Il minore è parte necessaria nei giudizi de potestate e gode della pienezza dei diritti processuali che impongono la nomina del curatore speciale

Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 2018, n. 5256
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SENTENZA
sul ricorso 25608/2016 proposto da:
B.D., M.C., genitori del minore B.M.F., elettivamente domiciliati in ROMA, al CORSO TRIESTE 109, presso lo studio dell’avvocato DONATO MONDELLI, rappresentati e difesi dall’avvocato CATERINA MURGO;
– intimato –
avverso il decreto n. R.G. 462/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositato il 27/05/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/11/2017 dal Cons. Dott. MAGDA CRISTIANO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Bologna, con decreto del 27.5.016, ha respinto il reclamo proposto da B.D. e M.C. contro il decreto del 23.3.015 del Tribunale per i minorenni della stessa città che, ad istanza del P.M., li aveva dichiarati decaduti dall’esercizio della responsabilità genitoriale sul figlio minore F..
Il provvedimento è stato impugnato dai soccombenti con ricorso straordinario per cassazione affidato a due motivi.
La parte intimata non ha svolto attività difensiva.
La causa, per la quale era stata disposta relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata rimessa all’udienza pubblica dal collegio della sesta sezione civile.
Motivi della decisione
1) Preliminarmente deve essere affermata l’ammissibilità del ricorso.
Infatti, secondo il più recente orientamento di questa Corte, cui il collegio intende dare continuità, il provvedimento ablativo della responsabilità genitoriale, emesso dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330 e 336 c.c., ha attitudine al giudicato “rebus sic stantibus”, in quanto non revocabile o modificabile salva la sopravvenienza di fatti nuovi; il decreto della corte di appello che, in sede di reclamo, lo conferma, lo revoca o lo modifica è pertanto impugnabile con ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7 (Cass. n. 26633/016).
2) Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 336 c.c., u.c. e la conseguente nullità dell’intero procedimento, per la mancata nomina di un difensore del minore, o, quantomeno di un curatore speciale per la sua rappresentanza legale e processuale.
La censura è fondata nei termini che di seguito si precisano.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che il procedimento ex art. 336 cit., pur se non prettamente contenzioso, non ha ad oggetto preminente, o addirittura esclusivo, un’attività di controllo del giudice sull’esercizio della responsabilità genitoriale, che escluda la presenza di parti processuali fra di loro in conflitto: l’articolo in esame (più volte novellato) stabilisce infatti quali sono i soggetti legittimati a promuovere il ricorso, prevede che genitori e minori siano assistiti da un difensore, sancisce l’obbligo di audizione dei genitori nonché (nel testo già applicabile nella specie ratione temporis) l’obbligo di ascolto del minore dodicenne, od anche di età inferiore ove dotato di discernimento. Non si dubita, poi, che il provvedimento adottato dal primo giudice sia immediatamente reclamabile, oltre che revocabile ad istanza del genitore interessato. Infine, ed è argomento che appare dirimente, il decreto che dispone la limitazione o la decadenza della responsabilità genitoriale incide su diritti di natura personalissima, di primario rango costituzionale (Cass. n. 26633/016 cit. n. 12650/015).
Del resto la Corte Costituzionale, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 1 del 2002, ha chiarito che dalla novità introdotta dalla L. n. 149 del 2001, art. 37, comma 3 (che ha aggiunto all’art. 336 c.c., un comma 4, il quale stabilisce che “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti – ovvero adottati ai sensi degli artt. 330, 333 c.c. – i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”) si evince l’attribuzione della qualità di parti del procedimento che, in quanto tali, hanno diritto ad averne notizia ed a parteciparvi, non solo dei genitori ma anche del minore; ed ha aggiunto che la necessità che il contraddittorio sia assicurato anche nei confronti del minore, previa eventuale nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c., può trarsi anche dall’art. 12, comma 2, della Convenzione sui diritti del fanciullo, resa esecutiva con L. n. 176 del 1991 e perciò dotata di efficacia imperativa nell’ordinamento interno, che prevede che al fanciullo sia data la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente sia tramite un rappresentante o un organo appropriato.
Una volta chiarito che il figlio minore è parte necessaria del procedimento, ne discende, come logica conseguenza, che la mancata integrazione del contraddittorio nei suoi confronti comporterà la nullità del procedimento medesimo, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 354 c.p.c., comma 1.
Occorre a questo punto stabilire a chi spetti la rappresentanza del minore nel processo qualora, come nel caso in esame, questi non sia già rappresentato da un tutore provvisorio, nominato dal giudice in via cautelare ed urgente od all’atto dell’adozione di precedenti provvedimenti meramente limitativi della responsabilità genitoriale.
Ad avviso del collegio, nei cd. giudizi de potestate la posizione del figlio risulta sempre contrapposta a quella di entrambi i genitori, anche quando il provvedimento venga richiesto nei confronti di uno solo di essi, non potendo in questo caso stabilirsi ex ante la coincidenza e l’omogeneità dell’interesse del minore con quello dell’altro genitore (che potrebbe presentare il ricorso, o aderire a quello presentato da uno degli altri soggetti legittimati, per scopi meramente personali, o, per contro, in questa seconda ipotesi, chiederne la reiezione) e dovendo pertanto trovare applicazione il principio, più volte enunciato in materia, secondo cui è ravvisabile il conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente e il suo rappresentante legale con conseguente necessità della nomina d’ufficio di un curatore speciale che rappresenti ed assista l’incapace (art. 78 c.p.c., comma 2) – ogni volta che l’incompatibilità delle loro rispettive posizioni è anche solo potenziale, a prescindere dalla sua effettività (Cass. nn. 1957/016, 16533/010, 12290/010).
Nel caso di specie, peraltro, in cui la richiesta di adozione del provvedimento proveniva dal P.M. ed era rivolta contro entrambi i genitori, la sussistenza del conflitto era certa ed era pertanto indubitabile che la rappresentanza nel procedimento del piccolo F. dovesse essere affidata ad un curatore speciale, cui il ricorso andava comunicato ed al quale spettava di esaminare gli atti processuali e di formulare le conclusioni ritenute più opportune nell’interesse del minore.
Dall’esame del fascicolo d’ufficio, cui questa Corte ha accesso in ragione della denuncia di un error in procedendo, non risulta che il Tribunale dei minori di Bologna abbia provveduto alla nomina del curatore speciale, nonostante la sollecitazione rivoltagli in tal senso dallo stesso P.M. richiedente.
Al contrario, secondo quanto emerge dalla lettura del decreto con il quale ha dichiarato decaduti M. e B. dalla responsabilità genitoriale, il giudice di primo grado ha sostanzialmente ignorato la qualità del minore di parte del procedimento, limitandosi a sentire gli odierni ricorrenti e ad acquisire informazioni dai servizi sociali.
Va ancora precisato che non risulta che il reclamo proposto dai genitori sia stato notificato al tutore provvisorio del minore, per la prima volta nominato dal tribunale proprio con il provvedimento reclamato, ma che, in ogni caso, un eventuale ordine di integrazione del contraddittorio disposto nei suoi confronti dalla corte d’appello non sarebbe valso a sanare il vizio procedurale verificatosi per effetto della mancata partecipazione del minore al giudizio di prime cure, che avrebbe dovuto essere assicurata attraverso la nomina di un curatore speciale che ne rappresentasse gli interessi.
Il decreto impugnato deve pertanto essere cassato e, ricorrendo l’ipotesi disciplinata dall’art. 383 c.p.c., comma 3, il processo deve essere rinviato al Tribunale dei minori di Bologna, in diversa composizione, perché provveda all’integrazione del contraddittorio nei confronti del minore.
Resta assorbito il secondo motivo del ricorso, che investe la decisione di merito.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, assorbito il secondo; cassa il provvedimento impugnato e rinvia al Tribunale dei Minori di Bologna, in diversa composizione, per l’integrazione del contraddittorio nei confronti del minore.
Dispone che in caso di diffusione della sentenza siano omessi i nominativi delle parti e degli altri soggetti in essa menzionati.
Così deciso in Roma, il 30 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2018

La dichiarazione di adottabilità è ammissibile solo come “soluzione estrema”

Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 2018, n. 7559
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21594/2017 proposto da:
T.S., E.H.N., domiciliati in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall’avvocato Frank Andrea, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Venezia;
– intimata –
contro
N.S., quale tutore legale del minore T.R., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Agostinelli Franco, giusta procura speciale alle liti;
– resistente –
avverso la sentenza n. 11/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 07/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/02/2018 dal Cons. Dott. DI MARZIO MAURO.
Svolgimento del processo
1. – Con sentenza del 7 febbraio 2017 la Corte d’appello di Venezia, sezione minorenni, ha respinto l’appello proposto da T.S. nei confronti di N.S., nella qualità di tutore di E.H.T.R.J., di E.H.N. e del pubblico ministero, contro la sentenza con cui il Tribunale per i minorenni di Venezia aveva dichiarato lo stato di adottabilità del minore E.H.T.R.J..
La Corte territoriale ha osservato:
-) che la T. aveva motivato la propria impugnazione sull’assunto che la condotta addebitatale dal Tribunale, consistita nell’allontanamento dalla comunità ove si trovava con il minore, era in realtà giustificata dalla sua condizione di gravidanza a rischio;
-) che la relazione aggiornata dei servizi affidatari non lasciava spazio a giustificazioni della condotta materna, confermando l’inaffidabilità, la debolezza e la propensione della donna, il suo compagno e la famiglia materna allargata a porre in essere condotte devianti e pregiudizievoli per la prole;
-) che, difatti, anche il secondogenito della T. aveva manifestato le stesse gravi e preoccupanti condizioni di trascuratezza, malnutrizione, ritardo psicomotorio e della maturazione ossea, scarsa crescita staturo-ponderale del fratello, con certificata esposizione all’assorbimento di sostanze stupefacenti (cocaina e cocaetilene, metabolita generato dalla assunzione combinata di alcol e cocaina) rinvenute attraverso gli esami tossicologici cui si erano sottoposti i genitori;
-) che la T. aveva confermato nel tempo di possedere una personalità fragile, insicura, completamente dipendente dal compagno D.G.F., il quale aveva a propria volta manifestato nei rapporti con gli operatori sociali tratti caratteriali fortemente impulsivi, di scarso controllo e provocazione denigratoria;
-) che la medesima T. persisteva nel negare ogni propria responsabilità per le situazioni di pericolo e deprivazione cui erano risultati esposti entrambi i figli;
-) che la donna non aveva alcun progetto abitativo e lavorativo concreto, mentre la sua famiglia allargata, come risultante da atti penali acquisiti al giudizio, mancava di risorse vicarianti e, al contrario, necessitava a propria volta del sostegno dei servizi sociali;
-) che ai servizi sociali era stato riferito che la T. avrebbe “venduto” l’identità del primogenito ad E.H.N., tanto che la nonna materna aveva chiesto l’annullamento del riconoscimento di paternità da parte sua, rinunciando poi alla registrazione dell’istanza;
-) che il quadro delle condizioni dell’appellante e della famiglia naturale allargata del minore era tale da giustificare ampiamente la decisione impugnata, ed appariva tanto più incompatibile con l’ipotesi di un rientro del minore presso la madre in considerazione delle gravi condizioni, certificate in atti da operatori sanitari e medici, in cui il bambino era stato accolto e riparato dapprima in comunità, e poi in ambito etero-familiare, tanto da rendere ancora necessarie terapie specifiche e sostegno psicoterapeutico, secondo quanto risultante da relazioni di un neuropsichiatra, di uno psicologo e dell’assistente sociale.
2. – Per la cassazione della sentenza T.S. e E.H.N. hanno proposto ricorso per due motivi.
Il tutore ha depositato la procura alle liti rilasciata al proprio difensore.
Motivi della decisione
1. – Il ricorso contiene due motivi.
1.1. – Il primo motivo è svolto da pagina 8 a pagina 21 del ricorso sotto la rubrica: “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione della L. n. 184 del 1983, artt. 8 e 21, ed in relazione all’art. 111 Cost., sui principi del giusto processo”.
I ricorrenti, richiamati alcuni principi affermati da questa Corte e dalla Corte Edu in tema di adozione, sostengono che la Corte territoriale avrebbe attribuito alla T. un vero e proprio disturbo comportamentale, desunto tuttavia non già da un accertamento tecnico medico-legale, bensì da valutazioni compiute dai servizi sociali, senza che risultasse la loro specifica competenza tecnica e senza che dette valutazioni, raccolte in assenza di contraddittorio, fossero state sottoposte ad alcun vaglio critico.
Inoltre, la sentenza impugnata neppure si era misurata con lo scrutinio della irreversibilità del disturbo diagnosticato alla T. e sulla possibilità di interventi conservativi che potessero porre rimedio alla situazione rilevata, tanto più che, anche ad ammettere una qualche criticità del rapporto genitoriale, ciò non poteva giustificare il definitivo sradicamento del minore dalla famiglia di origine.
Né il giudizio espresso dalla Corte d’appello poteva fondarsi sull’allontanamento da parte della T. dalla comunità, giacché ella aveva comprovato che tale allontanamento era stato necessitato dalla gravidanza a rischio, che l’aveva indotta a fare ritorno a casa, ove era accudita dalla propria famiglia, essendo peraltro contrario al vero che, successivamente a detto allontanamento, avesse interrotto i rapporti con il minore, rapporti che, al contrario, erano stati impediti dal comportamento ostruzionistico dei servizi sociali, venuti meno al loro compito di adottare programmi volti a verificare e migliorare la sua capacità genitoriale.
D’altro canto nessuna indagine era stata compiuta per appurare od escludere la capacità genitoriale del padre, ritenuto aprioristicamente inadeguato per il solo fatto di essere stato per un certo tempo ristretto in carcere in forza di una misura cautelare in seguito cessata.
1.2. – Il secondo motivo è svolto da pagina 21 a pagina 35 del ricorso sotto la rubrica: “Nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, per difetto di motivazione ai sensi del combinato disposto dell’art. 161 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 111 Cost.”.
Secondo i ricorrenti, la sentenza sarebbe sostenuta da argomentazioni fumose ed inconsistenti, prive di fondamento nell’istruttoria espletata e che non avrebbero risposto alle censure indirizzate contro la sentenza d’appello, pervenendo così a confermare la dichiarazione di adottabilità in violazione della regola secondo cui tale soluzione costituisce extrema ratio, e senza considerare che eventuali malattie mentali dei genitori, ove pure sussistenti, non sono sufficienti a giustificare la dichiarazione di adottabilità, se non si dimostri che esse convergono a determinare lo stato di abbandono che costituisce il suo presupposto.
2. – Il ricorso è fondato nel senso che segue.
2.1. – Va accolto il primo motivo.
Come questa Corte ha più volte ribadito, della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 1 (nel testo novellato dalla L. 28 marzo 2001, n. 149) attribuisce al diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine un carattere prioritario – considerandola l’ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico – e mira a garantire tale diritto attraverso la predisposizione di interventi diretti a rimuovere situazioni di difficoltà e di disagio familiare. Ne consegue che, per un verso, compito del servizio sociale non è solo quello di rilevare le insufficienze in atto del nucleo familiare, ma, soprattutto, di concorrere, con interventi di sostegno, a rimuoverle, ove possibile, e che, per altro verso, ricorre la “situazione di abbandono” sia in caso di rifiuto ostinato a collaborare con i servizi predetti, sia qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, la vita da loro offerta al figlio sia inadeguata al suo normale sviluppo psico-fisico, cosicché la rescissione del legame familiare sia l’unico strumento che possa evitargli un più grave pregiudizio ed assicurargli assistenza e stabilità affettiva (Cass. n. 7115/2011).
Movendo dal rilievo che il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine, quale ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è tutelato dalla L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 1, è stato affermato che il giudice di merito deve, prioritariamente, verificare se possa essere utilmente fornito un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare, e, solo ove risulti impossibile, quand’anche in base ad un criterio di grande probabilità, prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittimo e corretto l’accertamento dello stato di abbandono (Cass. n. 6137/2015), quale premessa dell’adozione.
Il diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia d’origine comporta dunque che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità sia praticabile solo come “soluzione estrema”, quando, cioè, ogni altro rimedio appaia inadeguato con l’esigenza dell’acquisto o del recupero di uno stabile ed adeguato contesto familiare in tempi compatibili con l’esigenza del minore stesso. Il giudice di merito, nell’accertare lo stato di adottabilità di un minore, deve allora, per quanto rileva in questa sede: a) verificare l’effettiva ed attuale possibilità di recupero dei genitori, sia con riferimento alle condizioni economico-abitative, senza però che l’attività lavorativa svolta e il reddito percepito assumano valenza discriminatoria, sia con riferimento alle condizioni psichiche, queste ultime da valutare, se del caso, con una indagine peritale; b) estendere tale verifica anche al nucleo familiare, di cui occorre accertare la concreta possibilità di supportare i genitori e di sviluppare rapporti con il minore, anche se, allo stato, mancanti (Cass. n. 6552/2017). E’ stato ulteriormente ribadito che il giudice di merito, nell’accertare lo stato di adottabilità di un minore, deve in primo luogo esprimere una prognosi sull’effettiva ed attuale possibilità di recupero, attraverso un percorso di crescita e sviluppo, delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento, in primo luogo, alla elaborazione, da parte dei genitori, di un progetto, anche futuro, di assunzione diretta della responsabilità genitoriale, caratterizzata da cura, accudimento, coabitazione con il minore, ancorché con l’aiuto di parenti o di terzi, ed avvalendosi dell’intervento dei servizi territoriali (Cass. n. 14436/2017).
Nel caso in esame, allora, è agevole osservare anzitutto che, mentre alla T. sono state attribuite condizioni di fragilità psichica senza che si sia proceduto ad un’indagine affidata a tecnici della materia, la posizione di E.H.N. non è stata neppure vagliata, non potendosi certo desumere un giudizio di idoneità genitoriale dalla circostanza, di per sé sola considerata, che il medesimo sia stato sottoposto a misure restrittive della libertà personale.
Ed inoltre, il giudizio riservato alla T., peraltro esclusivamente fondato su risultanze provenienti dai servizi sociali, in mancanza, come si è detto, di un accertamento esperito a mezzo di consulenza tecnica d’ufficio, pure sollecitata, non si è in alcun modo esteso alla valutazione prognostica della recuperabilità della medesima al suo ruolo genitoriale, valutazione che non può ritenersi compiuta dalla Corte territoriale neppure per implicito.
Ciò è tanto più vero ove si consideri che la circostanza dell’abbandono da parte della T. della comunità ove era ricoverata con il minore, circostanza che ha assunto un rilievo centrale nel giudizio della Corte d’appello, non è stata valutata in relazione al suo assunto, pure menzionato della sentenza impugnata, quale oggetto di apposito motivo d’appello, secondo cui tale allontanamento si era reso necessario in presenza di una gestazione a rischio, essendo d’altronde mancata ogni verifica della fondatezza della tesi della T. secondo cui ella avrebbe inteso riprendere i rapporti col minore, ma sarebbe stata in ciò è impedita dal comportamento ostruzionistico dei servizi sociali.
Sicché, la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata alla medesima Corte d’appello in diversa composizione perché, attenendosi ai principi di diritto poc’anzi richiamati, effettui i necessari accertamenti come sopra indicati, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.
2.2. – Il secondo motivo è assorbito.
3. – Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo del ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Venezia. Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 21 febbraio 2018.
Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2018

È manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 co. 1 c.p. nella parte in cui non prevede la non punibilità di fatti commessi in danno di ex convivente more uxorio

Corte cost. Ord., 16 marzo 2018, n. 57
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, recante “Modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della L. 20 maggio 2016, n. 76”, promosso dal Tribunale ordinario di Matera, nel procedimento penale a carico di N. D., con ordinanza del 21 aprile 2017, iscritta al n. 105 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto che, con ordinanza del 21 aprile 2017 (r.o. n. 105 del 2017), il Tribunale ordinario di Matera, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede “la non punibilità anche dei fatti criminosi previsti dal titolo XIII del libro II del Codice Penale commessi in danno di un convivente more uxorio”;
che le questioni di legittimità costituzionale vengono sollevate nell’ambito di un procedimento penale a carico di soggetto “imputato del reato previsto e punito dall’art. 646 c.p. “perché al fine di procurarsi un profitto, avendo il possesso di indumenti, effetti personali e documenti dell’ex convivente … e del loro figlio …, se ne appropriava rifiutandone la restituzione””;
che il giudice rimettente riferisce che l’applicazione dell’art. 649 cod. pen. era stata espressamente invocata dalla difesa dell’imputato, che ne aveva eccepito l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede la non punibilità anche per i fatti commessi in danno del convivente more uxorio, considerando che nel caso di specie tale qualifica soggettiva si sarebbe configurata in capo alla “persona offesa dal reato costituitasi parte civile, avuto riguardo all’accertata sua intercorsa relazione personale di convivenza di fatto con l’imputato … e dalla cui unione è nato il loro figlio minore”;
che il Tribunale ordinario di Matera – dopo aver ricordato che l’art. 649 cod. pen. riconosce la non punibilità in riferimento ai delitti contro il patrimonio di cui al Titolo XIII del Libro II del codice penale (con alcune deroghe relative agli artt. 628, 629 e 630 cod. pen. e di ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alla persona) posti in essere nei confronti del coniuge non legalmente separato, dell’ascendente, del discendente, dell’affine in linea retta, dell’adottante, dell’adottato e del fratello o della sorella conviventi – sottolinea che il D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, recante “Modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della L. 20 maggio 2016, n. 76”, ha aggiunto in quell’articolo anche il riferimento alla parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso (art. 649, primo comma, numero 1-bis, cod. pen.);
che, secondo il giudice rimettente, la ratio originaria della previsione della causa di non punibilità risiederebbe “nell’esigenza di evitare turbamenti nelle relazioni familiari sull’assunto che l’applicazione di una sanzione penale renderebbe irreparabilmente compromessi i rapporti intrafamiliari, così vanificando la riconciliazione del nucleo familiare, inteso e concepito nel rispetto di quanto statuito dall’art. 29 della nostra Carta fondamentale in guisa di “società naturale fondata sul matrimonio””;
che, pur definendo la L. 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) quale “complesso portato ed agognato punto di approdo della presa d’atto di un mutato costume sociale e dell’esistenza di nuclei familiari ontologicamente differenti dalla classica famiglia fondata sul vincolo matrimoniale con effetti civili”, il giudice a quo ritiene che il legislatore con tale legge abbia inteso “irrazionalmente e/o comunque riduttivamente regolamentare le sole unioni civili tra persone dello stesso sesso”, provvedendo a coordinarne la disciplina attraverso le modificazioni e le integrazioni introdotte con il citato D.Lgs. n. 6 del 2017, che ha aggiunto, all’art. 649, primo comma, cod. pen., il riferimento alla parte dell’unione civile, ma non al convivente more uxorio;
che il giudice rimettente ritiene che alla luce della “sua esegesi letterale e nel perimetro rigoroso del precipuo rispetto del principio di legalità, inteso anche quale tassatività della fattispecie penale”, non sia perciò possibile applicare la disposizione censurata ai fatti commessi in danno del convivente more uxorio, escludendo quindi di poter pervenire a un’estensione analogica della disposizione, pure invocata dalla difesa dell’imputato;
che il Tribunale ordinario di Matera riferisce di non ignorare che la Corte costituzionale, in diverse occasioni, ha dichiarato la non fondatezza di analoga questione, ritenendo la convivenza more uxorio non assimilabile al rapporto di coniugio (vengono citate le sentenze n. 352 del 2000, n. 8 del 1996 e n. 423 del 1988 e l’ordinanza n. 1122 del 1988);
che, ciononostante, il giudice rimettente ritiene che la “valutazione della disposizione codicistica … deve, ad ogni buon conto, essere attuata alla stregua dell’attuale realtà sociale, senza alcun dubbio profondamente mutata rispetto a quella esistente ed esaminata dal Legislatore storico, nell’ottica di un’esegesi in sintonia ed al passo con i tempi dello stesso concetto costituzionale di famiglia concepita in guisa di un luogo di sviluppo armonico della persona, fondato ed ispirato da uno stretto e stabile rapporto di solidarietà reciproca”;
che, in particolare, il giudice rimettente concede che, in ragione del “tempo ormai remoto in cui è stata concepita ed emanata” la disposizione censurata, non potevano essere considerati istituti o situazioni di fatto emersi solo successivamente, ma ritiene che sia irragionevole e discriminatorio non ricomprendere fra i soggetti che beneficiano della causa di non punibilità in esame “anche i partecipi di una convivenza more uxorio, ovvero persone di sesso diverso”;
che, a sostegno delle proprie argomentazioni, il giudice a quo richiama l’art. 199, comma 3, lettera a), del codice di procedura penale, che equipara il coniuge a chi conviva o abbia convissuto con l’imputato in relazione alla facoltà di astenersi dal deporre, affinché “vada, re melius perpensa, nuovamente considerato anche il segnalato parallelismo della ratio legis posta a base” di tale disposizione e di quella censurata, che mirerebbero entrambe a salvaguardare la prevalenza dell’unità della famiglia rispetto alle esigenze di giustizia della collettività;
che il giudice rimettente ritiene che, anche alla luce del rilievo assegnato alla convivenza di fatto dalla L. n. 76 del 2016, il mancato riconoscimento della causa di non punibilità per il convivente more uxorio violi il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), nonché il diritto di difesa (art. 24 Cost.), poiché si precluderebbe “la fruizione, nelle ipotesi di cui alla medesima norma di diritto penale sostanziale, della speciale causa di non punibilità”, risultando “irrazionale il disallineamento della sfera soggettiva e di operatività della norma …, non derivando, di converso, dall’accoglimento del sollevato incidente di costituzionalità alcun vulnus alla protezione della “istituzione familiare” tutelata in via primaria dall’art. 29 della Carta costituzionale”;
che, in questa prospettiva, non si terrebbe conto del fatto che la fisionomia dell’originaria istituzione famigliare fondata sul matrimonio tutelata dall’art. 29 Cost. è “mutata sul piano sociale e culturale e dei costumi al punto da essersi dovuta disciplinare, persino, l’unione civile di persone del medesimo sesso e tanto da sembrare a fortiori meritevole di pari dignità e tutela la posizione di un convivente di fatto more uxorio, anche di sesso diverso dal proprio partner”;
che, da ultimo, nel caso oggetto del giudizio emergerebbe “il dato fattuale di una convivenza more uxorio tra l’imputato e la persona offesa, dalla cui unione è nato, persino, un figlio, a comprova di una pregressa stabilità di rapporti e di una comunanza di vita ed interessi, non suscettibile di affievolimento od inesistenza di tutela, neppure parziale, anche a preservazione di una possibile riconciliazione delle parti”;
che, di conseguenza, sussisterebbe la rilevanza delle questioni, poiché l’art. 649 cod. pen. costituirebbe disposizione di applicazione necessaria, almeno con riguardo alla posizione del figlio dell’imputato, influendo altresì sulla definizione del giudizio, poiché l’eventuale sentenza di accoglimento inciderebbe sulle formule di proscioglimento o quanto meno sulla formula del dispositivo della decisione;
che, con atto depositato il 12 settembre 2017, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale vengano dichiarate inammissibili e comunque infondate;
che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, l’inammissibilità delle questioni deriverebbe dalla circostanza che il rimettente invoca un intervento della Corte costituzionale in una materia (quella delle cause di non punibilità) riservata alla discrezionalità del legislatore, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata (al riguardo vengono citate le sentenze n. 214 del 2014, n. 134 e n. 36 del 2012, n. 352 del 2000);
che, in questa prospettiva, il legislatore in modo non irragionevole o arbitrario avrebbe espresso una “precisa scelta di politica criminale che ha attribuito prevalenza all’interesse a favorire la riconciliazione rispetto a quello alla punizione del colpevole”, con riferimento a soggetti che siano o siano stati legati da determinati vincoli familiari caratterizzati da una convivenza tendenzialmente duratura e fondata sulla reciproca assistenza, oltre che su comuni ideali e stili di vita (sono richiamate le sentenze n. 352 del 2000 e n. 423 del 1988, oltre che l’ordinanza n. 1122 del 1988);
che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, le questioni sarebbero inammissibili anche alla luce delle censure in punto di irragionevolezza e di violazione del principio di uguaglianza riferite alla previsione di un trattamento sfavorevole per coloro che commettono reati contro il patrimonio in danno dei conviventi di fatto, rispetto a quanti pongono in essere le medesime condotte nei confronti delle parti dell’unione civile ai sensi della L. n. 76 del 2016;
che, a questo proposito, viene citata la sentenza n. 223 del 2015 della Corte costituzionale, con cui – nel dichiarare inammissibile una diversa questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 24, primo comma, Cost., sullo stesso art. 649, primo comma, cod. pen., nella parte in cui esclude la punibilità dei congiunti della persona offesa dal reato – pur riconoscendosi “l’obsolescenza che la disposizione in esame ormai sconta”, si sarebbe affermato che spetta al legislatore l’indispensabile aggiornamento della disciplina dei reati contro il patrimonio commessi in ambito familiare, con ciò ribadendosi il dovere di rigorosa osservanza dei limiti del sindacato costituzionale;
che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il recente intervento del legislatore operato con il D.Lgs. n. 6 del 2017, che “il remittente giudica apoditticamente irrazionale e comunque riduttivo”, manifesterebbe la volontà di estendere la causa di non punibilità di cui all’art. 649 cod. pen. alla sola parte dell’unione civile e non anche al convivente more uxorio, rivelandosi scelta frutto di valutazioni non censurabili;
che la questione sollevata rispetto all’art. 24 Cost. sarebbe inammissibile, perché priva di motivazione e costituente “un mero riflesso della denuncia della norma sospettata sul piano del mancato rispetto del principio di eguaglianza”;
che le questioni di legittimità costituzionale sarebbero comunque non fondate, non potendosi ravvisare alcuna violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., poiché il diverso trattamento riservato a coloro che non siano legati dai rapporti di parentela previsti dalla disposizione censurata non sarebbe irragionevole né ingiustificato;
che l’Avvocatura generale dello Stato ricorda che analoga questione di legittimità costituzionale è già stata dichiarata in diverse occasioni non fondata dalla Corte costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 8 del 1996 e n. 423 del 1988 e l’ordinanza n. 1122 del 1988);
che, da ultimo, con la sentenza n. 352 del 2000 la Corte costituzionale avrebbe ribadito che la convivenza di fatto è diversa dal vincolo coniugale e, pertanto, non vi sarebbe alcuna esigenza costituzionale di parificarne il trattamento;
che, ancora, secondo l’Avvocatura generale dello Stato sarebbe arbitrario sostenere “la piena equiparazione del convivente che abbia comunque interrotto il rapporto, instaurato in via di mero fatto, come nel caso sottoposto all’esame del rimettente, al coniuge non legalmente separato”, alla luce della procedibilità a querela prevista in caso di separazione fra i coniugi dall’art. 649 cod. pen.;
che, rispetto all’accostamento operato dal giudice rimettente fra la disposizione censurata e l’art. 199, comma 3, lettera a), cod. proc. pen., l’Avvocatura generale dello Stato richiama la citata sentenza n. 352 del 2000, che non avrebbe ritenuto sufficiente tale riferimento per accogliere analoga questione;
che, infine, manifestamente infondata risulterebbe anche la censura sollevata rispetto all’art. 24 Cost., poiché non sarebbe individuabile alcuna violazione del diritto di difesa del convivente di fatto, derivante dalla mancata estensione della causa di non punibilità.
Considerato che il Tribunale ordinario di Matera ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che la causa di non punibilità ivi prevista operi anche a beneficio del convivente more uxorio;
che, in particolare, il rimettente sottolinea che il D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, recante “Modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della L. 20 maggio 2016, n. 76”, ha aggiunto, tra i soggetti che beneficiano della causa di non punibilità in esame, la parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso (art. 649, primo comma, numero 1-bis, cod. pen.), ma non ha invece ricompreso tra tali soggetti il convivente more uxorio;
che tale omissione, alla luce dell’attuale realtà sociale, risulterebbe anacronistica ed irragionevole, determinando la lesione degli artt. 3 e 24 Cost.;
che le questioni sollevate risultano manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza;
che, infatti, nella stessa ordinanza di rimessione – peraltro assai succinta in punto di descrizione della fattispecie concreta – il soggetto nei cui confronti si procede nel processo a quo è definito esplicitamente “ex convivente”, e si ragiona della convivenza in questione come “pregressa” o “intercorsa” relazione;
che, a mera conferma delle affermazioni contenute nell’ordinanza di rimessione, la circostanza risulta anche dagli atti del giudizio principale (sentenza n. 58 del 2009), dai quali emerge che, in ogni caso, la condotta per la quale si procede sarebbe stata posta in essere in epoca successiva alla cessazione della convivenza;
che da tale circostanza – laddove venisse accertata nel processo a quo la responsabilità dell’imputato in riferimento alle condotte poste in essere nei confronti della ex convivente – consegue inequivocabilmente l’inapplicabilità della disposizione censurata e, perciò, la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate (ex multis, ordinanze n. 93 e n. 92 del 2016 e n. 264 del 2015).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della L. 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Matera, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2018.
Depositata in Cancelleria il 16 marzo 2018.

