Rilascio C.I.E. del minore valida per l’espatrio: è irrilevante la specificazione della caratterizzazione di genere di ciascun genitore
Trib. di Roma, Sez. XVIII, Ord., 9 settembre 2022
(Sezione specializzata in materia di diritti della persona e immigrazione)
ORDINANZA
Il giudice
nel procedimento civile di primo grado in epigrafe, introdotto da:
M.E.,
M. S.,
in proprio e nella qualità di genitori esercenti la responsabilità genitoriale sulla minore
M. M.G.,
rapp. e dif. dall’avv. M. V. e dall’avv. T. F.,
nei confronti di:
MINISTERO INTERNO,
rapp. e dif. dall’avv. AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO,
ROMA CAPITALE
rapp. e dif. dall’avv. P. L.P. dell’Avvocatura capitolina,
sciogliendo la riserva, osserva quanto segue.
Si premette che, in ragione del carattere personalissimo delle situazioni e dei diritti degli
interessati, ed in aderenza all’espressa richiesta formulata nell’atto introduttivo ai sensi dell’art. 52
D.LGS. n° 196/2003, si omettono nel corpo del provvedimento i nomi delle parti ricorrenti, che
andranno oscurati, unitamente ad ogni altro dato identificativo, nell’intestazione e nel dispositivo in
caso di diffusione dell’ordinanza.
Va ancora premesso, sul piano processuale, che – come già correttamente osservato dal precedente
giudice assegnatario presso altra Sezione del Tribunale – la controversia non riguarda la
rettificazione di atti dello stato civile e non si qualifica ai sensi dell’art. 95 D.P.R. n° 396/2000;
onde la non necessità della pur disposta ed eseguita comunicazione al Pubblico Ministero (che non
ha, del resto, inviato osservazioni) e la corretta trasformazione del rito in sommario di cognizione
(nell’accordo delle parti), ritenuto il più adatto alla trattazione del procedimento, in quanto
meramente documentale e involgente soltanto questioni di diritto.
La MINORE G. Y.X. è figlia della SIG.RA S. Y., SECONDA RICORRENTE, sua madre naturale,
e della SIG.RA E. X., PRIMA RICORRENTE, che l’ha adottata, in forza della sentenza n° 47/19 in
data 08/02/2019, passata in giudicato, ai sensi dell’art. 44, c. 1, lett. d), L. n° 184/1981.
In data 28/05/2019, la PRIMA RICORRENTE e la SECONDA RICORRENTE hanno
congiuntamente richiesto agli uffici di ROMA CAPITALE l’emissione di una carta d’identità
elettronica (C.I.E.), valida per l’espatrio, a nome della figlia minore G. Y.X., con l’indicazione dei
proprî nominativi con la qualifica di «madre» e «madre» o, in alternativa, con la dicitura “neutra” di
«genitore» per entrambe.
Con comunicazione in pari data, i suddetti uffici di ROMA CAPITALE hanno evidenziato
l’impossibilità di accogliere la richiesta in ragione delle specifiche tecniche del programma
informatico di emissione della C.I.E. che, in conformità a quanto disposto dal decreto del Ministro
dell’interno del 31/01/2019, prevede esclusivamente la dicitura «padre» e «madre» per la
compilazione dei campi contenenti i nominativi dei genitori.
Le tre ricorrenti hanno impugnato dinanzi al T.A.R. del Lazio il citato decreto ministeriale
sollevando plurimi motivi di illegittimità. Il giudice amministrativo adito ha tuttavia declinato la
propria giurisdizione sul presupposto che il ricorso avesse ad oggetto la tutela di diritti soggettivi
perfetti, azionabili dinanzi al giudice ordinario, e che quest’ultimo disponesse di idonei strumenti
processuali per emettere una decisione utile a detta tutela, in particolare mediante la disapplicazione
dell’atto amministrativo illegittimo.
Le ricorrenti hanno quindi riassunto nei termini il processo, riproducendo e confermando
argomentazioni e censure già sollevate dinanzi al primo giudice e adattando le domande alle
peculiarità del giudizio civile.
Si sono costituite nel giudizio riassunto entrambe le amministrazioni resistenti.
La difesa di ROMA CAPITALE ha preliminarmente sollevato un’eccezione di difetto di
legittimazione passiva e denunciato un vizio di instaurazione del contraddittorio. Rileva che il
Sindaco agisce, in materia di atti dello stato civile, in qualità di ufficiale di Governo, mentre l’atto
introduttivo pare evocarlo in giudizio nella diversa qualità di capo dell’amministrazione di ROMA
CAPITALE, ed osserva che, qualora fosse stata intenzione delle ricorrenti agire nei suoi confronti
nella sua corretta qualificazione, il ricorso avrebbe dovuto essere notificato presso l’Avvocatura
generale dello Stato. Deduce ancora la difesa capitolina che, comunque, il Sindaco, pur nella sua
qualità di ufficiale di Governo, non dispone di alcun margine di discrezionalità che gli consenta di
disattendere le istruzioni contenute nel già ricordato decreto del Ministro dell’interno (titolare della
funzione di responsabile dei registri dello stato civile e dei poteri ad essa conseguenti, tra cui
l’emissione della C.I.E.) e non potrebbe, d’altro canto, neppure sul piano pratico, discostarsene, dal
momento che il software dedicato all’emissione delle carte d’identità è fornito dallo stesso
Ministero e non consente tecnicamente alcuna modifica delle qualifiche assegnate ai genitori,
quanto meno ad opera degli addetti degli uffici anagrafici. Eccepisce, infine, che la comunicazione
di rifiuto di emissione della C.I.E. con le diciture richieste dalle ricorrenti non assurge ad atto
amministrativo di rigetto della domanda, ma costituisce semplicemente una comunicazione
esplicativa delle ragioni – anche tecniche – dell’impossibilità di accoglierla.
L’Avvocatura generale dello Stato, costituitasi per il Ministero, contesta la sussistenza delle plurime
violazioni di legge e di diritti fondamentali della persona denunciate dalle ricorrenti (e riferite tanto
alle genitrici quanto alla minore) e, facendo leva su un nutrito corredo normativo riguardante la
filiazione, sostiene l’irrilevanza, ai fini che interessano, di molteplici disposizioni invocate dalle
ricorrenti e la piena conformità del decreto ministeriale alle previsioni di legge ed ai principî, anche
fondamentali e di ordine pubblico, che informano la Repubblica ed il suo ordinamento.
