La riconciliazione, quale causa estintiva degli effetti della separazione, è eccezione in senso proprio il cui accertamento è precluso dalla morte del coniuge

Cass. civ. Sez. II, 23 gennaio 2018, n. 1630
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1648-2014 proposto da:
R.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G.MERCALLI 11, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO TAGLIALATELA, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
C.E., S.M.G., S.S.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 9632/2012 del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 07/09/2012;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/12/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
R.F. ha proposto ricorso articolato in quattro motivi avverso la sentenza del Tribunale di Napoli n. 9632/2012 del 2 febbraio 2012, essendo stata dichiarata l’inammissibilità dell’appello a normadell’art. 348-bis c.p.c.edell’art. 348-ter c.p.c.con ordinanza della Corte d’Appello di Napoli del 16 ottobre 2013, comunicata in pari data.
Sono rimasti intimati, senza svolgere attività difensive, C.E., S.M.G. e S.S..
Con citazione del 25 marzo 2011, R.F. convenne C.E., S.M.G. e S.S., deducendo di aver contratto matrimonio religioso ad effetti civili in data 25 ottobre 1970 con il de cuius S.C., deceduto il (OMISSIS), e che il rapporto matrimoniale si fosse di fatto protratto nonostante la crisi coniugale determinatasi negli anni novanta. Allegando, pertanto, la propria qualità di erede legittimaria, R.F. domandò la declaratoria di invalidità del testamento olografo del (OMISSIS), con cui S.C. aveva istituito suoi eredi universali i nipoti S.M.G. e S.S., e chiese di accertare la simulazione di una compravendita del (OMISSIS), intercorsa tra lo stesso S.C. ed C.E.. S.M.G., unica convenuta costituitasi, oppose tuttavia che R.F. fosse priva di legittimazione, essendosi separata con reciproco addebito di colpa da S.C. in forza di sentenza n. 6912/1974 del 15 marzo 1974. L’adito Tribunale di Napoli rigettò le domande di R.F., alla lucedell’art. 584 c.c., comma 2, e superò anche la deduzione operata dall’attrice nella memoria scritta del 5 ottobre 2011, depositata ai sensidell’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, secondo cui la separazione coniugale era il frutto di simulazione. In particolare, osservò il Tribunale che tale dedotta simulazione fosse contrastata dal giudicato formatosi e dalla cessazione della convivenza tra i coniugi che conseguì alla separazione, risultando peraltro inammissibile per genericità e per la novità dell’allegazione di fatto la prova per testi dedotta dalla R. nella memoria del 3 novembre 2011, volta a dimostrare che i coniugi avessero mantenuto, pur dopo la separazione, “ordinari rapporti di natura coniugale nonché una indefessa comunione di intenti e di spirito”.
Il primo motivo del ricorso di R.F., che è rubricato “error in procedendo”, ipotizza poi nella parte espositiva la violazione degliartt. 163 c.p.c.e ss. ed assume la nullità della sentenza per aver il Tribunale ritenuto intempestiva la deduzione dell’avvenuta ricostituzione del vincolo coniugale dopo la separazione, avendo l’attrice già in citazione allegato le circostanze del “protrarsi”, “conservarsi” e “rinnovarsi” del rapporto matrimoniale. Si ribadisce la decisività dei capitoli di prova articolati nella memoria istruttoria.
Anche il secondo motivo di ricorso è rubricato “error in procedendo”, e denuncia la nullità dell’ordinanza istruttoria del 30 gennaio 2012 di rigetto delle deduzioni istruttorie, per mancanza di motivazione.
Il terzo motivo è rubricato “violazione di legge in materia di ammissibilità della prova”, e contesta la valutazione di “genericità” dei capitoli di prova formulati nella memoria exart. 183 c.p.c., comma 6, n. 2, del 3 novembre 2011.
Il quarto motivo del ricorso di R.F. censura, infine, la violazionedell’art. 157 c.c., avendo il Tribunale erroneamente ritenuto che solo la ripresa della coabitazione avrebbe comportato la cessazione degli effetti della separazione.
I quattro motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, in quanto logicamente connessi, e si rivelano infondati.
Come allega la stessa ricorrente, riproducendone pedissequamente il contenuto nel ricorso, la citazione introduttiva non faceva alcun riferimento alla separazione coniugale intervenuta nel (OMISSIS) tra i coniugi R.F. e S.C., con reciproco addebito. L’attrice espose piuttosto in citazione di un rapporto matrimoniale “protratto”, “conservato” e “rinnovato” nonostante la cessazione della coabitazione impostale dal 1995 per i dissapori con la famiglia S., ma non dedusse ancora alcunché nell’ atto introduttivo della lite circa la “cessazione degli effetti civili della separazione”, proprio perché non introdusse nel giudizio in origine il tema della intervenuta separazione coniugale. La questione della riconciliazione fu poi allegata dall’attrice soltanto nel verbale di udienza del 21 luglio 2011 in risposta alle difese della convenuta costituitasi.
L’esistenza di quella sentenza di separazione con addebito reciproco del (OMISSIS), abbondantemente passata in giudicato al momento dell’apertura della successione di S.C., si è rivelata decisiva per negare la sussistenza dei diritti successori del coniuge superstite, tenuto conto dell’incidenza di tale addebitabilità sugli indicati diritti, a norma degliartt. 548 e 585 c.c.La ricorrente assume ora di aver dedotto già appunto all’udienza del 21 luglio 2011 l’inefficacia della separazione determinata da “riconciliazione protratta” e dalla “ricostituzione della comunione familiare”, allegazione confermata nei capitoli della prova per testi respinta, ove si discuteva di “ordinari rapporti di natura coniugale nonché una indefessa comunione di intenti e di spirito”, “ricostituita comunione affettiva, materiale e spirituale”, “frequenti incontri”, e condivisione di luoghi di lavoro e di culto.
Il Tribunale ha affermato che non fosse stata comunque specificamente formulata dall’attrice R. una deduzione dell’avvenuta riconciliazione dei coniugi, successiva alla sentenza di separazione del (OMISSIS), istituto che, invero, sia nel vigore della precedente disciplina degliartt. 157 e 158 c.c., che secondo la formulazione di queste norme risultante a seguito della riforma del diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975, n. 151,artt.39e40), determina la cessazione degli effetti della separazione. In forzadell’art. 157 c.c., tuttavia, gli effetti della separazione personale, in mancanza di una dichiarazione espressa di riconciliazione, cessano soltanto col fatto della coabitazione, la quale non può, quindi, ritenersi ripristinata per la sola sussistenza di ripetute occasioni di incontri e di frequentazioni tra i coniugi, ove le stesse non depongano per una reale e concreta ripresa delle relazioni materiali e spirituali costituenti manifestazione ed effetto della rinnovata società coniugale (cfr. Cass. Sez. 3, 26/08/2013, n. 19541; Cass. Sez. 1, 22/08/2006, n. 18220; Cass. Sez. 1, 28/05/1975, n. 2172). Correttamente provvedendo al giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, di interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e deduzioni delle parti, il Tribunale di Napoli concluse che R.F., in conseguenza delle eccezioni proposte dalla convenuta S.M.G., non avesse specificamente allegato l’avvenuta cessazione degli effetti della separazione, con correlata caducazione della sentenza a far data dal ripristino della convivenza spirituale e materiale, a tanto non valendo, peraltro, le generiche deduzioni inserite nel verbale dell’udienza del 21 luglio 2011. Come da questa Corte già sostenuto in una remota pronuncia, va qui riaffermato che l’avvenuta riconciliazione dei coniugi, quale causa estintiva degli effetti della separazione, concreta un’eccezione in senso proprio, che deve essere perciò formulata mediante una specifica deduzione, non essendo all’uopo sufficiente la generica istanza di rigetto della domanda o delle eccezioni proposte dall’altra parte (Cass. Sez. 1, 10/01/1974, n. 70).
Parimenti, non è sindacabile nel giudizio di cassazione, sotto il profilo della violazione di legge processuale, come dedotto dalla ricorrente, il giudizio sulla superfluità o genericità della prova testimoniale, involgendo esso una valutazione di fatto che può essere censurata soltanto se basata su erronei principi giuridici, ovvero su incongruenze di ordine logico ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (Cass. Sez. 2, 10/09/2004, n. 18222; Cass. Sez. 3, 16/11/1971, n. 3284). E’ coerente allora con l’individuato tema di causa la decisione del Tribunale di Napoli (da valutare in questa sede per come espressa nella sentenza impugnata, e non nell’ordinanza istruttoria del 30 gennaio 2012, la quale non ha contenuto decisorio e non è perciò immediatamente sindacabile con ricorso per cassazione) di ritenere comunque generica, ai fini delle circostanze rilevanti per la riconciliazione exart. 157 c.c., le prove articolate nella memoria del 3 novembre 2011.
Si consideri, da ultimo, che la morte di uno dei coniugi preclude ogni successiva pronuncia giudiziale attinente alla separazione personale, sia pure anche con riferimento alle istanze accessorie circa la regolamentazione dei rapporti patrimoniali attinenti alla cessazione della convivenza, restando salve le sole domande autonome che, ove già proposte nel giudizio di separazione, riguardino diritti e rapporti patrimoniali indipendenti dalla modificazione soggettiva dello status, già acquisiti al patrimonio dei coniugi, e nei quali subentrano gli eredi (cfr. Cass. Sez. 1, 20 novembre 2008, n. 27556; Cass. Sez. 1, 20/02/1984, n. 1199; Cass. Sez. 1, 12/05/1981, n. 3129).
Di tal che, la morte del coniuge S.C., avvenuta prima dell’inizio del presente giudizio, esclude comunque che possa più accertarsi l’avvenuta riconciliazione successiva alla sentenza di separazione con reciproco addebito, sia pure al fine di farne cessare gli effetti nell’interesse dalla coniuge R.F., la quale si professa erede del defunto ed intende far valere nel processo i suoi diritti di natura successoria.
Il ricorso va dunque rigettato. Non occorre regolare le spese del giudizio di legittimità, in quanto gli intimati non hanno svolto attività difensive.
Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater al testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13- dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Dopo la morte della madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, il figlio da diritto di conoscere le proprie origini biologiche