CONTRATTI DI CONVIVENZA

Di Gianfranco Dosi

Conviventi di fatto e negozialità
1) “Contratti di convivenza” e “contratti tra conviventi”
L’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, nella parte in cui disciplina le convivenze di fatto, si occupa dal comma 50 al comma 64 dei “contratti di convivenza” (con efficacia erga omnes a seguito degli adempimenti di iscrizione anagrafica) e non in genere dei “contratti tra conviventi”. Quindi non si occupa dei contratti con i quali i conviventi, in virtù del principio generale che garantisce piena autonomia negoziale anche nel diritto di famiglia, possono determinare con effetti tra loro obbligatori tutti i rapporti patrimoniali della loro vita in comune, anche per il tempo successivo all’eventuale cessazione della convivenza
1 Quanti hanno finora commentato il “contratto di convivenza” concordano nel ritenere che si tratti di un contratto tipico diverso da quello a contenuto più ampio e anche atipico che i conviventi possono sempre tra loro concludere in virtù della piena autonomia privata e negozialità riconosciuta dall’ordinamento giuridico. .
Si capisce molto bene dal comma 53 – che indica il contenuto limitato dei contratti di convivenza – che l’indicazione di una possibile regolamentazione generale da parte dei conviventi dei loro rapporti patrimoniali nella nuova legge è assente. Pertanto tutta l’elaborazione dottrinale prodotta da decenni sui “contratti tra conviventi” è solo marginalmente utilizzabile per l’analisi dei “contratti di convivenza” indicati nella legge, anche se è auspicabile che in sede di applicazione del nuovo istituto prevalga, come si dirà più oltre, una interpretazione ampia del contenuto del contratto.
Naturalmente “accordi tra conviventi” continueranno ad essere certamente possibili, nei limiti dei diritti di natura indisponibile assicurati dalla nuova legge, con effetti obbligatori tra le parti, fatti salvi gli effetti erga omnes eventualmente garantiti dalle modalità prescelte (per esempio la trascrizione di vincoli o di trasferimenti oggetto di tali contratti).
L’incipit (comma 50: I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza) sembrerebbe andare nella direzione di un possibile negozialità di tipo generale. Non è così. Nonostante questo incipit, il legislatore si occupa soltanto di tipicizzare un “contratto di convivenza” a contenuto limitato, attribuendogli in presenza di determinati presupposti la forza dell’atto opponibile a terzi, analogamente a quanto in sostanza il codice prevede per le convenzioni matrimoniali.
All’origine, nei progetti di legge originari, i contratti di convivenza avevano invece un contenuto più generale e non un contenuto limitato. Questo in quasi tutti i disegni di legge e di conseguenza anche nel primo testo unificato proposto il 24 giugno 2014 in Commissione giustizia del Senato (che in questa parte riproduceva quasi testualmente la proposta avanzata dal notariato nel 2011 sui patti di convivenza). Nel testo unificato si prevedeva all’art. 13 che il “contratto di convivenza” è il contratto con il quale “i conviventi possono disciplinare i reciproci rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune e alla sua cessazione” e quindi si prevedeva anche una negozialità in vista di una possibile crisi del rapporto. In particolare si prevedeva che con il “contratto di convivenza” si potessero disciplinare cinque aspetti: “1) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, anche in riferimento ai termini, alle modalità e all’entità delle rispettive contribuzioni; 2) che i beni acquistati a titolo oneroso anche da uno dei conviventi successivamente alla stipula del contratto siano soggetti al regime della comunione ordinaria di cui agli articoli 1100 e seguenti del codice civile; 3) i diritti e le obbligazioni di natura patrimoniale derivanti per ciascuno dei contraenti dalla cessazione del rapporto di convivenza per cause diverse dalla morte; 4) che, in deroga al divieto di cui all’art. 458 c.c. e nel rispetto dei diritti dei legittimari, in caso di morte di uno dei contraenti dopo oltre sei anni dalla stipula del contratto, spetti al superstite una quota di eredità non superiore alla quota disponibile. In assenza di legittimari, la quota attribuibile parzialmente può arrivare fino a un terzo dell’eredità; 5) che nei casi di risoluzione del contratto … sia previsto l’obbligo di corrispondere al convivente con minori capacità economiche un assegno di mantenimento determinato in base alle capacità economiche dell’obbligato, al numero di anni del contratto di convivenza e alle capacità lavorative di entrambe le parti”.
Di tutti questi cinque aspetti l’attuale “contratto di convivenza” (che perciò è definibile “a contenuto limitato”) può occuparsi solo dei primi due e cioè delle modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune e della scelta del regime di comunione (con la differenza che nella legge attuale su parla di “comunione dei beni” mentre nel testo unificato del 2014 si parlava di “comunione ordinaria”).
Restano fuori dal “contratto di convivenza” regolamentato dalla nuova legge gli altri aspetti e cioè gli accordi in vista della cessazione della convivenza (diritti e obbligazioni di natura patrimoniale reciproci e previsione di un eventuale assegno alimentare a contenuto non deteriore rispetto a quello previsto per legge) e altre clausole negoziali. Aspetti questi che non possono essere contenuti nel “contratto di convivenza” ma che potrebbero ben essere contenuti – come sopra si è detto – con validità obbligatoria tra le parti, in ulteriori accordi tra conviventi integrativi, e non sostitutivi s’intende, della disciplina inderogabile che la nuova legge introduce a tutela minima dei diritti dei conviventi.
Rimane anche sempre possibile naturalmente l’uso di strumenti ulteriori quali la donazione o il testamento.
2) Il contenuto contributivo del contratto di convivenza
Nel dibattito che da decenni caratterizza l’evoluzione del tema relativo alla negozialità tra conviventi viene messo in primo piano, quale contenuto dei quelli che sono sempre stati tradizionalmente genericamente chiamati contratti di convivenza, l’impegno reciproco a contribuire alle necessità del ménage familiare mediante la corresponsione di somme di denaro o la messa a disposizione di propri beni o della propria attività lavorativa anche solo domestica.
Questo aspetto è presente anche nel nuovo e tipico “contratto di convivenza” disciplinato dalle legge 20 maggio 2016, n.76 che indica questo contenuto definendolo “modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo” (comma 53, lett. b).
Nel testo unificato del 2014 del disegno di legge originario questo aspetto era esplicitato con espressioni di maggiore ampiezza (“modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, anche in riferimento ai termini, alle modalità e all’entità delle rispettive contribuzioni”).
Effettivamente quando tra due persone vi sono doveri morali e sociali di solidarietà reciproca, una suddivisione negoziale dei compiti di contribuzione alla vita comune appare del tutto ragionevole. Così come del tutto ragionevole è pensare che i due conviventi possano assumere obbligazioni reciproche di contribuzione adempiute in denaro o con il proprio lavoro anche domestico. L’assunzione di obblighi di corresponsione di somme di denaro a titolo di mantenimento di un partner nei confronti dell’altro costituisce una funzione storica dei contratti di convivenza. In effetti attraverso l’indicazione di modalità di “contribuzione alle necessità della vita in comune” può raggiungersi anche l’obiettivo di assicurare un mantenimento al partner debole.
La legge 20 maggio 2016, n. 76 non concepisce, quindi, il contratto di convivenza come un contratto di mantenimento, ma come un più ampio contratto di distribuzione di compiti relativamente al ménage familiare, in simmetria potremmo dire con quanto prevede l’ultimo comma dell’art. 143 c.c. per i coniugi che sono “tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni fella famiglia”.
L’obiettivo immediato di questa tutela non è il partner debole ma la famiglia (coniugale, dei partners dell’unione o dei conviventi di fatto).
Si tocca qui uno dei punti di contatto più significativi tra la disciplina della convivenza di fatto e quella del matrimonio e dell’unione civile, rappresentato dall’esistenza di un comune regime di contribuzione ai bisogni della famiglia. 2
2 Cfr la voce PRINCIPIO CONTRIBUTIVO Indicato per legge come regime primario nel matrimonio e nell’unione civile e messo a disposizione dei conviventi di fatto come obiettivo possibile della loro negozialità.
La legge non poteva imporre ai conviventi un obbligo contributivo reciproco giacché la convivenza di fatto è pur sempre caratterizzata dall’assenza di tali obblighi, ma suggerisce uno schema negoziale tipico per assumere un dovere di distribuzione dei compiti di conduzione del ménage familiare.
E questo soprattutto potrà essere il vero contenuto innovativo della negozialità tra i conviventi a cui gli interessati possono accedere facilmente con forme negoziali semplificate come quelle previste dalla nuova legge per la redazione e la pubblicità erga omnes di tali pattuizioni.
L’obiettivo della tutela diretta del partner debole potrà essere sempre assicurato da altre modalità negoziali (contratto di mantenimento, trascrizione di vincoli di destinazione, clausole negoziali relative al diritto sull’abitazione e tutte le altre della tradizione notarile).
II La forma e la pubblicità del contratto di convivenza
comma 50
I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza.
51. Il contratto di cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico. 52. Ai fini dell’opponibilità ai terzi, il professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione ai sensi del comma 51 deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.
1) La forma del contratto di convivenza
In base al comma 51 “Il contratto di cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico”.
Pertanto la legge prevede ad substantiam la forma scritta (art. 1350 c.c.), implicita peraltro nella precisazione che deve trattarsi di atto pubblico o scrittura privata autenticata.
Nel testo della legge precedente al maxiemendamento del 26 febbraio 2016 si prevedeva che i contratti di convivenza dovessero essere redatti a pena di nullità in forma scritta e ricevuti da un notaio in forma pubblica.
Con la previsione dell’atto pubblico il testo aveva individuato quindi nel solo notaio il professionista che riceve l’atto e che poteva assistere i conviventi nella redazione del contratto. Contro questa scelta l’avvocatura ha chiesto e ottenuto in Senato la presentazione di un emendamento che ha poi portato al testo poi approvato.
I motivi del dissenso rispetto alla scelta che era stata fatta nel testo unificato erano sostanzialmente tre.
1) Il primo motivo attiene alla sostanza del problema. I “contratti di convivenza” sono un aspetto del più generale tema dei rapporti di convivenza che costituiscono rapporti di famiglia e non semplici rapporti commerciali. La convivenza è la modalità che due persone (che si vogliono bene e hanno voglia di vivere insieme) scelgono per metter su famiglia, nella prospettiva di un futuro stabile della vita di coppia, per organizzare i loro rapporti affettivi e patrimoniali, in vista spesso anche della nascita di figli, non al di fuori delle regole della vita familiare ma solo al di fuori della disciplina matrimoniale; e molto spesso senza escludere affatto la stessa possibilità di contrarre in seguito matrimonio. In altre parole la decisione di convivere non è una decisione contro la vita familiare ma una decisione alla quale conseguono rapporti di natura familiare che hanno la stessa dignità della vita familiare fondata sul matrimonio.
I rapporti di convivenza (con o senza figli) sono quindi interni al diritto di famiglia e pongono problemi ai quali il diritto di famiglia e la giurisprudenza del diritto di famiglia nella sua evoluzione hanno dato soluzione.
Si apre quindi con la nuova legge una prospettiva di valorizzazione delle relazioni familiari stabili di fatto e quindi una prospettiva di interventi di garanzie e di tutela che l’ordinamento giuridico e giudiziario dovranno assicurare.
Aver pensato di lasciar fuori da questo contesto gli avvocati con il loro ruolo di difensori, di mediatori, di negoziatori era stata una scelta irragionevole.
2) Il secondo motivo di dissenso sta nella forma dell’atto pubblico che era stata scelta dal testo unificato per la redazione dei contratti di convivenza e che conduce alla competenza del notaio.
La scelta dell’atto pubblico non è affatto necessitata. Il testo unificato originario aveva previsto, per la redazione dei contratti di convivenza la forma dell’atto pubblico sebbene il contratto tra i conviventi – nonostante che individui nella comunione dei beni il possibile regime patrimoniale – non è per definizione una convenzione matrimoniale che in base all’art. 162 c.c. deve essere stipulata per atto pubblico e trasmessa all’ufficio di stato civile per la relativa annotazione a margine dell’atto di matrimonio. Inoltre il contratto di convivenza non può contenere nessun riferimento ad atti trascrivibili (come potrebbe avvenire per una comunione convenzionale) e quindi non deve essere neanche trascritta eventualmente ai sensi degli articoli 2643 e seguenti del codice civile.
Come molti disegni di legge prevedevano ben si sarebbe potuto adempiere alla redazione del contratto con una semplice scrittura privata tra le parti.
Potrebbe ritenersi che la forma pubblica sia stata considerata inevitabile e in certo qual modo obbligata, dalla previsione degli adempimenti relativi alla pubblicità prevista ai fini dell’opponibilità ai terzi. In effetti il disegno di legge prevedeva e oggi la legge prevede – introducendo una ipotesi di pubblicità dichiarativa (simmetricamente a quella relativa alle convenzioni matrimoniali: Cass. civ. Sez. Unite, 13 ottobre 2009, n. 21658 3
3 Cass. civ. Sez. Unite, 13 ottobre 2009, n. 21658 (Fam. Pers. Succ., 2009, 12, 1007). La costituzione del fondo patrimoniale di cui all’art. 167 cod. civ. è soggetta alle disposizioni dell’art. 162 cod. civ., circa le forme delle convenzioni matrimoniali, ivi inclusa quella del quarto comma, che ne condiziona l’opponibilità ai terzi all’annotazione del relativo contratto a margine dell’atto di matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo per gli immobili, ai sensi dell’art. 2647 cod. civ., resta degradata a mera pubblicità-notizia e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato civile, che non ammette deroghe o equipollenti, restando irrilevante la conoscenza che i terzi abbiano acquisito altrimenti della costituzione del fondo. ) – che “ai fini dell’opponibilità ai terzi, il notaio che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato le sottoscrizioni deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”. La funzione della pubblicità dichiarativa è quella di rendere opponibili ai terzi i fatti di cui di prevede la pubblicità; in questo caso l’inosservanza dell’onere di pubblicità comporta la inopponibilità dei fatti non registrati, a meno che non si provi che i terzi ne siano comunque a conoscenza.
Ebbene, non esiste un principio in base al quale gli adempimenti finalizzati alla pubblicità dichiarativa devono essere costituiti da atti necessariamente pubblici. Tali adempimenti possono essere realizzati quindi del tutto legittimamente ed efficacemente anche se l’atto è costituito semplicemente da una scrittura privata.
Si consideri a tale proposito che il disegno di legge prevedeva e la legge prevede che entro dieci giorni il contratto di convivenza sia trasmesso in copia (non all’ufficio di stato civile per l’annotazione a margine di atti pubblici che per i conviventi non esistono, ma) al Comune di residenza dei conviventi “per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 [rectius 4] e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”4
4 Il Regolamento anagrafico che disciplina la raccolta sistematica – in apposite schede – delle posizioni relative alle singole persone, alle famiglie e ai conviventi residenti nel Comune, prevede all’art. 5 (dedicato alla “convivenza anagrafica”) un concetto molto ampio di convivenza, di cui i conviventi ai quali si riferisce la legge attuale, sono solo una parte (“agli effetti anagrafici per convivenza si intende un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena, e simili, aventi dimora abituale nello stesso Comune”). Il riferimento corretto avrebbe tuttavia dovuto essere all’art. 4 dove si parla di “famiglia anagrafica” riferendosi con tale espressione ad “un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune.
L’art. 7 del Regolamento anagrafico prevede l’obbligo di iscrizione della popolazione residente nell’anagrafe. Quindi i conviventi che costituiscono una famiglia anagrafica hanno, come tutte le altre famiglie e come tutte le altre persone residenti, l’obbligo di iscrizione. .
Il “contratto di convivenza” dovrà essere semplicemente annotato e conservato assieme alla scheda di famiglia non appena trasmesso ai fini della opponibilità ai terzi.
3) Il terzo motivo di dissenso era costituito dal fatto che nulla avrebbe impedito al legislatore – come poi è avvenuto – di prevedere che il contratto potesse essere stipulato con scrittura privata e che tale scrittura privata potesse essere autenticata (non solo dal notaio e da altri pubblici ufficiali ma anche) dall’avvocato.
Ed infatti agli avvocati già sono state attribuite funzioni di certificazione e autenticazione di atti, come gli accordi di separazione e di divorzio raggiunti con la loro assistenza – più impegnativi del semplice “contratto di convivenza” – da trasmettere poi direttamente agli uffici di stato civile ai fini della relativa pubblicità nei registri pubblici.
La normativa sugli accordi raggiunti in sede di negoziazione assistita da avvocati (Decreto-legge 12 settembre 2014, n.132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162) prevede all’art. 2 comma 6 e all’art. 5 comma 2 che gli avvocati certificano l’autografia delle firme e la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico (mentre solo se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti soggetti a trascrizione, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale di accordo deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato)5
5 Il potere di autentica della sottoscrizione è anche attribuito ai mediatori dall’art. 11 comma 3 del D. Lgs 4 marzo 2010, n. 28 relativamente all’accordo raggiunto dalle parti. .
Pertanto se all’avvocato la legge già riconosceva il potere di certificare, autenticare e trasmettere all’ufficio di stato civile accordi in materia di separazione e divorzio, non si vede per quale motivo all’avvocato non potesse essere attribuito il potere di assistere due conviventi nella conclusione di un contratto di convivenza (anche autenticando le firme degli stipulanti) e di attribuirgli il dovere di trasmetterlo all’ufficio (peraltro non di stato civile ma di anagrafe) del Comune.
Lo stesso discorso può farsi per la risoluzione del contratto di convivenza in cui sempre solo al notaio il testo di legge originario aveva attribuito poteri di ricezione delle dichiarazioni delle parti e di autenticazione.
Queste ragioni hanno portato nel maxiemendamento alla riforma del testo precedente e a riconoscere anche agli avvocati il potere di redazione dei contratti di convivenza oltre quello di autenticazione della sottoscrizione delle parti.
2) La scrittura privata autenticata dall’avvocato
Il contratto di convivenza quindi va redatto in forma scritta ad substantiam e quindi a pena di nullità (art. 1350 c.c.). In particolare, secondo quanto stabilisce il comma 51, fa redatto con atto pubblico (quindi dal notaio) o con scrittura privata autenticata.
L’art. 2703 c.c. prevede che siano “il notaio” o un “altro pubblico ufficiale” i soli soggetti che possono autenticare una scrittura privata cioè attestare che la sottoscrizione della scrittura privata è stata redatta in presenza di chi l’autentica. Solo in tali condizioni la scrittura privata “fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta” (art. 2702 c.c.) potendo altrimenti (senza tale autenticazione) essere sempre disconosciuta dal suo autore.
La legge 20 maggio 2016, n. 76 inserisce l’avvocato tra i soggetti che, pur non essendo pubblici ufficiali, hanno potere di autenticazione dei contratti di convivenza. In ciò introducendo una deroga all’art. 2703 del codice civile che limita il potere di autentica ai notai e ai pubblici ufficiali a ciò autorizzati. Sostanzialmente, tuttavia, l’autentica dell’avvocato ha gli stessi effetti di quella del notaio rendendo riconosciuto per legge l’atto autenticato. L’avvocato attesta che la sottoscrizione delle parti è stata apposta in sua presenza ed è evidente che l’avvocato dovrà quindi compiutamente identificare le parti.
Non si tratta di una novità. L’art. 83 del codice di procedura civile prevede che l’avvocato possa autenticare la sottoscrizione del mandato rilasciato a margine o in calce all’atto per il giudizio dal cliente.
La normativa sugli accordi raggiunti in sede di negoziazione assistita da avvocati (Decreto-legge 12 settembre 2014, n.132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162) prevede all’art. 2 comma 6 e all’art. 5 comma 2 che gli avvocati certificano l’autografia delle firme e la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico.
3) La dichiarazione dell’avvocato che il contratto di convivenza è conforme alle norme imperative e all’ordine pubblico
Come si è detto agli avvocati viene anche chiesto di certificare “la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico” in simmetria con quanto già previsto nella normativa sulla mediazione civile (art. 12 D. Lgs 4 marzo 2010, n. 28 come modificato dal DL 21 giugno 2013, n. 69 convertito nella legge 9 agosto 2013, n. 98) e sulla negoziazione assistita (art. 5, comma 2, DL 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge 10 novembre 2014, n. 162).
Al notaio non è attribuita questa specifica formalità dal momento che la legge notarile impone ai notai l’adozione di atti che non possono che essere conformi all’ordine pubblico e alle norme imperative (art. 28, legge 16 febbraio 1913, n. 89 e successive modificazioni).
La certificazione della non contrarietà dell’accordo all’ordine pubblico e alle norme imperative e un compito cruciale dal momento che dalla eventuale violazione di norme imperative deriva, secondo i principi generali (art. 1418 c.c.) la nullità del contratto di convivenza.
In che cosa consiste la contrarietà alle norme imperative a all’ordine pubblico?
Tradizionalmente l’ordine pubblico6
6 Cfr la voce ORDINE PUBBLICO viene inteso come l’insieme delle norme fondamentali dell’ordinamento giuridico, spesso non facilmente individuabili nei codici e nelle leggi scritte, riguardanti principi di tipo per lo più etico la cui osservanza ed attuazione è ritenuta indispensabile per l’esistenza stessa dell’ordinamento e costituita dai principi generali e fondamentali, come quelli concernenti la personalità e la libertà dei cittadini, l’ordinamento del matrimonio e della famiglia, la capacità delle persone. Si tratta, per tornare al tema dei diritti indisponibili, di norme inderogabili di cui è pur tuttavia prevista una evoluzione e un continuo adattamento alle esigenze giuridiche che ispirano l’ordinamento giuridico dello Stato.
Il codice civile fa riferimento all’ordine pubblico in più occasioni senza definirlo e senza attribuire a questa espressione significati costanti (art. 31 disp. att. c.c., 5, 23 ult. co, 251, 634, 1229 co 2, 1343, 1354 co 1, 2031 co 2, 2332)
L’espressione viene utilizzata talvolta per qualificare un certo tipo di norme come norme di ordine pubblico (art. 1229 2 co.), altre volte è correlata al buon costume (artt. 31 disp. prel.; 23 ult. co. c.c.), altre volte è affiancata al buon costume e alle norme imperative (artt. 25, 1 co., 634, 1343, 1354 c.c.).
Questa tecnica legislativa approssimativa sembra proprio il riflesso normativo della difficoltà di definire i confini giuridici di queste espressioni.
D’altro lato come ogni clausola generale l’ordine pubblico è effettivamente un concetto elastico e storicamente variabile a seconda dell’esperienza giuridico-organizzativa a cui partecipa. La stessa giurisprudenza, molto scarsa, fa difficoltà a tradurre in una definizione universale e costante il ruolo svolto dall’ordine pubblico come limite dell’autonomia negoziale.
La stessa difficoltà incontra l’interpretazione dell’espressione “norme imperative”.
Le norme specifiche in cui questa espressione è utilizzata e che hanno costituito anche il campo di indagine della giurisprudenza sono innanzitutto quelle di cui all’art. 1322 e all’art. 1418 del codice civile dedicati alla autonomia contrattuale e ai suoi limiti. L’art. 1322 consente alle parti di determinare liberamente il contenuto del contratto “nei limiti imposti dalla legge” mentre l’art. 1418 prevede la nullità generale del contatto che sia contrario “a norme imperative” salvo che la legge disponga diversamente; da cui si desume che anche il concetto di “contrarietà a norme imperative” ha le sue eccezioni. Infatti la giurisprudenza ha ritenuto che una eccezione sia costituita dal fatto che l’ordinamento assicura l’effettività della norma imperativa con altri rimedi (Cass. sez. III, 5 aprile 2003, n. 5372 in un caso in cui la nullità è stata esclusa essendosi verificata la decadenza da benefici fiscali e creditizi e Cass. se. III, 24 maggio 2003, n. 8236 in un caso in cui la nullità è stata esclusa essendo stato esercitato il riscatto da parte dell’avente diritto alla prelazione).
D’altro lato poi l’art. 1418 prevede che il contratto è anche nullo in altri casi, per esempio quando anche ne sia illecita la causa che a sua volta è tale allorché “è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume” (art. 1343 c.c.) o quando ne sia illecito il motivo comune (art. 1345 c.c.) o ancora quando sia sottoposto ad una condizione “contraria a norme imperative” (art. 1354 c..c.). Inoltre sempre l’art. 1418 prescrive la nullità “negli altri casi stabiliti dalla legge”.
Il codice sembra prevedere pertanto due categorie generali di nullità. La prima per “illiceità” e “contrarietà a norme imperative” – espressioni che appaiono abbinate nei primi due commi dell’art. 1418 c.c. sullo steso livello di gravità – e la seconda (art. 1418 terzo comma c.c.) per altri motivi indicati nella legge.
La previsione di due differenti contesti di nullità del contratto (da un lato per illiceità del contratto o per contrasto con norme imperative e dall’altro per contrasto con altre norme non imperative, ma ugualmente producenti la nullità) consente di definire la contrarietà alle norme imperative (cui va equiparata la illiceità del contratto nei casi indicati nel secondo comma dell’art. 1418) come una categoria diversa e non sovrapponibile a quella della nullità, con la conseguenza che non tutti i casi di nullità del contratto – ma solo quelli di illiceità e contrarietà a norme imperative – determinano una condizione di non omologazione dell’accordo conciliativo.
L’equiparazione tra contrarietà a norme imperative ed “illiceità del contratto” (cui fa riferimento in generale l’art. 1346 c.c.) è condivisa in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 4 gennaio 1995, n. 118) dove si ritiene che l’illiceità comporta la contrarietà a norme imperative. Si tratta perciò di categorie giuridiche sostanzialmente analoghe.
Per intenderci, un accordo conciliativo potrebbe astrattamente essere omologato anche se contenesse una condizione meramente potestativa (che produce la nullità ex art. 1355 c.c. richiamato dal terzo comma dell’art. 1418 c.c. ma non una nullità per contrasto con norme imperative) anche se una condizione di tal genere vanificherebbe l’esecuzione dell’accordo.
Diversa ancora è la categoria dell’annullabilità Un accordo conciliativo è certamente valido ancorché possa per qualsiasi motivo considerarsi annullabile. Si pensi all’accordo che preveda la possibilità per il mandatario di acquistare il bene che era stato incaricato di vendere. L’accordo in questione sarebbe annullabile ex art. 1471 n. 4 c.c. ma è certamente valido non essendo contrario a norme imperative.
La giurisprudenza ha ritenuto che norme imperative siano quelle poste a tutela dei principi etici fondamentali dell’ordinamento (Cass. civ. Sez. Unite, 11 gennaio 1973, n. 63) ovvero dell’interesse pubblico (Cass. civ. Sez. I, 7 marzo 2001, n. 3272; Cass. civ. Sez. III, 18 luglio 2003, n. 11256) e cioè quando si è in presenza di norme che disciplinano “quanto il legislatore ritiene fondamentale, categorico ed irrinunciabile, tanto da essere sottratto completamente all’autonomia privata, da valere erga omnes e da dover essere applicato anche d’ufficio per ragioni che trascendono l’interesse del singolo” (Cass. civ. Sez. I, 4 gennaio 1995, n. 118). In queste situazioni sono comprese, naturalmente, tutte le norme di carattere penale (Cass. civ. Sez. I, 25 settembre 2003, n. 14234) ovvero tutti gli accordi tesi a frodare la legge cioè a raggiungere una comune finalità contraria alla legge (Cass. civ. Sez. II, 19 febbraio 1983, n. 1244; Cass. civ. Sez. II, 29 gennaio 1983, n. 826). Che anche l’accordo in frode alla legge non sia valido lo si ricava dalla norma generale (art. 1344 c.c.) che considera illecita la causa del contratto tesa ad eludere una norma imperativa.
Ugualmente il motivo illecito comune – come si è detto – è causa di non omologazione dell’accordo. Allorché le parti si determinano alla conclusione di un accordo conciliativo “esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe” (art. 1345 c.c.) si verifica la stessa situazione di illiceità determinata dalla contrarietà alle norme imperative. Anche la giurisprudenza considera ragionevolmente il motivo illecito comune come una finalità contraria alle norme imperative e di ordine pubblico (Cass. civ. Sez. unite, 25 novembre 1993, n. 10603). Naturalmente deve trattarsi di un intento negoziale illecito di entrambe le parti dal momento che l’illiceità del motivo di una delle parti non determina la nullità dell’accordo al quale l’altra parte, pur a conoscenza del motivo illecito che ha guidato l’altro contraente, si è determinata per un proprio autonomo motivo.
La nozione di buon costume non è richiamata. Il che naturalmente non significa che il buon costume non costituisca un limite di validità dei contratti di convivenza, essendo la relativa nozione sostanzialmente e storicamente sovrapponibile a quella di ordine pubblico. Trattandosi di un concetto ancora meno preciso degli altri il legislatore ha preferito evidentemente non utilizzare questa espressione.
4) La pubblicità e l’opponibilità del contratto di convivenza
Il comma 52 prevede che “Ai fini dell’opponibilità ai terzi, il professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione ai sensi del comma 51 deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 [rectius 4] e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”.
Con questa disposizione la legge introduce una ipotesi di pubblicità dichiarativa (simmetricamente a quella relativa alle convenzioni matrimoniali: Cass. civ. Sez. Unite, 13 ottobre 2009, n. 21658 7
7 Cass. civ. Sez. Unite, 13 ottobre 2009, n. 21658 (Fam. Pers. Succ., 2009, 12, 1007). La costituzione del fondo patrimoniale di cui all’art. 167 cod. civ. è soggetta alle disposizioni dell’art. 162 cod. civ., circa le forme delle convenzioni matrimoniali, ivi inclusa quella del quarto comma, che ne condiziona l’opponibilità ai terzi all’annotazione del relativo contratto a margine dell’atto di matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo per gli immobili, ai sensi dell’art. 2647 cod. civ., resta degradata a mera pubblicità-notizia e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato civile, che non ammette deroghe o equipollenti, restando irrilevante la conoscenza che i terzi abbiano acquisito altrimenti della costituzione del fondo. ). Si parla di pubblicità dichiarativa allorché la funzione della pubblicità è quella di rendere opponibili ai terzi i fatti di cui si prevede la pubblicità; in questo caso l’inosservanza dell’onere di pubblicità comporta la inopponibilità dei fatti non registrati, a meno che non si provi che i terzi ne erano comunque a conoscenza. Si ricorda che il legislatore non ha previsto un sistema di registrazione obbligatoria delle convivenze di fatto presso gli uffici dello stato civile ma solo oneri per gli interessati di iscrizione all’anagrafe della popolazione residente (il comma 37 ai fini dell’accertamento della stabile convivenza fa riferimento agli articoli 4 e 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223), adempimenti cui peraltro l’anagrafe può provvedere d’ufficio ove gli interessati non lo facciano.
Occupandosi nel comma 52 degli adempimenti ai fini della pubblicità del contratto di convivenza il legislatore sbaglia facendo riferimento all’art. 5 del regolamento anagrafico. (DPR 30 maggio 1989, n. 223, come modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126) in quanto il riferimento corretto è all’art. 4. E’ infatti l’art. 4 che si occupa dell’iscrizione anagrafica della “famiglia” (art 4. Famiglia anagrafica 1. Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune. 2. Una famiglia anagrafica può essere costituita da una sola persona) mentre l’art. 5 fa riferimento alla “convivenza anagrafica” intendendo però riferirsi a cosa diversa (Agli effetti anagrafici per convivenza s’intende un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale nello stesso comune. 2. Le persone addette alla convivenza per ragioni di impiego o di lavoro, se vi convivono abitualmente, sono considerate membri della convivenza, purché non costituiscano famiglie a se stanti. 3. Le persone ospitate anche abitualmente in alberghi, locande, pensioni e simili non costituiscono convivenza anagrafica).
Pertanto il contratto di convivenza va iscritto nella scheda di famiglia prevista nell’art. 4 – e non nell’art. 5 – del Regolamento anagrafico. La circolare ministeriale del 1° giugno 2016 prevede l’iscrizione anche nelle schede individuali delle parti.
Potrebbe quindi accadere che i conviventi di fatto – venendo meno agli adempimenti obbligatori previsti nell’ordinamento anagrafico – possano non aver proceduto alla loro iscrizione all’anagrafe della popolazione residente sia come individui che come famiglia.
È assolutamente necessario quindi che il professionista, prima della redazione e della sottoscrizione del contratto di convivenza, si adoperi affinché le parti provvedano agli adempimenti eventualmente non assolti di iscrizione della convivenza all’anagrafe. Tutto ciò anche per facilitare l’annotazione (perché di questo in sostanza si tratta) del contratto di convivenza nella scheda anagrafica di famiglia degli interessati. Il “contratto di convivenza” quindi dovrà essere semplicemente annotato a margine della scheda di famiglia, non appena trasmesso, ai fini della opponibilità ai terzi.
In difetto, gli uffici anagrafici che ricevessero un contratto di convivenza non potrebbero provvedere all’annotazione non potendo provvedere d’ufficio alla formazione della scheda di famiglia, non avendo alcun potere sostitutivo per ciò che riguarda l’indicazione che due conviventi siano tra loro uniti da vincoli affettivi con i requisiti di cui al comma 36.
Benché sia prevista dall’ordinamento anagrafico una modesta sanzione per chiunque si sottrae agli obblighi di comunicazione previsti nell’ordinamento anagrafico e quindi anche per il professionista che non trasmette all’anagrafe il contratto di convivenza, è evidente che si tratta di un adempimento estremamente importante cui conseguono effetti rilevanti di opponibilità verso i terzi la cui omissione potrebbe produrre gravi danni agli interessati. Al di là degli aspetti connessi alla violazione deontologica è opportuno quindi richiamare l’attenzione dei professionisti sulla necessità di assolvere sempre in modo diligente a questi adempimenti.
5) Come avviene materialmente l’iscrizione all’anagrafe del contratto di convivenza?
Il legislatore non indica esattamente che cosa debba materialmente avvenire allorché il contratto viene tramesso all’anagrafe. Che deve fare l’ufficio anagrafico? Che deve fare del contratto di convivenza che gli viene trasmesso? Come si effettua l’iscrizione all’anagrafe del contratto di convivenza?
Il comma 52 parla di “iscrizione” del contratto: meglio avrebbe potuto dire “trascrizione” dal momento che l’ufficiale di anagrafe cura un adempimento di un atto formato da altri e non da lui stesso. Forse perché il termine trascrizione avrebbe potuto creare confusione. Si tratta in sostanza di un adempimento simile all’annotazione delle convenzioni matrimoniali che tuttavia in questo caso si accompagna anche alla conservazione del contratto da parte dell’ufficio anagrafico.
Gli uffici anagrafici, ai sensi dell’art. 1 del Regolamento anagrafico (DPR 30 maggio 1989, n. 223 come modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126, provvedono alla raccolta sistematica dell’insieme delle posizioni relative “alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze” (riferendosi questo termine, come detto, a situazioni diverse dalle convivenze di fatto affettive che sono comprese invece nel concetto di famiglia) e che l’anagrafe è costituita da schede individuali, di famiglia (ivi compresi i conviventi di fatto) e di convivenza (riferite alle sole comunità di persone che per motivi diversi risiedono insieme). Nelle schede in questione sono registrate le posizioni anagrafiche desunte dalle dichiarazioni degli interessati, dagli accertamenti d’ufficio nonché dalle comunicazioni che provengono dagli uffici di stato civile.
Ebbene il capo IV del regolamento anagrafico si occupa della formazione e dell’ordinamento delle schede anagrafiche precisando all’art. 20 il contenuto delle schede individuali8
8 Art. 20 (Schede individuali)
1. A ciascuna persona residente nel comune deve essere intestata una scheda individuale, sulla quale devono essere obbligatoriamente indicati il cognome, il nome, il sesso, la data e il luogo di nascita, il codice fiscale, e all’art. 21 quello delle schede di famiglia maternità, ed estremi dell’atto di nascita, lo stato civile, ed eventi modificativi, nonché estremi dei relativi atti, il cognome e il nome del coniuge, la professione o la condizione non professionale, il titolo di studio, gli estremi della carta d’identità, il domicilio digitale, la condizione di senza fissa dimora. la cittadinanza, l’indirizzo dell’abitazione. Nella scheda sono altresì indicati i seguenti dati: la paternità e la
2. Nella scheda riguardante i cittadini stranieri sono comunque indicate la cittadinanza e gli estremi del documento di soggiorno.
3. Per le donne coniugate o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile.
4. Le schede individuali debbono essere tenute costantemente aggiornate e devono essere archiviate quando le persone alle quali sono intestate cessino di far parte della popolazione residente. prescrivendo che “per ciascuna famiglia residente deve essere compilata una scheda di famiglia”.
È evidente quindi che il contratto di convivenza dovrà essere riportato nella scheda di famiglia. Nella Circolare ministeriale del 1° giugno 2016 sull’argomento si afferma che il contratto deve essere annotato anche nella scheda individuale dei contraenti; verosimilmente perché i terzi possano avere notizia dell’esistenza del contratto anche solo dalla sola certificazione di residenza che riporta i dati principali tratti dalla scheda individuale.
La conservazione del contratto negli uffici di anagrafe rende superflua la conservazione del contratto da parte dell’avvocato che lo ha redatto. Viceversa il Notaio ha comunque un obbligo di conservazione del contratto nel proprio repertorio.
In base a quanto poi dispone l’art. 35 del regolamento anagrafico (che si occupa del “Contenuto dei certificati anagrafici”) l’esistenza del contratto di convivenza dovrà essere indicata nei certificati rilasciati dall’anagrafe in modo che gli interessati aventi causa dai conviventi possano conoscere l’esistenza del contratto ed eventualmente accedere al loro contenuto visionando l’atto o richiedendone alle parti una copia.
Anche la risoluzione del contratto di convivenza, come si dirà, andrà annotata all’anagrafe. Gli adempimenti verranno curati dalle parti se la risoluzione avviene per accordo delle parti o per matrimonio o unione civile, mentre saranno curati dal professionista se avviene per recesso unilaterale o per morte di uno dei contraenti.
6) È prevista una sanzione per l’inosservanza degli obblighi di trasmissione all’anagrafe del contratto di convivenza?
L’omesso invio da parte del professionista che ha redatto il contratto di convivenza potrebbe essere soggetto alla sanzione di cui all’art. 11 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228 (Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente) dove si prevede che “Chiunque avendo obblighi anagrafici contravviene alle disposizioni della presente legge ed a quelle del regolamento è punito, se il fatto non costituisce reato più grave”, con l’ammenda (oggi in euro) prevista da lire 10.000 a lire 50.000 (così stabilita dal D.L. 28 febbraio 1983, n. 55, convertito con modificazioni dalla L. 26 aprile 1983, n. 131).
La procedura per l’applicazione delle sanzioni è indicata nell’artt. 56 del regolamento dove si prescrive che “Le contravvenzioni alle disposizioni della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, ed a quelle del presente regolamento commesse dalle persone aventi obblighi anagrafici devono essere accertate, con apposito verbale, dall’ufficiale di anagrafe. Il verbale deve espressamente indicare se al contravventore sia stata o meno personalmente contestata la contravvenzione. Al contravventore ammesso a pagare all’atto della contestazione la somma stabilita dall’art. 11, comma terzo, della citata legge l’ufficiale di anagrafe è tenuto a rilasciare ricevuta dell’eseguito pagamento sull’apposito modulo, da staccare da un bollettario a madre e figlia, vidimato dal sindaco o da un suo delegato.
7) La circolare del Ministero dell’Interno n. 7 del 1° giugno 2016
La legge 20 maggio 2016, n. 76 come si è più volte ricordato, dopo aver dato al comma 36 dell’art. 1 la definizione dei conviventi di fatto, nel successivo comma 37 prevede che “per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’articolo 4 e alla lettera b), comma 1, dell’articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223” mentre al comma 51 – come si vedrà meglio più oltre – attribuisce ai conviventi la facoltà di regolare i loro rapporti patrimoniali mediante un contratto di convivenza che, ai fini dell’opponibilità ai terzi, deve essere trasmesso ai sensi del comma 52