Per quanto riguarda l’eccezione (invero, le due eccezioni) riguardante il difetto di legittimazione
passiva di ROMA CAPITALE e la non corretta instaurazione del contraddittorio nei
confronti del Sindaco quale ufficiale di Governo, occorre dare atto che la difesa ricorrente, a verbale
dell’udienza tenutasi il 20/12/2021, ha concordato sul fatto che, in subjecta materia, il Sindaco
agisce in funzione di ufficiale di Governo; ha altresì giustificato la chiamata in causa di ROMA
CAPITALE sul rilievo che questo Tribunale (ed analogamente anche altri) avrebbe spesso ordinato
la notifica anche ad essa in quanto soggetto legittimato ad interloquire sull’istruttoria
amministrativa. Inoltre, nelle note autorizzate depositate in data 11/02/2022, ha sottolineato che
ROMA CAPITALE ha comunque svolto difese anche nel merito del ricorso, in particolare per
sostenere il carattere vincolato del rifiuto di emissione della C.I.E. con le diciture richieste dalle
ricorrenti.
Premesso che è indubitabile – ed ormai anche pacifico tra le parti – che il Sindaco agisce,
nell’esercizio delle funzioni delegate di ufficiale dello stato civile, come ufficiale di Governo,
delegato alla tenuta dei registri dello stato civile, osserva il Tribunale che, in tale qualità, esso
avrebbe dovuto semmai essere chiamato in giudizio personalmente, nella specifica qualità e
funzione che nella specie incarna (sebbene in realtà non fosse affatto necessario chiamarlo in causa,
poiché la responsabilità dello stato civile e la paternità del decreto ministeriale qui contestato
appartengono al Ministro dell’interno, del quale il Sindaco è mero delegato); mentre il (diverso)
soggetto evocato in giudizio è ROMA CAPITALE in persona del Sindaco, cioè una distinta
amministrazione – l’ente locale – di cui, in altra veste, il Sindaco è a capo ed è legale
rappresentante, la quale non esercita, come tale (cioè come ente territoriale), alcuna competenza in
materia di stato civile e di rilascio di documenti di identità. Pertanto, non si può non nutrire
perplessità in ordine a precedenti decisioni che avrebbero affermato la legittimazione di ROMA
CAPITALE in quanto competente ad interloquire nell’istruttoria amministrativa; nella fattispecie,
non viene del resto in considerazione alcun aspetto riguardante l’istruttoria, ma soltanto la dedotta
impossibilità (anche pratica) di emettere un documento conforme ai desiderata delle ricorrenti, in
ragione di una disposizione ministeriale e di uno strumento tecnico informatico predisposto e
fornito dal medesimo Ministero che né il Sindaco, né tanto meno i singoli operatori addetti, sono
autorizzati o anche semplicemente in grado di aggirare.
Deve quindi accogliersi l’eccezione di difetto di legittimazione passiva di ROMA CAPITALE,
restando così assorbita la distinta questione della notificazione dell’atto presso l’indirizzo P.E.C.
della Casa comunale.
Si è detto poc’anzi che all’accoglimento della richiesta delle ricorrenti osterebbe, oltre alle
disposizioni del decreto ministeriale del 31/01/2019 in quanto tali (sul piano giuridico), anche un
problema di natura tecnica afferente alla struttura del programma informatico predisposto per
l’emissione delle carte d’identità elettroniche, siccome elaborato in applicazione del suddetto
decreto.
A questo specifico riguardo – anche nella prospettiva di evitare una lunga e costosa consulenza
tecnica che avrebbe potuto rivelarsi necessaria per risolvere questo aspetto della questione – il
giudice ha chiesto delucidazioni alla difesa erariale, la quale ha fornito risposta con la nota
depositata in data 09/02/2022, allegando una relazione del Ministero dell’interno – Dipartimento
per gli Affari interni e territoriali – Direzione centrale per i Servizi demografici. La relazione
fornisce un esaustivo excursus dell’articolato ed a tratti impervio procedimento che ha condotto
all’emanazione del decreto ministeriale qui contestato, ritracciando le difficoltà manifestatesi nelle
varie fasi del relativo iter, e fa presente che, allo stato attuale, «sono tuttora in corso specifiche
interlocuzioni con l’Ufficio Legislativo del Ministro della Pubblica Amministrazione, volte al
superamento delle suesposte criticità». La relazione ministeriale, le cui conclusioni sono riprese
nella nota dell’Avvocatura, si chiude con l’affermazione che la «modifica dei software e della
configurazione degli impianti di stampa [sarebbe] senz’altro tecnicamente fattibile», ma
«comporterebbe la messa in circolazione di una carta d’identità elettronica non conforme al quadro
normativo vigente, con tutte le possibili conseguenze che potrebbero sorgere in caso di operazioni
di controllo da parte delle Forze dell’ordine».
Alla luce di questa conclusione, si può serenamente affermare, quindi, che l’accoglimento del
ricorso (e di altri analoghi eventualmente proposti) non porrebbe l’amministrazione dell’interno (e,
con essa, il Sindaco di Roma e, più in generale, i Sindaci competenti ad esercitare le funzioni
delegate di ufficiali dello stato civile) di fronte ad insormontabili difficoltà, o addirittura
all’impossibilità tecnica, di attuare la decisione giurisdizionale. L’obiezione che il Ministero
solleva alla (pur tecnicamente possibile) modifica del software, invece, è di natura giuridica, ed
attiene al merito delle censure sollevate dalle ricorrenti e contestate dalla difesa erariale, che ora
occorre passare ad esaminare.
Al fine di fugare ogni equivoco e di ricondurre l’argomentazione entro il perimetro tracciato
dalla questione sollevata nel presente giudizio, è opportuno chiarire sin d’ora che l’impostazione
generale e (per la maggior parte) le singole argomentazioni difensive svolte dalla difesa erariale non
colgono nel segno.
La memoria cita una lunga serie di disposizioni normative (12 articoli del codice civile, l’art.
5 della L. n° 40/2004, l’art. 6, c. 1, L. n° 184/1983, nonché gli artt. 29, 30 e 31 Cost.) che hanno ad
oggetto, in vario modo, il fenomeno della filiazione e le situazioni e vicende che, in tale contesto,
possono verificarsi e che necessitano di una regolamentazione giuridica.
Non desta meraviglia, e non ha alcuna incidenza sull’oggetto del presente litigio, il fatto che
il codice civile faccia riferimento, in più articoli, al «padre» e alla «madre». A parte il fatto che,
all’epoca della sua approvazione, né la società né la scienza potevano suggerire il verificarsi di
situazioni di altro tipo, è del tutto evidente che, ancor oggi, esistono pur sempre famiglie formate da
un padre, una madre e uno o più figli da loro generati (e sembrano essere, per ora, la maggior parte).