Cass. civ. Sez. VI – 1, 7 febbraio 2018, n. 3004
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7870-2017 proposto da:
G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCIANA GUERCI;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI TORINO;
– intimato –
avverso il decreto n. 43/17 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 23/01/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 05/12/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE.
Svolgimento del processo
G.A., essendo figlio adottivo, ha chiesto al Tribunale per i Minorenni di Torino di accedere alle informazioni riguardanti l’identità dei propri genitori biologici.
Il Tribunale, avendo accertato, all’esito delle indagini compiute, che il padre era ignoto, che la madre era deceduta e che, al momento del parto, aveva chiesto di non essere nominata, ha rigettato il ricorso, rilevando che la morte rendeva per il figlio impossibile accedere all’identità della madre, il cui l’interpello – previsto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 278 del 2013, al fine di consentirle di revocare la dichiarazione di non essere nominata – non era più possibile.
Il gravame di G. è stato rigettato dalla Corte d’appello di Torino, con sentenza del 23 gennaio 2017, la quale ha ritenuto che la presenza di una norma, come il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, comma 2, che consente l’acquisizione dei dati relativi alla propria nascita decorsi cento anni dalla data del parto, dimostra che nell’ottica del legislatore la possibilità di acquisire i dati relativi all’identità del proprio genitore prescinde dalla presenza in vita o dal sopravvenuto decesso dello stesso.
Avverso questa sentenza il G. ha proposto ricorso per cassazione, notificato al PG presso la Corte d’appello di Torino.
Motivi della decisione
Il ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, alla luce della citata sentenza della Corte costituzionale, e invocato l’applicazione del principio enunciato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 15024 del 2016.
Il ricorso è fondato, essendosi la sentenza impugnata consapevolmente discostata dal principio condivisibile, al quale si deve dare continuità, secondo cui, nel caso di cd. parto anonimo, sussiste il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all’identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine, previsto dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, comma 2, di cento anni dalla formazione del documento per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata. Una diversa soluzione determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto (Corte cost. n. 278 del 2013), nonché l’affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta (Cass. n. 15024 e 22838 del 2016).
Il ricorso va accolto con decisione nel merito, dovendosi autorizzare il ricorrente ad accedere alle informazioni relative all’identità della propria madre biologica.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso e, decidendo nel merito, autorizza G.A. ad accedere alle informazioni relative all’identità della propria madre biologica.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi

Nel giudizio di separazione dei coniugi (per i provvedimenti riguardanti i figli minori o incapaci) la mancata partecipazione del PM (non necessaria) è motivo di gravame non comportando la rimessione degli atti al primo giudice

Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 3638
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 14502/2016 R.G. proposto da:
L.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Marco Granese, con domicilio eletto in (OMISSIS), presso la Sig.ra D.A.A.;
– ricorrente –
contro
A.G. e PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI SALERNO;
– intimati –
avverso il decreto della Corte d’appello di Salerno depositato il 10 dicembre 2015.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 23 giugno 2017 dal Consigliere Guido Mercolino;
udito l’Avv. Marco Granese;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del quarto motivo di ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con decreto del 2 aprile 2015, il Tribunale di Salerno dispose, sulla base di un accordo intervenuto tra le parti all’udienza del 12 marzo 2015 ed a parziale modifica di un precedente accordo stipulato il (OMISSIS) 2009, l’affidamento condiviso della minore L.D., nata da una relazione more uxorio tra L.A. e A.G., con collocazione presso entrambi i genitori e determinazione dei tempi e delle modalità di permanenza presso ciascuno di essi, stabilendo che le parti avrebbero provveduto direttamente alle spese necessarie per il mantenimento della figlia.
2. Il reclamo proposto dalla A. è stato parzialmente accolto dalla Corte d’Appello di Salerno, che con decreto del 10 dicembre 2015 ha escluso la facoltà del L. di provvedere direttamente al mantenimento, ha posto a suo carico un assegno mensile di Euro 400,00, con decorrenza dal mese di dicembre 2015, oltre al 50% delle spese straordinarie necessarie per la minore, ed ha rimesso alle parti l’adeguamento degli accordi sulla base di quanto esposto in motivazione.
Premesso che la piccola D. era nata il (OMISSIS) da una relazione interrottasi nel mese di maggio 2009, e dato atto che il L., già divorziato e padre di due figli per il cui mantenimento corrispondeva un assegno mensile di Euro 1.300,00, intratteneva una relazione con un’altra donna, a volte chiamata a sostituirlo nella cura della figlia, mentre la A. aveva a sua volta contratto matrimonio, la Corte ha rilevato che entrambe le parti esercitavano libere professioni, aggiungendo che l’uomo era titolare di un reddito superiore a quello della donna, ma non eccessivamente discosto dallo stesso. Precisato inoltre che le parti avevano dimostrato interesse per la cura della figlia, i cui spostamenti tra la residenza paterna e quella materna, situate rispettivamente in (OMISSIS) e (OMISSIS), avevano ricadute negative in termini di stanchezza e frequentazioni sociali, ha affermato che la molteplicità degl’impegni lavorativi comportava una notevole limitazione del loro tempo libero personale. Ha ritenuto pertanto necessario preservare il diritto della minore di godere stabilmente di un proprio domicilio abituale, nonché individuare precisi periodi ed ore in cui il padre avrebbe potuto averla con sè, rimettendone alle parti la pratica attuazione, anche in considerazione dell’età della minore, che suggeriva la prevalente condivisione della convivenza con la madre.
3. Avverso il predetto decreto il L. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in sei motivi. La A. ed il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Salerno non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la nullità del procedimento e del decreto impugnato, per violazione e la falsa applicazione degli artt. 70, 71, 72, 101, 331 e 350 cod. proc. civ., osservando che il reclamo non è stato notificato al Pubblico Ministero presso il Tribunale, nei confronti del quale non è stata neppure disposta l’integrazione del contraddittorio, e gli atti non sono stati comunicati al Procuratore generale, il quale non è stato posto pertanto in condizione di esercitare i poteri attribuitigli dalla legge.
1.1. Il motivo è fondato.
La natura processuale del vizio lamentato consente di procedere all’esame diretto degli atti di causa, dal quale si evince che, tanto in primo grado quanto in appello, il procedimento si è svolto senza la partecipazione del Pubblico Ministero, nei confronti del quale non si è provveduto né alla notificazione del ricorso introduttivo e del reclamo, né alla comunicazione degli atti, in modo da consentirgli di intervenire in camera di consiglio o di rassegnare le proprie conclusioni per iscritto.
Com’è noto, le cause tra genitori non coniugati aventi ad oggetto provvedimenti relativi ai figli non rientravano originariamente tra quelle per le quali l’art. 70 cod. proc. civ. prevedeva l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero, prescritto invece per l’adozione dei provvedimenti riguardanti i figli legittimi sia in sede di separazione, ai sensi dell’art. 710 cod. proc. civ., nel testo risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 416 del 1992, sia in sede di divorzio, ai sensi della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9 come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 13. Tale lacuna è stata in seguito colmata dall’intervento della Corte costituzionale, che con sentenza n. 214 del 1996 dichiarò costituzionalmente illegittimo l’art. 70 cit., nella parte in cui non prescriveva il predetto intervento, osservando che l’art. 30 Cost., comma 3 postula che ai figli nati fuori dal matrimonio sia assicurata tutela eguale a quella attribuita ai figli legittimi, compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima, ed escludendo nella specie la sussistenza di ragioni ostative ad una siffatta equiparazione, avuto riguardo alla funzione dell’intervento in questione, consistente nella tutela degl’interessi dei figli. L’uguaglianza della tutela assicurata ai figli nati fuori del matrimonio ha poi trovato un esplicito riconoscimento nella recente L. 10 novembre 2012, n. 219, che nel completare la parificazione delle rispettive posizioni giuridiche ha disposto, all’art. 1, comma 1, la sostituzione della parola “figli” alle espressioni “figli legittimi” e “figli naturali”, ovunque esse ricorrano.
Peraltro, a differenza di quanto accade per il giudizio di divorzio, nel quale il Pubblico Ministero riveste la qualità di litisconsorte necessario quando si tratti di adottare provvedimenti riguardanti i figli minori o incapaci, e può impugnare la sentenza che lo conclude, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 5, (cfr. Cass., Sez. 1, 29/10/1998, n. 10803), nel giudizio di separazione ed in quelli aventi ad oggetto i figli di genitori non coniugati il Pubblico Ministero non assume la posizione di parte necessaria, dovendo intervenire ma senza poteri d’iniziativa e non potendo impugnare la sentenza neppure per la parte concernente gl’interessi dei figli minori (cfr. Cass., Sez. 1, 13/02/2013, n. 3502; 14/05/2002, n. 6965; 10/06/1998, n. 5756). La mancata partecipazione del Pubblico Ministero non comporta dunque una lesione del contraddittorio rilevabile in ogni stato e grado del giudizio e tale da giustificare la rimessione degli atti al primo giudice, ai sensi dell’art. 354 cod. proc. civ., ma, essendo l’intervento prescritto pur sempre a pena di nullità, rilevabile anche d’ufficio ai sensi dell’art. 70 cod. proc. civ., la mancata effettuazione degli adempimenti necessari per portare la pendenza del giudizio a sua conoscenza si traduce in un vizio che, convertendosi in motivo di gravame, ai sensi dell’art. 161 cod. proc. civ., può essere fatto valere attraverso l’impugnazione della sentenza.
2. Nella specie, pertanto, la mancata notificazione del ricorso introduttivo e la mancata comunicazione al Pubblico Ministero non comporta la rimessione degli atti al Giudice di primo grado, ma impone, in accoglimento della censura specificamente formulata dal ricorrente, la cassazione del decreto impugnato, con il conseguente assorbimento degli altri motivi d’impugnazione, riflettenti la violazione e la falsa applicazione dell’art. 347 c.p.c., comma 3 e dell’art. 123-bis disp. att. cod. proc. civ., dell’art. 316-bis c.c., art. 337-ter c.c., commi 2 e 4 e art. 2697 cod. civ., dell’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, dell’art. 24 della Carta di Nizza e dello art. 8, par. 1, della CEDU, nonché l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, in riferimento alla mancata acquisizione del fascicolo di primo grado ed all’omessa valutazione dell’accordo intervenuto tra le parti e dell’interesse superiore del minore, nonché all’esclusione della facoltà di provvedere direttamente al mantenimento della figlia ed ai criteri seguiti nella determinazione dell’assegno.
3. La causa va conseguentemente rinviata alla Corte d’appello di Salerno, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso; cassa il decreto impugnato; rinvia alla Corte di appello di Salerno, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di L.A., A.G. e L.D. riportati nella sentenza.

Il fondo patrimoniale determina un vincolo di destinazione sui beni in esso confluiti senza incidere sulla titolarità dei beni stessi, né creando diritti soggettivi in favore dei singoli componenti del nucleo familiare

Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 3641
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12190/2013 proposto da:
T.U., Z.R.A., elettivamente domiciliati in Roma, Viale Parioli n.47, presso lo studio dell’avvocato Corti Pio, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Granata Sergio, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Intesa San Paolo S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Pompeo Magno n.3, presso lo studio dell’avvocato Gianni Saverio, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Marelli Fausto, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 345/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 24/01/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/09/2017 dal cons. FALABELLA MASSIMO;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CAPASSO LUCIO che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. – Con atto di citazione notificato il 27 maggio 2004 San Paolo IMI s.p.a. proponeva, nei confronti di T.U. e Z.R.A., domanda revocatoria, ai sensi dell’art. 2901 c.c., con riguardo alla costituzione, da parte del primo dei nominati convenuti, di un fondo patrimoniale avente ad oggetto l’immobile di sua proprietà sito in (OMISSIS), in provincia di (OMISSIS). T. e Z. si costituivano in giudizio e in questo interveniva pure Italfondiario s.p.a., in qualità di procuratrice di Castello Finance s.r.l., la quale chiedeva che l’atto di costituzione del fondo patrimoniale venisse dichiarato inefficace anche nei confronti della propria mandante.
Il Tribunale di Varese negava che dovesse integrarsi il contraddittorio nei confronti di T.N. e F.M., figli dei convenuti e, nel merito, ritenuto che l’atto dispositivo impugnato costituisse una liberalità e che esso avesse arrecato un pregiudizio alle ragioni di credito dell’attrice, riducendo la garanzia patrimoniale cui questa poteva fare affidamento, accoglieva la domanda San Paolo Imi (non anche quella di Italfondiario, ma tale ultimo profilo in questa sede più non rileva).
2. – In sede di gravame la Corte di appello di Milano, con sentenza del 24 gennaio 2013 rigettava l’impugnazione proposta dai coniugi T.: in particolare il giudice distrettuale escludeva dovesse farsi luogo ad integrazione del contraddittorio nei confronti dei figli degli attori e riteneva suscettibile di revocatoria l’atto costitutivo di beni in fondo patrimoniale.
3. – La pronuncia è oggetto del ricorso per cassazione proposto da T.U. e da Z.R.A., il quale è affidato a due motivi. Resiste con controricorso Intesa Sanpaolo s.p.a., società nata dalla fusione per incorporazione di San Paolo IMI e Banca Intesa.
Il pubblico ministero ha rassegnato conclusioni scritte a norma dell’art. 380 bis c.p.c., comma 1, domandando il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1. – Il primo motivo lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 101 c.p.c. e conseguente nullità della sentenza o del procedimento. La censura investe la statuizione nella sentenza impugnata che ha escluso l’integrazione del contraddittorio: sul punto, assumono i ricorrenti che ai figli dei soggetti che hanno costituito un fondo patrimoniale sarebbe attribuita legittimazione attiva quantomeno con riguardo alle azioni volte alla salvaguardia dei beni del fondo.
1.1. – Il motivo non merita accoglimento.
Va data continuità al principio per cui la costituzione del fondo patrimoniale determina soltanto un vincolo di destinazione sui beni confluiti nel fondo stesso, affinché, con i loro frutti, sia assicurato il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, ma non incide sulla titolarità dei beni in questione, né implica l’insorgere di una posizione di diritto soggettivo in favore dei singoli componenti del nucleo familiare, neppure con riguardo ai vincoli di disponibilità (Cass. 15 maggio 2014, n. 10641; Cass. 29 novembre 2000, n. 15297): in conseguenza, i figli del debitore non sono litisconsorti necessari nel giudizio promosso dal creditore per sentire dichiarare l’inefficacia dell’atto con il quale il primo abbia costituito alcuni beni di sua proprietà in fondo patrimoniale (cfr. sul punto le sentenze citate, con particolare riferimento all’ipotesi dei figli minori; in tema, cfr. pure Cass. 17 marzo 2004, n. 5402, secondo cui i figli dei coniugi che hanno proceduto alla costituzione di un fondo patrimoniale non sono parte necessaria nel giudizio, promosso dal creditore con azione revocatoria, diretto a far valere l’inefficacia di tale costituzione, giacché il fondo patrimoniale non viene costituito a beneficio dei figli, ma per far fronte ai bisogni della famiglia, com’è confermato dal fatto che esso cessa con l’annullamento, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio a norma dell’art. 171 c.c.).
2. – Col secondo motivo è denunciata violazione o falsa applicazione degli artt. 2901 e 167 c.c.. Assumono gli istanti che l’atto tra vivi di costituzione di beni in fondo patrimoniale vada compreso tra gli atti soggetti a revocatoria quando, oltre alla destinazione dei beni al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, con la creazione di un patrimonio separato, l’operazione comporti anche il trasferimento dei beni dal terzo ai coniugi o da un coniuge all’altro; insuscettibili di formare oggetto dell’actio pauliana risulterebbe essere, invece, gli atti di destinazione che non si traducano in trasferimenti di beni o ricchezza. Nella fattispecie, mancando un atto di acquisto non sarebbe del resto possibile la qualificazione dell’operazione in termini di onerosità o di gratuità del titolo. Peraltro, la gratuità dell’atto, nel caso in esame, dovrebbe escludersi: infatti il fondo patrimoniale era stato costituito in attuazione del dovere di contribuzione ai bisogni familiari, e più specificamente al bisogno primario essenziale di garantire un’abitazione alla famiglia. In altri termini, il fondo patrimoniale rappresenterebbe, nella presente circostanza, la concreta modalità per garantire il sostentamento familiare e il perseguimento degli obiettivi di crescita morale e culturale della famiglia stessa; la costituzione di esso dovrebbe quindi considerarsi atto solutorio e non già mera liberalità.
2.1. – Nemmeno tale censura è fondata.
Pure sul punto la giurisprudenza di legittimità è consolidata e il Collegio non ha motivo di discostarsene. Infatti, l’atto di costituzione del fondo patrimoniale, anche se compiuto da entrambi i coniugi, è un atto a titolo gratuito, soggetto ad azione revocatoria ai sensi dell’art. 2901 c.c., comma 1, n. 1, (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2530; sempre sulla esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale: Cass. 18 ottobre 2011, n. 21492; Cass. 7 ottobre 2008, n. 24757; nel senso che, in tema di revocatoria ordinaria del negozio costitutivo del fondo patrimoniale, la gratuità dell’atto fonda la sua dichiarazione di inefficacia ai sensi dell’art. 2901 c.c. se sussiste la mera conoscenza del pregiudizio arrecato ai creditori: Cass. 8 agosto 2007, n. 17418; in materia di revocatoria fallimentare dell’atto istitutivo del fondo: Cass. 8 agosto 2013, n. 19029; Cass. 23 marzo 2005, n. 6267; Cass. 8 settembre 2004, n. 18065; Cass. 20 giugno 2000, n. 8379). Va qui considerato che la costituzione del fondo patrimoniale per fronteggiare i bisogni della famiglia non integra, di per sé, l’adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti.
3. – Il ricorso è quindi respinto.
4. – Segue, in base al principio di soccombenza, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidandole in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Anche nella fase della quantificazione dell’assegno divorzile si farà riferimento al parametro dell’autosufficienza economica

Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 3015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17398-2016 proposto da:
S.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARONCINI n. 6, presso lo studio dell’avvocato GENNARO CONTARDI, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
P.V.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GASPERINA 188, presso lo studio degli avvocati RENE’ VERRECCHIA, e VALERIA SILLA che unitamente e disgiuntamente lo rappresentano e difendono;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3486/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 05/06/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/10/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 5 giugno 2016, ha rigettato il gravame principale di S.A. avverso la sentenza del Tribunale di Roma che aveva revocato l’assegnazione a suo favore della casa coniugale e rigettato la sua domanda di aumentare rassegno divorzile, posto a carico dell’ex coniuge P.V.C., da Euro 800,00 a Euro 3.800,00 o, in caso di mancata assegnazione della casa coniugale, a Euro 5.800,00; ha rigettato il gravame incidentale di P.V. che aveva chiesto l’eliminazione dell’assegno.
La Corte ha rigettato la domanda del P. di eliminazione dell’assegno divorzile; ha poi ritenuto che la S. non avesse diritto all’assegnazione della casa coniugale, poiché l’unico figlio della coppia era maggiorenne e dimorava presso il padre, né all’integrazione dell’assegno, essendo proprietaria di un appartamento, da cui percepiva un canone di locazione, e di un terreno, oltre a beneficiare di un reddito per un’attività lavorativa svolta in una società.
Avverso questa sentenza la S. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi; il P.V. ha resistito con controricorso. Le parti hanno presentato memorie.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 187 c.p.c., poiché la Corte di merito non aveva ammesso una prova testimoniale, a suo avviso, rilevante ai fini di una congrua determinazione dell’assegno divorzile.
Il motivo è inammissibile. Esso non contiene la trascrizione dei capitoli di prova né l’indicazione dei testi e delle ragioni per le quali essi sarebbero stati qualificati a testimoniare, né della tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione nel giudizio di merito, elementi necessari al fine di consentire a questa Corte di valutare la decisività del mezzo istruttorio richiesto (Cass. n. 9748/2010).
Con il secondo, la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost. e L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 6 poiché la revoca dell’assegnazione della casa coniugale (assegnata invece alla S. nel giudizio di separazione) potrebbe aggravare le sue condizioni di salute, in quanto affetta da crisi ansioso-depressiva a seguito dell’abbandono del marito.
Il motivo è inammissibile, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, avendo la sentenza impugnata fatto corretta applicazione del principio – già desumibile, in sede di divorzio, dalla L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, e, in sede di separazione, dai previgenti artt. 155 e, poi, 155 quater c.c. (introdotto dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54) ed ora 337 sexies c.c. (introdotto dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 55) – secondo cui il provvedimento di assegnazione della casa coniugale è subordinato alla presenza di figli, minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, conviventi con i genitori: tale ratio protettiva, che tutela l’interesse dei figli a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti, non è configurabile in presenza di figli economicamente autosufficienti, sebbene ancora conviventi, verso cui non sussiste alcuna esigenza di speciale protezione (Cass. n. 25010/2007 in ambito divorzile; Cass. 21334/2013 in sede di separazione).
Con il terzo motivo, è denunciata violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5 e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, non avendo la sentenza impugnata considerato che l’integrazione dell’assegno era necessaria per consentire alla S. di conservare il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Il motivo è infondato.
Si deve premettere che sulla debenza dell’assegno divorzile è calato il giudicato, essendo la sentenza impugnata stata censurata soltanto dalla S., che ha chiesto l’aumento dell’assegno posto dal primo giudice a carico del P.V..
Il giudizio relativo al quantum debeatur, logicamente e giuridicamente successivo a quello positivo sull’an debeatur (Cass. n. 11504 del 2017), è stato compiuto dai giudici di merito con un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, che ha fatto applicazione dei principali criteri di quantificazione dell’assegno indicati nel vigente testo della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, (durata del matrimonio, condizioni reddituali delle parti, contributo dato da ciascuno alla conduzione familiare).
La Corte di merito ha confermato l’importo dell’assegno, che il primo giudice aveva determinato, tenendo conto della breve durata della convivenza matrimoniale (circa sei anni) e delle condizioni personali ed economiche della S., persona abilitata all’esercizio della professione forense e proprietaria di un terreno e di un appartamento da cui percepiva (all’epoca della separazione) un canone di locazione. La sentenza impugnata ha riferito delle libere scelte di vita della S. di rinunciare a una carriera promettente, di accettare un posto di lavoro part-time e poi di dimettersi dal lavoro all’età di quarantasei anni, senza che vi fosse prova di alcuna costrizione al riguardo né di tentativi di riprendere l’attività lavorativa, come precisato dai giudici di merito con un apprezzamento di fatto non specificamente censurato. Il criterio del “contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio personale di ciascun coniuge e di quello comune”, indicato nella L. del 1970, art. 5, comma 6, ai fini della quantificazione (e non dell’attribuzione) dell’assegno, costituisce pur sempre oggetto di prova nel giudizio, seppure in via presuntiva, di cui è onerata la parte che richiede l’assegno.
La conservazione del tenore di vita matrimoniale, richiamato dalla ricorrente a sostegno della richiesta di quantificazione dell’assegno in misura superiore a quella riconosciutale, non costituisce più un parametro di riferimento utilizzabile né ai fini del giudizio sull’an debeatur né di quello sul quantum debeatur, la cui determinazione è finalizzata a consentire all’ex coniuge il raggiungimento dell’indipendenza economica (Cass. nn. 11504, 15481, 23602, 20525, 25327 del 2017).
A giustificare l’attribuzione dell’assegno non è, quindi, di per sé, lo squilibrio o il divario tra le condizioni reddituali delle parti, all’epoca del divorzio, né il peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente l’assegno rispetto alla situazione (o al tenore) di vita matrimoniale, ma la mancanza della “indipendenza o autosufficienza economica” di uno dei coniugi, intesa come impossibilità di condurre con i propri mezzi un’esistenza economicamente autonoma e dignitosa.
Quest’ultimo parametro va apprezzato con la necessaria elasticità e l’opportuna considerazione dei bisogni del richiedente l’assegno, considerato come persona singola e non come ex coniuge, ma pur sempre inserita nel contesto sociale. Per determinare la soglia dell’indipendenza economica occorrerà avere riguardo alle indicazioni provenienti, nel momento storico determinato, dalla coscienza collettiva e, dunque, né bloccata alla soglia della pura sopravvivenza né eccedente il livello della normalità, quale, nei casi singoli, da questa coscienza configurata e di cui il giudice deve farsi interprete, ad essa rapportando, senza fughe, le proprie scelte valutative, in un ambito necessariamente duttile, ma non arbitrariamente dilatabile. È questa una valutazione di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione nei ristretti limiti in cui lo consente il novellato art. 360 c.p.c., n. 5.
Con il quarto motivo è denunciata violazione e falsa applicazione del D.P.R. 3 maggio 2002, n. 115, poiché la sentenza aveva posto a carico di entrambe le parti soccombenti il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, mentre tale versamento non discende dal mero rigetto dell’impugnazione, ma dalla manifesta infondatezza della domanda e dalla mala fede della parte impugnante.
E’ inammissibile il motivo di ricorso per cassazione, come quello in esame, avverso le statuizioni della sentenza di appello che abbiano dato atto della sussistenza o insussistenza dei presupposti per l’erogazione, da parte del soccombente, di un importo pari a quello corrisposto per il contributo unificato, in quanto tale rilevamento, essendo un atto dovuto collegato al fatto oggettivo delle definizione del giudizio in senso sfavorevole all’impugnante, non ha un contenuto decisorio suscettibile di impugnazione, sicché l’eventuale erroneità dell’indicazione sul punto potrà essere solo segnalata in sede di riscossione (Cass. n. 22867 del 2016).
In conclusione, il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alte spese, liquidate in Euro 2100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi.
Doppio contributo a carico della ricorrente come per legge. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