9 Art. 21 (Schede di famiglia)
1. Per ciascuna famiglia residente deve essere compilata una scheda di famiglia, nella quale devono essere indicate le posizioni anagrafiche relative alla famiglia ed alle persone che la costituiscono.
2. La scheda di famiglia deve essere intestata alla persona indicata all’atto della dichiarazione di costituzione della famiglia di cui al comma 1 dell’art. 6 del presente regolamento. Il cambiamento dell’intestatario avviene solo nei casi di decesso o di trasferimento.
3. In caso di mancata indicazione dell’intestatario o di disaccordo sulla sua designazione, sia al momento della costituzione della famiglia, sia all’atto del cambiamento dell’intestatario stesso, l’ufficiale di anagrafe provvederà d’ufficio intestando la scheda al componente più anziano e dandone comunicazione all’intestatario della scheda di famiglia.
4. Nella scheda di famiglia, successivamente alla sua istituzione, devono essere iscritte le persone che entrano a far parte della famiglia e cancellate le persone che cessino di farne parte; in essa devono essere tempestivamente annotate altresì le mutazioni relative alle posizioni di cui al comma 1.
5. La scheda deve essere archiviata per scioglimento della famiglia ovvero per la cancellazione delle persone che ne fanno parte.

per la registrazione in anagrafe “ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”.
Ebbene il Ministero dell’Interno con l’intenzione di dare qualche prima indicazione agli uffici anagrafici per la corretta applicazione della legge, ha diramato la Circolare n. 7 il 1° giugno 2016.
Quanto all’iscrizione anagrafica delle convivenze di fatto la Circolare si limita a richiamare il comma 37 ricordando che esse deve essere effettuata secondo quanto già previsto per tutte le persone residenti nel Comune dall’art. 4 e dall’art. 13 del regolamento anagrafico, già sopra esaminato.
Quanto invece alla registrazione in anagrafe dei contratti di convivenza nonostante che la Circolare provenga dalla Direzione Centrale per i Servizi Demografici essa contiene un grave strafalcione in quanto, sintetizzando il contenuto del comma 52, non si avvede del clamoroso errore in cui è caduto anche il legislatore richiamando, l’art. 5 e non l’art. 4 del Regolamento anagrafico. Ed è veramente strano che neanche la Direzione centrale per i Servizi demografici si sia avveduta dell’errore. Infatti la convivenza di fatto rientra nella definizione di “famiglia anagrafica” a cui fa riferimento l’art. 4 del regolamento (“Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune”) mentre l’art. 5 dà la definizione di “convivenza anagrafica” che però si riferisce alle comunità residenziali (“Agli effetti anagrafici per convivenza s’intende un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale nello stesso comune”).
Tra la definizione di famiglia anagrafica (famiglia matrimoniale, unioni civili e conviventi di fatto) e la definizione della convivenza anagrafica (comunità residenziali) non vi è, insomma, nessuna possibile assimilazione.
La Circolare, inoltre, non indica poi nemmeno che modo dovrebbe avvenire la completa registrazione del contratto di convivenza dal momento che – pur definito dalla Circolare un adempimento nuovo – non ne viene approfondita la praticabilità. Non è sufficiente affermare che il contratto va registrato “nella scheda di famiglia dei conviventi oltre che nelle schede individuali” e che gli uffici anagrafici devono “assicurare la conservazione agli atti dell’ufficio della copia del contratto”. Il problema, infatti, è come garantire che il contenuto del contratto possa essere opponibile ai terzi, In assenza di altre indicazioni i terzi dovranno richiedere una copia del contratto ai contraenti ovvero all’ufficio dell’anagrafe per esaminarne il contenuto.
Proprio per questo motivo dovrà essere assicurata la trascrizione completa del contratto nelle schede – non solo l’annotazione dell’esistenza del contratto – e dovrebbe essere individuata una modalità semplice di accesso da parte dei terzi compatibile con le cautele relative alla riservatezza. Il sistema è nuovo e forse qui il legislatore non è stato capace di dare indicazioni più plausibili. Infatti qui non è sufficiente il sistema dell’annotazione (previsto per le convenzioni matrimoniali) in cui la legge prevede il solo riferimento al regime patrimoniale; qui per i conviventi di fatto, oltre all’eventuale regime patrimoniale, deve essere assicurata pubblicità – come meglio si dirà più oltre – al contenuto degli accordi e quindi al contratto integrale.
La Circolare ministeriale crede di poter risolvere il problema soltanto dando l’indicazione di “assicurare la conservazione agli atti dell’ufficio della copia del contratto” ma questo non risolve il problema del meccanismo di opponibilità ai terzi sui quali graverà in ogni caso sempre l’onere di esaminare gli atti archiviati in anagrafe.
Considerando che le certificazioni anagrafiche sono certificati amministrativi e non atti pubblici (Cass. pen. Sez. V, 18 ottobre 2013, n. 6337 10; Cass. pen. Sez. V, 3 novembre 2011, n. 9604 11
10 Cass. pen. Sez. V, 18 ottobre 2013, n. 6337 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto di falsità materiale in certificato amministrativo commesso da privato (artt. 477 – 482 cod. pen.), la sostituzione della fotografia apposta sulla carta di identità con quella di altro soggetto, mantenendo inalterati i dati anagrafici e gli altri elementi identificativi. ; Cass. pen. Sez. V, 21 febbraio 2008, n. 10774 12
11 Cass. pen. Sez. V, 3 novembre 2011, n. 9604 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). Integra il delitto di falsità materiale in certificato amministrativo commesso da privato (art. 477 e 482 cod. pen.), la sostituzione nella carta di identità della propria fotografia con quella di altro soggetto, mantenendo inalterati i dati anagrafici e gli altri elementi identificativi. ; Trib. Bologna Sez. II, 22 marzo 2011 13
12 Cass. pen. Sez. V, 21 febbraio 2008, n. 10774 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). Integra il reato di falso ideologico in atto pubblico per induzione (artt. 48 e 479 cod. pen.) – e non quello di falsità ideologica in certificati per induzione (artt. 480 cod. pen.) – la condotta di colui che dichiari falsamente l’avvenuta prestazione di giornate lavorative necessarie per beneficiare di prestazioni previdenziali, in quanto gli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli, previsti dalla L. n. 264 del 1949, da compilarsi a cura della commissione comunale per la manodopera agricola, sono atti pubblici che si distinguono dai certificati amministrativi poiché costituiscono documentazione di attività compiuta dal pubblico ufficiale alla quale la legge attribuisce valore costitutivo di diritti e di obblighi. ; T.A.R. Puglia Bari Sez. III, 11 febbraio 2004, n. 499 14
13 Trib. Bologna Sez. II, 22 marzo 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). E’ infondata la domanda giudiziale volta all’accertamento della nullità e dell’inesistenza della notificazione dell’atto di citazione, ove eseguita presso una residenza anagrafica diversa da quella dell’effettiva residenza del destinatario. A tal riguardo non assume alcuna rilevanza la produzione del certificato anagrafico dal quale si evinca la nuova, diversa residenza. La certificazione anagrafica, difatti, non costituisce piena prova rivestendo valore meramente presuntivo ed essendo sempre ammessa prova contraria. Ai fini di una corretta determinazione del luogo di residenza rileva il luogo di dimora effettiva ed abituale per cui i certificati anagrafici hanno valore meramente presuntivo potendo essere superati dalla produzione di prove contrarie desumibili da qualsiasi fonte di convincimento liberamente valutabili dal giudice. ; Cass. civ. Sez. III, 27
14 T.A.R. Puglia Bari Sez. III, 11 febbraio 2004, n. 499 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). I certificati anagrafici di residenza non sono atti pubblici muniti di fede privilegiata, avendo valore soltanto presuntivo, poiché gli stessi suscettibili, pertanto, di prova contraria. attestano ciò che emerge dalle registrazioni anagrafiche effettuate in base alle dichiarazioni rese dall’interessato, ; Cass. civ. 18 gennaio 1973, n. 180 17 15 Cass. civ. Sez. III, 27 gennaio 1986, n. 524 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). I certificati amministrativi anagrafici, se concernono annotazioni eseguite in pubblici registri sulla scorta di accertamenti compiuti ex officio ovvero di dichiarazioni rese alla p. a., hanno piena efficacia probatoria soltanto relativamente all’esistenza di dette annotazioni e non anche in merito alla corrispondenza delle stesse alla realtà oggettiva, al qual fine possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice quali presunzioni semplici, superabili da prova contraria. ) un modo per risolvere il problema dell’opponibilità potrebbe essere quello di riportare il contenuto completo del contratto di convivenza in una parte “riservata” della schede individuali e della scheda di famiglia consentendone la comunicazione solo ai terzi che possano documentare il consenso degli interessati e non a tutti coloro che chiedono ad altri fini la certificazione anagrafica. In altre parole sui terzi contraenti graverà l’onere di acquisire il consenso degli interessati per l’esame del contratto, sempre che gli interessati non lo abbiano già messo a disposizione del terzo in adempimento del dovere di buona fede che grava su tutti i contraenti (art. 1337 c.c.).
8) La registrazione e l’imposta di registro
La normativa sull’imposta di registro (Testo Unico 26 aprile 1986, n. 131) prescrive che sono soggetti a registrazione tutti gli atti indicati nella tariffa se formati per iscritto nel territorio dello Stato (art. 2 lett. a).
Tra questi sono indicati come soggetti a registrazione in termine fisso sostanzialmente tutti gli atti aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale (Tariffa, Parte 1, articoli 1-10) nonché tutti gli “atti pubblici e scritture private autenticate… non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale” (Tariffa, Parte 1, art. 11)
L’imposta di registro è sostanzialmente proporzionale (3%) se l’atto ha, quindi, ad oggetto una prestazione a contenuto patrimoniale, mentre è a misura fissa (euro 200,00) se l’atto “non ha ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”.
I contratti di convivenza – che il Testo Unico non prevede tra i molteplici atti che pure sono ivi richiamati (trattandosi di una novità legislativa) – sono certamente inclusi in questa seconda categoria come avviene per le convenzioni matrimoniali. In effetti si tratta di atti programmatici che non concernono un immediato trasferimento di ricchezza, che è al contrario indicativo di capacità contributiva e quindi oggetto di tassazione proporzionale come tutti i trasferimenti immobiliari. Poiché non hanno nulla a che vedere con gli accordi in occasione del divorzio o della separazione previsti per i coniugi, non trovano naturalmente applicazione in questo settore le esenzioni fiscali previste dall’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74.
L’espressione usata dall’art. 11 della Tariffa (“atti pubblici e scritture private autenticate… non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”) va intesa quindi nel senso di atti che non effettuano un trasferimento immediato di ricchezza, ancorché, come i contratti di convivenza, abbiano in senso ampio un contenuto certamente patrimoniale.
La registrazione deve essere curata dalle parti. L’art. 10 del Testo Unico prevede che sono, comunque, obbligati a richiedere la registrazione “i notai, gli ufficiali giudiziari, i segretari o delegati della pubblica amministrazione e gli altri pubblici ufficiali per gli atti da essi redatti, ricevuti o autenticati”.
Come si è detto il comma 51 dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, prevede che il contratto di convivenza, le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.
Il notaio è certamente quindi soggetto obbligato a richiedere la registrazione.
Allo stato della normativa l’avvocato ancorché chiamato ad autenticare la sottoscrizione delle parti nel contratto di convivenza non è pubblico ufficiale e quindi non è obbligato a tale adempimento.
Altro discorso è se il solo dato formale dell’esclusione della qualifica di pubblico ufficiale possa rendere giusto che l’avvocato debba considerarsi escluso dal novero dei soggetti che l’art. 10 lett. b include tra gli “altri pubblici ufficiali” tenuti a richiedere la registrazione. L’art. 10 del Testo Unico è stato così modificato nel 2007 quando ancora non esisteva la normativa sulla mediazione civile, né quella sulla negoziazione, né esistevano le disposizioni vigenti sui contratti di convivenza. Si può quindi ritenere che il Testo Unico del 1986, con le modifiche del 2007, si riferisca non ai “pubblici ufficiali” ma in genere ai soggetti che possono autenticare atti (e che, all’epoca, erano

16 Cass. civ., 28 maggio 1981, n. 3512 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). I certificati anagrafici e delle camere di commercio, nella parte concernente annotazioni inserite in pubblici registri sulla scorta di dichiarazioni rese alla p. a., hanno piena efficacia probatoria soltanto relativamente all’esistenza di dette annotazioni e dichiarazioni, non anche in ordine alla corrispondenza delle stesse alla realtà oggettiva, al qual fine, pertanto, possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice quali presunzioni semplici, superabili da prova contraria.