Non è dunque sorprendente, né in alcun modo significativo, ai fini che qui interessano, che queste
situazioni siano disciplinate: forse che un dato ordinamento, per il solo fatto di riconoscere altre
morfologie di famiglia (per fare un’ipotesi estrema, ancorché non consentita in Italia, la filiazione
da coppie omosessuali maschili sterili con dono di sperma ed ovuli e per maternità surrogata),
dovrebbe ipso facto rinunciare a disciplinare il caso, non eccezionale, ma anzi ordinario, di una
famiglia formata da una coppia eterosessuale con figli nati all’esito di una procedura, per così dire,
meno tecnologicamente avanzata e più “tradizionale”? E allora, che conclusioni si potrebbe
pretendere di trarre dal mero fatto che esistono leggi che si riferiscono, a fini ben determinati, come
meglio si vedrà, al «padre» e alla «madre»? E come l’esistenza di tali leggi dovrebbe influire sulla
possibilità di garantire determinati diritti a coppie ed a famiglie, già esistenti e riconosciute (il dato
non è trascurabile, come poi si vedrà), altrimenti costituite? E, ancor più specificamente, sul diritto
di ciascuno dei genitori, naturali e giuridici, di un minore nato in una tal famiglia, di essere
identificato/a in termini coerenti con il proprio sesso e genere?
Esaminando più da vicino le disposizioni normative interne citate da parte resistente, si
osserva, innanzitutto che gli articoli del codice civile riguardano, a fini determinati, situazioni ed
evenienze che si presentano nelle famiglie “tradizionali” (ma non, invece, in famiglie altrimenti
composte) e che vanno ovviamente regolamentate indipendentemente dal riconoscimento di altre
morfologie familiari:
– art. 231 (unitamente all’art. 232): stabilisce una presunzione di paternità in caso di coppia
(eterosessuale) sposata; non riguarda (ed evidentemente non potrebbe riguardare) le coppie
omosessuali, ma non contempla neppure le coppie eterosessuali non sposate;
– art. 243 bis: disciplina il disconoscimento di paternità: è evidentemente una disposizione utile
e di possibile applicazione solo per coppie eterosessuali, e solo per il padre, che, certa matre,
è l’unico a poter essere disconosciuto; lo stesso deve dirsi per gli artt. 246 e 247, che
disciplinano aspetti particolari della medesima azione; si consideri, peraltro, che un genitore
adottivo (ancorché “padre” ad ogni effetto) non può, per ovvii motivi, essere disconosciuto,
ma può soltanto promuovere o subire l’azione di revoca nei casi previsti dagli artt. 51 e 52 L.
n° 184/1983 ovvero, in caso di adozione del maggiorenne, dagli artt. 305 e sgg. C.C.: il che
dimostra che la ratio del riferimento al “padre” nell’articolo in commento non risiede nel suo
sesso o genere (che si pretenderebbe essere “obbligatoriamente” maschile), ma
semplicemente nel fatto incontrovertibile che soltanto del padre (maschio), e soltanto nel
contesto di una filiazione “naturale” (nel caso di fecondazione medicalmente assistita
eterologa, il disconoscimento da parte del “padre” è addirittura vietato: art: 9 L. n° 40/2004) è
ipotizzabile e rilevante una discrasia tra la situazione giuridica e quella genetica;
– art. 250: il riconoscimento da parte di un genitore ha senso soltanto in caso di coppia
eterosessuale, poiché consiste nella dichiarazione di aver generato il figlio; trattandosi della
dichiarazione di un fatto, non può avere ad oggetto un fatto biologicamente impossibile, salvo
casi particolari del concepimento e della gestazione (fecondazione medicalmente assistita in
vitro o in utero, uso di gameti propri o altrui, maternità surrogata), in quanto siano consentiti
o comunque disciplinati; ma, in assenza di tali specifiche possibilità alternative di
riproduzione, vi sono altri modi di costituzione del rapporto di filiazione (adozione ex art. 44,
c. 1, lett. d));
– art. 262: la disciplina dell’attribuzione del cognome in caso di riconoscimento si ispira alla
parità tra i genitori ed alla prevalenza cronologica del riconoscimento; solo in caso di
contemporaneità è prevista l’attribuzione automatica del cognome del padre (oggi rimessa in
discussione da una recente, nota sentenza della Corte costituzionale: n° 131/22); si tratta
quindi di rispondere ad un’esigenza specifica di certezza nelle relazioni familiari in casi in
cui, comunque, per le ragioni di cui sopra, vi è per forza di cose una coppia eterosessuale;
– art. 269: prevede la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, necessaria per mettere in
armonia il dato giuridico della filiazione con quello biologico della procreazione, ove i due
aspetti del fenomeno coincidano; valgono considerazioni analoghe a quelle svolte per il
disconoscimento di paternità;
– art. 408: l’indicazione di «padre» e «madre» (unitamente all’elencazione di diversi altri
parenti) serve soltanto ad indicare in modo specifico i diversi soggetti preferiti come
amministratori di sostegno, considerando che, in molti casi, ci saranno un padre e una madre;
ma ciò non esclude che uno dei due membri di una coppia omosessuale venga nominato
amministratore di sostegno e, soprattutto, non impone che, ove ciò si verifichi, tale soggetto
debba essere qualificato con un termine non appropriato al suo genere;
– art. 566: la disposizione regola solo il rapporto successorio dei fratelli figli di una medesima
persona, sia essa il padre o la madre (come il più delle volte avviene), ma non può in alcun
modo essere interpretata nel senso di escludere che, attraverso gli strumenti giuridici
consentiti dall’ordinamento, i fratelli in questione siano giuridicamente figli di due padri o di
due madri, e soprattutto non incide minimamente sulla possibilità e necessità che costoro
vengano identificati con una denominazione appropriata al loro genere; lo stesso può dirsi
dell’art. 568;
– art. 599: elenca le figure parentali tradizionali, ma non implica che non vi possano essere
figure parentali particolari di genere diverso dalla tradizionale coppia uomo-donna, alle quali
la norma si applicherebbe comunque;
– art: 643: disciplina una situazione in cui vi è necessariamente un «padre», per le ragioni dette
in materia di riconoscimento.
Come si vede, nessuna di queste disposizioni codicistiche è sufficiente a fornire una base
giuridica sulla quale possa fondarsi un obbligo di nominare espressamente, in ogni circostanza ed a
qualsiasi fine, un «padre» ed una «madre».
Non diversamente deve ragionarsi in relazione agli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione. Che la
«famiglia», della quale l’art. 29 Cost. riconosce i diritti, sia «fondata sul matrimonio» non significa
affatto che la sua esistenza sia comunque “condizionata” dal matrimonio, né tanto meno che uguali
o analoghi diritti non possano essere riconosciuti, in tutto o in parte, anche a “società naturali”
diversamente “fondate” o conformate. E lo dimostra il fatto che proprio l’art. 30 Cost. (che, tra
parentesi, parla proprio di «genitori», e non già di «padre» e «madre», e che laddove evoca il
concetto di «paternità» lo fa in relazione ad uno scopo ben preciso – la sua ricerca – che per forza
di cose, per le ragioni già dette, si riferisce soltanto al padre biologico, e non anche alla madre o al
genitore adottivo, a qualunque sesso o genere esso appartenga) si premuri di garantire il diritto al
mantenimento, all’istruzione e all’educazione anche ai figli nati fuori dal matrimonio: a riprova del
fatto che il matrimonio non è se non il “fondamento” (ed oggi deve aggiungersi: “ordinario”, o
“prevalente”) della famiglia, non certo una sua precondizione indefettibile. Tanto è poi dimostrato
anche da una pluralità di norme ordinarie che hanno via via riconosciuto, negli ultimi decenni,
“nuovi” diritti che si inquadrano nel perimetro logico-giuridico e sociale del concetto di “famiglia”
a coppie diversamente formate (il riconoscimento delle unioni civili ne è un evidente esempio) o a
persone singole (art. 44, c. 3, L. n° 184/1983).