E’ preminente la tutela del minore e della salvaguardia dei rapporti familiari sull’interesse dello Stato all’esecuzione in forma carceraria della sanzione penale

Cass. pen. Sez. I – 6, 6 febbraio 2018, n. 5500
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.A., N. IL (OMISSIS);
avverso l’ordinanza n. 1280/2015 TRIB. SORVEGLIANZA di SALERNO, del 30/03/2016;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ROSA ANNA SARACENO;
Lette le conclusioni del P.G., dott. Marilia Di Nardo, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con la decisione in epigrafe indicata il Tribunale di sorveglianza di Salerno respingeva le richieste formulate da C.A. di affidamento in prova al servizio sociale o, in subordine, di detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47 ter, comma 1, lett. a), ord. pen., quale madre di prole di età inferiore ad anni dieci.
Il Tribunale argomentava il rigetto dalla personalità della condannata, gravata da precedenti penali, destinataria di avviso orale, rilevando che la stessa aveva continuato a delinquere anche dopo aver fruito in passato delle misure alternative dell’affidamento in prova e della detenzione domiciliare e, che, da ultimo, in data 5.2.2015 era stata denunziata per aver partecipato ad una rissa.
2. Avverso tale ordinanza la C. ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, denunciando violazione di legge in relazione all’art. 47 ter, comma 1, lett. a), ord. pen. e difetto di motivazione.
Si duole che il Tribunale abbia rigettato l’istanza sulla base di un’erronea interpretazione delle norme disciplinanti la detenzione domiciliare, limitando il proprio vaglio alla sola pericolosità dell’istante, ma di fatto ignorando la documentata condizione personale e familiare della C., madre di nove figli, di cui gli ultimi due minori di anni dieci, uno dei quali con problemi di salute. Si evidenzia, altresì, che nella formulazione della prognosi di pericolosità non era stata considerata l’epoca dell’ultimo reato, risalente all’anno 2012, né era stata apprezzata l’assenza di condanne e carichi pendenti per il reato di evasione tali da giustificare un giudizio di inadeguatezza della misura al contenimento e alla prevenzione del rischio di recidiva.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato.
1. La detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter, comma 1, lett. a) ord. pen. è istituto teso alla tutela di interessi costituzionalmente garantiti, quali la protezione della maternità, dell’infanzia e del rapporto tra figlio-genitore in una fase delicata dello sviluppo psico-fisico del minore. Molteplici sono stati nel corso degli anni gli interventi in materia della Corte costituzionale che ha ribadito la preminenza della tutela del minore e della salvaguardia dei rapporti familiari sull’interesse dello Stato all’esecuzione in forma carceraria della sanzione penale (da Corte cost. n. 215 del 1990 che ha eliminato la preclusione per il figlio di ricevere assistenza dal padre detenuto quando la madre si trovi nell’assoluta impossibilità di provvedervi, sino a Corte cost. n. 239 del 2014 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, ord. pen. nella parte in cui esclude dal divieto di concessione dei benefici l’art. 47 ter, comma 1, lett. a), ord. pen.). Il diniego del beneficio fondato sulla pericolosità sociale è senza dubbio consentito nella misura in cui, nella tutela degli interessi cui mira tale istituto, deve comunque essere rispettata la condizione della sussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori reati; va, dunque, operato un bilanciamento tra il diritto all’affettività del minore e le istanze di difesa sociale e spetta al giudice il compito di contemperare le opposte esigenze.
2. Il Tribunale ha respinto le richieste della condannata senza in alcun modo differenziare il giudizio di immeritevolezza in base ai diversi presupposti di ammissione alle varie misure e senza considerare, in particolare, che la detenzione domiciliare per madre di fanciullo infradecenne è, a differenza delle altre, misura umanitaria e assistenziale e che la stessa può essere negata, in presenza dei presupposti oggettivi per la sua applicazione, solo in situazione in cui risulti una condizione soggettiva di reale pericolo (attuale e basato su fatti concreti) di recidiva specifica.
Ebbene, la motivazione del provvedimento risulta, sotto tale profilo, carente di un’effettiva individuazione di indici concreti di attuale pericolosità sociale della condannata, nonchè di un’effettiva comparazione tra gli stessi e l’esigenza di tutela del diritto all’affettività dei minori che non può essere banalizzata con la tautologica affermazione, posta a premessa della decisione, ossia che l'”avere prole di età inferiore ai dieci anni (…) non è ovviamente di per sè sufficiente per il conseguimento della misura alternativa alla detenzione”.
2.1 Il Tribunale ha posto a base del diniego il mero richiamo ai precedenti penali della ricorrente, senza nemmeno specificarne natura e tipologia e omettendo di collocare con precisione nel tempo i fatti oggetto delle pregresse condanne; ha valorizzato una denunzia del febbraio 2015 per rissa senza alcun esame specifico dell’episodio denunziato; ha valorizzato in negativo la commissione di nuovi illeciti dopo la fruizione di misure alternative, ma nessun accenno ha fatto al comportamento tenuto dalla condannata durante il periodo di pregressa detenzione domiciliare, nè alla sua situazione familiare e alle condizioni di salute di uno dei minori infredecenni.
3. Sicché ha ragione il difensore quando afferma che la prognosi di recidiva formulata non appare sostenuta da dati concreti ed attuali ed è immotivata quanto all’eventuale percorso di risocializzazione intrapreso, come pure immotivato è il provvedimento quanto alla idoneità della misura alternativa al contenimento del rischio di recidiva.
Alla luce di tali carenze motivazionali si impone l’annullamento dell’ordinanza impugnata e il rinvio al Tribunale di sorveglianza di Salerno per nuovo esame nel rispetto dei principi sopra enunciati.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Salerno.

Solo la convivenza more uxorio stabile e duratura e non anche la “relazione” rileva ai fini dell’esclusione dell’assegno di divorzio

Cass. civ. Sez. VI – 1, 5 febbraio 2018, n. 2732
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23567-2014 proposto da:
V.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 12, presso lo studio dell’avvocato FRANCO DI LORENZO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO PASINETTI;
– ricorrente –
C.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268-A, presso lo studio dell’avvocato ALESSIO PETRETTI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NUNZIA COPPOLA LODI, PAOLO LODI;
– contro ricorrente e ricorrente incidentale –
e contro
V.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 12, presso lo studio dell’avvocato FRANCO LORENZO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO PASINETTI;
avverso il decreto n. 222/2014 V.G. della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, emesso il 18/06/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/10/2017 dal Presidente Relatore Dott. MASSIMO DOGLIOTTI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
In un procedimento di modifica di condizioni di divorzio, tra V.G. e C.B., la Corte d’Appello di Brescia, riformava la pronuncia di primo grado, escludendo che la convivenza more uxorio dell’ex coniuge, beneficiario di assegno facesse venir meno il diritto all’assegno stesso.
Ricorre per cassazione il V..
Resiste con controricorso la C.,che pure propone ricorso incidentale.
Richiesta dalla controricorrente la trattazione davanti alle Sezioni Unite, il fascicolo è stato restituito a questa sezione 6.
Va preliminarmente osservato che il decreto impugnato, pur privo della data di emissione e di quella di deposito, risulta comunque sottoscritto dal Presidente e sono indicati i componenti del collegio. E’ da presumere che la data di deposito coincida con quella di comunicazione alle parti.
Il ricorso principale va accolto, in quanto manifestamente fondato.
Giurisprudenza di questa Corte, ampiamente consolidata da alcuni anni (tra le altre, Cass. N. 17195 del 2011; Cass. 6855 del 2015; Cass. 18111 del 2017), afferma che la scelta dell’ex coniuge di costituire una convivenza more uxorio stabile e duratura, che all’evidenza, ben diversa da una mera coabitazione tra soggetti estranei, fa venir meno il diritto all’assegno. Ciò del tutto indipendentemente dalla posizione economica di ciascun convivente. Del resto è la stessa controricorrente che, anche nel giudizio di appello, ammetteva tale convivenza more uxorio.
Anche il ricorso incidentale appare manifestamente fondato, nei limiti che si indicheranno. Afferma la C. che la convivenza more uxorio predetta già esisteva durante la procedura di divorzio (se così fosse, il marito avrebbe dovuto proporre la questione in tale ambito). Sostiene altresì che il V. aveva ammesso tale situazione; richiama in tal senso il verbale presidenziale, nel quale peraltro l’odierno ricorrente principale si era limitato a precisare che esisteva una relazione della moglie con altra persona, ciò che è ovviamente altra cosa rispetto alla convivenza more uxorio, ed è ben possibile che la relazione si sia poi trasformata, successivamente, alla pronuncia di divorzio. in convivenza. D’altra parte, la questione costituiva oggetto di un motivo di reclamo, sul quale la Corte di merito non si è per nulla pronunciata. Rimane evidentemente assorbita la richiesta di condanna ex art. 96 c.p.c..
Va cassato il provvedimento impugnato, con rinvio alla Corte di Appello di Brescia, in diversa composizione, che, fermo il principio per cui la convivenza more uxorio, stabile e duratura, dell’ex coniuge esclude il suo diritto all’assegno, ferma altresì la sussistenza di tale convivenza, dovrà accertare il momento in cui questa si è costituita. Il giudice del rinvio si pronuncerà pure sulle spese del presente procedimento.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale, e, nei limiti di cui in motivazione, quello incidentale; cassa il provvedimento impugnato, con rinvio alla Corte di Appello di Brescia che pure si pronuncerà sulle spese del presente giudizio.
In caso di diffusione del presente provvedimento. omettere generalità ed atti identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