17 Cass. civ., 18 gennaio 1973, n. 180 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). I certificati amministrativi, fra cui quelli anagrafici, non assurgono al valore di atti pubblici facenti fede sino a querela di falso; se essi concernono annotazioni inserite in pubblici registri sulla scorta di accertamenti compiuti ex officio ovvero di dichiarazioni rese alla p. a. hanno piena efficacia probatoria soltanto relativamente all’esistenza di dette annotazioni e dichiarazioni, ma non anche in merito alla corrispondenza delle stesse alla realtà oggettiva, e possono pertanto concorrere alla formazione del convincimento del giudice quali presunzioni semplici, superabili da prova contraria.
solo i pubblici ufficiali”). Pertanto gli avvocati potrebbero essere inclusi ragionevolmente, per ragioni di simmetria nel sistema, tra i soggetti obbligati a richiedere la registrazione dei contratti di convivenza da loro autenticati.
Sarebbe però necessario un provvedimento legislativo o un pronunciamento dell’Agenzia delle entrate considerato che la registrazione va chiesta entro venti giorni dall’atto (art. 13) a pena di sanzioni pecuniarie (art. 69 che prevede la sanzione amministrativa dal 120 al 240 per cento dell’imposta evasa. Una norma sul punto è inoltre assolutamente necessaria anche in considerazione del fatto che tutti i soggetti obbligati a richiedere la registrazione devono anche annotare in un apposito repertorio gli atti soggetti a registrazione, con le modalità molto dettagliate previste nell’art. 67 del Testo Unico e con gli adempimenti ulteriori anche di esibizione previsti nel Testo Unico il quale peraltro all’art. 73 punisce chi non osserva queste disposizioni con sanzioni amministrative pecuniarie molto pesanti.
9) Il progetto di legge per l’attribuzione agli avvocati di un potere generale di autentica
Con il numero 2172 è in discussione alla Camera dal marzo 2014 un progetto di legge per l “attribuzione agli avvocati del potere di autenticazione delle scritture private e di attestazione della conformità di copie all’originale”.18
La proposta intende inserire nell’ordinamento giuridico la possibilità per l’avvocato di autenticare le sottoscrizioni nelle scritture private e di attestare la conformità delle copie all’originale.
Premesso che nel nostro ordinamento troviamo diverse figure, anche professionali, che a vario titolo intervengono nell’autenticazione delle sottoscrizioni delle persone, allo stato attuale della normativa gli atti pubblici devono essere redatti dal notaio o da un pubblico ufficiale espressamente abilitato allo scopo (art. 2702 c.c.) mentre in altre ipotesi soggetti diversi, indipendentemente dalla loro preparazione giuridica, hanno la facoltà di autenticare determinate sottoscrizioni (per esempio il potere di autenticazione delle sottoscrizioni delle liste elettorali, che è facoltà anche dei consiglieri comunali).
L’avvocato ha poteri di autenticazione (art. 83 del codice di procedura civile, art. 2 comma 6 e all’art. 5 comma 2 del Decreto-legge 12 settembre 2014, n.132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162). Già oggi sono obbligati a identificare i loro clienti ai fini del rispetto della normativa antiriciclaggio, stabilita dai regolamenti di cui ai decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, n. 141 e n. 143, del 3 febbraio 2006, mediante la registrazione dei dati contenuti nei documenti d’identità dei clienti stessi.
La proposta di legge attribuisce anche agli avvocati il potere di autenticare la sottoscrizione di scritture private e conferisce ai medesimi professionisti anche il potere di attestare la conformità delle copie all’originale. Nell’esercizio di tali poteri l’avvocato è, sarà considerato a tutti gli effetti, un pubblico ufficiale e sarà soggetto a tutti gli obblighi che gravano sui notai.

18 ART. 1. (Autenticazione delle sottoscrizioni da parte dell’avvocato). 1. L’avvocato iscritto da almeno tre anni al consiglio dell’Ordine degli avvocati può autenticare le sottoscrizioni apposte dalle parti nelle scritture private, nelle quietanze e nelle dichiarazioni unilaterali, anche a contenuto non esclusivamente giuridico. 2. L’avvocato di cui al comma 1 può altresì attestare la conformità all’originale di copie, eseguite su supporto informatico o cartaceo, di documenti formati su qualsiasi supporto e a lui esibiti in originale o in copia autentica. 3. L’autenticazione delle sottoscrizioni apposte in calce alle scritture private è stesa di seguito alle sottoscrizioni medesime e deve contenere la dichiarazione che le sottoscrizioni furono apposte in presenza dell’avvocato con indicazione del luogo, della data e dell’ora. Per le sottoscrizioni marginali e per i fogli intermedi è sufficiente che di seguito ai medesimi l’avvocato aggiunga la propria sottoscrizione. 4. L’autenticazione delle sottoscrizioni è effettuata alla presenza delle parti. 5. L’avvocato deve essere certo dell’identità personale delle parti di cui autentica la sottoscrizione. Può raggiungere tale certezza al momento dell’autenticazione, valutando tutti gli elementi atti a formare il suo convincimento. 6. Restano ferme le disposizioni vigenti che attribuiscono il potere di autenticazione ad altri pubblici ufficiali. 7. L’autenticazione delle sottoscrizioni consente di procedere alla trascrizione, all’iscrizione, all’annotazione, alla registrazione e alla voltura, in qualsiasi pubblico registro o ufficio, dei contratti o di ogni altro atto, inclusi quelli previsti dall’articolo 2643 del codice civile, salvo che la legge non disponga la necessità di provvedere mediante atto pubblico; in tale caso all’autenticazione delle sottoscrizioni deve partecipare un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. 8. La ripartizione dei compensi professionali tra i professionisti che hanno prestato congiuntamente la loro opera ai fini di cui al presente articolo è determinata con il decreto di cui all’articolo 4, comma 1. ART. 2. (Responsabilità dell’avvocato nell’autenticazione di scritture private). 1. L’avvocato incaricato da una o da tutte le parti contraenti di autenticare le sottoscrizioni da loro apposte alla scrittura privata o agli altri atti previsti dall’articolo 1, è obbligato a verificare la validità degli stessi e la rispondenza dei contenuti alle norme di legge e alla volontà delle parti, salvo che per atti o fatti che egli non è in grado di conoscere. 2. La violazione dell’obbligo di cui al comma 1 costituisce illecito disciplinare da parte dell’avvocato singolo, o in solido con gli altri avvocati incaricati, fatto salvo il risarcimento del danno. ART. 3. (Titolo esecutivo). 1. La scrittura privata autenticata dall’avvocato costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica, per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione, l’iscrizione, l’annotazione, la registrazione e la voltura nei pubblici registri o uffici dei diritti derivanti dalle scritture private autenticate di cui all’articolo 1, nei limiti stabiliti ai sensi dell’articolo 4, comma 2. ART. 4. (Registro delle scritture private autenticate dall’avvocato). 1. Le scritture private autenticate dall’avvocato sono conservate in un apposito registro cronologico, istituito e tenuto dall’avvocato stesso, con le modalità previste da un decreto emanato dal Ministro della giustizia entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentito il Consiglio nazionale forense. 2. Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Consiglio nazionale forense emana direttive di carattere deontologico anche in ordine ai compensi dell’avvocato per l’attività di cui alla medesima legge, i quali tengono conto degli interessi delle parti assistite, dell’attività effettivamente prestata e del prezzo o del valore dell’atto autenticato. ART. 5. (Clausola di invarianza finanziaria). 1. Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. A tali fini si prevede che il Ministro della giustizia stabilisca le modalità di istituzione e di tenuta di un apposito registro nel quale l’avvocato dovrà conservare le scritture private autenticate (e quindi anche i contratti di convivenza) nonché l’emanazione da parte del Consiglio nazionale forense di direttive specifiche per l’attuazione della legge, anche aventi ad oggetto la deontologia dell’avvocato e le tariffe applicabili.
III Il contenuto del contratto di convivenza
comma 53
Il contratto di cui al comma 50 reca l’indicazione dell’indirizzo indicato da ciascuna parte al quale sono effettuate le comunicazioni inerenti al contratto medesimo. Il contratto può contenere:
a) l’indicazione della residenza;
b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo;
c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile.
54. Il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza con le modalità di cui al comma 51.
55. Il trattamento dei dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche deve avvenire conformemente alla normativa prevista dal codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, garantendo il rispetto della dignità degli appartenenti al contratto di convivenza. I dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche non possono costituire elemento di discriminazione a carico delle parti del contratto di convivenza.
1) L’indicazione della residenza comune
Residenza comune può essere indicata nel contratto di convivenza (ed anzi può anche esserne l’unico elemento ove nulla i conviventi dispongano in ordine al regime patrimoniale) così evitando che possano nascere in seguito problemi relativi alla identificazione del luogo di residenza della coppia.
Al di fuori della residenza deve escludersi che sia possibile l’indicazione nel contratto di altri elementi relativi ai rapporti personali.
2) Le modalità di contribuzione nel corso della convivenza
La legge prevede il “contratto di convivenza” quale modalità negoziale con cui i conviventi – come afferma il comma 50 – “possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune” e con cui possono altresì fissare la residenza comune.
Sennonché, nonostante l’ampiezza della formula utilizzata nel comma 50 (che nel testo originario del disegno di legge, come si è già detto, alludeva e si concretizzava in un contenuto molto ampio di possibili “rapporti patrimoniali”19), il contenuto specifico del contratto si riduce in sostanza solo a due possibili aspetti patrimoniali che sono predeterminati per legge. Secondo il quarto comma infatti il contratto di convivenza può prevedere soltanto, quanto agli aspetti patrimoniali, a) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo;b) il regime patrimoniale della comunione dei beni (come disciplinato dagli artt. 177 – 197 c.c.).
Mentre è chiaro che cosa si intenda per scelta del regime della comunione dei beni, non altrettanto chiaro è che cosa il legislatore intenda per scelta delle “modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune”. Nemmeno l’art. 143 del codice civile – che per i coniugi individua il regime primario contributivo – parla di “modalità” ma prescrive in via generale che “entrambi i coniugi sono