Quanto all’art. 31 Cost., la protezione della «maternità» ivi garantita risponde ad una esigenza
specifica connessa al ruolo biologico della donna nella procreazione, che si declina nella
gravidanza, nel parto e nell’allattamento. Non v’è modo di inferirne che il genitore adottivo, anche
se donna, debba necessariamente essere qualificato «padre» (o viceversa).
Infine, l’art. 5 L. 40/2004 riguarda l’accesso alla procedura procreativa, ma non incide sulla
conformazione della famiglia già costituita mediante idonei atti giuridici (adozione), né tanto meno
sulle qualificazioni di genere da attribuire ai componenti di tale famiglia; l’art. 6 L. 184/1983, che
limita l’adozione «ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni», è controbilanciato dall’art.
44, comma 1, lettera d), norma applicata, nella specie, dal Tribunale per i minorenni al caso della
piccola G. Y.X.; l’art. 1, c. 20, L. 76/2016 si riferisce all’estensione semantica del termine
«coniugi» ed è tale estensione che viene limitata, escludendo che operi in relazione ad articoli del
codice civile non richiamati o nella legge sul «Diritto del minore ad una famiglia»; per l’adozione,
del resto, è espressamente mantenuta la disciplina della legge vigente.
Ma non mette conto dilungarsi oltre su questa linea argomentativa, perché tutta la materia
della filiazione (ed anche, più in generale, della famiglia e del matrimonio) è estranea all’oggetto
del contendere.
Il punto fermo dal quale occorre prendere le mosse è il fatto che il Tribunale per i minorenni
di Roma, con la citata sentenza n° 47/19, ha già disposto farsi luogo all’adozione, da parte della
SIG.RA E. X., della MINORE G. Y.X., con l’attribuzione a quest’ultima del doppio cognome e
con l’ordine (già debitamente eseguito) di procedere alle corrispondenti annotazioni ad opera
dell’ufficiale dello stato civile.
Esiste quindi, ad oggi, una situazione giuridica e di fatto incontrovertibile – perché coperta
dal giudicato – e risultante dagli atti dello stato civile, consistente nel rapporto di filiazione (naturale
e adottiva) della MINORE G. Y.X. con due genitrici, entrambe di sesso e genere femminile e
costitutiva di una famiglia. Di fronte a tale situazione, non ha alcun rilievo il margine di
discrezionalità riconosciuto agli Stati contraenti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in materia
di regolamentazione, più o meno permissiva o restrittiva, di questa o quella tecnica di procreazione
o di questa o quella forma di riconoscimento del rapporto di filiazione prodotto con tali tecniche,
poiché in questa sede non si discute della possibilità di riconoscere la SIG.RA E. X. come genitrice
della minore, cosa che è stata già fatta dal giudice competente e che costituisce ormai un fatto
acquisito.
Di quel margine di discrezionalità riconosciuto dalla CEDU il Tribunale per i minorenni ha già fatto
applicazione, utilizzando appropriatamente gli strumenti disponibili nel diritto italiano (il passo del
parere consultivo reso dalla Grande Chambre il 10/04/2019, citato anche dalla difesa erariale, lo
conferma, laddove indica, a titolo esemplificativo, l’adozione come strumento adeguato a garantire i
diritti riconosciuti al minore dall’art. 8 della Convenzione del 1950), con effetti che non sono, né
potrebbero essere, rimessi in discussione in questa sede.
Qui si discute, invece, dell’esistenza (o no) di un diritto delle due donne giuridicamente
riconosciute come genitrici della bambina (l’una per esserne anche madre naturale, l’altra per averla
adottata) a vedersi identificate, nella carta d’identità della figlia, in modo conforme alla loro identità
sessuale e di genere, o comunque in termini neutri; e del diritto della minore stessa ad una corretta
rappresentazione della sua situazione familiare, come figlia (naturale e giuridica) di due donne,
quindi di due “madri”, o comunque di due “genitori”.
Sull’esistenza di tali diritti, in capo alle ricorrenti, non può nutrirsi alcun serio dubbio.
Per quanto riguarda le prime due ricorrenti, l’indicazione, nel documento d’identità della
figlia, di una di esse (probabilmente la SIG.RA E. X., che non è la madre biologica e naturale) con
una qualifica («padre»), difforme dalla sua identità sessuale e di genere, costituirebbe senz’altro
un’ingerenza nel suo diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 CEDU,
priva dei connotati di necessità e proporzionalità che potrebbero giustificarla. Quanto al requisito
della necessità, esso è declinato in termini esaustivi dal secondo comma della disposizione; esclusi
la sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza, il benessere economico del paese, la difesa dell’ordine
e la prevenzione dei reati, la protezione della salute e la protezione dei diritti e delle libertà altrui,
che non hanno manifestamente nulla a che vedere con la fattispecie, non resterebbe che invocare la
difesa della morale. Ma (ribadito che qui non si tratta di riconoscere diritti procreativi non previsti
dall’ordinamento) non si vede come il fatto di indicare correttamente, su un documento di
riconoscimento, la qualifica di una persona con un termine corrispondente alla sua identità sessuale
e di genere (o almeno con un termine neutro) possa portare pregiudizio alla morale pubblica.
Escluso il requisito della necessità, diviene superfluo indagare quello della proporzionalità (non
potendo, per definizione, un intervento non “necessario” essere “proporzionato” ad uno scopo che si
riconosce inesistente). In ogni caso, stante lo scopo dell’indicazione dei soggetti che esercitano la
responsabilità genitoriale (già in fase di richiesta della C.I.E., e poi) nella compilazione del
documento (scopo che consiste nella formulazione di una richiesta valida in nome e per conto del
soggetto privo della capacità di agire e nell’individuazione delle persone che possono validamente
acconsentire all’espatrio del minore ed accompagnarlo all’estero o indicare i soggetti autorizzati a
farlo), è del tutto irrilevante la specificazione della caratterizzazione sessuale e di genere del ruolo
ricoperto da ciascuno dei genitori: l’ingerenza non sarebbe, dunque, neppure proporzionata allo
scopo legittimo individuabile nell’indicazione nominativa dei genitori (ma non nella connotazione
di genere espressa dalle parole «padre» e «madre»).
Un’indicazione con un termine che indichi un ruolo sociale e parentale incongruo rispetto
all’identità sessuale e di genere di una delle due genitrici costituirebbe quindi un’ingerenza nel suo
diritto al rispetto della vita privata e familiare vietata dall’art. 8 e, pertanto, una violazione di tale
norma.