La Corte, non rimettendo la causa alle Sezioni Unite, ribadisce il nuovo orientamento introdotto dalla sentenza n. 11504 del 2017

Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 2018, n. 2042
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 4501/2014 proposto da:
S.M., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Ferrari Pietro, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
P.M., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Mazzini n. 27, presso lo studio dell’avvocato Di Gioia Giovanni Candido, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Bonelli Sandro, giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 1603/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 17/10/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2017 dal cons. DOGLIOTTI MASSIMO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI FRANCESCA, che ha concluso per l’assegnazione alle Sezioni Unite, art. 374 c.p.c., comma 3, in subordine accoglimento; rigetto del ricorso incidentale;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato P. Ferrari che ha chiesto l’accoglimento;
udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale, l’Avvocato G. C. Di Gioia che ha chiesto il rigetto.
Svolgimento del processo
Con ricorso in data 23-1-2009, P.M. chiedeva al Tribunale di Pistoia di dichiarare cessati gli effetti civili del matrimonio contratto con S.M..
Costituitasi, la S. non si opponeva alla domanda di divorzio, ma chiedeva determinarsi un assegno di Euro 500,00 mensili, oltre ad una quota di TFR già percepita dal marito.
Il Tribunale, con sentenza in data 14/11/2012, dichiarava cessati gli effetti civili del matrimonio, e rigettava la domanda di assegno e di quota del TFR, ritenendo equivalente la situazione economica dei coniugi.
Proponeva appello la S.. Costituitosi, il P. chiedeva dichiararsi inammissibile o improcedibile e rigettarsi nel merito l’appello, considerata la condizione economica equivalente dei coniugi.
La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza in data 17-10-2013, rigettava l’appello.
Ricorre per cassazione l’appellante.
Resiste con controricorso l’appellato che pure propone ricorso incidentale.
Le parti hanno depositato memorie difensive.
Assegnata la causa alla sezione sesta civile, il Collegio la rimetteva alla sezione prima civile. L’udienza pubblica di discussione si teneva il 10/10/2017. Il Collegio si riconvocava per la camera di consiglio del 17/10/2017, nella quale assumeva la presente decisione.