19 In quasi tutti i disegni di legge precedenti e nell’art. 13 del primo testo unificato proposto il 24 giugno 2014 in Commissione giustizia del Senato (che in questa parte riproduceva quasi testualmente la proposta avanzata dal notariato nel 2011 sui patti di convivenza) si prevedeva che il “contratto di convivenza” è il contratto con il quale “i conviventi possono disciplinare i reciproci rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune e alla sua cessazione” e quindi si prevedeva anche una negozialità in vista di una possibile crisi del rapporto. In particolare si prevedeva che con il “contratto di convivenza” si potessero disciplinare cinque aspetti: “1) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, anche in riferimento ai termini, alle modalità e all’entità delle rispettive contribuzioni; 2) che i beni acquistati a titolo oneroso anche da uno dei conviventi successivamente alla stipula del contratto siano soggetti al regime della comunione ordinaria di cui agli articoli 1100 e seguenti del codice civile; 3) i diritti e le obbligazioni di natura patrimoniale derivanti per ciascuno dei contraenti dalla cessazione del rapporto di convivenza per cause diverse dalla morte; 4) che, in deroga al divieto di cui all’art. 458 c.c. e nel rispetto dei diritti dei legittimari, in caso di morte di uno dei contraenti dopo oltre sei anni dalla stipula del contratto, spetti al superstite una quota di eredità non superiore alla quota disponibile. In assenza di legittimari, la quota attribuibile parzialmente può arrivare fino a un terzo dell’eredità; 5) che nei casi di risoluzione del contratto … sia previsto l’obbligo di corrispondere al convivente con minori capacità economiche un assegno di mantenimento determinato in base alle capacità economiche dell’obbligato, al numero di anni del contratto di convivenza e alle capacità lavorative di entrambe le parti”.
tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo a contribuire ai bisogni della famiglia” indicando un obbligo del quale le modalità di attuazione dipenderanno di volta in volta dagli accordi tra i coniugi (art. 144 c.c.).
Indicazione delle “modalità di contribuzione” significa che i conviventi possono rendere opponibili verso terzi le modalità con cui essi si distribuiscono gli oneri economici nella gestione della vita in comune.
Il contenuto tradizionale dei quelli che sono sempre stati tradizionalmente genericamente chiamati contratti di convivenza, è certamente l’impegno reciproco a contribuire alle necessità del ménage familiare mediante la corresponsione di somme di denaro o la messa a disposizione di propri beni o della propria attività lavorativa anche solo domestica.
Effettivamente – come ho avuto modo sopra di precisare – quando tra due persone vi sono doveri morali e sociali di solidarietà reciproca, una suddivisione negoziale dei compiti di contribuzione alla vita comune appare del tutto ragionevole. Così come del tutto ragionevole è pensare che i due conviventi possano assumere obbligazioni reciproche di contribuzione adempiute in denaro o con il proprio lavoro anche domestico. L’assunzione di obblighi di corresponsione di somme di denaro a titolo di mantenimento di un partner nei confronti dell’altro costituisce una funzione storica dei contratti di convivenza. In effetti attraverso l’indicazione di modalità di “contribuzione alle necessità della vita in comune” può raggiungersi anche l’obiettivo di assicurare un mantenimento al partner debole.
E tutto ciò anche se la legge 20 maggio 2016, n. 76 non concepisce il contratto di convivenza come un contratto di mantenimento del partner debole, ma come un più ampio contratto di distribuzione di compiti relativamente al ménage familiare, in simmetria potremmo dire con quanto prevede l’ultimo comma dell’art. 143 c.c. per i coniugi che sono “tenuti, ciascuno in relazione alla proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni fella famiglia”. L’obiettivo immediato di questa tutela non è il partner debole ma la famiglia (coniugale, dei partners dell’unione o dei conviventi di fatto).
La legge non poteva imporre ai conviventi un obbligo contributivo reciproco giacché la convivenza di fatto è pur sempre caratterizzata dall’assenza di tali obblighi, ma suggerisce uno schema negoziale tipico per assumere un dovere di distribuzione dei compiti di conduzione del ménage familiare.
E questo soprattutto potrà essere il vero contenuto innovativo della negozialità tra i conviventi a cui gli interessati possono accedere facilmente con forme negoziali semplificate come quelle previste dalla nuova legge per la redazione e la pubblicità erga omnes di tali pattuizioni.
I conviventi con il contratto di convivenza si assumono, perciò, ciascuno una quota dei costi della vita comune. E quindi se i conviventi pattuiscono nel “contratto di convivenza” che solo uno dei due sia obbligato al pagamento dell’affitto della casa, il proprietario della casa che i conviventi conducono in locazione, potrà pretendere l’affitto dal solo convivente onerato dall’obbligazione sempre naturalmente che il contratto di convivenza preceda quello di locazione. Ai creditori insomma saranno opponibili le modalità prescelte dai conviventi.
Ugualmente avverrà per tutte le clausole concordate riferibili ad altre concrete modalità di contribuzione.
Questo aspetto è di grande importanza dal momento che introduce una “rilevanza esterna” degli accordi tra conviventi che non c’è oggi neanche per gli accordi tra i coniugi. Gli accordi tra coniugi di cui all’art. 144 del codice civile, infatti, sono rilevanti nei confronti dei creditori solo nella misura in cui – come si è visto – essi abbiano potuto fare affidamento sulla situazione esteriore. Viceversa, essendo gli accordi tra conviventi certificati in un accordo iscritto all’anagrafe (e quindi essendovi in regime di pubblicità) – fermo l’obbligo del convivente debitore di rendere edotto il creditore della condizione di convivenza in adempimento del generale dovere di buona fede contrattuale (art. 1337 c.c.) – il creditore diligente potrà sempre acquisire copia all’anagrafe del contratto di convivenza il cui contenuto sarà sempre a lui opponibile.
Sarà interessante verificare nel tempo in relazione al contenuto relativo alle “modalità di contribuzione” quali estrinsecazioni di negozialità relative ai loro rapporti patrimoniali la prassi ammetterà che i conviventi possano individuare, inserendole nel contratto di convivenza (per esempio clausole di natura reale, come trasferimenti di diritti reali anche immobiliari o costituzione di vincoli di destinazione ex art. 2645 ter c.c. ovvero un trust o clausole negoziali simili). In tali casi nel contratto di convivenza verrebbe ad ampliarsi notevolmente il ventaglio delle “modalità di contribuzione della vita in comune” salvo sempre il divieto (che sembra molto chiaro nella espressione utilizzata dal legislatore) di clausole relative alla contribuzione reciproca in seguito alla cessazione della convivenza. Clausole, tuttavia che se escluse dal contratto di convivenza possono certamente essere oggetto di un “contratto tra conviventi” ma non con contenuto restrittivo rispetto a quanto garantito dal comma 65 in caso di cessazione della convivenza.
3) Il regime patrimoniale della comunione dei beni
L’altro contenuto patrimoniale del contratto di convivenza è la possibile scelta del regime di comunione dei beni “di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile” e quindi come regolato dagli articoli dal 177 al 197 del codice civile (non la “comunione ordinaria” come era stato in origine suggerito in alcuni disegni di legge e anche dal notariato) e con esclusione perciò – questa dovrebbe verosimilmente essere la conclusione corretta – anche della comunione convenzionale.
I conviventi, quindi, se lo desiderano possono espressamente optare per questo regime. Pertanto non esiste un regime patrimoniale legale della convivenza (cioè un regime applicabile automaticamente in assenza di scelta diversa, come la comunione dei beni lo è per i coniugi).
La scelta del regime di comunione dei beni comporta l’applicabilità di tutte le norme di tale regime patrimoniale. Quindi innanzitutto le norme che definiscono l’oggetto della comunione e il perimetro dei beni in comunione e di quelli, invece, personali; le regole sull’amministrazione della comunione, quelle relative agli obblighi gravanti sui beni della comunione e sulle obbligazioni contratte dai conviventi prima dell’inizio della convivenza e, anche separatamente, durante la convivenza; infine le norme sulla comunione de residuo, sullo scioglimento della comunione e sui rimborsi e le restituzioni.
La discutibile previsione nella legge della possibilità di recesso unilaterale dal contratto di convivenza – e quindi dello scioglimento anche del regime di comunione eventualmente scelto dai conviventi – rende di fatto superfluo il rimedio della separazione giudiziale di beni (art. 193 c.c. pur richiamato dalla disposizione qui in commento) che consentirebbe di sciogliere la comunione in caso di interdizione o inabilitazione dell’altro convivente, oppure di cattiva amministrazione dei beni in comunione e disordine degli affari che possa mettere in pericolo gli interessi personali o quelli della comunione ovvero allorché uno dei conviventi non contribuisce ai bisogni della vita in comune.
Il legislatore non ha previsto la possibilità per i conviventi di scegliere il regime patrimoniale della comunione convenzionale né quello della separazione dei beni, altrimenti lo avrebbe dovuto esplicitare ammettendo i conviventi a scegliere “uno dei regimi patrimoniali previsti nel capo VI del primo libro del codice”. Su questo aspetto il legislatore sembra aver fatto però un po’ di confusione. Nel testo unificato del 2014 (e in quello del 2011 del notariato) si accennava al regime della “comunione dei beni” non ma solo al regime della “comunione ordinaria”, mentre nella maggior parte degli altri disegni di legge si ipotizzava ragionevolmente l’estensione alle coppie di conviventi di uno dei regimi patrimoniali della famiglia (comunione dei beni, comunione convenzionale, separazione dei beni). Il testo unificato Cirinnà bis del 2015 e la legge attuale – dopo il maxiemendamento del 26 febbraio 2016 – hanno invece previsto solo il regime patrimoniale della comunione dei beni (e non quello della comunione ordinaria), ma nel fare questa opzione, non hanno previsto espressamente che la coppia possa scegliere anche il regime della separazione dei beni.
Nel testo di legge attuale non si accenna, quindi, al regime della separazione dei beni e si afferma che il contratto di convivenza può prevedere solo il regime della comunione dei beni. Questa conclusione non può considerarsi smentita dalla norma (comma 56) che ammette la modifica del regime patrimoniale, disposizione che, pur essendo palesemente contraddittoria, non può essere letta come introduttiva surrettiziamente di un regime diverso da quello della comunione dei beni.
E d’altro lato la scelta del regime della separazione dei beni non sembra neanche ammissibile dal punto di vista di quanto stabilisce la lettera a) e cioè inquadrandola tra “le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo”. Ciò perché nella lettera a) si allude al regime contributivo primario mentre nella lettera b) si fa riferimento al regime distributivo secondario. Si tratta di due situazioni ben differenti.
Pertanto se la coppia non sceglie il regime della comunione rimane in una condizione di autonomia patrimoniale reciproca che si avvicina molto al regime di separazione dei beni ma che non coincide con questo.
Il fatto che legislatore non ammetta che i conviventi possano optare per il regime della separazione dei beni è solo una svista o c’è in questa mancata espressa previsione qualcosa di più?
Infatti potrebbe anche essere avvenuto che il legislatore abbia inteso che i conviventi ove non optino per il regime della comunione dei beni, restino in separazione dei beni. Ma questo non sarebbe corretto perché un conto è la condizione di autonomia reciproca e un altro conto è il regime della separazione dei beni. Ciò perché separazione dei beni, come è noto, è un regime patrimoniale, non è un “non regime”. In altre parole due persone in separazione dei beni hanno una disciplina che è diversa da quella in cui trovano due persone che non sono vincolate da quel regime. Si pensi all’art. 219 c.c. che prevede che il bene di cui un coniuge non riesca a dimostrare di essere proprietario è, in deroga alle regole sulla prova, di proprietà per metà di ciascuno dei due (in applicazione del regime primario contributivo che permea anche il regime di separazione dei beni). Pertanto da un punto di vista di corretta interpretazione giuridica si deve ritenere che il legislatore abbia inteso prevedere per i conviventi soltanto la possibilità di opzione per il regime della comunione dei beni (e non per quello di separazione dei beni).
Ove i due conviventi volessero scegliere un regime analogo a quello di separazione potranno farlo in un “contratto tra conviventi” (con effetti obbligatori tra di loro), ma non all’interno del “contratto di convivenza” opponibile erga omnes. In tal caso, però, la separazione dei beni resterebbe una clausola interna alla vita della coppia. Per i terzi il regime della coppia sarà quello dell’autonomia patrimoniale.
4) Il contenuto eccedente o contrastante con la previsione di legge
La disposizione di cui al comma 53 secondo cui il contratto può contenere a) l’indicazione della residenza; b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile) è certamente da considerarsi una norma imperativa.
La violazione di una norma imperativa costituisce secondo i principi generali (art. 1418 c.c.) causa di nullità del contratto, ancorché evidentemente il comma 57 non la includa espressamente tra le cause di nullità ivi previste.
Un problema di eccedenza e di contrasto rispetto alla volontà del legislatore si porrà soprattutto per ciò che attiene all’interpretazione dell’espressione “modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune”, dal momento che l’interpretazione della disposizione non è certo agevole, come si è sopra visto, quanto alla delimitazione dei suoi contenuti.
È nullo l’intero contratto o sono nulle solo le clausole eccedenti o contrastanti con la previsione di legge?
Riterrei che possa applicarsi la disposizione dell’art. 1419 c.c. secondo cui “la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità”.
5) La qualificazione giuridica del contratto di convivenza
Con l’introduzione nel sistema normativo il contratto di convivenza acquista la dignità di un contratto tipico. Analogamente alle convenzioni matrimoniali che sono certamente contratti tipici.
La natura contrattuale è indiscussa avendo il contratto in questione natura patrimoniale (art. 1321 c.c.). Pertanto esso avrà forza di legge tra le parti (art. 1372 c.c.) e non potrà essere sciolto se non per accordo tra le parti o per le altre cause previste nella legge. A queste cause si farà riferimento trattando delle ipotesi di risoluzione del contratto di convivenza previste nel comma 59.
Volendo entrare nel dettaglio della qualificazione giuridica non vi possono essere dubbi sul fatto che il contratto di convivenza, regolamentando le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, e il regime patrimoniale della comunione dei beni si presenta come un contratto ad esecuzione continuata.
Ciò premesso, in base a quanto prevede il secondo comma dell’art. 1373 c.c. la facoltà di recesso – di cui più approfonditamente si parlerà in prosieguo – potrà essere sempre esercitata ma senza effetto “per le prestazioni già eseguite”. Con la conseguenza che mai potranno essere oggetto di ripetizione eventuali elargizioni effettuate tra i conviventi in relazione alle obbligazioni assunte reciprocamente con il contratto. Da questo punto di vista l’inquadramento delle contribuzioni reciproche all’interno della categoria delle obbligazioni giuridiche assicurerà gli stessi effetti di irripetibilità tra conviventi derivanti dall’inquadramento delle rispettive elargizioni nell’ambito delle obbligazioni naturali.
6) Se manca il contratto di convivenza?
Dal tenore molto chiaro del comma 50 (“I conviventi di fatto possono disciplinare…”) si comprende che il contratto di convivenza non è obbligatorio ma è facoltativo.
Perciò si pone il problema di accertare quale sia lo statuto dei rapporti patrimoniali tra conviventi in assenza di contratto di convivenza.
La risposta a questo interrogativo non è difficile. Lo statuto patrimoniale della convivenza di fatto nei rapporti tra conviventi è quello semplicemente da tempo riconosciuto delle obbligazioni naturali e cioè dell’irripetibilità delle prestazioni economiche liberamente effettuate nei confronti dell’altro per far fronte alle esigenze della vita in comune e della solidarietà quotidiana nella di coppia. La legge ricorda a tale proposito che conviventi di fatto sono “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale” richiamando quindi l’esistenza di vere e proprie obbligazioni naturali di solidarietà reciproca tra conviventi e quindi il regime della irripetibilità ex art. 2034 c.c. degli apporti legati a tale solidarietà.
È opportuno ribadire che la legge non prescrive tale obbligo ma si limita a riconoscerne l’esistenza e quindi non ha imposto alcuna trasformazione giuridica dell’obbligazione naturale in obbligazione civile.
7) La modifica del contratto e del regime patrimoniale
Come si è visto, in base al comma 51 “Il contratto di cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità…”. Pertanto nel comma in questione si prevede espressamente che i conviventi possano sempre modificare il contratto di convivenza con le stesse forme e modalità con cui l’hanno stipulato. Perciò a seguito della modifica il professionista sarà tenuto agli adempimenti previsti dal comma 52 ai fini dell’iscrizione all’anagrafe.
Il comma 54 prevede che “il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato in qualunque momento” nel corso della convivenza con le modalità di cui al secondo comma.
Si è sopra detto che i conviventi secondo la nuova legge possono scegliere il regime di comunione dei beni “di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile” e quindi come regolato dagli articoli dal 177 al 197 del codice civile.
Ora se è corretta l’interpretazione che si è sopra data della volontà del legislatore di prevedere la possibilità per i conviventi della scelta del solo regime della comunione dei beni “di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile”, ci si chiede in che cosa possa consistere la modificazione di questo regime.
L’unica risposta possibile e coerente è che il comma 54 intenda riferirsi alla possibilità offerta del tutto plausibilmente ai conviventi di far cessare quando lo desiderano il regime di comunione dei beni ed eventualmente di reinserirlo nel contratto in seguito.
Non sembra possibile dare al comma 56 il significato – che pure qualche commentatore ha dato – di consentire ai conviventi, quale contenuto della modifica, la scelta di un altro regime, per esempio quello della separazione dei beni o della comunione convenzionale. Questa soluzione sarebbe stata del tutto plausibile in sede di redazione della norma ed è del tutto auspicabile de iure condendo, ma non è proponibile nel testo attuale in quanto il comma 54 non consente la scelta di altri regimi patrimoniali che quindi non possono essere introdotti nel contesto delle modifiche del regime prescelto.
Naturalmente non è escluso che la prassi e magari la giurisprudenza – se non dovesse pensarci il legislatore – possano orientarsi per una interpretazione diversa consentendo alle parti, come sarebbe del tutto ragionevole, di modificare il regime della comunione in quello della comunione convenzionale o in quello della separazione.
Stando al dato letterale del comma 54 si potrebbe ritenere che i conviventi possano modificare nel corso della convivenza soltanto il regime patrimoniale e non le modalità di contribuzione. Si tratta, però, di una interpretazione letterale irragionevole dal momento che non vi sono ragioni plausibili che possano rendere immodificabili le modalità di contribuzione.
La modificabilità di tutti i diversi punti del contratto di convivenza appare pienamente ammissibile dando all’espressione “il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato…” il significato di “l’assetto patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato…”.
Naturalmente, come precisa lo stesso comma 54, ogni modifica del regime e dell’asseto scelto originariamente dovrà anche essere comunicata all’anagrafe dal professionista che assiste le parti nella modifica del regime e dell’assetto.
Pertanto si può evidenziare un principio generale secondo cui sia il contratto che i singoli punti di esso sono sempre modificabili (per quanto concerne il regime nei liniti di cui si è detto) e devono essere sempre comunicati all’anagrafe per l’iscrizione a margine delle schede individuali e di famiglia.
8) Il trattamento dei dati personali
Molto opportuna appare la previsione contenuta nel comma 55 secondo cui il trattamento dei dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche deve avvenire in modo tale da garantire il rispetto della dignità degli appartenenti al contratto di convivenza.
Ugualmente i dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche non possono costituire, in alcun contesto nel quale tale certificazione dovesse essere richiesta, elemento o causa di discriminazione a carico delle parti del contratto di convivenza.
Spetterà al Ministero dell’Interno, quale autorità preposta all’organizzazione dei servizi anagrafici, dare istruzioni per il rispetto di queste disposizioni.
IV La nullità e la sospensione dell’efficacia del contratto di convivenza
comma 56
Il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti.
57. Il contratto di convivenza è affetto da nullità insanabile che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse se concluso:
a) in presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza;
b) in violazione del comma 36;
c) da persona minore di età;
d) da persona interdetta giudizialmente;
e) in caso di condanna per il delitto di cui all’articolo 88 del codice civile.
58. Gli effetti del contratto di convivenza restano sospesi in pendenza del procedimento di interdizione giudiziale o nel caso di rinvio a giudizio o di misura cautelare disposti per il delitto di cui all’articolo 88 del codice civile, fino a quando non sia pronunciata sentenza di proscioglimento.
1) Inopponibilità di termini e condizioni
Il comma 56 vieta l’apposizione di termini o condizioni al contratto di convivenza.
Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti (viziatur sed non vitiat). La nullità colpisce in altre parole solo i termini e le finale al contratto di convivenza.
È evidente che essendo consentita la risoluzione del contratto di convivenza (non solo per accordo delle parti ma anche per recesso unilaterale) a tale contratto è implicitamente condizioni aggiunte. Pertanto non sarà ammissibile l’apposizione di un termine
apposto il termine risolutivo dell’eventuale scioglimento dell’impegno dei conviventi.
In altre parole, come per il matrimonio, non vale alcun principio di indissolubilità né della convivenza di fatto né, tanto meno, degli accordi di convivenza.
2) Le cause di nullità del contrato di convivenza
Il comma 57 della legge enumera le cause di nullità insanabile del contratto di convivenza. Nullità che può essere, perciò, fatta valere da chiunque vi abbia interesse. La precisazione (superflua) che la nullità è insanabile vuol dire sostanzialmente che la nullità non è suscettibile di convalida (art. 1423 c.c. dove si precisa tuttavia che è la possibilità di convalida che il legislatore deve indicare, non il contrario).
Anche le altre ipotesi – di cui si è sopra parlato – di nullità del contratto di convivenza per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico sono insanabili.
Comporta che il professionista debba fare particolare attenzione per evitare non solo il rischio della nullità in sé – e, in relazione alla retroattività della dichiarazione di nullità, della ripetibilità delle eventuali prestazioni adempiute in esecuzione di tale contratto – ma anche della insanabilità del contratto nullo. Il contratto di convivenza nullo quindi non può essere sanato ma può essere solo stipulato di nuovo.
La prima causa di nullità specifica (lettera a) è costituita dal fatto che il contratto sia stato stipulato in presenza di un vincolo matrimoniale o di una unione civile da parte di uno dei due stipulanti. Su pensi al caso in cui uno dei due conviventi risulti sposato con altra persona o parte di una unione civile con altra persona.
Ugualmente nullo è il contratto di convivenza stipulato da chi sia parte o ancora parte di un altro contratto di convivenza.
Come si è visto il comma 36 della legge esclude l’applicazione delle disposizioni sulla convivenza di fatto nel caso in cui le persone cui essa si riferisce siano parenti o affini tra di loro ovvero unite da un vincolo adottivo, unite in matrimonio o da una unione civile.
Costituisce pertanto conseguenza di questo principio il fatto che il contratto di convivenza eventualmente stipulato tra tali persone sia considerato nullo.
Partner di una convivenza di fatto non può essere, ugualmente (comma 36), un soggetto minore di età. Pertanto l’ipotesi della nullità del contratto stipulato da un minore di età (lettera c del comma 57) è frutto di un refuso normativo (legato al fatto che in precedenti disegni di legge non si faceva cenno al requisito della maggiore età ed anzi si riteneva che la convivenza di due minori potesse essere autorizzata dal tribunale per i minorenni). I minori di età non possono essere parti di una convivenza, e quindi di contrato di convivenza, neanche con l’autorizzazione del tribunale per i minorenni.
Ulteriore ipotesi di nullità è il contratto di convivenza concluso da una coppia di cui anche solo uno dei partners sia interdetto (lettera d) o condannata per omicidio consumato in danno del coniuge del proprio partner ai sensi dell’art. 88 c.c. (lettera e).
3) La sospensione dell’efficacia del contratto
Nelle ultime due ipotesi cui si è fatto riferimento (interdizione e condanna penale) – ai sensi del comma 58 – gli effetti del contratto di convivenza eventualmente stipulato prima di tali avvenimenti restano sospesi (e non possono quindi trovare applicazione) in pendenza del procedimento di interdizione ovvero dal rinvio a giudizio o di eventuale misura cautelare per il delitto di cui all’art. 88 c.c. fino alla sentenza di proscioglimento.
L’ipotesi della sospensione del regime patrimoniale (che è uno dei due contenuti del contratto di convivenza) non è espressamente disciplinata nemmeno per i coniugi in comunione.
La disposizione prevista dalla nuova legge per i conviventi comporta per esempio che in caso di procedimento di interdizione di uno dei due conviventi in comunione dei beni, l’eventuale acquisto compiuto insieme o separatamente resta di proprietà del convivente acquirente o di quello non soggetto al procedimento di interdizione, finché non si concluda il procedimento di interdizione. Ove l’interdizione non venisse dichiarata si verificherà l’effetto comunione con decorrenza dalla data dell’acquisto. Ove invece venisse dichiarata l’effetto non si verifica nei confronti del convivente interdetto.
Non pare possibile, non essendo stata espressamente prevista, l’estensione della disposizione del comma 58 all’amministrazione di sostegno.
V La risoluzione del contratto di convivenza
comma 59
Il contratto di convivenza si risolve per:
a) accordo delle parti;
b) recesso unilaterale;
c) matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona;
d) morte di uno dei contraenti.
60. La risoluzione del contratto di convivenza per accordo delle parti o per recesso unilaterale deve essere redatta nelle forme di cui al comma 51. Qualora il contratto di convivenza preveda, a norma del comma 53, lettera c), il regime patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione determina lo scioglimento della comunione medesima e si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile. Resta in ogni caso ferma la competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari comunque discendenti dal contratto di convivenza.
61. Nel caso di recesso unilaterale da un contratto di convivenza il professionista che riceve o che autentica l’atto è tenuto, oltre che agli adempimenti di cui al comma 52, a notificarne copia all’altro contraente all’indirizzo risultante dal contratto. Nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente, la dichiarazione di recesso, a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione.
62. Nel caso di cui alla lettera c) del comma 59, il contraente che ha contratto matrimonio o unione civile deve notificare all’altro contraente, nonché al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza, l’estratto di matrimonio o di unione civile.
63. Nel caso di cui alla lettera d) del comma 59, il contraente superstite o gli eredi del contraente deceduto devono notificare al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza l’estratto dell’atto di morte affinché provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l’avvenuta risoluzione del contratto e a notificarlo all’anagrafe del comune di residenza.
1) Le ipotesi di risoluzione del contratto di convivenza
Il comma 59 della legge prevede le quattro ipotesi di risoluzione del contratto di convivenza (accordo delle parti, recesso unilaterale, matrimonio o unione civile anche di uno dei due partners, morte di uno dei contraenti). Il termine “risoluzione” ben si attaglia a tutte le ipotesi.
La “risoluzione del contratto” si accompagna in genere alla “cessazione” della convivenza che si verifica quando vengono meno i presupposti che l’hanno determinata e quindi nei casi in cui per iniziativa congiunta o di uno dei due conviventi si interrompe quel legame affettivo di coppia che costituisce l’essenza della convivenza di fatto. In tal caso – salvo quanto si dirà in ordine agli obblighi dei professionisti introdotti dalla nuova legge – il convivente che recede e si allontana farà registrare all’anagrafe il cambio di residenza (art. 10 del regolamento anagrafico dove si prevede che le mutazioni anagrafiche avvengono in primo luogo per necessaria iniziativa degli interessati). Negli altri casi (morte, matrimonio o unione civile) vengono meno automaticamente i presupposti legali e gli effetti anagrafici si determineranno comunque anche per iniziativa d’ufficio (sempre l’art. 10 del regolamento anagrafico prevede che le mutazioni avvengono d’ufficio in seguito alle comunicazioni di stato civile anche ove gli interessati non si attivino per farlo).
La legge, in ogni caso, si disinteressa della cessazione in sé della convivenza salvo quando vi siano figli minori in cui troveranno applicazione le norme dettate dal codice civile sulla responsabilità genitoriale per la regolamentazione dell’affidamento e del mantenimento ove le parti o una di esse intendano rivolgersi al tribunale (art. 337 bis e seguenti del codice civile).
Quello che il legislatore ha previsto, invece, sono i riflessi della cessazione della convivenza sul contratto di convivenza.
A voler essere precisi, non tutte le ipotesi di risoluzione del contratto presuppongono necessariamente lo scioglimento, cioè la cessazione, della convivenza, anche se il legislatore le tratta ragionevolmente come conseguenza della scissione del rapporto di convivenza. Per esempio l’accordo delle parti di risolvere un contratto di convivenza potrebbe anche essere determinato dalla volontà dei partners di sciogliersi solo dai vincoli di natura patrimoniale ma non da quelli affettivi, magari in vista di una riflessione per un diverso contratto di convivenza. In ogni caso è certamente vero che essendo il contratto di convivenza la cornice che regola i rapporti patrimoniali tra i conviventi, ove i partners non intendano procedere direttamente ad una modifica dell’assetto patrimoniale, la risoluzione del contratto consegue per lo più alla volontà di separazione della vita in comune.
Anche la risoluzione del contratto di convivenza andrà annotata all’anagrafe. Gli adempimenti verranno curati dalle parti se la risoluzione avviene per accordo delle parti o per matrimonio o unione civile, mentre saranno curati dal professionista se avviene per recesso unilaterale o per morte di uno dei contraenti.
2) La risoluzione per accordo delle parti
Ad ognuna delle quattro ipotesi corrispondono modalità per così dire esecutive diversificate.
La risoluzione per accordo delle parti e quella per recesso unilaterale devono essere redatte nelle stesse forme di cui al comma 51 e quindi con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che dovrà trasmettere entro i successivi dieci giorni al Comune di residenza dei conviventi per l’annotazione all’anagrafe di cui si è già parlato.
Qualora il contratto di convivenza preveda il regime patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione determina lo scioglimento della comunione medesima e troveranno applicazione le norme del codice civile in materia di divisione.
Resta in ogni caso ferma la competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari comunque discendenti dal contratto di convivenza.
3) Il recesso unilaterale
Di tutte le ipotesi di risoluzione del contratto, il recesso unilaterale è quella che richiede un maggiore approfondimento essendo evidente che la scissione della vita di coppia – che inevitabilmente consegue alla risoluzione del contratto – determinata dalla volontà di uno dei due conviventi è quella che può offrire ragioni di maggiore problematicità, analogamente a quanto avviene nella separazione coniugale.
In effetti il contratto di convivenza è un vero e proprio contratto e la previsione del recesso unilaterale ha natura eccezionale, essendo prevista appunto nei soli casi, quali appunto quello in questione, dei contratti che hanno esecuzione continuata (art. 1373, secondo comma c.c.).
Si deve notare che il legislatore non ha disciplinato la separazione dei conviventi ma soltanto la risoluzione congiunta o il recesso unilaterale del contratto di convivenza.
Con ciò lasciando intendere, come si è detto sopra, che la legge si disinteressa delle modalità con cui si verifica la scissione della vita di coppia (salvo in presenza di figli). E poiché il recesso è l’atto con il quale una delle parti può sciogliersi unilateralmente dal vincolo contrattuale (in deroga al principio sancito dall’art. 1372 c.c. secondo il quale il contratto può essere sciolto solo per mutuo consenso o per le altre cause ammesse dalla legge) resta assodato che ciò che alla legge interessa sono soltanto le modalità con cui cessano le obbligazioni che i conviventi hanno regolamentato nel contratto di convivenza. Le altre obbligazioni patrimoniali – nello specifico quelle relative alle obbligazioni di mantenimento o alimentari – conseguono ex lege alla cessazione della convivenza e quando anche fossero state regolamentate dalle parti attraverso un “accordo tra conviventi” non potrebbero mai derogare alle disposizioni di natura indisponibile contenute nel comma 65 che sarà più oltre esaminato.
Ora se si considera che il contratto di convivenza può introdurre il regime della comunione dei beni ne deriva che una delle parti può sciogliere con efficacia immediata la comunione semplicemente recedendo dal contratto. Il recesso avrà quindi l’effetto di sciogliere la comunione e di produrre l’immediata operatività della comunione de residuo: effetto che nel regime coniugale della comunione legale si verifica solo al momento in cui il presidente autorizza i coniugi a vivere separati. Il recesso si presta quindi anche come possibile occasione di strumentalizzazioni e questo renderà il regime della comunione oggettivamente poco appetibile come regime patrimoniale dei conviventi.
Anche la risoluzione per recesso unilaterale deve essere redatta nelle stesse forme di cui al comma 51 e quindi con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che dovrà trasmettere entro i successivi dieci giorni al Comune di residenza dei conviventi per l’annotazione all’anagrafe di cui si è già parlato. D’altro lato è pacifico che, laddove il recesso si riferisca ad un negozio qualificato da un formalismo ad substantiam, come appunto la forma esaminata del contratto di convivenza, anche la dichiarazione debba rivestire la stessa forma, dovendo sottostare alle medesime garanzie formali prescritte per la costituzione del rapporto contrattuale alla cui risoluzione il recesso stesso è preordinato (Cass. civ. Sez. III, 18 febbraio 1994, n. 1609 20).
La seconda parte del comma 61 prevede che caso di recesso la dichiarazione unilaterale di uno dei conviventi oltre ad essere trasmessa al Comune di residenza dei conviventi deve anche essere notificata a cura del notaio o dell’avvocato all’altro contraente all’indirizzo indicato dal recedente o risultante dal contratto e, nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente (che ne sia proprietario o locatario), a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione.

20 Cass. civ. Sez. III, 18 febbraio 1994, n. 1609 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). Nei contratti formali le cause modificative o estintive del rapporto debbono risultare da fattori prestabiliti dalle parti nello stesso contratto e debbono essere, comunque, espresse nella forma richiesta per il contratto al quale si riferiscono. Conseguentemente, l’accordo solutorio e la dichiarazione di recesso debbono rivestire la stessa forma scritta richiesta per la stipulazione del contratto preliminare. Il recesso, inoltre, può essere esercitato solo dal rappresentante munito di procura generale o speciale espressamente conferita a tal fine, trattandosi di atto negoziale da valere agli effetti sostanziali della permanenza del contratto cui si riferisce. La legge non indica il termine entro cui il notaio o l’avvocato devono notificare all’altro contraente la decisione di recesso ma è ragionevole pensare che ciò debba avvenire al più presto e comunque nello termine di dieci giorni previsto per l’invio dell’atto all’anagrafe del Comune di residenza dei contraenti per le iscrizioni previste.
La disciplina generale del recesso è prevista dall’art. 1373 del codice civile il cui secondo comma prevede che nei contratti ad esecuzione continuata – come certamente va qualificato anche il contratto di convivenza – la facoltà di recesso può essere sempre esercitata. Ciò in sintonia con il principio generale che la facoltà di recedere da un contratto deve essere necessariamente pattuita o prevista dalla legge.
Il recesso consiste in un negozio giuridico unilaterale di natura recettizia, che produce i suoi effetti dal momento in cui perviene a conoscenza della persona alla quale è destinato, secondo le regole proprie degli atti unilaterali ex art. 1334 del codice civile. Ed è anche per questo, appunto, che il notaio o l’avvocato devono notificare l’atto di recesso da essi formato all’altra parte.
Per quanto attiene alla forma dell’atto, l’art. 1373 c.c. non richiede alcuna formula sacramentale: tuttavia, giacché trattasi di facoltà attribuita ad uno o ad entrambi i contraenti derogativa al principio generale per il quale il contratto ha forza di legge tra le parti, la volontà di recedere “deve essere sempre redatta in termini inequivoci, tali da non lasciare alcun dubbio circa la volontà dei contraenti di inserirla nel negozio da loro sottoscritto” (Cass. civ. Sez. II, 26 novembre 1987, n. 8776 21).
Il diritto di recesso, che in genere non può essere svincolato da un termine preciso o, quanto meno, sicuramente determinabile, in assenza del quale l’efficacia del contratto resterebbe indefinitamente subordinata all’arbitrio della parte è, invece, in questo caso di contratto ad esecuzione continuata esercitabile finché dura la convivenza e, come detto a commento del comma 56 (a mente del quale “Il contratto, di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione”) non può essere né vietato, ancorché per accordo tra le parti, né condizionato dall’apposizione di alcun termine. Né le parti possono prevedere nel regolamento contrattuale un corrispettivo (la cosiddetta multa penitenziale) per il diritto di recesso.
Naturalmente in base all’art. 1373 c.c. “il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione”.
In ogni caso, il recesso, di regola, non ha effetto retroattivo, ma produce la sua efficacia ex nunc e diviene irrevocabile nel momento in cui viene esercitato e divenuto produttivo di effetti e una riviviscenza del contenuto del contratto di convivenza potrà avvenire solo attraverso la rinnovazione del contratto.
È intuitivo che nessuna indagine può essere ammessa sulla plausibilità del recesso unilaterale non essendo ammissibile nessun condizionamento e nessuna limitazione o tanto meno la previsione di una penale.
Il diritto di recesso è pieno e può essere esercitato in ogni tempo.
4) Recesso e conseguenze sull’abitazione familiare
Come si è visto la seconda parte del comma 61 prevede testualmente che nel caso in cui l’abitazione familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente (che ne sia per esempio proprietario o locatario o comodatario), la dichiarazione di recesso “a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione”. In tale significato avere la disponibilità esclusiva significa quindi essere titolari di una posizione giuridica di cui non è titolare l’altro convivente.
A differenza però di quanto avviene in caso di morte del convivente proprietario (in cui il convivente superstite ha diritto di rimanere nell’abitazione familiare per il periodo previsto nel comma 42) in caso di recesso non vi è nessuna riserva di abitazione a favore dell’altro convivente. Naturalmente ove vi siano figli comuni minori o maggiorenni non autosufficienti il convivente con il quale i figli rimangono domiciliati avrà diritto a rimanere nell’abitazione come assegnatario (con una conversione legislativa quindi della decisone di Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404 22), impregiudicati i diritti dell’eventuale locatore o dell’eventuale comodante.
Desta perplessità – e francamente appare irragionevole – l’indicazione che l’indicazione del termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione debba essere necessariamente contenuta a pena di nullità nella dichiarazione di recesso. Se manca l’indicazione di tale termine quindi, la dichiarazione di recesso sarebbe nulla. Il che sembrerebbe escludere che il convivente proprietario della casa di abitazione o che ne abbia comunque la
21 Cass. civ. Sez. II, 26 novembre 1987, n. 8776 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). La clausola con la quale si attribuisce ad uno o ad entrambi i contraenti la facoltà di recesso ex art. 1373 c. c., siccome derogativa al principio generale per il quale il contratto ha forza di legge tra le parti, pur non richiedendo alcuna formula sacramentale, deve essere sempre redatta in termini inequivoci, tali da non lasciare alcun dubbio circa la volontà dei contraenti di inserirla nel negozio da loro sottoscritto (nella specie, in applicazione di tale principio, la suprema corte ha ritenuto corretta la decisione del giudice del merito secondo cui le parti non avevano in concreto inteso stabilire un recesso ex art. 1373 c. c., ma una penale per il caso di inadempimento).
22 Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404 (Giur. It., 1988, I,1, 1627 nota di TRABUCCHI) E’ costituzionalmente illegittimo – in riferimento agli art. 2 e 3 cost. – l’art. 6, l. 27 luglio 1978, n. 392 nella parte in cui non prevede la successione nel contratto di locazione al conduttore che abbia cessato la convivenza more uxorio a favore del già convivente quando vi sia prole naturale.
disponibilità possa per esempio decidere (magari per un accordo tra i conviventi) che l’altro rimanga nell’abitazione. Ora, se questo è plausibile in caso di proprietà, altrettanto non lo sarebbe in caso di locazione o di comodato (ove l’accordo non potrebbe certamente avere effetti verso i terzi proprietari dell’immobile). Pertanto la norma non può che essere interpretata nel senso che ove il convivente che recede dal contratto (e quindi che pone fine in sostanza alla convivenza) è proprietario potrebbe non indicare all’altro il termine per il rilascio (ma ove volesse farlo lo deve fare a pena di nullità nella dichiarazione di recesso); mentre nell’ipotesi in cui sia locatario o comodatario avrebbe l’obbligo di indicare tale termine. In altre parole in caso di recedente proprietario l’indicazione del termine per il rilascio è obbligatorio a pena di nullità solo se il recedente intende che l’altro convivente lasci l’abitazione.
Altro elemento di perplessità è “il termine non inferiore a novanta giorni” – e cioè di almeno novanta giorni – e quindi il termine indicato può essere superiore a novanta giorni. Il che, in caso di recedente locatario o comodatario, potrebbe comportare una eccessiva penalizzazione per il locatore o per il comodante. In ogni caso sia il locatore che il comodante mantengono pienamente la titolarità dei diritti che la legge loro riconosce.
La questione che anche si deve affrontare è che cosa avviene se tra i conviventi non c’è stata stipulazione di alcun contratto di convivenza. In tal caso non vi sarà recesso da alcun contratto ma solo la decisione di interrompere la convivenza. In questo caso si potrebbe ritenere che non vi possa essere per l’altro convivente un trattamento deteriore e che quindi la disposizione debba valere anche in questa ipotesi.
Come si è già detto il comma 42 per il caso di morte del convivente proprietario dell’abitazione familiare richiama l’art. 337-sexies c.c. prevedendone l’applicazione in caso di figli comuni; e quindi richiama anche la parte in cui la norma dispone che “il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’articolo 2643”. Viceversa per il caso di recesso unilaterale (dal contratto di convivenza o dalla convivenza in sé)
5) La risoluzione in seguito a matrimonio o unione civile di uno dei conviventi
Nel caso di matrimonio o unione civile tra uno dei conviventi ed altra persona si determina la risoluzione ex lege del contratto di convivenza. In tal caso il convivente che con tale atto determina la risoluzione del contratto deve notificare all’altro contraente, nonché al notaio che ha ricevuto il contratto di convivenza, l’estratto di matrimonio o di unione civile. Questo è l’unico atto formale che la legge prevede e il notaio avrà l’obbligo di conservare l’atto in questione inviatogli. Non è previsto alcun ulteriore obbligo e quindi il notaio non dovrà trasmettere nulla all’anagrafe del Comune di residenza che d’altra parte avrà cognizione diretta del matrimonio o dell’unione civile.
6) La morte di uno dei conviventi
Nel caso di morte di uno dei contraenti, il contraente superstite o gli eredi del contraente deceduto devono notificare al notaio o all’avvocato che ha proceduto alla redazione del contratto di convivenza l’estratto dell’atto di morte affinché provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l’avvenuta risoluzione del contratto e a notificarlo all’anagrafe del comune di residenza.
VI Contratti di convivenza e diritto internazionale privato
comma 64
Dopo l’articolo 30 della legge 31 maggio 1995, n. 218, è inserito il seguente:
«Art. 30-bis. – (Contratti di convivenza). — 1. Ai contratti di convivenza si applica la legge nazionale comune dei contraenti. Ai contraenti di diversa cittadinanza si applica la legge del luogo in cui la convivenza è prevalentemente localizzata.
2. Sono fatte salve le norme nazionali, internazionali ed europee che regolano il caso di cittadinanza plurima».
Con una norma di chiusura piuttosto affrettata il legislatore – introducendo un apposito art. 30-bis nella legge 31 maggio 1995, n. 218 (sistema italiano di diritto internazionale privato) – prescrive l’applicabilità della legge comune dei contraenti ai contratti di convivenza; in difetto di cittadinanza comune troverà applicazione la legge del luogo in cui è stata registrata la convivenza.
La norma riproduce sostanzialmente le disposizioni che regolano i rapporti personali e patrimoniali tra coniugi dichiarando applicabile la legge comune o, in caso di diversa cittadinanza, quella di registrazione della convivenza che dovrebbe coincidere con quella del luogo di prevalente localizzazione della vita di coppia.
Non viene riproposta – e non è chiaro come mai – la possibile del tutto ragionevole opzione per iscritto della legge di cui almeno uno dei conviventi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede (come per i coniugi è previsto nell’art. 30, primo comma, seconda parte della legge 218/1995).
Tuttavia in deroga ai criteri sopra indicati, ai contratti di convivenza tra cittadini italiani oppure ai quali partecipa un cittadino italiano, ovunque siano stati stipulati, si applicano le disposizioni della legge italiana vigenti in materia. Con la conseguenza che i cittadini italiani vedranno sempre riconosciuta l’applicazione della legge italiana ai rispettivi contratti di convivenza.
VII I contratti tra conviventi
Come si è detto i “contratti di convivenza” disciplinati dal comma 50 al comma 60 dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, non esauriscono il possibile oggetto della negozialità tra conviventi.
Continueranno ad essere possibili tutti quegli accordi che, sia pure senza la garanzia in sé dell’opponibilità erga omnes assicurata dalla iscrizione all’anagrafe dei “contratti di convivenza”, possono consentire ai conviventi nei loro reciproci rapporti di costituire e regolare un rapporto giuridico patrimoniale teso a salvaguardare l’esistenza di quei doveri morali e sociali costitutivi dello statuto primario della famiglia di fatto.
Evidentemente anche per i “contratti tra conviventi” le parti possono plausibilmente porsi il problema della stabilità dell’accordo e della sua efficacia erga omnes e pertanto sarà sempre possibile – ed è di fatto quasi sempre l’obiettivo principale di tali accordi – l’individuazione di strumenti che possono assicurare questi effetti (come per esempio la trascrizione di un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c.).
La nuova legge non vieta questi accordi, Né però li richiama. D’altro lato il legislatore non potrebbe certo disconoscere il pieno dispiegarsi dell’autonomia privata in campo patrimoniale anche all’interno della convivenza di fatto. E ne è la prova proprio la disciplina introdotta sui contratti di convivenza.
Si tratterà per lo più di accordi relativi all’assunzione di reciproci impegni di natura patrimoniale per il periodo della convivenza, ulteriori per esempio a quelli contenuti nell’eventuale contratto di convivenza, ma anche in vista dell’eventuale scissione della coppia.
a) accordi integrativi del contratto di convivenza
Come si è detto, gli accordi relativi alle modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune e relativi alla scelta del regime di comunione dei beni possono essere assunti, con la forza della opponibilità ai terzi, attraverso il contratto di convivenza, ma al di fuori di tale contesto ogni altro accordo sarà possibile (con validità anche solo tra le parti) a condizione che non costituiscano una deroga in peius alla disciplina legale nella nuova legge.
b) accordi in vista della cessazione della convivenza
Con specifico riguardo, poi, agli accordi economici in vista della scissione della convivenza saranno possibili accordi che non si pongano in contrasto naturalmente con i diritti assicurati ai conviventi dal comma 65 che appare destinato ora a costituire il modello legale minimo di “obbligazione alimentare” tra conviventi, inderogabile dalle parti.
Si ricorda che la definizione dei conviventi di fatto come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale” conferma l’esistenza di veri e propri doveri di solidarietà reciproca tra conviventi e quindi il regime della irripetibilità ex art. 2034 c.c. degli apporti legati a tale solidarietà.

