e del figlio circa il
comportamento inadempiente del padre, che aveva reso impossibile al figlio di sostenere gli esami
stante il mancato pagamento delle tasse universitarie fin dai primi anni di studio, ha ritenuto che
fosse onere della madre e del figlio provare che fosse per loro impossibile pagare autonomamente
gli studi universitari in luogo del padre tenuto all’obbligo del mantenimento e che non aveva fornito
la prova del suo adempimento.
8.4. Così operando, tuttavia, la corte d’appello è incorsa nella dedotta violazione di legge, finendo
per accollare all’altro genitore l’onere di provare l’assoluta impossibilità di anticipare il pagamento
delle tasse universitarie del figlio ed al contempo omettendo la corretta valutazione di fatti decisivi
per il giudizio.
9. Il ricorso è pertanto fondato ed il decreto impugnato deve essere cassato con rinvio alla corte
d’appello di Bari, in diversa composizione, affinchè provveda alla luce dei principi di diritto sopra
richiamati e, altresì, alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa il provvedimento impugnato e rinvia alla Corte di appello di Bari,
in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati
identificativi, a norma del D. Lgs. n. 196 del 2003 art. 52.
Conclusione
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale della Sezione Sesta-1 Civile, il 11 ottobre 2022.