Motivi della decisione
Va preliminarmente osservato che il P.G. ha chiesto la rimessione della causa alle sezioni unite di questa Corte, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 3, per cui se la sezione semplice ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette ad esse, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso. Tale richiesta viene giustificata, in relazione ad alcune pronunce fortemente innovative della prima sezione civile, in materia di assegno di divorzio, recentemente assunte.
Ritiene la Corte di non accogliere l’istanza.
La predetta norma, introdotta dal D.Lgs. m. 40 del 2006, va considerata disposizione di natura ordinamentale più che processuale, nonostante sia contenuta nel codice di rito civile, in quanto disciplina i rapporti interni tra sezioni nell’ambito del medesimo organo giudiziario. Ma proprio tale natura, a parere del Collegio, rende operativa la disposizione solo per i principi affermati dalle Sezioni Unite, dopo la sua entrata in vigore, e non per quelli, come nella specie, enunciati anteriormente, per i quali permane il profilo di grande autorevolezza dell’insegnamento delle Sezioni Unite, il punto più alto nella interpretazione e nella nomofilachia, ma non vincolante per le sezioni semplici.
Né si potrebbe affermare che l’art. 374 c.p.c., comma 3, si applichi se, come nel caso che ci occupa, il principio affermato dalle Sezioni Unite (sentenze nn. 11490 e 11492 del 1990) in materia di assegno di divorzio, sia stato da allora seguito costantemente nella successiva giurisprudenza delle sezioni semplici. La predetta norma si riferisce solo al pronunciamento delle Sezioni Unite, essendo del tutto ininfluente che il principio sia stato o meno seguito nel prosieguo.
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta vizio di nullità della sentenza per mancanza e contraddittorietà della motivazione, affermando che la Corte di merito, da un lato, sostiene l’assenza di prova del tenore di vita pregresso tra i coniugi, dall’altro, l’impossibilità, con la crisi familiare, di mantenere tale pregresso tenore di vita. Esamina poi le condizioni economiche dei coniugi, ritenendo la sussistenza di errori ed omissioni del giudice a quo, e si sofferma in particolare sulla somma a suo dire riconosciutole a titolo di mantenimento in sede di separazione. Richiama infine l’esistenza di una relazione amorosa del marito, nonché il contributo dato da essa stessa alla vita familiare.
Con il secondo lamenta violazione della L. n. 898 del 1970, artt. 5 e 6 e successive modifiche, sui presupposti dell’assegno di divorzio.
Con il terzo, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti. La ricorrente contesta l’affermazione della sentenza per cui nessuna prova sarebbe stata fornita dall’appellante sul tenore di vita pregresso e sull’effettivo reddito da essa goduto. Analizza quindi le posizioni economiche dei coniugi, a suo dire assai più vantaggiose per il marito.
Con il primo e il secondo motivo, il controricorrente e ricorrente incidentale lamenta l’inammissibilità del ricorso in appello, da un lato, per mancata indicazione delle parti del provvedimento impugnato e delle modifiche richieste alla ricostruzione dei fatti, compiuta dal giudice di primo grado”, dall’altro, per omessa indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione di legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata (art. 342 c.p.c., nn. 1 e 2).
Va dapprima considerato, per ragioni sistematiche, il ricorso incidentale, che va rigettato.
Come aveva precisato il giudice a quo, il ricorso in appello indica, nel contesto, le parti impugnate, le motivazioni del gravame, le proprie richieste alla Corte di Appello (il riconoscimento di un assegno di divorzio e di una quota del 40% del TFR, percepito dal P.) con l’indicazione dei presupposti di legge che possono giustificarle.
I motivi del ricorso principale possono essere trattati congiuntamente, stante la stretta connessione.
Il Collegio condivide pienamente il nuovo orientamento introdotto dalla sentenza n. 11504 del 2017, ormai consolidato con varie pronunce conformi; si richiama quindi alla predetta sentenza e alle argomentazioni che la sorreggono.
Pare opportuno, per comprendere meglio il senso del nuovo indirizzo giurisprudenziale, fornire qualche breve cenno, in prospettiva storica.
Come è noto, la L. n. 898 del 1970, sul divorzio, estranea al Codice Civile che non va dimenticato – all’epoca conteneva l’originaria disciplina, caratterizzata dalla netta preminenza del marito nel governo della famiglia, cui corrispondevano due status (complesso di diritti e doveri) totalmente differenti per il marito e la moglie. Basti ricordare che l’art. 143 c.c. prevedeva che il marito somministrasse alla moglie tutto quanto necessario ai bisogni della vita, in proporzione alle sue sostanze (anche paradossalmente, quando la moglie fosse più facoltosa di lui); alla moglie spettava mantenere il marito soltanto se questi non avesse mezzi sufficienti. La separazione giudiziale si pronunciava solo per colpa di uno o di entrambi i coniugi; il coniuge incolpevole conservava la propria condizione personale e patrimoniale.
Nella originaria legge di divorzio, su un piano comunque di totale parità, si precisava che il Tribunale disponeva assegno periodico, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, a favore di un coniuge, in proporzione alle sostanze e ai redditi dell’altro; nella determinazione, il giudice teneva conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di entrambi.
Fu la riforma generale del diritto di famiglia del 1975 ad introdurre il profilo della inadeguatezza dei mezzi nel regime di separazione. E tale principio passò quasi inalterato nella riforma del divorzio (L. n. 74 del 1987), aggiungendosi la previsione dell’impossibilità di procurarsi tali mezzi per ragioni oggettive. Si è distinto nettamente il momento dell’ammissibilità dell’assegno, da quello della sua quantificazione, e infatti, in ordine a questa, vengono in considerazione ulteriori profili: le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione dei patrimoni personali dei coniugi stessi comune, e di quello comune. Il reddito di entrambi e la durata del matrimonio.
Tale rigorosa distinzione fu affermata costantemente nell’interpretazione di questa Corte (tra le altre, Cass. N. 2156 del 2010), e tuttavia l’inadeguatezza dei mezzi fu ricollegata, dopo alcune incertezze iniziali, con le note sentenze delle Sezioni Unite n. 11490 e 11492 del 1990 al mantenimento del tenore di vita assunto durante la convivenza matrimoniale (anche se la lettera della norma non vi faceva riferimento alcuno e la ratio palese di essa poneva, come si diceva, una netta distinzione tra le condizioni economiche e sociali dei coniugi e l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente l’assegno).
L’affermazione, contenuta nelle sentenze predette, fu condotta dalla giurisprudenza successiva ad estreme conseguenze, vincolandola ad aspettative più o meno automatiche (per cui l’assegno doveva risultare più elevato, in relazione all’evoluzione della carriera lavorativa dell’obbligato, posteriore alla convivenza matrimoniale, ove prevedibile, e, addirittura, poteva ulteriormente accrescersi dopo il divorzio, sempre con riferimento a tale evoluzione lavorativa) (tra le altre, Cass. N. 11870 del 2015).
Ancora, in aperta violazione della lettera e dello spirito della norma, si effettuavano commistioni tra le due parti distinte della disposizione, e la valutazione delle condizioni economiche e sociali dei coniugi, inerenti al quantum, veniva sempre più ad interferire sull’an, sostenendosi che il tenore di vita, ove non fosse oggetto di prova specifica, poteva desumersi proprio dalla comparazione tra le condizione dei coniugi (del resto ci si rendeva conto che il tenore di vita, almeno nella sfera dell’obbligato, necessariamente diminuiva, con la separazione e il divorzio e l’esclusione delle opportune economie collegate alla convivenza familiare). (tra le altre, Cass. 2156 del 2010).
Il nuovo indirizzo propone un criterio differente e, a parere del collegio, assai più consono alla lettera e alla ratio dell’art. 5, comma 6, che nella prima fase sull’an non prevede – conviene ribadirlo – nessuna comparazione delle condizioni economiche dei coniugi e non fa riferimento alcuno al tenore di vita pregresso, orientando l’indagine alla sola situazione del coniuge richiedente, senza alcun riferimento, in questa fase, a quella dell’altro coniuge.
E’ appena il caso di precisare, a tal proposito, che la predetta espressione (tenore di vita) si rinviene nello stesso art. 5, comma 9 disposizione palesemente processuale, ove si precisa che i coniugi, all’udienza presidenziale, presentano le dichiarazioni dei redditi ed altra documentazione sul loro patrimonio; in caso di contestazione, potranno essere effettuate indagini sui redditi. sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita di ciascun coniuge. Dunque il tenore di vita non è quello comune, ma quello di ciascun coniuge e viene in considerazione al momento dell’assunzione dei provvedimenti provvisori, quando la documentazione, contestata, appaia infedele, e ciò dia luogo ad indagini al riguardo.
La sentenza n. 11504 del 2017, confermata dal successivo orientamento, indica dunque un diverso parametro assai più rispettoso, come si diceva, della lettera e della ratio dell’art. 5: l’indipendenza o l’autosufficienza del soggetto (più condivisibile il termine di autosufficienza che riguarda esclusivamente il soggetto richiedente, mentre l’indipendenza (da chi, da che cosa?) potrebbe ancora una volta richiamare la comparazione con l’ex coniuge obbligato).
La sentenza suindicata richiama la posizione dei figli (ovviamente dentro e fuori del matrimonio: destinatari del mantenimento, se minori, ma pure maggiorenni fino alla raggiunta autosufficienza economica). Certo qualcuno potrebbe opporre che il paragone non ha alcun senso, perché i figli potrebbero utilizzare la forza e l’entusiasmo della loro gioventù, per raggiungere al più presto l’autosufficienza (anche se purtroppo le statistiche sull’occupazione giovanile danno ancora oggi segnali assai sconfortanti), mentre non è tale il coniuge (in genere la donna) che non ha mai lavorato o magari ha cessato di lavorare durante il matrimonio (ma, ancora, dalle statistiche più aggiornate, emerge che questa condizione è assai più rara che in passato).
Qui sopperisce peraltro la seconda parte della predetta norma, che assai significativamente non sussiste in sede di separazione (il soggetto non ha mezzi adeguati e non può procurarseli per ragioni oggettive), e in tal caso continuerà ad operare la giurisprudenza pregressa di questa Corte (non solo ragioni di salute, ma anche di età, inidoneità ad inserirsi nel mercato di lavoro, mancanza di attività pregressa, di specializzazione, ecc.) (tra le altre Cass. n. 3838 del 2006; 27234 del 2008). E la sentenza più volte indicata, n. 11504, individua l’autosufficienza economica in alcuni specifici parametri, cui dovrebbe richiamarsi la giurisprudenza di merito, che avrà il compito di adeguarli alla concreta fattispecie dedotta: il possesso di redditi di qualsiasi specie, di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri imposti e del costo della vita nel luogo di residenza; le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale; la stabile disponibilità di una casa di abitazione, salvo ovviamente altri elementi che potranno rilevare nelle singole fattispecie.
Come si vede, le variabili sono molte numerose per un adeguamento il più possibile efficace alla situazione concreta. In tal senso, si potrebbe fin d’ora escludere pericolosi automatismi (ad es. multipli della pensione sociale o simili) che renderebbero autosufficienza o non autosufficienza identiche sempre a sé stesse ed uguali per tutti. Il coniuge richiedente l’assegno non può riguardarsi come una entità astratta, ma deve considerarsi come singola persona nella sua specifica individualità.
Per di più, una volta superato il vaglio dell’ammissibilità dell’assegno ed accertata la non autosufficienza economica, sicuramente potrebbero venire in considerazione i vari profili indicati dalla norma per la quantificazione dell’assegno, tali eventualmente da condurre ad una elevazione dell’importo.
Va precisato che, con il divorzio, cessa ogni rapporto personale e patrimoniale tra gli ex coniugio permanendo ovviamente una stretta collaborazione, nell’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale, se vi sono figli minori, ma ciò non attiene al rapporto tra gli ex coniugi. Tuttavia il diritto all’assegno (e conseguentemente ad una quota di TFR, alla pensione di reversibilità, eventualmente da ripartirsi con altro coniuge dell’obbligato, ad un assegno a carico dell’eredità) trova il suo fondamento nel dovere inderogabile di solidarietà economica e sociale tra persone ormai estranee, che pure hanno svolto una parte più o meno lunga della loro vita in piena comunanza (e assai significativamente l’ex coniuge non compare tra i soggetti obbligati agli alimenti, pur attinenti ad una famiglia estremamente elevata, che non trova alcuna rispondenza sociologica nella realtà odierna; anche in tal caso, del resto, si considera dapprima la sola persona richiedente, valutandosi la sua inadeguatezza a soddisfare i bisogni essenziali, e, solo successivamente, la situazione economica dell’obbligato o degli obbligati).
Vi è chi ricorda peraltro le persistenti discriminazioni economiche della donna nel luogo di lavoro, e, più in generale, l’emarginazione che talora la colpisce nei più diversi settori, ma, all’evidenza di ciò deve farsi carico l’intera società e il Parlamento, con leggi adeguate che avvicinino l’Italia alla maggior parte degli altri Paese europei, e non certo (sempre e soltanto) l’ex coniuge.
E’ appena il caso di precisare che la sentenza della Corte Costituzionale n. 11 del 2015 che – secondo alcuni interpreti – avrebbe recepito e fatto proprio l’orientamento pregresso di questa Corte sul tenore di vita, si colloca nell’ambito del difficile e complesso rapporto tra le sentenze “interpretative” della Consulta e la posizione della Cassazione, custode della nomofilachia, e dei giudici di merito (al riguardo, tra le altre, Cass. S.U. n. 27986 del 2013). Com’è noto, la Corte Costituzionale ha talora ritenuto infondata la questione di legittimità di una disposizione di legge, indicando una interpretazione escludente l’accoglimento della questione stessa (ciò allo scopo evidente di evitare la creazione di troppe “lacune” nell’ordinamento) e tuttavia i giudici (e in particolare questa Corte) non hanno accolto l’impostazione della Consulta, continuando a privilegiare interpretazioni della norma differenti da quella indicata dalla Consulta. Non di rado, il giudice delle leggi, di fronte a questo indubbio conflitto, ha finito per dichiarare l’incostituzionalità della norma. Proprio per evitare questa necessaria conseguenza, da tempo la Corte Costituzionale preferisce far propria l’interpretazione prevalente e consolidata tra i giudici (specie se abbia ricevuto la conferma di questa Corte) il cosiddetto diritto vivente, e valutare se essa sia conforme o meno alla Costituzione.
Dunque la Consulta si è limitata a ritenere l’interpretazione privilegiata dalla Cassazione (circa il tenore di vita pregresso) conforme a Costituzione, così come – è da ritenere – sarebbe parimenti conforme l’indirizzo giurisprudenziale che l’ha sostituito, inerente all’autosufficienza economica.
Quanto alla fattispecie dedotta, escluso ogni riferimento al tenore di vita pregresso, così come alle circostanze che riguarderebbero semmai la quantificazione dell’assegno: ragioni della decisione (la presunta relazione amorosa del marito) nonché il contributo della moglie alla conduzione familiare ecc., va precisato che per giurisprudenza consolidata (per tutte, Cass. N. 18433 del 2010), 1′ assegno di separazione e gli accordi assunti in tale sede tra i coniugi (salvo che i coniugi stessi non intendano incidere direttamente sul futuro regime del divorzio) non rilevano direttamente ai fini della determinazione di quello di divorzio, stante la differente natura, caratteri e contenuto. Semmai gli accordi pregressi potrebbero considerarsi nella valutazione del patrimonio e del reddito di entrambi i coniugi.
Infine, alla luce del novellato art. 360 c.p.c., n. 5, non è più possibile censurare l’insufficienza o contraddittorietà della motivazione, essendo necessario richiamarsi a fatti specifici e determinati, trascurati dal giudice ed oggetto di discussione tra le parti (tra le altre, Cass. S.U. n. 8053 del 2014). In sostanza la ricorrente propone inammissibilmente una generale valutazione alternativa rispetto a quella effettuata dal giudice a quo, con motivazione adeguata e non contraddittoria: la Corte di merito sostiene che, con gli accordi omologati. i coniugi hanno proceduto alla divisione del patrimonio immobiliare e la moglie ha ottenuto il riconoscimento della proprietà esclusiva della casa coniugale nonché di altro appartamento sito in (OMISSIS) che si sono aggiunti ad altro di sua proprietà, pervenutole per successione. Continua il giudice a quo osservando che, dalla gestione di tali immobili – uno dei quali avente specifica destinazione commerciale – la S. può ricavare reddito adeguato a consentirle un tenore di vita dignitoso, pur osservando che in nessun caso sarebbe possibile mantenere il pregresso tenore di vita, essendo venute meno le economie gestionali consentite dalla convivenza. E’ appena il caso di precisa che eventuali errori sulla consistenza dei redditi e patrimoni avrebbero dovuto semmai essere oggetto di un ricorso per revocazione.
Per quanto finora osservato, i motivi del ricorso principale presentano profili in parte di inammissibilità, in parte di infondatezza e vanno rigettati.
Conclusivamente va rigettato il ricorso.
Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, non va cassata la sentenza impugnata, essendo conforme al diritto il dispositivo, e va corretta la motivazione, escludendosi ogni riferimento al tenore di vita pregresso, sostituito dal principio di autosufficienza economica del coniuge.
Pur trattandosi di orientamento consolidato, posto che, al momento della presentazione del ricorso era ancora operante l’orientamento pregresso si ritiene di compensare totalmente le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale; compensa le spese di giudizio tra le parti.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Le spese straordinarie che rispondono all’interesse dei figli esulano dal previo consenso dell’altro genitore