DICHIARAZIONE GIUDIZIALE DI PATERNITÀ E MATERNITÀ

Di Gianfranco Dosi
I Il quadro giuridico
Dei 14 titoli di cui si compone il primo libro del codice civile, l’itero titolo VII è dedicato alla filiazio¬ne ed è stato in gran parte modificato con la legge di riforma della filiazione (Legge 10 dicembre 2012 n. 219 e Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154). Il capo V del titolo sulla filiazione si occupa dell’azione dichiarativa della paternità e della maternità, cioè dei casi in cui per iniziativa dell’interessato o, se minore di età, del genitore che esercita su di lui la responsabilità genitoriale, è promossa la procedura specifica prevista per dichiarare lo status genitoriale.
Si tratta di una tipica azione di stato, di competenza del tribunale ordinario (art. 9, secondo comma c.p.c.) anche nel caso in cui l’azione sia promossa nell’interesse di un minore di età (art. 38 disp. 2 att. c.c.). Si applica il rito a cognizione ordinaria. Trattandosi di procedura in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero (art. 72 c.p.c. “Il pubblico ministero deve intervenire, a pena di nullità rilevabile d’ufficio… nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone…”) il tribunale giudica in composizione collegiale (art. 50-bis c.p.c. “Il tribunale giudica in composizione collegia¬le… nelle cause nelle quali è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero…”).
Già prima delle riforme introdotte nel 2012 e nel 2013 la materia era stata oggetto di una radicale trasformazione ad opera di Corte costituzionale 10 febbraio 2006, n. 50 che aveva dichiarato illegittimo l’art. 274 c.c. dove si prevedeva una fase preliminare di ammissibilità dell’azione che – concludendosi con un provvedimento appellabile e poi ricorribile per cassazione – costituiva una delle principali ragioni della estrema dilatazione dei tempi della causa. Nella sentenza si parla di manifesta irragionevolezza di una normativa “che si risolve in un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost., e ciò, per giunta, in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica”.
Grazie a questo importante intervento della Corte costituzionale e grazie anche ad alcune significa¬tive decisioni della giurisprudenza di cui si parlerà, il procedimento si presenta oggi più in linea con il principio costituzionale di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.). Inoltre la plausibilità scientifica dei test genetici ha reso del tutto inutili in questi procedimenti altre prove, accelerando ulteriormente i tempi delle cause che, se non fosse per i lunghi tempi della giustizia, potrebbero durare pochissimo tempo.
Le norme di riferimento del codice civile, dopo l’intervento della Corte costituzionale del 2006 e dopo le riforme del 2012 e 2013, sono pochissime.
La morma principale è l’art. 269 che indica il contenuto dell’azione.
Art. 269 (Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità)
La paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso.
La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo.
La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre.
La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità.
I principi che si ricavano da questa norma sono sostanzialmente due.
Il primo è che l’azione con la quale si chiede l’accertamento in sede giudiziale della genitorialità è ammessa in tutti i casi in cui il riconoscimento di un figlio è previsto come possibile dalla legge. Perciò anche nell’ipotesi in cui il genitore che intenda effettuarlo era al momento del concepimento unito in matrimonio con altra persona (art. 250 c.c.) ed anche nell’ipotesi in cui il figlio sia nato da relazione incestuosa (art. 251 c.c. che prevede comunque in questo caso una previa autorizzazio¬ne giudiziaria), ma non quando il genitore ha meno di sedici anni (art. 250, ultimo comma c.c.) o nel caso in cui il figlio da riconoscere abbia già uno status di figlio (nato nel matrimonio) o di figlio nato fuori dal matrimonio riconosciuto da entrambi i genitori) (art. 253 c.c.).
l secondo principio espresso nell’art. 269 c.c. – in conformità a quanto prevede l’ultimo comma dell’art. 30 della Costituzione (“La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”) – è che la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo ma che la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità.
II La legittimazione attiva
L’individuazione – operata dagli articoli 270 e 273 del codice1
1 Art. 270 (Legittimazione attiva e termine)
L’azione per ottenere che sia dichiarata giudizialmente la paternità o la maternità è imprescrittibile riguardo al figlio.
Se il figlio muore prima di avere iniziato l’azione, questa può essere promossa dai discendenti, entro due anni dalla morte.
L’azione promossa dal figlio, se egli muore, può essere proseguita dai discendenti legittimi, legittimati o naturali riconosciuti.
Si applica l’articolo 245.
Art. 273 (Azione nell’interesse del minore o dell’interdetto)
L’azione per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la paternità o la maternità può essere promossa, nell’in¬teresse del minore, dal genitore che esercita la responsabilità genitoriale prevista dall’articolo 316 o dal tutore. Il tutore però deve chiedere l’autorizzazione del giudice, il quale può anche nominare un curatore speciale.
Occorre il consenso del figlio per promuovere o per proseguire l’azione se egli ha compiuto l’età di quattordici anni.
Per l’interdetto l’azione può essere promossa dal tutore previa autorizzazione del giudice. – di chi è legittimato ad iniziare la cau¬sa di accertamento giudiziale della paternità o della paternità è tassativa. Nessun soggetto diverso da quelli indicati ha legittimazione attiva. Non ha, in particolare legittimazione attiva, il Pubblico ministero che nel sistema della filiazione acquisisce un potere (non di azione) ma di sollecitazione della nomina di un curatore speciale finalizzata all’eliminazione di status difformi dal vero (discono¬scimento e impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità) o alla prosecuzione dell’azione di riconoscimento in caso di morte del figlio e di incapacità dei discendenti.
a) Il figlio
È legittimato in primo luogo il figlio. L’azione è imprescrittibile e può quindi essere promossa dal figlio in ogni tempo.
Più volte è stata affermata in giurisprudenza la manifesta infondatezza della questione di legitti¬mità costituzionale dell’art. 270 c.c. nella parte in cui prevede l’imprescrittibilità dell’azione per il riconoscimento di paternità proposta dal figlio e nella parte perciò in cui sacrificherebbe il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo (Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960; Cass. civ. Sez. I, 29 novembre 2016, n. 24292).
Si afferma in queste decisioni che l’imprescrittibilità, nei riguardi del figlio, della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, è espressione del diritto della persona, costituzionalmente rilevante, alla propria identità, e quindi al conseguimento di uno status filiale corrispondente alla verità biologica.
b) I discendenti del figlio morto
In caso di morte del figlio l’azione può essere promossa dai suoi discendenti (figli ma anche i nipoti in quanto la legge non parla di discendenti prossimi come fa per esempio l’art. 433 c.c. che indica gli obbligati agli alimenti), anche soltanto da uno, entro il termine di decadenza di due anni dalla morte, mentre se l’azione era già stata iniziata i suoi discendenti possono sempre proseguirla.
Dal richiamo che nell’art. 270 viene fatto all’art. 245 si ricava che se i discendenti si trovano in sta¬to di incapacità, può essere nominato dal presidente del tribunale ordinario (art. 80 c.p.c. e art. 38 disp. att.c.c.) un curatore speciale (su iniziativa del genitore o del tutore o del pubblico ministero) affinché venga iniziata o proseguita l’azione.
c) Il genitore esercente la responsabilità genitoriale (o il tutore) in sostituzione del fi¬glio minore
Come previsto nell’art. 273 c.c. l’azione per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la paternità o la maternità può essere promossa, nell’interesse del minore, dal genitore che esercita la respon¬sabilità genitoriale.
Si tratta di una ipotesi di sostituzione processuale (ammessa dall’art. 101 c.p.c. 2
2 Art. 81 c.p.c. (Sostituzione processuale)
Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui. ) in quanto il genitore esercente la responsabilità genitoriale agisce in nome proprio per far valere un diritto del figlio (Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2005, n. 10131).
In passato Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786 aveva ritenuto manifestamente in¬fondata la questione di legittimità costituzionale della norma con riferimento agli art. 2 e 24 cost. nella parte in cui attribuisce al genitore la legittimazione ad agire per la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità senza prevedere la necessità della nomina di un curatore speciale per il minore e, in caso di inattività del sostituto processuale , la sospensione dei termini fino al raggiun¬gimento della maggiore età del sostituito; in quanto “l’interesse del minore risulta adeguatamente protetto, nel caso di promovimento dell’azione da parte del genitore attraverso la verifica della sua rispondenza a quell’interesse demandata al giudice (a seguito della sentenza della Corte cost. n. 341 del 1990), nel caso contrario con la possibilità per il figlio, una volta divenuto maggiorenne, di promuovere l’azione, per lui imprescrittibile ai sensi dell’art. 270 c.c”.
Se il figlio minore ha un tutore (nominato se il genitore è morto o non può esercitare la responsa¬bilità genitoriale, ovvero ai sensi dell’art. 10, comma 3, della legge 4 maggio 1983, n. 184) sarà il tutore che può iniziare l’azione, ma ha l’onere di chiedere preventivamente l’autorizzazione del presidente del tribunale ordinario (art. 80 c.p.c. e art. 38 disp. att. c.c.), il quale può anche no¬minare un curatore speciale ove ritenga che possa esserci un conflitto di interessi tra il figlio e il tutore stesso.
In passato Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341 aveva ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 273 nella parte in cui non estende al genitore la necessità dell’autorizzazio¬ne del giudice, prevista per il tutore, non potendo nei confronti del genitore la valutazione dell’in¬teresse del minore da parte del giudice essere prospettata nella forma di un atto (autorizzatorio) integrativo della legittimazione ad agire.
L’azione ha poi sempre necessità del consenso del minore quattordicenne, sia nel caso di azione che nel caso di prosecuzione (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 781 ha precisato che il raggiungimento, da parte del minore, dell’età ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio, rilevabile d’ufficio, determina il venir meno della necessità del consenso del pri¬mo genitore al riconoscimento da parte dell’altro e, in difetto, dell’intervento del giudice).
d) Il tutore in caso di interdizione dell’interessato
Anche nel caso in cui l’interessato maggiorenne sia interdetto, legittimato all’azione è il tutore sempre previa autorizzazione del tribunale.
Anche in questo caso il tutore è un sostituto processuale dell’incapace.
III La legittimazione passiva
Ai sensi del primo comma dell’art. art. 276 c.c. “la domanda per la dichiarazione di paternità o di maternità deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in sua mancanza, nei confronti dei suoi eredi. In loro mancanza, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso”.
Il testo della norma è stato riformato dalla legge 10 dicembre 2012 n. 219 e dal Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
In precedenza, sulla base del previgente testo della disposizione (“La domanda per la dichiarazione di paternità o di maternità naturale deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in mancanza di lui, nei confronti dei suoi eredi”) era stato dibattuto in giurisprudenza il problema se fosse ammissibile, in caso di mancanza di eredi, promuovere ugualmente l’azione richiedendo la nomina di un curatore speciale quale contraddittore legittimato passivo. La Corte costituzionale aveva più volte escluso l’ammissibilità della questione affermando che si trattava di un problema di spettanza del legislatore (Corte cost. 29 ottobre 2009, n. 278; Corte cost. 20 marzo 2009, n. 80; Corte cost. 20 novembre 2008, n. 379; Corte cost. 21 dicembre 2007, n. 450; Corte cost. 20 luglio 2007, n. 319).
La questione, come si è visto, è stata appunto risolta dal legislatore con il nuovo testo della di¬sposizione che, in caso di mancanza di eredi, consente ora di promuovere il giudizio nei confronti di un curatore nominato dal presidente del tribunale. Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2014, n. 19790 ha ritenuto applicabile il testo riformato dell’art. 276 applicabile anche ai giudizi pendenti all’entrata in vigore del Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
L’altro problema, pure molto dibattuto in passato, è quello di chi siano gli “eredi” legittimati pas¬sivamente. A questo problema ha dato una soluzione Cass. civ. Sez. Unite, 3 novembre 2005, n. 21287 ritenendo che la domanda per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, in caso di morte del presunto genitore, va proposta solo nei confronti dei suoi eredi diretti e immediati, quali legittimati passivi, mentre gli eredi degli eredi del presunto genitore, o altri soggetti, comunque portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, possono solo intervenire in giudizio. Il principio è stato poi ribadito successivamente (Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2014, n. 10783 dove si è fatto notare che, in ogni caso, la possibilità di promuovere oggi il giudizio nei confronti di un curatore speciale rende effettivamente la questione meno drammatica rispetto al passato quando la norma non contemplava questa possibilità).
Il capoverso dell’art. 276 prevede che “Alla domanda può contraddire chiunque vi abbia inte¬resse”. Secondo Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2007, n. 8355 questa disposizione configura una forma di intervento principale, ai sensi dell’art. 105, primo comma, c.p.c., e non un intervento meramente adesivo.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19603 la disposizione disciplina la posizione di soggetti, portatori di interessi, patrimoniali e non patrimoniali, contrari all’accertamento della filiazione, quali potrebbero essere il coniuge ed i figli (legittimi) del presunto genitore, ai quali perciò è garantita la legittimazione a contraddire alla domanda intervenendo nel processo, senza obbligo di essere citati in giudizio come contraddittori necessari.
IV Aspetti processuali
Come si è detto all’inizio, il giudizio di accertamento della paternità o della maternità costituisce una causa di stato soggetta al rito a cognizione ordinaria anche nel caso in cui sia promossa dal genitore nell’interesse del figlio minore ed è di competenza del tribunale ordinario (art. 38 disp. att. c.c.), in composizione collegiale essendo obbligatorio l’intervento del Pubblico ministero (art. 50 bis c.p.c).
La causa deve, quindi, essere introdotta, con citazione (da notificare anche al Pubblico ministe¬ro), secondo le regole ordinarie, nel luogo di residenza del convenuto (Cass. civ. Sez. Unite, 7 febbraio 1992, n. 1373; Cass. civ. Sez. I, 8 novembre 1997, n. 11021; Trib. Milano, 26 giugno 2013).
Ove la causa venisse introdotta con ricorso, e trattata con il rito camerale, la parte che fa rilevare la nullità della sentenza per tale motivo ha l’onere di dedurre lo specifico pregiudizio al diritto di difesa che le sarebbe derivato dal rito pur erroneamente seguìto (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 783).
Poiché l’intervento del Pubblico ministero è obbligatorio, la mancata trasmissione degli atti a quest’ultimo, anche in grado di appello, in modo che egli sia informato e messo in condizione di adottare le proprie determinazioni al riguardo, comporta la nullità della sentenza (Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2017, n. 14896; Cass. civ. Sez. VI – 1, 4 settembre 2015, n. 17664; Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 1997, n. 807). Tuttavia l’obbligatorietà dell’intervento del Pubbli¬co ministero non richiede la partecipazione del rappresentante di quell’ufficio alle varie udienze, essendo assicurata l’osservanza del precetto normativo ove egli sia stato ufficialmente informato dell’esistenza del procedimento, così da avere la possibilità di intervenire e di esercitare i poteri attribuitigli dalla legge, restando irrilevante che in concreto egli non partecipi alle udienze e non formuli conclusioni. Il principio è stato ribadito più volte in connessione con molte ipotesi di giudizi in cui è previsto come obbligatorio l’intervento del pubblico ministero (Cass. civ. Sez. I, 14 feb¬braio 2018, n. 3638; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2008, n. 3708; Cass. civ. Sez. Unite, 7 ottobre 2010, n. 20773; Trib. Potenza, 16 novembre 2016 in un giudizio di accertamento della paternità).
La sentenza dichiarativa della paternità (la cui natura giuridica sarà approfondita più oltre) è ap¬pellabile e la decisione di appello è ricorribile per cassazione. Avendo il Pubblico ministero solo potere di intervento e non di azione è evidente che egli non può impugnare la sentenza dichia¬rativa della paternità. Infatti secondo i primi due commi dell’art. 72 c.p.c. il Pubblico ministero, che interviene nelle cause nelle quali ha potere di azione, ha gli stessi poteri che competono alle parti e li esercita nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime (potendo anche impugnare la sentenza), mentre negli altri casi di intervento previsti nell’art. 70 (tra cui quello previsto nelle azioni di stato), può soltanto produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti.
V La valutazione dell’interesse del minore
Nel 1990 la Corte costituzionale dichiarò illegittimo l’art. 274 c.c. (che all’epoca prevedeva la fase di ammissibilità dell’azione giudiziaria della paternità) nella parte in cui non prevedeva da parte del tribunale (allora per i minorenni) una valutazione di conformità all’interesse del minore dell’a¬zione promossa dal genitore nell’interesse del figlio (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341). Nella sentenza si affermava che il tribunale per i minorenni ha la funzione istituzionale di valutazione dell’interesse del minore anche nell’ipotesi in certo senso inversa di conflitto di cui al comma quarto dell’art. 250 cod. civ. allorché cioè il genitore che ha già riconosciuto il figlio si opponga al riconoscimento dell’altro giudicandolo non conveniente all’interesse del minore e si concludeva che “è pertanto costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 3 Cost. – l’art. 274, comma primo, del codice civile stesso, nella parte in cui, ove si tratti di minore, non prevede che l’azione di accertamento della paternità promossa dal genitore esercente la potestà sia ammessa solo ove ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore”.
L’art. 274 c.c. prevedeva tra l’altro che “il tribunale, anche prima di ammettere l’azione, può, se trattasi di minore… nominare un curatore speciale che lo rappresenti in giudizio” con ciò lasciando intendere che la decisione del genitore di promuovere l’azione non necessariamente comportava la coincidenza tra tale decisione e l’interesse del minore, potendo il tribunale ritenere sussistente un conflitto di interessi e, appunto, nominare un curatore speciale al minore. Proprio in ragione di tale valutazione dell’interesse del minore nella fase di ammissibilità, attribuita al tribunale per i minorenni, la giurisprudenza ritenne anche non necessaria nella causa la nomina al minore di un curatore speciale (Cass. Civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786).
Successivamente la Corte costituzionale dichiarò illegittima la fase preliminare di ammissibilità dell’azione (Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50) nella quale doveva essere valutato l’interesse del minore ma la questione della valutazione di tale interesse non restò ridimensionata. Infatti In questa sentenza la Corte precisava che “in presenza di una incostituzionalità che coinvolge il procedimento nella sua struttura e funzione, la circostanza che lo stesso abbia anche lo scopo di accertare l’interesse del minore non fa venire meno l’incostituzionalità stessa, né giustifica la per¬manenza nell’ordinamento del giudizio di ammissibilità con questo solo scopo. L’esigenza, infatti, che l’azione di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale risponda all’interesse del minore non viene certamente meno con la soppressione del giudizio di cui all’art. 274 del codice civile, ma potrà essere eventualmente delibata prima dell’accertamento della fondatezza dell’azione di merito”.
Con la riforma poi della filiazione (Legge 10 dicembre 2012 n. 219 e Decreto legislativo 28 dicem¬bre 2013, n. 154) tutte le azioni relative allo status filiationis, ivi compresa quella di accertamento giudiziale della paternità e della maternità, furono attribuite anche in caso di minore età dell’in¬teressato, alla competenza del tribunale ordinario e sembrò, quindi, oggettivamente appannato il riferimento all’interesse del minore (la cui valutazione era un compito precipuo del tribunale per i minorenni), anche in considerazione della sostanziale centralità che il nuovo sistema attribuiva al favor veritatis al quale appariva estranea ogni considerazione sull’interesse del minore.
Tuttavia la giurisprudenza nel suo complesso ha continuato a riferirsi alla valutazione dell’interesse del minore nelle azioni di status filiationis (relative non solo al disconoscimento e all’impugnazione di riconoscimento ma anche alle cause di accertamento giudiziale della paternità, sia pure riferi¬bili ratione temporis a vicende disciplinate dalla normativa precedente all’abolizione della fase di ammissibilità: per esempio Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3935 (L’interesse umano e af¬fettivo del minore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità non va più valutato dal Tri¬bunale qualora il minore abbia raggiunto i sedici anni, essendo in tale caso la valutazione di detto interesse rimessa allo stesso minore, attraverso la diretta manifestazione di consenso all’azione); Cass. civ. Sez. I, 19 aprile 2010, n. 9300 (La contrarietà all’interesse del minore può sussistere solo in caso di concreto accertamento di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale).
Con riguardo alle azioni che eliminano lo status legale difforme da quello biologico si è così affer¬mato che “anche il quadro Europeo ed internazionale di tutela dei diritti dei minori evidenzia la centralità della valutazione dell’interesse del minore nell’adozione delle scelte che lo riguardano. Tale principio ha trovato la sua solenne affermazione dapprima nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con Legge 27 maggio 1991, n. 176, in forza della quale “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione premi¬nente” (art. 3, paragrafo 1). Nella stessa direzione si pongono la Convenzione Europea sull’eser¬cizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con L. 20 marzo 2003, n. 77, e le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate il 17 novembre 2010, nella 1098ª riunione dei delegati dei ministri. Infine, l’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, sancisce il principio per il quale “in tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente” (Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 che, con sentenza interpretativa di rigetto, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale delle norme sull’impugnazione del riconosci¬mento per difetto di veridicità nella parte in cui non consentirebbero la valutazione dell’interesse del minore alla caducazione dello status non corrispondete alla verità biologica.
Le stesse argomentazioni sono sostanzialmente riprese in Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2017, n. 8617; Cass. civ. Sez. I, 15 febbraio 2017, n. 4020; Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5653, tutte anch’esse riferibili a casi di disconoscimento in cui si afferma che pur dovendosi rico¬noscere un accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della pro¬creazione, va escluso che quello dell’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamen¬to, concludendosi che in tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore è resa trasparente dall’evoluzione ordinamentale intervenuta e si proietta anche sull’inter¬pretazione delle disposizioni da applicare.
Come si comprende queste decisioni pongono il problema della valutazione dell’interesse del mi¬nore nelle azioni con cui si elimina uno status difforme dal vero e non nelle cause con le quali si accerta e si dichiara uno status.
Ciononostante si deve concludere che nell’azione giudiziale della paternità o della maternità natu¬rale non può non farsi applicazione dei principi generali desumibili anche dalle richiamate norme convenzionali e sovranazionali che prevedono la necessaria valutazione dell’interesse del minore in tutti i giudizi che lo coinvolgono.
A tale proposito non può che richiamarsi quanto affermato in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2012, n. 15158; Cass. civ. Sez. I, 19 aprile 2010, n. 9300; Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15101; Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 2002, n. 11041) secondo cui può ravvisarsi la contrarietà all’interesse del minore solo nell’ipotesi di concreto accertamento di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla responsabilità genitoriale, ovvero di una prova della sussistenza di gravi rischi per l’equilibrio affettivo e psicolo¬gico del minore e per la sua collocazione sociale; rischi che devono emergere da fatti obiettivi, desunti dalla pregressa condotta di vita del preteso padre. Di talché, in assenza di essi, l’interesse del minore va, di norma, considerato sussistente, a prescindere dai rapporti di affetto che possano concretamente instaurarsi con il presunto genitore e dalla disponibilità di quest’ultimo ad instau¬rarli, avendo riguardo al miglioramento obiettivo della sua situazione in relazione agli obblighi giuridici che ne derivano per il presunto padre.
VI La prova della paternità e della maternità
a) La consulenza tecnica genetica
Le prove genetiche sono state negli ultimi decenni largamente utilizzate nelle azioni di accerta¬mento e disconoscimento della paternità. La loro affidabilità scientifica ha cominciato ad essere recepita in giurisprudenza fin dagli anni ottanta anche se alcune decisioni della giurisprudenza di legittimità sono state – soprattutto in passato – inclini ad attribuire alle prove genetiche non un protagonismo decisionale in sé, ma soprattutto un valore confermativo delle prove raccolte in modo tradizionale3
3 Per un approfondimento ampio si rinvia alla voce PROVE GENETICHE . Fondamentale è stato il contributo della Corte costituzionale che, soprattutto con l’importante decisione Corte cost. 14 maggio 1999, n. 170 richiamava autorevolmente le “avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e l’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini”.
La giurisprudenza ha preso così sempre più consapevolezza dell’affidabilità delle prove genetiche che possono “fornire elementi di valutazione non solo per escludere, ma anche per affermare il rapporto biologico di paternità, anche quando le risultanze delle indagini consentono una valuta¬zione meramente probabilistica, attesa la natura probabilistica di tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche” (Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13665).
Il giudizio di massima affidabilità viene ribadito costantemente anche dalla giurisprudenza di me¬rito (Trib. Roma Sez. I, 21 febbraio 2014) ed è stato affermato anche in sede penale con l’at¬tribuzione ai riscontri genetici del valore di prova e non solamente indiziario (Cass. pen. Sez. II, 5 febbraio 2013, n. 8434).
Si è così giunti gradualmente ad un cambio di prospettiva consistente nel considerare le prove scientifiche decisamente come prevalenti sulle altre.
La nuova impostazione si deve a Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266 che – richiamandosi ai “progressi della scienza biomedica che, ormai, attraverso le prove genetiche od ematologiche, consentono di accertare la esistenza o la non esistenza del rapporto di filiazione” – dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 235, comma 2, codice civile, nella parte in cui subordinava l’accesso alle prove ematologiche alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie. Non è più necessaria, quindi, la prova dell’adulterio (secondo quanto prescriveva la norma del codice civile) per richiedere l’espletamento della CTU ematologica e genetica.