La Corte di Strasburgo non ha avuto occasione di pronunciarsi sulla questione specifica;
tuttavia, la sua giurisprudenza si muove certamente in tal senso allorché, fin dal 1992 in modo
implicito (B. c. Francia, ric. n° 13343/87, Sessione plenaria, sent. 25/03/1992), e poi, con maggior
vigore, nel 2002 (Christine Goodwin c. Regno Unito, ric. n° 28957/95, G.C., sent. 11/07/2002) ha
affermato – sia pure in contesti di altra natura – che la sfera personale, protetta dall’art. 8, include i
dettagli della propria identità come individuo («Under Article 8 of the Convention in particular,
where the notion of personal autonomy is an important principle underlying the interpretation of its
guarantees, protection is given to the personal sphere of each individual, including the right to
establish details of their identity as individual human beings»). E tra questi dettagli non può non
ricomprendersi anche l’indicazione del ruolo sociale e familiare, che deve essere compatibile con
l’identità sessuale e di genere della persona (il caso Christine Goodwin aveva, del resto, proprio ad
oggetto il diritto della ricorrente a far coincidere la propria identificazione sessuale formale con la
sua identità sessuale – o “di genere” – sostanziale).
Identica violazione si riscontra anche nei confronti della MINORE G. Y.X., la quale ha un
analogo diritto, ai sensi dell’art. 8 CEDU, a vedere correttamente rappresentata, sul documento di
riconoscimento, la propria condizione di figlia di due madri. L’identità familiare è infatti parte
integrante dell’identità personale dell’individuo, e fa parte dei diversi aspetti nei quali si declina il
diritto al rispetto della vita privata e familiare. Questo principio emerge con chiarezza dal parere
consultivo del 10/04/2019 della Corte di Strasburgo (e dalla precedente giurisprudenza ivi
richiamata) che, pur non imponendo agli Stati contraenti uno specifico strumento per il
riconoscimento giuridico di una filiazione avvenuta con metodologie non ammesse dal diritto
interno, sottolinea la ridotta ampiezza del loro margine di apprezzamento discrezionale ed esige
che, in un modo compatibile con il diritto interno, i legami di filiazione del minore con le figure
genitoriali sia ufficialmente riconosciuto. L’affermazione, resa in un contesto in cui la domanda di
parere pregiudiziale era condizionata dalla fattispecie concreta, non può essere correttamente inteso
se non inserendolo in una prospettiva più ampia, che abbracci anche la corretta identificazione del
ruolo di ciascun genitore, che dev’essere conforme alla sua identità sessuale e di genere: altrimenti,
il riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione, in ipotesi attuato con formulazioni lessicali
difformi dalla realtà dei rapporti familiari e non coerenti con l’identità sessuale e di genere dei due
genitori, finirebbe col produrre il paradossale effetto di pregiudicare, anziché di tutelare, il diritto
all’identità del minore nella specifica forma dell’identità relazionale intra-familiare e
dell’identificazione delle sue radici (e sulla rilevanza delle radici familiari per l’identità personale di
un figlio, anche divenuto maggiorenne, basterebbericordare le sentenze in tema di ricerca delle
origini biologiche dell’adottato: Odièvre c. Francia e Godelli c. Italia).
Con riguardo alla TERZA RICORRENTE, peraltro, il diritto alla corretta rappresentazione delle
sue origini familiari trova conferma anche in altri strumenti internazionali ai quali l’Italia ha aderito,
primo fra tutti la Convenzione di New York del 20/11/1989 sui diritti del fanciullo, ratificata e resa
esecutiva con L. n° 176/1991, il cui art. 8, in particolare, impegna le Alte Parti Contraenti a
«rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità», comprendente «le sue relazioni
famigliari», ed il cui art. 3 prescrive che «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia
delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative
o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione
preminente».
La violazione dei diritti sanciti da fonti internazionali come quelle richiamate – ed in
particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – non è certamente consentita ad un atto
amministrativo, per di più di natura non regolamentare (che non integra la nozione di “legge”, pur
ampia e non “tecnica”, adottata dalla Corte di Strasburgo, e perciò non idoneo ad soddisfare il
requisito della “legalità” ai sensi e per gli effetti del comma 2 dell’art. 8 CEDU), ma non sarebbe
legittima neppure ove fosse realizzata mediante lo strumento della legge o dell’atto avente valore di
legge.
Siffatta violazione, infatti, si porrebbe comunque in contrasto (in assenza di ragionevoli
“contro-limiti” di stringente rilevanza costituzionale che possano giustificarlo) con l’art. 117 Cost.,
per il tramite della norma interposta costituita dall’art. 8 CEDU, e solleverebbe più che giustificati
dubbi di legittimità costituzionale anche alla luce del parametro costituito dall’art. 2 Cost.,
dovendosi ritenere che una rappresentazione distorta della figura di uno dei genitori (sotto il profilo
dell’identità sessuale e di genere e del ruolo sociale e parentale rivestito) costituisca una violazione
della dignità personale garantita da tale disposizione.
Discutendosi, nella fattispecie, del rilascio della C.I.E. valida per l’espatrio, la falsa
rappresentazione del ruolo parentale di una delle due genitrici, in evidente contrasto con la sua
identità sessuale e di genere, comporta poi conseguenze (almeno potenziali) rilevanti sia sul piano
del rispetto dei diritti garantiti dalla Costituzione, sia sul piano della necessaria applicazione del
diritto primario e derivato dell’Unione europea.
Non è molto difficile, invero, rappresentarsi mentalmente le manifeste perplessità di un
pubblico ufficiale che, all’uscita dall’Italia o all’ingresso nel territorio di un altro Paese, si trovasse
di fronte una bimba accompagnata da una gentile signora che, al riscontro dei rispettivi documenti,
risulterebbe essere “suo padre”. Né è difficile ipotizzare che il suddetto pubblico ufficiale, posto di
fronte ad una così patente difformità tra la realtà fattuale presente con incontrovertibile evidenza
davanti ai suoi occhi e le risultanze dei documenti di identità dei due soggetti, si veda costretto a
rifiutare loro l’uscita dal, o l’ingresso nel, territorio.
Ove ciò si verificasse in occasione di un viaggio con destinazione verso un Paese non membro
dell’Unione europea (ma che accetta la carta d’identità come documento valido per l’espatrio), la
situazione si porrebbe in insanabile contrasto con l’art. 16, c. 2, Cost., che garantisce la libertà dei
cittadini di «uscire dal territorio della Repubblica e di rientravi, salvo gli obblighi di legge». Stante
l’efficacia “orizzontale” e l’immediata precettività delle norme costituzionali, non può ritenersi
ammissibile che un atto amministrativo faccia ostacolo alla loro applicazione. Ma, come si è detto
dianzi in relazione alle violazioni di norme internazionali, neppure la legge potrebbe farlo senza
esporsi a gravi dubbi di costituzionalità.