Cass. civ. Sez. VI – 1, 17 gennaio 2018, n. 1070
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12150/2017 proposto da:
T.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE LIEGI, 48/A, presso lo studio dell’avvocato NICOLA MARCHITTO, rappresentato e difeso dall’avvocato STEFANO GROLLA;
– ricorrente –
contro
C.S.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 2483/2016 del TRIBUNALE di VICENZA, depositata il 18/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 21/11/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
T.F. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Vicenza n 2483/2016, depositata il 18 novembre 2016, con la quale è stato accolto l’appello proposto da C.S. avverso la sentenza n. 79/2015 del Giudice di pace di Vicenza, finalizzato ad ottenere dal padre dei suoi figli minori, J. e A., la metà delle spese straordinarie sostenute, in esecuzione di quanto disposto dal Tribunale per i Minorenni di Venezia con decreto dell’11 gennaio 2013;
l’intimata non ha svolto attività difensiva;
Considerato che:
con l’unico motivo di ricorso – denunciando la violazione degli att. 147 e ss., in materia di mantenimento dei figli minori – T.F. si duole del fatto il giudice di appello abbia ritenuto che le spese per la retta della scuola materna privata frequentata dalla figlia A., per l’anno 2012-2013, le spese per i ticket relativi alla visita pediatrica, alle inalazioni termali ed agli esami audiometrici per i due figli, nonché per le cure odontoiatriche a favore della figlia A. costituissero spese straordinarie, da porre a carico – pro quota – del genitore non affidatario, T.F.;
Rilevato che:
il ricorrente non contesta che la retta della scuola privata frequentata dalla figlia costituisca una spesa straordinaria (p. 5 del ricorso), ma deduce di non avere prestato – per l’anno in discussione – il proprio consenso all’iscrizione della minore in detta scuola, in considerazione delle numerose assenze effettuate dalla medesima, sicché la frequentazione della stessa si era venuta a tradurre in una sorta di collocazione provvisoria della bambina quando la madre era occupata, piuttosto che in uno strumento utile per la sua crescita e formazione; quanto alle spese per i ticket sanitari e per le cure odontoiatriche, il T. ne contesta l’ascrivibilità alle spese straordinarie, per la loro natura di esborsi rutinari, di modesto importo e prevedibili, in ordine ai quali, peraltro, nessuna consultazione con il padre sarebbe stata effettuata dalla C.;
Considerato che:
per quanto concerne le spese per la frequentazione della scolastiche certamente ascrivibili a quelle straordinarie, come affermato nella specie anche dal Tribunale per i Minorenni nel decreto dell’11 gennaio 2013, e come è incontroverso tra le parti – questa Corte ha affermato che non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro in ordine alla determinazione delle spese straordinarie, trattandosi di decisione “di maggiore interesse” per il figlio e sussistendo, pertanto, a carico del coniuge non affidatario, un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso. Ne consegue che, nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, il giudice – ai fini della corretta applicazione dei criteri previsti dagli artt. 147 e 316 bis c.c. – è tenuto a verificare la rispondenza delle spese all’interesse del minore mediante la valutazione della commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità e della sostenibilità della spesa stessa rapportata alle condizioni economiche dei genitori (Cass. 30/07/2015, n. 16175; Cass. 26/09/2011, n. 19607);
nel caso di specie, risulta dagli atti che il T. aveva dato il consenso all’iscrizione della figlia A. alla scuola materna privata, per l’anno precedente, in tal modo valutando la convenienza e la conformità dell’iscrizione all’interesse della minore, ma poi lo ha revocato, per l’anno scolastico 2012-2013, in base alla sola considerazione che la medesima era stata molto spesso assente nel corso del precedente anno;
è da ritenersi, pertanto, condivisibile l’assunto del giudice di appello, secondo cui il consenso del padre, una volta concesso, non poteva più essere revocato, senza alcuna specifica e rilevante ragione di convenienza e di adeguatezza all’interesse della minore;
Ritenuto che:
quanto ai ticket sanitari ed alle spese odontoiatriche, sulla cui natura di spese ordinarie e non straordinarie si incentra il ricorso del T., debbano intendersi per spese “straordinarie” quelle che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli, talché la loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall’art. 316 c.c. e con quello dell’adeguatezza del mantenimento, nonché recare grave nocumento alla prole, che potrebbe essere privata, non consentendolo le possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell’assegno “cumulativo”, di cure necessarie o di altri indispensabili apporti (Cass. 08/06/2012, n. 9372);
nel caso di specie, la decisione di appello non si sia conformata a tali principi, avendo il Tribunale ritenuto straordinarie tali spese senza in alcun modo soffermarsi a considerare – in conformità al disposto delle norme succitate – se si trattava, per la loro natura di spese non imprevedibili ed eccezionali e per il loro modesto importo, di esborsi ordinari, come tali ricompresi nell’assegno di mantenimento.
Ritenuto che:
in accoglimento del ricorso, nei limiti di cui in motivazione, l’impugnata sentenza debba essere, pertanto, cassata con rinvio al Tribunale di Vicenza in diversa composizione, che dovrà procedere all’esame del merito della controversia, facendo applicazione dei principi di diritto suesposti.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata; rinvia al Tribunale di Vicenza diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Motivazione semplificata.

Finché permane il vincolo di destinazione sul bene, questo non è suscettibile di pignoramento e, di conseguenza, non è sequestrabile (neanche in ambito penale)