Questo lento cammino verso la piena fiducia probatoria delle prove scientifiche nell’accertamento e nel disconoscimento della paternità ha fatto emergere anche più chiaramente in giurisprudenza la consapevolezza circa la prevalenza, nel sistema della filiazione, del favor veritatis. Si può cer¬tamente ritenere che l’orientamento sulla piena fiducia probatoria delle prove scientifiche non sia altro che la conseguenza processuale della raggiunta consapevolezza sulla prevalenza del favor veritatis (Corte cost. 1 aprile 1982, n. 64 dove già si riconosceva espressamente che “la riforma del diritto di famiglia ha indubbiamente spostato l’accento dal favor legitimitatis al favor veritatis”; Corte cost. 6 maggio 1985, n. 134 dove si precisava che “negli ultimi decenni la coscienza collettiva si è ulteriormente evoluta nel senso di accordare maggiore rilevanza al rapporto effettivo di procreazione rispetto alla qualificazione giuridica della filiazione”; Corte cost. 22 aprile 1997, n. 112 dove si afferma, in riferimento all’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, che l’autenticità (cioè la verità) del rapporto di filiazione costituisce l’essenza stessa dell’interesse del minore; Corte cost. 14 maggio 1999, n. 170 che, in relazione al termine dell’azione di disconoscimento ancorato alla conoscenza dei presupposti indicati nel codice civile, ha affermato che il legislatore della riforma del diritto di famiglia ha superato, attraverso la equiparazione della filiazione naturale a quella legittima, l’impostazione tradizionale che attribuiva preminenza al favor legitimitatis).
Proprio riallacciandosi al significato di queste pronunce sulla prevalenza del favor veritatis e sulla piena affidabilità scientifica degli esami genetici, la riforma della filiazione (legge 10 dicembre 2012, n. 219 e decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) ha eliminato nelle azioni di accertamento e disconoscimento della paternità ogni impedimento all’accesso immediato alle prove ematologiche e genetiche e ogni tipizzazione delle ipotesi per intraprendere l’azione. Il nuovo art. 243-bis del codice civile (disconoscimento di paternità) afferma al secondo comma che “chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre”. Il secon¬do comma dell’art. 269 (“dichiarazione giudiziale di paternità e maternità”) conferma sul versante della filiazione fuori dal matrimonio che “la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo”. Affermazione legislativa – che la legge 219/2012 non ha modificato e che quindi già era molto chiara anche prima della riforma – che sconfessa quell’orientamento di una certa giurisprudenza, citato all’inizio, che è incline ad attribuire alle prove genetiche un valore non tanto in sé quanto confermativo delle prove raccolte in modo tradizionale. Orientamento sintomatico di una cultura scettica verso le prove genetiche che altro non sono se non prove come tutte le altre.
Nella direzione, quindi, della piena utilizzabilità della consulenza genetica, si afferma oggi in Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23290 che la consulenza in questione è uno strumento istruttorio officioso rivolto verso l’unica indagine decisiva in ordine all’accertamento della verità del rapporto di filiazione e, pertanto, la sua richiesta, da un lato, non può essere ritenuta esplorativa, intendendosi come tale l’istanza rivolta a supplire le deficienze allegative ed istruttorie di parte, così da aggirare il regime dell’onere della prova sul piano sostanziale o i tempi di formulazione delle richieste istruttorie sul piano processuale. La natura decisiva della consulenza genetica è espressa anche in Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2017, n. 15201.
Fondamentale resta l’impostazione richiamata da Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 2016, n. 3479 e da Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 783 (confermativa della sentenza di merito che aveva accertato la paternità alla stregua dei risultati univoci della consulenza tecnica d’ufficio, senza am¬mettere, in quanto superflua, la prova per testi richiesta dalle altre parti) secondo le quali in sede di dichiarazione giudiziale di paternità, l’ammissione degli accertamenti genetici od immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, in forza del principio della libertà della prova, alla stregua del quale da un lato tutti i mezzi di prova hanno pari valore, dall’altro la loro scelta e valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito.
In Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 2017, n. 13880 si precisa che nei giudizi promossi per la dichia¬razione giudiziale di paternità naturale l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica cosiddetta percepiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti ma di accertare i fatti stessi. È necessario e sufficiente, in tal caso, che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche, perché la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova. Analoghi principi sono ribaditi spesso anche nella giurisprudenza di merito. Per esempio in Trib. Perugia, 11 gennaio 2016 si afferma che le prove genetiche sono prove in senso proprio, giacché l’attuale livello della ricerca ed esperienza scientifica consente di esprimere, grazie ad esse, sufficienti garanzie nel ritenere decisivo il loro contributo nell’attribuzione della paternità o maternità di un soggetto, conseguendo risultati dotati di un alto grado di probabilità prossimo alla certezza. In Trib. Messina Sez. I, 17 maggio 2017 si afferma che in tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è su¬bordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269, comma 2, c.c., non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo “status”.
La maternità – come prescrive il terzo comma dell’art. 269 c.c. – è dimostrata provando la identi¬tà di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre.
Ricorda Trib. Messina Sez. I, 20 marzo 2017 che si ritiene comunemente che tale prova possa essere fornita per presunzioni, essendo in pratica quasi impossibile fornire la diretta dimostrazione di un fatto intimo e riservato come il concepimento ad opera del preteso padre o della pretesa madre.
b) Il rifiuto di sottoporsi alla consulenza genetica
Essendo la prova genetica la prova principale per l’accertamento o il disconoscimento della filia¬zione biologica (ed anzi l’unica) in ragione dei risultati decisivi a cui può portare, non può destare meraviglia il comportamento di chi – interessato a contrastare l’azione – si rifiuta di sottoporvisi.
Il problema del rifiuto di sottoporsi alla prova genetica è stato uno dei primi a porsi in giurispru¬denza come dimostrano le numerose sentenze fin dagli anni Ottanta.
Il test genetico è un trattamento che nessuno può essere obbligato a subire, salvo quanto si dirà in ambito penale dove a seguito della legge 30 giugno 2009, n. 85 nel codice di procedura penale sono state inserite disposizioni ad hoc per l’adempimento coattivo peritale del test genetico e per il prelievo coattivo del DNA. In sede civile il rifiuto pertanto è pienamente legittimo.
Un primo, molto vasto, fronte di decisioni riguarda il rifiuto di sottoporsi all’esame genetico nelle cause di accertamento della paternità.
In passato Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 1985, n. 2739; Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 1985, n. 6015; Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2007, n. 16752 avevano già riconosciuto la facoltà della parte di sottrarsi ai prelievi necessari ma avevano ritenuto che il rifiuto può sempre essere valutato dal giudice del merito quale elemento di convincimento, ai sensi degli articoli 1164
4 Art. 116. (Valutazione delle prove)
Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti.
Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo. o 1185
5 Art. 118. (Ordine d’ispezione di persone e di cose)
Il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti della causa, purché ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo, e senza costringerli a violare uno dei segreti previsti negli articoli 351 e 352 del Codice di procedura penale.
Se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza giusto motivo, il giudice può da questo rifiuto desumere argo¬menti di prova a norma dell’articolo 116 secondo comma.
Se rifiuta il terzo, il giudice lo condanna a una pena pecuniaria da euro 250 ad euro 1.500. , del codice di procedura civile i quali in sostanza prevedono che il giudice può desumere argomenti di prova dal contegno processuale delle parti.
Espressamente ed in senso analogo, sul presupposto che la dimostrazione della paternità naturale può essere fornita, a mente dell’art. 269 c.c. con ogni mezzo, Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 1998, n. 2944; Cass. civ. Sez. I, 25 febbraio 2002, n. 2749; Cass. civ. Sez. I, 23 aprile 2010, n. 9727 affermano che il giudice di merito può legittimamente fondare il proprio convincimento in ordine alla effettiva esistenza di un rapporto di filiazione anche su risultanze probatorie dotate di valore puramente indiziario e, in particolare, sul pretestuoso ed immotivato rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche.
Addirittura Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2006, n. 6694 ritiene che il giudice possa persino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre. Analogamente ha deciso Cass. civ. Sez. I, 9 aprile 2009, n. 8733 secondo cui il comportamento processuale della parte può costituire anche unica e sufficiente fonte di prova e di convincimento del giudice e non solo elemento di valutazione delle prove già acquisite al processo.
Più di recente i principi sono stati ribaditi da Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7958 dove si afferma che la prova della fondatezza della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità fuori dal matrimonio, non sussistendo un ordine gerarchico, può trarsi anche dal comportamento delle parti, e in particolare dal rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi alle prove genetiche, da valutarsi anche tenuto conto del contesto sociale e, globalmente, di tutte le circostanze del caso; da Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 novembre 2017, n. 26914 Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2017, n. 18626 e Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25675; Trib. Padova Sez. I, 6 marzo 2017; App. Messina Sez. I, 19 gennaio 2016 dove si legge in sostanza che nell’ambito del giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici può essere liberamente valutato dal giudice, secondo quanto disposto dall’art. 116, comma 2, c.p.c., anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra le parti, non derivando da ciò né una restrizione della liberà personale del preteso padre, che conserva piena facoltà di determinazione in ordine all’assoggettamento o meno ai prelievi, né una viola¬zione del diritto alla riservatezza, atteso che l’uso dei dati è rivolto solo a fini di giustizia, mentre il sanitario, chiamato a compiere l’accertamento, è tenuto al segreto professionale ed al rispetto della disciplina in materia di protezione dei dati personali; da Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23296 secondo cui l’accoglimento della domanda di dichiarazione della paternità può fondarsi, in fatto, anche soltanto sul rifiuto del presunto padre di sottoporsi alle indagini ematiche volte ad accertare le sue caratteristiche genetiche e la loro relazione con quelle del presunto fi¬glio; da Cass. civ. Sez. I, 1 dicembre 2015, n. 24444 in base alla quale il rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame del dna ai fini dell’accertamento della paternità non può essere qualificato come una presunzione desunta da una circostanza di fatto avente valore presuntivo, ma come uno elemento fattuale incidente sulla decisione finale, al pari di altre circostanze.
È stata ritenuta ammissibile da Trib. Milano 31 maggio 2016 l’azione cautelare, promossa dalla madre del concepito, per accedere a materiale biologico del convivente defunto, al fine di conser¬vare elementi di prova da spendere nel futuro giudizio di accertamento della paternità ex art. 269 cod. civ. L’azione può in particolare essere promossa dove, come nel caso di specie, il corpo del presunto padre non possa essere oggetto di esumazione, attesa la intervenuta cremazione.
c) La consulenza genetica sul defunto
Allorché il genitore legale o il preteso genitore naturale sia deceduto l’espletamento della prova genetica richiede l’esumazione della salma in modo da operare il prelievo del materiale necessario alla consulenza genetica (a meno che non siano reperibili campioni genetici già estratti in vita sul defunto). Quello della prova genetica sul defunto è un problema ancora poco esplorato.
Il tema in dottrina è stato trattato da molti, osservandosi che nell’ordinamento italiano fa difetto una norma legislativa al riguardo.
Si ritiene in giurisprudenza (e nella prassi assolutamente corrente) che un’interpretazione della normativa sulla filiazione impone di riconoscere che in caso di morte dell’interessato il prelievo del DNA sul defunto sia pienamente ammissibile (Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 1983, n. 2736 che non aveva ammesso la prova su cadavere, sul presupposto però che l’incertezza del suo esito costituisse motivo per escludere un esame che, nelle intenzioni dell’istante, era volto a contrastare un abbondante materiale istruttorio che già comprovava la sussistenza del rapporto di filiazione).
L’affermazione sul fatto che l’evoluzione degli strumenti di indagine sul DNA consente di effettuare accertamenti anche sul cadavere del presunto padre è stata fatta in una vicenda trattata da Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 1997, n. 807 secondo cui l›evoluzione degli strumenti di indagine sul DNA consente pacificamente di effettuare accertamenti anche sul cadavere del presunto padre.
Afferma l’ammissibilità della prova genetica sul defunto nelle azioni di stato Cass. civ. Sez. I, 16 aprile 2008, n. 10007 in cui si sostiene il principio secondo il quale il provvedimento che disponga, o meno, la consulenza tecnica, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, e va contemperato con quello secondo il quale il giudice stesso deve sempre motivare adeguatamente la decisione adottata, non potendo detto giudice rifiutare sic et simpliciter o con argomentazioni di stile e prive di reale consistenza il ricorso ad essa; ne discende che, nel giudizio per l›accertamento della paternità naturale ex art. 269 cod. civ., la mancata ammissione di consulenza tecnica genetica, che non tenga conto dei progressi della scienza biomedica e argomenti sic et simpliciter sull›avvenuto decesso del presunto padre già da moltissimi anni e sulla dispendiosità e difficoltà del relativo accertamento tecnico, rigettando la domanda non già per totale mancanza di prove, bensì per non univocità e discordanza degli elementi acquisiti attraverso le prove storiche, costituisce vizio di motivazione sindacabile in sede di legittimità.
Dal quadro legislativo vigente non risulta un diritto del coniuge o del convivente o dei parenti – anche nella loro posizione ereditaria – ad opporsi all’esame genetico sul defunto6
6 Per un approfondimento di questi aspetti cfr la voce PROVE GENETICHE . Un potere di opposizione ai prelievi finalizzati all’esame genetico non sussiste neanche dal punto di vista della normativa sulla protezione dei dati personali. Il decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 all’art. 90 consente il trattamento dei dati genetici nei soli casi previsti da apposita autorizzazione rilascia¬ta dal Garante per la protezione dei dati personali il quale nelle autorizzazioni generali finora rila¬sciate ha disposto che il trattamento dei dati genetici possa essere svolto per far valere o difendere un diritto in giudizio, purché di rango pari a quello dell’interessato (e tale è certamente il diritto relativo all’accertamento sulla filiazione) anche senza il consenso dell’interessato stesso, salvo che il trattamento presupponga lo svolgimento di test genetici, che in ogni caso non riguardano il trattamento effettuato per ragioni di giustizia ex art. 47, quale è il trattamento svolto in giudizio dal CTU. Perciò il trattamento dei dati genetici da parte del CTU cui è affidata la perizia genetica non soggiace – in forza della disciplina derogatoria dettata dallo stesso art. 47 – né ad obbligo di informativa e di consenso dell’interessato, né alla necessità di autorizzazione del Garante, né a notificazione a quest’ultimo, mentre soggiace ai principi generali di necessità, di pertinenza e non eccedenza, di correttezza e liceità, nonché agli altri principi di cui all’art. 11.
Correttamente quindi in giurisprudenza si è negato che il provvedimento giudiziale che, in sede di azione per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, dispone la CTU genetica su cadavere sia subordinato al consenso dei congiunti eredi del defunto (App. Catania, 21 luglio 2009).
Nel caso in cui all’opposizione degli eredi del convenuto (alla riesumazione finalizzata al test gene¬tico sul defunto stesso o, s’intende, al prelievo su di essi in caso di impossibilità di riesumazione, per esempio per cremazione del defunto) si dovesse attribuire qualche rilievo, il rifiuto ingiustifica¬to all’ordine del test consentirebbe sempre al giudice di valutare tale comportamento in conformità al principio generale di cui all’art. 116, comma 2°, c.p.c. e trarre un argomento di prova contro di essi ai sensi dell’art. 118 c.p.c.
d) Le dichiarazioni della madre
Come si è visto l’ultimo comma dell’art. 269 prevede che “La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costitui¬scono prova della paternità”.
Il che però non vuol dire che le dichiarazioni della madre unite ad altri elementi non possano con¬tribuire a fondare il convincimento del giudice.
In passato Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2006, n. 6694 aveva ritenuto che il giudice può certamente trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre
Più di recente secondo Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11874 nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, la prova della fondatezza della domanda può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti, da valutarsi globalmente, tenendo conto delle dichiarazioni della madre naturale e della portata delle difese del convenuto. Ugual¬mente secondo Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2012, n. 12198 dove si ricorda da un lato ricorda che la madre può sempre intervenire nel processo instaurato dal figlio maggiorenne, e dall’altro che le dichiarazioni della madre naturale assumono un rilievo probatorio integrativo ex art. 116 cod. proc. civ., quale elemento di fatto di cui non si può omettere l’apprezzamento ai fini della decisio¬ne, indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale posizione di terzietà della dichiarante, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 246 cod. proc. civ. secondo cui “non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio”.
VII Natura ed effetti della sentenza di accertamento della paternità
a) Natura dichiarativa ed effetti costitutivi della sentenza
Secondo quanto dispone il primo comma dell’art. 277 c.c. (Effetti della sentenza) “La sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento” 7
7 Art. 277 (Effetti della sentenza)
La sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento.
Il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per l’affidamento, il mantenimento, l’istruzione e l’edu¬cazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui. .
Proprio per questo motivo la giurisprudenza riconosce la natura dichiarativa della sentenza (che è, quindi, sentenza di accertamento) e quindi la decorrenza retroattiva degli effetti al momento della nascita (ex tunc). Si tratta degli stessi effetti retroattivi riconosciuti alla sentenza che dichiara per esempio la nullità. Viceversa se fosse attribuita alla sentenza natura costitutiva gli effetti decorre¬rebbero dalla data della sentenza (ex nunc). Il principio è stato sempre pacificamente riconosciuto (per citare solo le ultime Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960; Cass. civ. Sez. VI, 14 luglio 2016, n. 14417; Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. civ. Sez. I, 4 no¬vembre 2010, n. 22506; Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630; Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575; Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24409; Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100; Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196 (e molte altre in precedenza). Tutte le decisioni in questione affermano in sostanza che l’obbligo del genitore di concorrere al mantenimento del figlio sorge con la nascita dello stesso, anche nell’ipotesi in cui la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza. La sentenza dichiarativa della filiazione produce perciò gli effetti del riconoscimento e, pertanto, implica per il genitore tutti i doveri tipici della procreazione, incluso quello del man¬tenimento, ricollegandosi tale obbligazione allo status genitoriale ed assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva. Anche la giurisprudenza di merito non si è mai discostata da questi principi (da ultimo Trib. Treviso Sez. I, 10 marzo 2017; Trib. Cassino, 15 giugno 2016; Trib. Napoli Sez. I, 18 settembre 2012; App. Bologna Sez. minori, 5 dicembre 2011; Trib. Trani, 27 settembre 2007; Trib. L’Aquila, 6 giugno 2007). La sentenza che dichiara la paternità, pur avendo natura dichiarativa, produce effetti solo dal giu¬dicato. Si parla a tale proposito di effetti costitutivi, nel senso che prima del giudicato non possono realizzarsi gli effetti collegati alla pronuncia sullo status.
La sentenza di accertamento della filiazione potrà quindi essere trascritta nei registri di stato civile solo dopo il suo passaggio in giudicato. Il terzo comma dell’art. 48 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Ordinamento di stato civile) prescrive, infatti, che “La dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, dopo il passaggio in giudicato, è comunicata, a cura del procuratore della Repubblica, o è notificata dagli interessati, all’ufficiale dello stato civile che ne fa annotazione nell’atto di nascita”).
b) I provvedimenti conseguenziali connessi all’affidamento e al mantenimento
Alla dichiarazione della paternità conseguono evidentemente effetti in senso ampio connessi al rapporto genitori-figli nel campo personale, alimentare, economico, patrimoniale, successorio. Ef¬fetti che possono realizzarsi su richiesta dell’altro genitore (che abbia agito ex art. 273 c.c. in so¬stituzione e nell’interesse del figlio minore o dello stesso figlio maggiorenne (che abbia egli stesso agito in giudizio per la dichiarazione di paternità), in entrambi i casi anche nell’ipotesi in cui – es¬sendo defunto il presunto padre – siano stati convenuti in giudizio gli eredi di lui (art.276 c.c.)8
8 Per una panoramica approfondita degli effetti di natura patrimoniale e delle molteplici implicazioni processuali cfr la voce SENTENZA DICHIARATIVA DELLA PATERNITA’ .
Il secondo comma dell’art. 277 c.c. prescrive che “Il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per l’affidamento, il mantenimento, l’istruzione e l’educazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui”. Questa norma consente quindi che domande di natura economi¬ca possano essere proposte e prese in considerazione insieme alle domande sullo status.
Per quanto concerne i possibili provvedimenti sull’affidamento (evidentemente del figlio minore di età), si tratta di una novità introdotta dall’art. 34, comma 1, lett. b, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
Per quanto concerne, invece, l’eventuale mantenimento, si tratta di due tipi di provvedimenti:
a) i provvedimenti relativi al mantenimento futuro del figlio (in genere, ma non necessariamente, minore) da parte del genitore dichiarato tale dalla sentenza;
b) i provvedimenti relativi alla richiesta del genitore che ha agito in giudizio (in proprio) di rimborso pro quota delle spese di mantenimento sostenute per il figlio in passato.
Il diritto al rimborso (in sede di accertamento della paternità) delle spese sostenute dalla nascita dall’altro genitore dipende strettamente dalla circostanza – alla quale si riferiscono tutte le senten¬ze sopra richiamate – che gli effetti del riconoscimento, come si è detto, retroagiscono alla nascita. Secondo alcune decisioni si tratterebbe di un diritto di natura indennitaria da determinare anche in via equitativa (Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2004, n. 11351).
Le differenti caratteristiche procedurali tra i due tipi di provvedimenti sono riconducibili alla cir¬costanza che mentre per l’affidamento e il mantenimento futuro il giudice ha un potere di ufficio, potendolo esercitare indipendentemente dalla domanda dell’altro genitore (Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2004, n. 13296), per i provvedimenti di rimborso pro quota delle spese sostenute in pas¬sato, è necessaria la domanda di parte (Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 2014, n. 11211).
Benché non indicato espressamente nell’art. 277 c.c. è considerata ammissibile anche la domanda di risarcimento dei danni in relazione a quell’orientamento che ammette tale risarcimento in caso di mancato riconoscimento alla nascita (Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205; Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 3079)9
9 cfr la voce RISARCIMENTO DEI DANNI PER OMESSO RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO. .
c) La prescrizione dei diritti relativi al mantenimento e al rimborso delle spese pregresse sostenute da un genitore
Il diritto al mantenimento del figlio minore è un diritto indisponibile e quindi imprescrittibile (art. 2943, co. 2, c.c.) per tutto il corso della minore età. In caso pertanto di riconoscimento o di sen¬tenza dichiarativa della filiazione nel corso della minore età, la prescrizione (decennale, ex art. 2946 c.c.) comincia a decorrere dal compimento della maggiore età.
Il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne, in caso di riconoscimento o di sentenza dichia¬rativa della filiazione di figlio maggiore di età, si prescrive nel termine ordinario di dieci anni (art. 2946 c.c.) oppure di cinque anni se connesso ad una decisione che ne ha già riconosciuto la spet¬tanza periodica (art. 2948, n. 4, c.c.).
Il diritto al rimborso delle spese pregresse sostenute dall’altro genitore ha natura di diritto dispo¬nibile e pertanto sui prescrive nel termine ordinario di prescrizione di dieci anni (art. 2946 c.c.).
In caso di accertamento giudiziario della filiazione i termini di prescrizione dei diritti relativi al man-tenimento, decorrono dalla data della dichiarazione giudiziale, e perciò dal passaggio in giudicato della sentenza sullo status, trovandosi il figlio, precedentemente, nell’impossibilità giuridica di far valere i diritti dipendenti dallo status non ancora accertato; e questo in applicazione della regola generale contenuta nell’art. 2934 c.c. secondo cui “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. Lo hanno affermato Cass. civ. Sez. I, 7 aprile 2017, n. 9059; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124, precisando che in materia di mantenimen¬to del figlio (naturale), il diritto al rimborso pro quota delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che se ne è occupato in via esclusiva, sarebbe azionabile dal momento della sentenza di accertamento della paternità, che conseguentemente costituisce il dies a quo della decorrenza della ordinaria prescrizione decennale.
Questa conclusione viene espressamente riferita nelle sentenze sopra indicate alle (sole) domande di rimborso delle spese pregresse, ancorché anche i provvedimenti sull’affidamento e sul mante¬nimento futuro nel loro complesso possano considerarsi richiamate nel secondo comma dell’art. 277 c.c.
Dovendo necessariamente individuarsi un termine di decorrenza della prescrizione, questo orien¬tamento può dirsi giustificato, non essendoci altrimenti alcun termine iniziale certo di decorrenza del termine prescrizionale. Tuttavia questo non comporta – secondo quanto si dirà in materia di provvisoria esecuzione dei capi di condanna delle sentenze costitutive e dichiarative – che gli interessati non possano utilmente azionare anche prima del giudicato sullo status, le pretese con¬seguenziali di natura economica.
d) Il rapporto tra il giudizio sull’accertamento della paternità e quello sulle domande conseguenziali
Le domande conseguenziali relative all’affidamento e al mantenimento sono in genere proposte (dall’interessato o dal genitore che agisce in sostituzione del figlio minore) nella stessa causa di accertamento della paternità, sebbene, naturalmente, possano senz’altro essere proposte anche separatamente.
Nello specifico l’azione per l’accertamento della paternità naturale può comprendere insieme alla domanda principale sullo status anche le domande conseguenziali di natura economica. Anche le domande di rimborso delle spese pregresse sostenute da un genitore in via esclusiva o le domande di risarcimento del danno possono essere proposte insieme alla domanda principale sull’accerta¬mento della paternità, ma – con riguardo agli effetti necessariamente costitutivi delle sentenze attributive di uno status – potranno trovare esecuzione, come si dirà, solo se lo status è passato in giudicato. La contestualità può anche sussistere tra domanda di accertamento della paternità promossa nei confronti degli eredi di un defunto e domande di natura ereditaria collegate all’ac¬certamento dello status, ma anche in questo caso per l’attuazione delle domande ereditarie sarà necessario il previo passaggio in giudicato sull’accertamento della paternità.