Se, poi, la descritta vicenda si verificasse in occasione di un viaggio all’interno dell’Unione
europea, l’impedimento determinato – almeno potenzialmente – dalla falsa rappresentazione della
realtà manifesta, contenuta nel documento d’identità della minore, si tradurrebbe – come
recentissimamente affermato, in un caso ampiamente sovrapponibile a questo, dalla Corte di
giustizia del Lussemburgo, in causa C-490/20, V.M.A. c. Stolichna obshtina, rayon «Pancharevo»,
G.S., sent. 14/12/2021 – in una violazione dell’art. 21, par. 1, TFUE, che garantisce la libertà dei
cittadini dell’Unione di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri;
libertà che il cittadino dell’Unione minore di età deve poter esercitare accompagnato da «ciascuna
delle sue due madri». Sempre secondo la citata sentenza, «Gli Stati membri sono […] liberi di
prevedere o meno, nel loro diritto nazionale, il matrimonio tra persone dello stesso sesso e la
genitorialità di queste ultime. Tuttavia, nell’esercizio di tale competenza, ciascuno Stato membro
deve rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, le disposizioni del Trattato FUE relative alla
libertà riconosciuta a ogni cittadino dell’Unione di circolare e di soggiornare nel territorio degli
Stati membri, riconoscendo, a tal fine, lo status delle persone stabilito in un altro Stato membro
conformemente al diritto di quest’ultimo». D’altra parte – precisa ancora la Corte – «il rapporto del
minore interessato con ciascuna delle due persone con cui ha una vita familiare effettiva nello Stato
membro ospitante e che sono menzionate come suoi genitori nell’atto di nascita emesso dalle
autorità di tale Stato è protetto dall’articolo 7 della Carta». Infine, richiamando gli artt. 7 e 24 della
Carta dei diritti fondamentali dell’UE e gli artt. 2 e 7 della già ricordata Convenzione di New York,
il giudice europeo sottolinea il divieto di far subire al minore discriminazioni, «comprese quelle
basate sull’orientamento sessuale dei suoi genitori». E discriminazione vi sarebbe, se i minori aventi
una relazione parentale (biologico-naturale e/o giuridica) con genitori dello stesso sesso dovessero
esibire documenti di identità sui quali i genitori risultano indicati in termini manifestamente falsi e
identici a quelli dei minori aventi genitori di sesso opposto.
In quest’ultima ipotesi, dunque, non si porrebbe neppure un problema di legittimità
costituzionale di un’eventuale disposizione di legge che imponesse, direttamente o indirettamente,
l’indicazione di due donne genitrici (o di due uomini genitori) come «padre» e «madre» del minore:
una simile legge dovrebbe, infatti, essere direttamente disapplicata dal giudice ordinario per
contrasto con la normativa eurounionale. È del tutto evidente che analoga sorte deve toccare, ed a
fortiori, ad un semplice atto amministrativo non regolamentare che – peraltro – trascende anche
(come meglio si dirà in séguito) i limiti della competenza attribuitagli dal legislatore primario.
Prima però di passare a quest’ultimo snodo motivazionale, è opportuno segnalare brevemente
che – come del resto già rilevato, con argomentazioni esaustive che non lasciano spazio a dubbi, dal
Garante per la protezione dei dati personali, nel parere del 31/10/2018, che va pienamente condiviso
– l’indicazione della qualifica di «padre» nel campo corrispondente al nome di una delle due donne
costituisce, in maniera addirittura evidente, una violazione dell’art. 5, par. 1, lettere c) (principio di
«minimizzazione») e d) (principio di «esattezza»), del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento
europeo e del Consiglio del 27/04/2016 (R.G.P.D.).
Il principio di minimizzazione consiste – secondo le parole dello stesso legislatore europeo –
nella corrispondenza dei dati a criteri di adeguatezza, di pertinenza e di limitazione da valutarsi alla
luce delle «finalità per la quale sono stati trattati». Poiché l’indicazione dei nomi dei genitori sulla
carta d’identità del minore persegue chiaramente la finalità di rendere noto a chi di dovere (in
occasione di controlli, in particolare ai valichi di frontiera, ma eventualmente anche all’interno del
territorio nazionale o di un Paese estero, appartenente o no all’Unione europea) chi siano le persone
investite della responsabilità genitoriale ed autorizzate, in caso di espatrio, ad accompagnare il
minore, e non certo di rivelare da chi e come il minore sia stato generato (tanto è vero che è
contemplata l’ipotesi dell’indicazione del tutore), o quale sia il sesso o il genere delle persone di cui
sopra, è di immediata evidenza che l’indicazione di ruoli genitoriali prestabiliti e corrispondenti ad
una specifica identità sessuale e di genere è del tutto superflua e non può considerarsi né adeguata,
né pertinente, né tanto meno limitata allo scopo legittimo perseguito. Un profilo, questo, che sembra
invece essere sfuggito all’attenzione del Garante nel successivo parere (del 25/03/2021), laddove
suggerisce di indicare, unitamente alla qualifica neutra di “genitore”, anche quella di “padre” e
“madre”, così reintroducendo una specificazione di sesso e genere del tutto estranea alla finalità
dell’indicazione dei soggetti che esercitano la responsabilità sul minore, e perciò di dubbia
compatibilità con i principî di limitazione delle finalità e di minimizzazione di cui all’art 5 R.G.P.D.
Il principio di esattezza non abbisogna di particolari spiegazioni: è palese per chiunque che,
se le parole hanno un senso, il principio di esattezza è soddisfatto soltanto se il dato è, appunto,
esatto.
E cioè (per aggirare l’inevitabile tautologia terminologica) se esso corrisponde alla realtà. Ora, non
v’è chi non veda che né una donna che ha partorito un figlio, né un’altra donna che l’ha adottato
possono essere qualificate come «padre» di quel figlio e che, se questo tuttavia avviene, il dato è
ovviamente inesatto e viola la disposizione in commento. Disposizione, peraltro, che trova un
rafforzamento nel diritto di rettifica garantito dal successivo art. 16 R.G.P.D.
Ancora una volta, questo profilo di illegittimità del decreto ministeriale del 2019 non dipende
strettamente dalla sua natura di semplice atto amministrativo non regolamentare (di cui tra breve si
dirà): quand’anche, infatti, fosse la legge stessa a disporre l’obbligo di indicare i genitori come
«padre» e «madre», essa andrebbe a sua volta disapplicata, in applicazione della regola della
prevalenza del diritto eurounionale su quello nazionale (ed in difetto di alcun sacrificio di quei
principî supremi dell’ordinamento costituzionale e di quei diritti inalienabili che potrebbero fungere
da “controlimiti”).