Cass. pen. Sez. V, 17 gennaio 2018, n. 1935
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
contro:
S.D.A.H., nato il (OMISSIS), nel procedimento a carico di quest’ultimo;
avverso l’ordinanza del 27/01/2017del TRIB. LIBERTA’ di FIRENZE;
sentita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO CAPUTO.
Svolgimento del processo
1. Conordinanza del 27/01/2017, il Tribunale del riesame di Firenze ha rigettato la richiesta di riesame proposta nell’interesse di S.D.A.H. avverso l’ordinanza del 15/12/2016 – 04/01/2017 con la quale la Corte di appello di Firenze aveva disposto, nell’ambito del processo nel quale S. è stata condannata in primo grado per reati di bancarotta fraudolenta, il sequestro conservativo in favore della parte civile curatela del Fallimento (OMISSIS) s.r.l. di un immobile ubicato in (OMISSIS).
Il Tribunale del riesame di Firenze ha rilevato che il sequestro conservativo ottenuto dalla curatela “non è, allo stato, opponibile al beneficiario dell’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c., poiché la effettuazione dell’atto di destinazione a suo favore del bene con relativa trascrizione è avvenuta anteriormente alla concessione del sequestro stesso”, sicché l’interesse del beneficiario persona disabile è “pienamente tutelato dalla priorità della trascrizione temporale dell’atto a suo favore”; pur non potendo la curatela in base al sequestro conservativo agire esecutivamente sul bene che resta di proprietà dell’imputata, “ostandovi la costituzione del beneficio prioritariamente trascritta e finché dura il medesimo”, la curatela stessa ha un legittimo interesse a mantenere il sequestro conservativo ottenuto, in quanto “nell’eventualità che il beneficio del disabile possa venir meno per qualsiasi causa ed in qualunque momento, essendo per sua natura comunque temporaneo, è interesse della curatela poter mantenere, mediante la trascrizione del provvedimento di sequestro, una prenotazione cronologica a garanzia del credito ad essa riconosciuto”, con sentenza, nei confronti dell’imputata, nonché “un vincolo cautelare reale laddove la ricorrente una volta tornata nella pienezza della disponibilità del bene decidesse di alienarlo”. Pertanto, osserva ancora il Tribunale del riesame di Firenze, “il sequestro conservativo da un lato non nuoce agli interessi del beneficiario e dall’altro continua a garantire l’interesse della curatela diretto a impedire comunque possibili ulteriori atti dispositivi da parte della proprietaria”.
2. Avverso l’indicata ordinanza ha proposto ricorso per cassazione S.D.A.H., attraverso il difensore avv. G. Gambogi, articolando tre motivi di seguito enunciati nei limiti di cuiall’art. 173 disp. att. c.p.c., comma 1.
2.1. Il primo motivo denuncia inosservanza o erronea applicazionedell’art. 316 c.p.p., edell’art. 671 c.p.c., in quanto il sequestro può essere disposto solo nei limiti in cui la legge consente il pignoramento, nonché vizi di motivazione. L’ordinanza impugnata ha ammesso il sequestro su un bene oggetto di vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c., evidenziando l’impossibilità per la curatela, per tutta la durata del vincolo, di agire in via esecutiva sul bene, ma tali deduzioni sono contraddittorie in quanto il sequestro conservativo è propedeutico all’esecuzione perché strumentale all’espropriazione, tanto da non poter essere disposto quando l’esecuzione non sia ammissibile, come confermatodall’art. 671 c.p.c., e dallo stessoart. 316 c.p.p., che consente il sequestro nei limiti in cui la legge consente il pignoramento dei beni mobili o immobili dell’imputato. Erroneamente l’ordinanza impugnata trascura il legame imprescindibile tra sequestro conservativo e pignoramento, che è il primo atto della procedura esecutiva; finché permane il vincolo di destinazione sul bene, questo non è suscettibile di pignoramento e, di conseguenza, non è sequestrabile.
2.2. Il secondo motivo denuncia inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 2645 ter c.c., per il mancato rispetto del principio di opponibilità a terzi del vincolo di destinazione apposto sul bene per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità. La ratio dell’art. 2645 ter c.c., è limitare la responsabilità patrimoniale exart. 2740 c.c., a fronte del perseguimento di interessi meritevoli di tutela riferita a persona “con disabilità”, condizione, questa, che legittima la costituzione del vincolo di destinazione, rendendo intangibile il bene vincolato. La condizione di gravissima disabilità del figlio della ricorrente (con “invalidità non inferiore all’80%”) è circostanza documentata e non contestata, laddove il vincolo è stato costituito il 04/10/2016 dopo la tredicesima operazione subita dal figlio e l’accertamento dell’irreversibilità della sua condizione. Il soggetto che costituisce il vincolo in favore del disabile non può essere perseguito dai creditori per debiti estranei alla tutela del beneficiario. Né la decisione impugnata può essere legittimata dalla considerazione che l’interesse del beneficiario persona disabile è tutelato dalla priorità temporale della trascrizione dell’atto di destinazione in suo favore e che non vi è lesione dell’interesse del beneficiario da parte del sequestro conservativo: il problema, infatti, non è la priorità della trascrizione, ma l’impossibilità per la curatela (non portatrice di un credito contratto per gli scopi del vincolo) di ottenere la concessione di un sequestro su un bene tutelato ex art. 2645 ter c.c., bene che, se, come nel caso di specie, il vincolo è ritenuto meritevole di tutela, non può costituire oggetto di sequestro; inoltre, il sequestro può pregiudicare, anche in modo irreparabile, gli interessi tutelati dall’ordinamento con la specifica previsione di cui all’art. 2645 ter c.c., qualora fosse necessario utilizzare il bene o alienarlo proprio per conseguire il denaro necessario alle cure e al mantenimento del beneficiario del vincolo, in ossequio agli scopi del vincolo.
2.3. Il terzo motivo denuncia inosservanza o erronea applicazionedell’art. 320 c.p.p., eart. 686 c.p.c., in quanto la concessione del sequestro conservativo deve essere necessariamente propedeutica ad un accertamento giudiziale nelle more del quale il creditore potrebbe perdere la garanzia del proprio credito. L’ordinanza impugnata ritiene che il sequestro conservativo in esame sia posto non già a garanzia dell’esito del giudizio instaurato a seguito di azione revocatoria dell’atto di disposizione del vincolo promossa dal creditore, bensì a tutela delle obbligazioni civili derivanti dal reato nell’ambito del procedimento penale sulla base dei presupposti di cuiall’art. 316 c.p.p., sicché il sequestro è concesso a garanzia della provvisionale di Euro 50 mila immediatamente esecutiva riconosciuta dalla sentenza di primo grado quale risarcimento del danno in favore della parte civile, da liquidarsi, nel suo complesso, in separata sede. Anche sul punto l’ordinanza è viziata in quanto la ratio del sequestro conservativo, sia in campo penalistico che in quello civilistico, è quella di assicurare al creditore sprovvisto di titolo esecutivo – e quindi non in grado di procedere all’espropriazione – la possibilità di espropriare in futuro quei beni del debitore potenzialmente sottraibili, nelle more del giudizio, alla garanzia del proprio creditore, tanto che all’esito del giudizio il sequestro conservativo decade o si converte in pignoramento: erroneamente, pertanto, il Tribunale del riesame ha confermato il sequestro conservativo nonostante l’esecutività della provvisionale in favore della curatela, posto che, come si desumedall’art. 320 c.p.p., edall’art. 686 c.p.c., la conversione del sequestro conservativo in pignoramento opera ipso iure nel momento in cui il sequestrante ottiene sentenza di condanna esecutiva, iniziando in quello stesso istante il processo esecutivo di cui il sequestro stesso, una volta convertitosi in pignoramento, costituisce il primo atto. In virtù della provvisoria esecuzione della provvisionale, il sequestro conservativo disposto dalla Corte di appello non ha ragion d’essere e il Tribunale del riesame avrebbe dovuto disporne la cancellazione.
3. Con requisitoria scritta del 25/08/2017, il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione dott. F. Baldi ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso deve essere accolto, nei termini di seguito indicati.
2. In premessa, mette conto ribadire che, come ha chiarito la giurisprudenza di questa Corte, in tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di “violazione di legge” per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a normadell’art. 325 c.p.p., comma 1, rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui all’art. 606, lett. e), stesso codice (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004 – dep. 13/02/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710). Il ricorso, peraltro, articola, almeno nella parte di gran lunga più significativa delle censure proposte, errores in procedendo rientranti nella cognizione del giudice di legittimità in questa sede.
Invero, rileva la Corte che il nucleo essenziale delle doglianze proposte dal ricorso può essere individuato in due tesi intorno alle quali l’impugnazione articola – principalmente nei primi due motivi – la critica al provvedimento del Tribunale del riesame di Firenze: da un lato, l’affermazione del “legame imprescindibile che lega il sequestro conservativo al pignoramento”; dall’altro, il rilievo che l’immobile oggetto di sequestro, in quanto sottoposto a vincolo di destinazione a norma dell’art. 2645 ter c.c., “non è suscettibile di pignoramento e conseguentemente non è sequestrabile”. È sullo scrutinio di queste due tesi, del tutto centrali nell’economia delle argomentazioni della ricorrente, che l’esame del ricorso deve concentrarsi.
3. La prima delle due tesi sulle quali fa leva il ricorso è senz’altro corretta. Le Sezioni unite di questa Corte hanno di recente ribadito la configurazione del sequestro conservativo delineata dal nuovo codice di rito penale: “il vigente sequestro conservativo penale è un istituto ridisegnato anche sulla falsariga del sequestro conservativo civile, previstodall’art. 2905 c.c., e regolato, nella procedura,dall’art. 671 c.p.c., del quale ricalca il limite alla autorizzabilità da parte del giudice rispetto a beni impignorabili, e la eseguibilità con forme (secondo le norme stabilite per il pignoramento presso il debitore o presso terzi o mediante trascrizione), che ne rendono evidente la natura di pignoramento anticipato” (così, in una fattispecie in tema di beni conferiti in fondo patrimoniale, Sez. U, n. 38670 del 21/07/2016, Culasso, in motivazione). È in questa prospettiva, del resto, che il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità circoscrive l’operatività del sequestro conservativo presso il datore di lavoro di somme di denaro relative a crediti retributivi ad un importo non superiore al quinto delle stesse, richiamando in proposito i medesimi limiti postidall’art. 545 c.p.c., all’esecuzione del pignoramento (Sez. 6, n. 16168 del 04/02/2011, P.C., De Biase, Rv. 249329; Sez. 5, n. 31733 del 26/05/2015, Valeria, Rv. 264768).
Ribadito, dunque, l’insegnamento delle Sezioni unite secondo cui, in tema di impugnazione delle misure cautelari reali, le questioni attinenti al regime di pignorabilità dei beni sottoposti a sequestro conservativo sono deducibili con la richiesta di riesame e devono essere decise dal tribunale del riesame, al quale è demandato un controllo “pieno”, che deve tendere alla verifica di legittimità della misura ablativa in tutti i suoi profili (Sez. U, n. 38670 del 21/07/2016, Culasso, Rv. 267592), rileva la Corte che, sotto questo profilo, colgono nel segno le censure della ricorrente in ordine alla ricostruzione del giudice del riesame della portata della misura cautelare reale in termini di “prenotazione cronologica” a garanzia del credito vantato dalla curatela, pur essendo alla stessa preclusa la possibilità di agire in via esecutiva sul bene di proprietà dell’imputata a causa del vincolo ex art. 2645 ter c.c., sullo stesso già trascritto: ricostruzione, questa, che, da una parte, svilisce la natura del sequestro conservativo di “pignoramento anticipato”, per riprendere la definizione offerta da Sez. U. Culasso, e, dall’altra, elude la questione della pignorabilità dell’immobile oggetto della misura di cuiall’art. 316 c.p.p..Assorbite le ulteriori censure (e, in particolare, quelle articolate con il terzo motivo), l’ordinanza impugnata, pertanto, deve essere annullata per nuova valutazione ancorata al detto principio di diritto.
4. Non può essere condivisa, invece, la seconda delle tesi sulle quali fa leva il ricorso.
4.1. Introdotto dalD.L. 30 dicembre 2005, n. 273,art.39 novies, convertito, con modificazioni, conL. 23 febbraio 2006, n. 51, l’art. 2645 ter c.c., ha delineato un “atto con effetto tipico reale, perché inerente alla qualità del bene che ne è oggetto, sia pure con contenuto atipico purché corrispondente ad interessi meritevoli di tutela” (Cass., Sez. 6 civ., n. 3735 del 24/02/2015). Nei suoi tratti fondamentali, l’istituto ricollega all’atto di destinazione trascritto un regime di opponibilità ai terzi del vincolo apposto per determinate finalità (tra le quali, la tutela dell’interesse di persona portatrice di disabilità, come nel caso di specie), la legittimazione di qualsiasi soggetto interessato ad agire per la realizzazione dell’interesse alla cui tutela il vincolo è finalizzato, la limitazione di responsabilità del bene “destinato” a garanzia patrimoniale solo dei debiti contratti per tale finalità: in questo senso, la dottrina ha fatto riferimento ad una parziale inespropriabilità del bene “destinato”.
L’estraneità degli interessi della curatela che ha chiesto e ottenuto il sequestro conservativo in esame alla sfera dei debiti contratti per il conseguimento della finalità per la quale l’immobile è stato vincolato non è contestata dai giudici cautelari.
5.2. L’erroneità della tesi della ricorrente secondo cui, in termini assoluti, l’immobile sottoposto a vincolo di destinazione a norma dell’art. 2645 ter c.c., “non è suscettibile di pignoramento e conseguentemente non è sequestrabile” si apprezza, tuttavia, con riguardo alla disciplina dettatadall’art. 192 c.p., Sez. U. Culasso (intervenuta, come si visto, in una fattispecie relativa a beni conferiti in un fondo patrimoniale) ha richiamato “le ipotesi di inefficacia automatica degli atti a titolo gratuito compiuti dall’imputato-debitore dopo il reato” previste appuntodall’art. 192 c.p.: tali ipotesi di c.d. revocatoria penale, hanno precisato le Sezioni unite, sono configurate per “operare come altrettante cause di inefficacia relativa dell’atto dispositivo del bene”, atto di per sé valido e tuttavia, “non opponibile dal colpevole, ossia dal soggetto già condannato”; cause di inefficacia, queste, che “ben possono spiegare i loro immediati effetti anche relativamente alla cautela penale, nella sede della emissione e della impugnazione del sequestro conservativo, prima che si converta in pignoramento”. Nella prospettiva delineata dalle Sezioni unite, un precedente arresto di questa Corte (Sez. 2, n. 2386 del 19/12/2008 – dep. 20/01/2009, Liuzzi, Rv. 243033), evidenziato come il richiamo contenutonell’art. 192 cod. pen.ai crediti indicatinell’art. 189 c.p., debba essere oggi riferito ai crediti indicatinell’art. 316 c.p.p., ha rimarcato, per un verso, che in forza dell’art. 192 cit. “tutti gli atti a titolo gratuito posti in essere dall’imputato a partire dal tempus commissi delicti non sono opponibili al creditore danneggiato dal reato” e, per altro verso, che la finalità del sequestro conservativo exart. 316 c.p.p., “consiste nell’immobilizzare il patrimonio del soggetto obbligato e attuare, così, la piena e concreta tutela del danneggiato dal reato per il soddisfacimento del suo credito risarcitorio, in attesa dell’esito dell’azione revocatoria”. Né in senso contrario può argomentarsi sulla base della giurisprudenza di legittimità – richiamata genericamente dalla ricorrente – che ha ritenuto insuscettibili di formare oggetto di sequestro conservativo i beni assoggettati al regime del fondo patrimoniale per un debito che il creditore sapeva essere stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia (Sez. 5, n. 598 del 01/10/2003, Orlando, Rv. 227445): nel caso esaminato in quell’occasione dalla Corte, infatti, l’illegittimità del sequestro conservativo chiesto dalla curatela fallimentare fu motivato attraverso il riferimento allaL. Fall.,art.46, che espressamente esclude dal novero dei beni compresi nel fallimento quelli costituiti in fondo patrimoniale (salvo quanto dispostodall’art. 170 c.c.).
4.3. D’altra parte, le indicazioni rinvenibili nella giurisprudenza di legittimità richiamata – e, prima di tutto, in Sez. U. Culasso – sono in linea con quelle offerte dalle Sezioni civili di questa Corte. Nel quadro di un’approfondita ricognizione della portata della disciplina dettatadall’art. 192 c.p., Sez. 3 civ., n. 23158 del 31/10/2014 ha individuato il fondamento di tale disciplina nell'”esigenza di attribuire specifica tutela ai crediti derivanti da reato”, sicché la peculiare inefficacia comminata dalla norma in esame si inscrive nel nucleo minimo di istituti che tendono a proteggere la vittima del reato: infatti, rispetto agli “atti a titolo gratuito successivi alla commissione del reato, definiti tout court inefficaci dal codice penale”, “nessuna ragione di tutela si può rinvenire in favore dei beneficiari di quegli stessi atti nella comparazione con le prioritarie esigenze del creditore per il risarcimento del danno cagionato dal reato stesso: a fronte di un incremento del proprio patrimonio privo, per definizione, di corrispettivo, qual è quello del beneficiario di quell’atto, deve trovare considerazione assolutamente preferenziale invece l’esigenza di ristorare il patrimonio del danneggiato dal reato, vulnerato da una condotta illecita e punita con la più grave delle sanzioni pubblicistiche e quindi affetta dalla considerazione del massimo disvalore possibile per l’intero ordinamento”. Quanto alla portata della disciplina dettatadall’art. 192 c.p., esplicita è la sua proiezione anche sul piano della tutela cautelare: “l’inefficacia penale può rilevare (…) come giustificazione di misure cautelari finalizzate a preservare la garanzia consistente nel patrimonio del colpevole, prima ancora della sua condanna ed alla sola condizione della sua sottoposizione a procedimento penale: è, oggi, il caso del sequestro conservativo previstodall’art. 316 c.p.p., una volta chiesto (…) dal danneggiato che si sia costituito parte civile; tuttavia, l’inefficacia potrà giungere a legittimare l’esecuzione sui beni sequestrati solo una volta che il sequestro, in virtù dei principi generali processualcivilistici richiamatidall’art. 320 c.p.p., si sia convertito – ma pur sempre con efficacia ex tunc e anticipando quindi al tempo della sua attuazione gli effetti della successiva azione esecutiva – in pignoramento in dipendenza del riconoscimento dei credito con sentenza di merito”.
4.4. Pertanto, alla luce delle convergenti linee interpretative tracciate dalla giurisprudenza di legittimità in sede penale e in sede civile, deve ribadirsi il principio di diritto in forza del quale non sono opponibili al creditore danneggiato dal reato gli atti a titolo gratuito posti in essere dall’imputato successivamente al tempus commissi delicti. Sotto questo profilo, fermi i principi di diritto enunciati, l’accertamento della sussistenza nel caso di specie dei presupposti applicativi della disciplina dettatadall’art. 192 c.p.- avuto riguardo, in particolare, alla gratuità dell’atto di destinazione (e in considerazione delle indicazioni problematiche espresse, sul punto, dal provvedimento applicativo della Corte di appello di Firenze) – deve essere rimesso al giudice del rinvio.
6. Per le ragioni indicate, l’ordinanza impugnata deve essere annullata, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Firenze.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Firenze.