Trasferendoci ora sul piano del diritto interno, si deve innanzitutto contestare l’affermazione
della difesa erariale secondo cui l’art. 3 T.U.L.P.S. non avrebbe attinenza con la materia del
presente giudizio («risponde ad una finalità diversa», ma non meglio specificata) e menzionerebbe
«in maniera atecnica la figura del genitore». Invero, l’oggetto dell’intero articolo è proprio il
rilascio delle carte d’identità, le loro tipologie, i dati che possono o debbono riportare, ecc. La sua
asserita estraneità alla materia (e la sua rispondenza ad un’ignota «finalità diversa») appare quindi
priva di riscontro ed è del resto platealmente smentita proprio dal fatto che tale disposizione è la
prima tra quelle espressamente richiamate nelle premesse del decreto ministeriale qui contestato.
Quanto all’affermazione secondo cui l’uso del termine «genitore» sarebbe, in quel contesto
“atecnico”, la sua apoditticità rende alquanto arduo contestarla mettendo in discussione argomenti
inesistenti o comunque non esplicitati, e non lascia altra via se non quella di adottare un analogo
atteggiamento affermando, semplicemente, che essa non è vera; si può solo aggiungere che, quando
si vuol sostenere che il legislatore ha fatto cattivo uso di un termine, o comunque lo ha adoperato in
modo difforme «dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» (primo criterio
d’interpretazione della legge secondo l’art. 12 DISP. PREL. C.C.) è buona norma diffondersi
alquanto per giustificare una tale eccentrica tesi.
La “motivazione” delle modifiche apportate dal decreto ministeriale del 2019 al D.M. del
23/12/2015 (quart’ultimo paragrafo delle premesse), fa leva sulla necessità di «adeguarlo [il decreto
oggetto delle modifiche] alla normativa dello stato civile, in particolare per quanto attiene alla
qualificazione dei soggetti legittimati a presentare agli ufficiali d’anagrafe la richiesta di emissione
del documento elettronico in favore di minori d’età, in un contesto di complessiva coerenza
nell’esercizio delle funzioni governative delegate».
Tralasciando di tentare una perigliosa interpretazione del «contesto di complessiva coerenza
nell’esercizio delle funzioni governative delegate» (concetto di ardua definizione, in difetto di
qualsiasi indicazione sul perimetro dell’invocata «coerenza» e sulle fonti dalle quali esso sarebbe
tracciato), osserva innanzitutto il Tribunale che la normativa dello stato civile è assai più risalente
del decreto del 2015 e da allora non è radicalmente cambiata: non si comprende, quindi, quale
impellente necessità imponesse di modificare, nel 2019, il decreto esistente.
Comunque, le modifiche al decreto del Ministro dell’interno del 2015, introdotte dal D.M. del
2019:
– non sono coerenti con, ma anzi si discostano dal, dettato del già citato art. 3 T.U.L.P.S.;
– non sono utili ad assicurare una coerenza necessaria con l’art. 17 D.P.R. n° 396/2000, il quale si
riferisce al padre ed alla madre, o agli avi paterni o materni, al solo limitato fine di individuare i
possibili uffici territorialmente competenti a ricevere le comunicazioni dell’autorità diplomatica o
consolare; la disposizione non prende in considerazione l’ipotesi che il soggetto possa avere due
madri o due padri, perché ciò sarebbe ininfluente ai fini della sua applicazione (ci sarà comunque
almeno uno dei due soggetti che corrisponde alla qualifica); anche in questo senso, si deve quindi
escludere, ai fini della deroga al disposto dell’art. 8 CEDU, la necessità e proporzionalità
dell’ingerenza e, sotto il profilo della corretta applicazione dei principî regolatori del trattamento
dei dati personali, il rispetto del principio di minimalizzazione dei dati;
– non sono coerenti con, ma anzi si discostano dal, linguaggio adoperato dall’art. 30 D.P.R. n°
396/2000, che parla ripetutamente dei «genitori» o di «uno dei genitori», o di «uno di essi»;
peraltro, la disposizione riguarda la dichiarazione di nascita, cioè un atto che si forma
nell’immediatezza della nascita, fenomeno che presuppone necessariamente l’esistenza di una
«madre» partoriente: in questo particolare contesto, gli sporadici riferimenti alla «madre», limitati
alla risoluzione di particolari situazioni (residenze separate dei genitori, mancanza di accordo fra
di essi), sono giustificati dalla tirannia della realtà e non implicano affatto che, sui documenti
d’identità del nato, debba poi essere specificato (peraltro in modo difforme dal vero) il ruolo
sessualmente determinato di ciascun genitore;
– non sono coerenti con, ma anzi si discostano dal, linguaggio adoperato dall’art. 33 D.P.R. n°
396/2000, che usa il termine «genitore» o «genitori»;
– non hanno alcuna attinenza con il successivo art. 34, c. 1, che riguarda i divieti di attribuzione di
determinati nomi al figlio; il riferimento al nome del «padre vivente», di cui è vietato imporre il
nome al figlio, può bensì rivelare una differenza di trattamento tra padre e madre, e tra figli maschi
(che non possono chiamarsi come il padre, pena l’irriducibile confusione tra due soggetti aventi lo
stesso nome e lo stesso cognome) e figlie femmine (che invece possono chiamarsi come la madre,
perché quella confusione non può verificarsi: ma anche questa ipotesi andrà, de jure condendo,
riesaminata alla luce della sentenza della Corte costituzionale); di certo, tale riferimento non ha
alcun rapporto con la pretesa necessità di indicare, nei documenti di un minore, una donna come
«padre» (o un uomo come «madre») e, ancora una volta, vengono così travalicati i confini della
necessità e proporzionalità (art. 8 CEDU) e della minimizzazione ed esattezza dei dati (art. 5
R.G.P.D.).
Per quanto riguarda l’art. 1, c. 20, L. n° 76/2016, è agevole osservare:
a) che esso si riferisce all’estensione semantica del termine «coniuge» ai partners registrati dello
stesso sesso: non ha quindi alcuna attinenza con le indicazioni da iscrivere sui documenti
d’identità dei minori;
b) che la sua dichiarata inapplicabilità agli articoli del codice civile non espressamente
menzionati non incide in nulla sulla risoluzione della presente controversia, giacché significa
semplicemente che in tali articoli non opera la predetta estensione semantica; e comunque non
vi sono articoli del codice che impongano l’indicazione di «padre» e «madre» sulla carta
d’identità di un minore;
c) che altrettanto deve dirsi per quanto riguarda la legge n° 184/1983: l’inapplicabilità
dell’estensione semantica di cui sopra non incide per nulla sulla possibilità (ribadita dal
periodo successivo della disposizione legislativa) di applicare all’adottante le norme già
vigenti nella materia (come ha fatto il Tribunale dei minorenni di Roma) e di far conseguire a
tale applicazione la creazione di un legame giuridico di filiazione anche con una persona unita
da un legame omosessuale con il genitore “naturale” del figlio; e soprattutto non implica in
alcun modo che il genitore adottante (o anche, eventualmente, quello “naturale”) debba
assumere, nei documenti d’identità del minore, una qualifica palesemente contrastante con la
sua identità sessuale e di genere e con la manifesta realtà dei fatti.
Non è poi superfluo osservare che neppure la sentenza della Corte di cassazione citata dalla
difesa erariale (Cass. n° 12193/19) giova a sostenere le ragioni della parte resistente. Al netto dello
stupore che si può provare nello scoprire che «l’istituto dell’adozione» si annovera tra i «valori
fondamentali», al pari della «dignità umana della gestante», la condivisibile decisione dei giudici di
legittimità, dopo aver escluso che si possa conferire efficacia nell’ordinamento italiano ad un
provvedimento straniero che accerta un rapporto di filiazione originato da un procedimento di
procreazione assistita espressamente vietato, ha poi subito riconosciuto che tale rapporto può però
essere costituito ex novo, con piena validità ed efficacia nel nostro ordinamento, mediante altri
istituti: per l’appunto, mediante l’adozione ex art. 44, c. 1, lettera d), L. n° 184/1983. Onde si trae il
principio che, con l’adozione, si costituisce una relazione genitoriale che non dev’essere
stigmatizzata e mortificata dall’attribuzione, in ipotesi al genitore adottante (ma evidentemente ciò
varrebbe ugualmente per il genitore “naturale”), di un ruolo parentale in contrasto con la sua
identità sessuale e di genere. E, al tempo stesso, che anche la situazione familiare del minore, così
come costituitasi per effetto dell’adozione, non dev’essere stigmatizzata con l’indicazione, sul suo
documento d’identità, di una “genealogia formale” difforme dalla realtà.
Peraltro, per chiudere un ormai troppo lungo discorso su una questione la cui soluzione
dovrebbe risultare di immediata percezione, gioverà ricordare che la carta d’identità è un
documento con valore certificativo, destinato a provare l’identità personale del titolare, che deve
rappresentare in modo esatto quanto risulta dagli atti dello stato civile di cui certifica il contenuto.
Ora, un documento che, sulla base di un atto di nascita dal quale risulta che una minore è figlia di
una determinata donna ed è stata adottata da un’altra donna ex art. 44, c. 1, lett. d), L. n° 184/1983,
indichi una delle due donne come «padre», contiene una rappresentazione alterata, e perciò falsa,
della realtà ed integra gli estremi materiali del reato di falso ideologico commesso dal pubblico
ufficiale in atto pubblico (artt. 479 e 480 C.P.). Si deve quindi dissentire dalla tesi esposta nella nota
del Ministero dell’interno, citata in precedenza, relativa alla possibilità tecnica di modificare il
programma informatico di emissione delle carte e, però, alle connesse difficoltà di ordine giuridico,
in particolare in caso di controlli da parte delle forze dell’ordine. Invero, è proprio l’attuale
conformazione della C.I.E., che, indicando una donna come «padre» della minore, potrebbe
suscitare dubbi e conseguenti difficoltà, non soltanto ai controlli di frontiera, ma persino ad un
normale controllo di polizia in Italia, nel corso del quale l’agente non potrebbe che costatare una
discrepanza evidente tra la realtà sotto i suoi occhi e le risultanze del documento.
Infine, rileva il Tribunale che al decreto del Ministro dell’interno del 31/01/2019, così come
a quello del 23/12/2015 da esso modificato, la legge assegnava la limitata funzione di definire «le
caratteristiche tecniche, le modalità di produzione, di emissione, di rilascio della carta d’identità
elettronica» (art. 7 vicies-ter, c. 2 bis, D.L. n° 7/2005, convertito in legge, con modificazioni, dalla
L.n° 43/2005, come modificato dall’art. 10, c. 3, D.L. n° 78/2015, convertito in legge, con
modificazioni, dalla L. n° 125/2015). In nessun modo l’attribuzione di una tale limitata funzione
poteva legittimare l’imposizione di modalità di elaborazione del software tali da incidere –
mediante l’escamotage di un’istruzione apparentemente tecnica – su aspetti coperti da norme di
grado costituzionale, primario o sub-primario.
Il decreto del Ministro dell’interno del 31/1/2019 – oltre a violare l’innumerevole elenco di
principî e diritti di fonte costituzionale ed internazionale di cui si è sino a qui discusso – è (last but
not least) viziato da un evidente eccesso di potere.
Esso va quindi disapplicato, ed il ricorso dev’essere accolto.
Le ricorrenti, nelle loro conclusioni, propongono l’alternativa tra l’indicazione, in
corrispondenza dei nomi di E. X. e S. Y., della doppia dicitura “madre” e “madre”, ovvero della
dicitura neutra “genitore”.
Opina il Tribunale che questa seconda opzione sia la più idonea a soddisfare il legittimo
interesse delle ricorrenti bilanciandolo con l’esigenza – ben evidenziata nel già citato parere del
31/10/2018 del Garante per la protezione dei dati personali, di cui si è discorso in precedenza – di
rispettare i criteri di minimizzazione e di necessità del trattamento dei dati personali, imposti dal
R.G.P.D., giacché è la funzione genitoriale esercitata nei confronti della minore che deve emergere
dal documento, e che costituisce il fondamento legittimante il trattamento, e non l’indicazione
specifica del ruolo parentale specifico sessualmente caratterizzato.
In conclusione, il Ministro dell’interno – e per esso il Sindaco di Roma Capitale, quale
ufficiale del Governo – è tenuto ad indicare (apportando al software e/o dell’hardware predisposto
per la richiesta, la compilazione, l’emissione e la stampa delle carte d’identità elettroniche le
modifiche che si rendessero all’uopo necessarie) le qualifiche “neutre” di «genitore» in
corrispondenza dei nomi delle ricorrenti E. X. (PRIMA RICORRENTE) e S. Y. (SECONDA
RICORRENTE ) sulla C.I.E. della minore G. Y.X. (TERZA RICORRENTE).
In considerazione della novità delle questioni trattate, si ritiene equo compensare integralmente le
spese tra tutte le parti.
P.Q.M.
il Tribunale accoglie parzialmente il ricorso e per l’effetto:
– dichiara il difetto di legittimazione passiva di ROMA CAPITALE;
– disapplica il decreto del Ministro dell’interno del 31/01/2019 perché illegittimo;
– ordina al Ministro dell’interno, e per esso al Sindaco di Roma Capitale quale ufficiale del
Governo, di indicare, sulla carta d’identità elettronica della minore M.
M.G., in corrispondenza dei nomi di M.E. e di M. S., la qualifica neutra di «genitore», previa, ove
necessario, ogni opportuna modifica tecnica del software e dell’hardware destinato alla richiesta, la
compilazione, l’emissione e la stampa delle carte d’identità elettroniche;
– compensa le spese;
– ordina l’oscuramento dei dati identificativi delle parti ricorrenti in caso di diffusione
della presente ordinanza, ai sensi dell’art. 52 D.LGS. n° 196/2003.