Sia nel caso di contestualità tra domande sullo status e domande conseguenziali, sia nel caso in cui le domande conseguenziali siano separatamente azionate prima del formarsi del giudicato sull’ac-certamento della paternità, si pone il problema del rapporto tra il giudizio sull’accertamento della paternità e le domande conseguenziali.
In particolare si pone il problema della eventuale sospensione del procedimento sulle domande economiche in attesa della definitività della domanda sullo status proposta in sede di accertamento giudiziale della paternità.
L’art. 295 (sospensione necessaria) prescrive che “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”. L’art. 337 (sospensione dell’esecuzione e dei processi) nell’am¬bito delle norme sull’impugnazione, dopo aver precisato al primo comma che “l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione…”, al secondo comma prevede che “quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se la sen¬tenza è impugnata”.
Sennonché la sospensione del processo viene oggi considerata come avente senz’altro natura eccezionale, in virtù di quanto indicato nel secondo comma dell’art. 111 della Costituzione (in¬serito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2) dove il disfavore verso ogni ipotesi di sospensione è espresso dalla previsione che la legge non deve tollerare una irragionevole durata del processo. L’esigenza di una maggiore celerità del processo era stata anche perseguita dalla riforma del 1990 del processo civile (legge 26 novembre 1990, n. 353) che aveva eliminato la so¬spensione ex lege dell’efficacia della sentenza di primo grado, salva la richiesta di provvisoria ese¬cuzione: il testo vigente dell’art. 282 (riformato appunto nel 1990) dichiara la sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva salvo richiesta di sospensione al giudice di appello (art. 283). Analogamente è avvenuto più di recente per i provvedimenti camerali in materia di famiglia (art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile a seguito delle modifiche apportate dall’art 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219) che “sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente”.
Costituisce orientamento pacifico della giurisprudenza di legittimità (a partire da Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027) che l’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due diversi giudici del giudizio sul “se dovuto” e di quello sul “quanto dovuto” non comporta che il secondo debba rimanere sospeso in attesa della decisione del primo e che, per converso, quante volte nel primo sia pronunciata sentenza che afferma esistente il diritto, il giudice del secondo giudizio pos¬sa porre a base della propria decisione ciò che è stato già deciso, ancorché la sentenza sia stata impugnata, l’unica alternativa essendo per contro quella di sospendere il giudizio di liquidazione del dovuto (come affermato a suo tempo da Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060 che aveva fatto proprie in larga misura le argomentazioni svolte in precedenza da Cass. civ. Sez. la¬voro, 25 maggio 1996 n. 4844 incentrate su una lettura restrittiva dell’istituto della sospensione necessaria, appunto ripudiata dalle Sezioni Unite nel 2012).
Il principio affermato da Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 è stato poi ribadito successivamente da Cass. civ. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 6207 e da Cass. civ. Sez. VI, 20 gennaio 2015, n. 798.
Determinante, ai fini di tale conclusione, è la considerazione che l’art. 295 c.p.c. potrebbe “deter¬minare l’arresto del processo dipendente per un tempo indeterminato e certamente non breve, poiché la paralisi del processo sarebbe destinata a protrarsi fino al passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudiziale (art. 297 c.p.c., comma 1), onde evitare il rischio di conflitto tra giudicati. In tal modo, in funzione della realizzazione del valore processuale dell’armonia dei giudicati, viene sacrificato il valore processuale della sollecita definizione dei giudizi”.
Naturalmente tutto ciò non significa che l’art. 295 c.p.c. sia da considerare abrogato, ed anzi sopravvive in tutti i casi in cui la sospensione appare da un punto della pregiudizialità in termini tecnico giuridici plausibile (Cass. civ. Sez. lavoro, 24 giugno 2014, n. 14274) in quanto l’art. 295 c.p.c. fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giu¬dice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico – giuridico e non già in senso meramente logico.
Tale tipo di legame tecnico-giuridico è stato ritenuto sussistente da Cass. civ. Sez. VI, 9 dicem¬bre 2014, n. 25861 in caso di pendenza di una lite sulla validità dell’accordo giustificativo della separazione consensuale tra coniugi che pregiudica, in senso tecnico giuridico, l’esito del giudizio, contemporaneamente pendente, di cessazione degli effetti civili del loro matrimonio, e ne com¬porta la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. perché l’eventuale annullamento di quell’accordo determinerebbe il venir meno, con effetto “ex tunc”, di un presupposto indispensabile della pro¬nuncia di divorzio.
e) Accertamento della paternità e domande ereditarie
Tra le numerose questioni che si sono finora presentate in ambito civilistico in tema di rapporti tra più cause tra loro collegate da un rapporto di pregiudizialità (e che pongono quindi un problema di sospensione della causa pregiudicata), quello del tema dei rapporti tra domanda (e processo) di accertamento della paternità e domande (e processo) di natura ereditaria connesse allo status (divisione ereditaria o petizione ereditaria), è uno dei più affrontati in giurisprudenza.
Ebbene, le domande di natura ereditaria possono essere esaminate prima che si sia formato il giudicato sullo status? O il relativo giudizio deve essere sospeso?
A queste domande ha dato risposta molto chiara, escludendo la sospensione necessaria di cui all’art, 295 e ridimensionando quella ex art. 337, la sopra citata Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 occupandosi proprio del rapporto tra due cause pendenti in appello una sullo status di filiazione e l’altra sulle conseguenti domande ereditarie.
La sentenza fa proprio l’orientamento già espresso in passato perentoriamente – ma in ambiti diversi da quello del rapporto tra accertamento sulla filiazione e causa di natura ereditaria – da Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 (rapporto tra un giudizio di responsabilità pro¬fessionale intentato contro un notaio e una causa tributaria azionata dal notaio stesso) e da Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 (domanda di diniego di rinnovazione di un contratto di locazione e processo in appello relativo al riscatto della proprietà sull’immobile) le quali entram¬be avevano precisato che “Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pre¬giudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ. e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qual¬siasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità).
Ad invocare l’intervento delle Sezioni Unite era stata la sesta sezione della Corte di cassazione di fronte alla quale si discuteva di un ricorso contro un provvedimento di sospensione del processo, concesso dalla corte d’appello di Torino in una causa di petizione ereditaria in relazione alla pen¬denza sempre in appello di una causa di riconoscimento di paternità.
Si tratta quindi di stabilire, afferma Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027, allorché pendono in grado di appello insieme il giudizio in cui è stata pronunciata sentenza di accertamento della paternità e il giudizio che su tale base ha accolto la domanda di petizione di eredità, ed impu¬gnate dai convenuti entrambe le sentenze – se il secondo giudizio debba essere sospeso in attesa che nel primo si formi il giudicato sulla dichiarazione di paternità o invece possa proseguire ovvero non debba essere sospeso necessariamente, ma solo possa esserlo, se il giudice del secondo giu¬dizio non intenda riconoscere l’autorità dell’altra decisione”.
La sentenza in questione si occupa quindi, dell’interpretazione sia dell’art. 295 c.p.c. che dell’art. 337 c.p.c. e proprio per tale ragione costituisce, relativamente a queste due norme, un approfon¬dimento di decisiva e straordinaria importanza.
Affermato il principio generale che spetta solo al giudice il compito di valutare se l’efficacia della sentenza pronunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 cod. proc. civ.) o se la sua autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337 c.p.c., comma 2) la sentenza del¬le Sezioni Unite applica questo principio al rapporto tra domanda di accertamento della filiazione naturale ed azione di petizione di eredità, affermando che salvi soltanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che deb¬ba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato (come, esemplificando, nel caso previsto dall’art. 75 c.p.c., comma 3), “pare alla Corte che nell’interpre¬tazione sistematica della disciplina del processo sia da riconoscere un ruolo decisivo alla disposi¬zione che, a seguito della legge 26 novembre 1990, n. 353, si trova ora ad essere dettata dall’art. 282 del codice di rito. Col riconoscere provvisoria esecutività tra le parti alla sentenza di primo grado il legislatore ha determinato una cesura tra la posizione delle parti in controversia tra loro nel giudizio di primo grado – che è tendenzialmente paritaria e solo provvisoriamente alterabile da misure anticipatorie o cautelari – e la situazione in cui le stesse parti vengono poste dalla decisio¬ne del giudice di primo grado, che conosciuta la controversia, dichiara lo stato del diritto tra loro. L’ordinamento, anche allo scopo di scoraggiare il protrarsi della lite, che al contrario risulterebbe favorito, se all’impugnazione si attribuisse l’effetto d’un ripristino delle posizioni di partenza, pro¬clama il valore del modo di composizione della controversia, che è dichiarato conforme a diritto dal giudice, terzo ed imparziale (art. 111 Cost., comma 2). Il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originano di lite e giu¬stifica sia l’esecuzione provvisoria, quando a quel diritto si tratti di adeguare la realtà materiale, sia l’autorità della sentenza di primo grado nell’ambito della relazione tra lite sulla causa pregiudiziale e lite sulla causa pregiudicata”.
L’idoneità della decisione sulla causa pregiudicante a condizionare quella della causa pregiuicata dovrebbe giustificare che questa causa resti sospesa a prescindere dal segno che potrà avere la decisione sull’altra. Lo impone prima di tutto l’esigenza che il sistema giudiziario non sia gravato dalla duplicazione dell’attività di cognizione nei due processi pendenti. Ma quando nel processo sulla causa pregiudicante la decisione è sopravvenuta, quello sulla causa pregiudicata è in grado di riprendere il suo corso, perché ormai il sistema giudiziario è in grado di pervenire al giudizio sulla causa pregiudicata fondandolo sull’accertamento che sulla questione comune alle due cause si è potuto raggiungere nell’altro processo tra le stesse parti, attraverso l’esercizio della giurisdizione. Non dipende più da esigenze di ordine logico che il processo sulla causa dipendente resti sospeso.
Salvo, quindi, che l’ordinamento non esprima in casi specifici una valutazione diversa, imponendo che la composizione della lite pregiudicata debba attendere il giudicato sull’elemento di connessio¬ne tra le situazioni giuridiche collegate e controverse, è da ritenere che spetta al giudice il compito di valutare se l’efficacia della sentenza pronunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 cod. proc. civ.) o se la sua autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337 c.p.c., comma 2) in questo caso attribuendo al giudice del giudizio sulla lite pregiudicata il potere di sospenderlo.
Secondo l’impostazione delle Sezioni Unite, quindi, venuta meno la possibilità di sospensione ex art. 295 c.p.c. che determinerebbe una paralisi inammissibile della cognizione, il processo civile cosiddetto pregiudicato potrebbe essere astrattamente sospeso soltanto ex art, 337 c.p.c. ove la sentenza del procedimento pregiudicante sia stata impugnata. Si ricorda che secondo l’art. 337 c.p.c. “l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione…”, al secondo com¬ma prevede che “quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se la sentenza è impugnata”.
A tale proposito le già richiamate Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 e Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 avevano entrambe precisato che “Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passa¬ta in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimen¬to è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità”.
Trattandosi di una sospensione facoltativa (art. 337 c.p.c.:“…può essere sospeso se la sentenza è impugnata”) si deve verificare in che cosa si sostanzia questo potere facoltativo (di sospendere il processo in cui è invocata la sentenza impugnata), per evitare che il potere di sospensione diventi un arbitrio.
Ed allora ci si accorge che l’astratta possibilità di sospensione ex art. 337 c.p.c. viene ad essere in concreto quasi annullata, dal momento che la giurisprudenza richiede che il giudice debba ve¬rificare “l’efficacia persuasiva della sentenza” (come molto bene ha affermato per esempio Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111). L’interpretazione quindi che i giudici della Cassazione hanno dato a partire dalle tre sentenze sopra richiamate (Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924; Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111; Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435) è che quando tra due giudizi esiste rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non ancora passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c. e non ex art. 295 c.p.c. ma è compito del giudice valutare la forza della sentenza di primo grado per verificare con adeguata motivazione se sia plausibile che il giudizio pregiudicato venga sospeso. In definitiva tanto più alta è la forza (cioè la validità, la plausibilità) della sentenza di primo grado non ancora passata in giudicato, tanto più il giudice dovrà negare la sospensione.
L’ordinamento rimette quindi al giudice – secondo queste sentenze – il compito di valutare, tenuto conto degli elementi in base ai quali la controversia è riaperta con l’impugnazione, quale sia la forza e l’efficacia della sentenza emessa nel giudizio pregiudicante (causa di paternità naturale) attribuendo al giudice della causa pregiudicata (causa ereditaria) il potere di sospenderla.
Quando la sentenza (appellata), asseritamente pregiudicante, è una sentenza dichiarativa della paternità, essa si fonda sul dato acquisito in genere con CTU genetica (di fatto incontrovertibile). E si tratta quindi di una sentenza dotata di così significativa efficacia persuasiva da non consentire una motivazione plausibile circa la sua sospensione.
Tutti questi principi sono stati più recentemente ribaditi e rafforzati da Cass. civ. Sez. VI, 12 no¬vembre 2014, n. 24046 in cui si legge che “l’ordinanza con la quale viene disposta la sospensio¬ne discrezionale del processo ai sensi dell’art. 337, cpv., c.p.c. deve indicare le ragioni per le quali il giudice non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già è intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condivide il merito e le ragioni giustificatrici.
Perciò, ai fini del legittimo esercizio del potere di sospensione discrezionale del processo, previ¬sto dall’art. 337, secondo comma, c.p.c. è indispensabile un’espressa valutazione di plausibile controvertibilità della decisione di cui venga invocata l’autorità in quel processo, sulla base di un confronto tra la decisione stessa e i motivi di impugnazione. Ne consegue che la sospensione di¬screzionale in parola è ammessa ove il giudice del secondo giudizio motivi esplicitamente le ragioni per le quali non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante.
f) Il controverso problema della provvisoria esecuzione delle condanne accessorie
È opportuno precisare subito che il tema della provvisoria esecuzione delle decisioni di condanna (art, 282 c.p.c.: “La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti”) si presenta in modo del tutto peculiare in caso di sentenze costitutive (o dichiarative con effetti costitutivi, come quella di accertamento della paternità).
È possibile considerare provvisoriamente esecutiva una condanna o un capo di condanna che è contenuto in una decisione costitutiva? Se la decisione diventa eseguibile soltanto dopo il giudicato (come avviene nelle decisioni costitutive) come è possibile anticiparne gli effetti mettendole tutta o in parte in esecuzione prima del giudicato?
Non è pertanto utilizzabile il principio della provvisoria esecutività di tutti i provvedimenti nelle procedure di conflitto genitoriale che concernono l’affidamento e il mantenimento dei figli minori (nati nel matrimonio o fuori dal matrimonio già riconosciuti) affermata dalla riformulazione dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile riformato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 come modificato dall’art. 96 lett. c del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (“…Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile… il tribunale compe¬tente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente…”). Sulla base di questa riformulazione l’art. 38 disp. att. c.c. contiene ora un principio generale di immediata esecutività di tutti i provvedimenti che concernono l’affidamento e il mantenimento di minori, che sarebbe del tutto irragionevole non applicare anche ai provvedimenti conseguenziali alla sentenza di accertamento della paternità.
Come affrontare e risolvere il problema della provvisoria esecuzione (art. 282 c.p.c.) dei capi della sentenza concernenti le domande accessorie in una causa di status?
La giurisprudenza di legittimità aveva sostenuto, negli anni Novanta, la tesi secondo cui tutte le pronunce di condanna ancorché accessorie e consequenziali, compresa quella relativa alla re¬golamentazione delle spese processuali (Cass. civ. Sez. III, 24 maggio 1993, n. 5837 sono inidonee a costituire titolo esecutivo fino a quando non diventi efficace la pronuncia principale di accertamento o costitutiva. Non si potrebbe pertanto procedere all’esecuzione forzata sul capo di condanna consequenziale in difetto dell’efficacia del capo che ne costituisce il presupposto. Non potrebbe, pertanto, essere data rilevanza autonoma a tali statuizioni accessorie, il cui regime deve adeguarsi a quello della statuizione principale di natura costitutiva.
A partire dal 2005 una parte della giurisprudenza di legittimità ha cambiato orientamento, arrivan¬do a sostenere la provvisoria esecuzione di tutte le sentenze di primo grado, ivi comprese quelle dichiarative e quelle costitutive (Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 2005, n. 1619; Cass. civ. Sez. III, 3 settembre 2007, n. 18512).
Questi principi non trovarono, però, conferma nella giurisprudenza di legittimità successiva, la quale preferì propendere per la soluzione negativa in ordine soprattutto all’ammissibilità della provvisoria esecutività delle sentenze costitutive ex art. 2932 c.c. In particolare, con la pronun¬cia Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 2009, n. 8250 – nettamente contrapposta alla n. 18512/2007 – la Corte confermava che la sentenza che dispone l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce i propri effetti solo dal momento del passaggio in giudicato; ne consegue che, quando detta sentenza abbia subordinato l’effetto traslativo al pagamento del residuo prezzo, l’obbligo di pagamento in capo al promissario acquirente non diventa attuale prima dell’irretrattabilità della pronuncia giudiziale, essendo tale pagamento la prestazione corrispettiva destinata ad attuare il sinallagma contrattuale.
Le Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059), intervenute per dirimere il contrasto, ritennero di disattendere l’orientamento radicale di cui alla sentenza 18512/2007 e di dare, invece, continuità all’orientamento seguito dalla sentenza 8250/2009 dichiarando di condividere gli argomenti sviluppati dalla dottrina maggioritaria a sostegno della tesi secondo cui, nel caso di preliminare di compravendita e di pronuncia ex art. 2932 c.c. l’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretroattività della sentenza che determina l’effetto sostitutivo del contratto definitivo. La sentenza di primo grado di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. non può pertanto produrre, prima del passaggio in giudicato, gli effetti del contratto definitivo con la conseguente impossibilità di scissione, nelle sentenze ex art. 2932 c.c. in tema di contratto preliminare di compravendita, tra capi costitutivi principali e capi di condanna conse¬quenziali, con riferimento specifico a quelli cosiddetti sinallagmatici le cui relative statuizioni fanno parte integrante della pronuncia costitutiva nel suo complesso. Affermano in sostanza le Sezioni Unite che l’esecutività provvisoria ai sensi dell’art. 282 c.p.c. della sentenza di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c. dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita è limitata ai capi della decisione compatibili con la produzione dell’ef¬fetto traslativo del bene in un momento successivo e non si estende ai capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta interdipendenza con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale.
Si legge nella sentenza: va precisato che la possibilità di anticipare l’esecuzione delle statuizioni condannatorie contenute nella sentenza costitutiva va riconosciuta in concreto, volta a volta, a seconda del tipo di rapporto tra l’effetto condannatorio da anticipare e l’effetto costitutivo produ¬cibile solo con il giudicato. A tal fine occorre differenziare le statuizioni condannatorie meramente dipendenti dal detto effetto costitutivo, dalle statuizioni che invece sono a tale effetto legate da un vero e proprio nesso sinallagmatico ponendosi come parte – talvolta “corrispettiva” – del nuovo rapporto oggetto della domanda costitutiva.
Così, ad esempio, nel caso di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo del¬la vendita, non è possibile riconoscere effetti esecutivi a tale condanna altrimenti si verrebbe a spezzare il nesso tra il trasferimento della proprietà derivante in virtù della pronuncia costitutiva ed il pagamento del prezzo della vendita. L’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretrattabilità della sentenza per cui è da escludere che prima del passaggio in giudicato della sentenza sia configurabile un’efficacia anticipata dell’obbligo di pagare il prezzo: si verifiche¬rebbe un’alterazione del sinallagma. Ritenere diversamente consentirebbe alla parte promittente venditrice – ancora titolare del diritto di proprietà del bene oggetto del preliminare – di incassare il prezzo prima ancora del verificarsi dell’effetto, verificabile solo con il giudicato, del trasferimento di proprietà.
Possono quindi ritenersi anticipabili i soli effetti esecutivi dei capi che sono compatibili con la pro¬duzione dell’effetto costitutivo in un momento temporale successivo, ossia all’atto del passaggio in giudicato del capo di sentenza propriamente costitutivo. Così la condanna al pagamento delle spese processuali contenuta nella sentenza che accoglie la domanda. La provvisoria esecutività non può invece riguardare quei capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta sinal¬lagmaticità con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale.
Le indicazioni delle Sezioni Unite hanno trovato applicazione esplicita nelle decisioni successive della giurisprudenza di legittimità.
Così per esempio Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 ha affermato che l’anticipazione in via provvisoria , ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive, non è consentita, essendo necessario il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso); è invece consentita quando la statuizione condannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipa¬zione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento temporale successivo del passaggio in giudicato (come nel caso di specie riguardante la condanna di un istituto di credito alla restituzione delle somme di denaro ricevute da un istituto di credito a seguito di atti solutori dichiarati inefficaci ai sensi dell’art. 67 legge fall.).
Nella giurisprudenza di merito analogamente si è espresso Trib. Pordenone, 9 febbraio 2017.
Le sentenze dichiarative come quelle sull’accertamento della paternità condividono con quelle costitutive la natura costituiva degli effetti: prima del giudicato non è possibile l’attribuzione di effetti alla relativa pronuncia che potrà essere trascritta nei registri di stato civile soltanto dopo il passaggio in giudicato.
Pertanto l’esecutività provvisoria ai sensi dell’art. 282 c.p.c. della sentenza costitutiva (nel caso di obbligo specifico di concludere un contratto) non è affatto impedita, ma è limitata ai capi della decisione compatibili con la produzione dell’effetto traslativo del bene in un momento successivo e non si estende ai capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta interdipendenza (sinallagmaticità) con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale (Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059). Il principio indicato, elaborato dalle Sezioni Unite, è stato ribadito poi anche da Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 che ha affermato che l’anticipazione in via provvisoria, ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni di con¬danna contenute in sentenze costitutive non è consentita soltanto nei casi in cui la condanna è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso).
Il sinallagma è un elemento costitutivo implicito del contratto a obbligazioni corrispettive. È il rapporto di interdipendenza contrattuale tra una prestazione ed una controprestazione. In tanto una parte diventa proprietaria in quanto paga il prezzo del bene. Non si può essere condannati a pagare il prezzo di un bene se non si diventa contestualmente proprietari di quel bene.
In tutti i casi in cui la statuizione di condanna, invece, non ha questo collegamento sinallagmatico con la pronuncia principale, è consentito attribuire alla condanna l’effetto esecutivo provvisorio (così per esempio in caso di condanna al pagamento delle spese di giudizio, come è pacifico in giu¬risprudenza, per esempio Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 2011, n. 27090; Tribunale, Reggio Emilia, 6 settembre 2012).
Facendo applicazione di questi principi si può affermare quanto segue:
1) Attesa la natura dichiarativa con effetti costitutivi della pronuncia che accerta la filiazione, la condanna al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al ge¬nitore che se ne è occupato in via esclusiva, non sarebbe eseguibile se non successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione. Il principio è affermato in modo consolidato (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328, Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 le quali tutte hanno fatto affer¬mazione di questo orientamento per farne conseguire, tra l’altro, il principio che il giudicato sullo status costituisce il dies a quo ultimo della decorrenza della prescrizione). Il principio è indicato anche nella giurisprudenza di merito (Trib. Sulmona, 26 novembre 2012)
Pertanto secondo questa impostazione non sarebbe eseguibile una condanna di rimborso delle spese pregresse se non dopo il giudicato sull’accertamento della paternità.
2) Queste conclusioni – espressamente riferite alle sole domande di rimborso per le spese pregres¬se sostenute da un genitore dalla nascita del figlio – possono considerarsi applicabili anche alle do¬mande di risarcimento del danno la cui eventuale condanna, perciò, in applicazione dei medesimi principi, non potrebbe essere messa in esecuzione prima del giudicato sullo status.
3) L’esecuzione delle decisioni ereditarie non potrà ugualmente che avvenire dopo il giudicato sullo status.
4) Nella prassi dei tribunali italiani si ammette pacificamente la contestuale proposizione delle domande di accertamento della paternità con quelle sul mantenimento futuro (esattamente come sono considerate proponibili insieme alla domanda principale sullo status le domande relative al rimborso delle spese di mantenimento pregresse sostenute da un genitore, delle domande risarci¬torie e di quelle di natura ereditaria). Questa prassi è ampiamente riconosciuta e richiamata nella più volte citata Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 che proprio sul rapporto tra le due domande (quella sullo status e quella sulle questioni economiche) fonda il suo ragionamento contrario alla sospensione del processo concernente le questioni economiche.
Ebbene in caso di sentenze dichiarative di accertamento della paternità si dubita se sia possibile parlare di sinallagmaticità tra accertamento della paternità e condanna al mantenimento.
A mio avviso il concetto di sinallagmaticità ha natura contrattuale e non logica e pertanto non essendoci alcun rapporto contrattuale tra figlio e genitore dichiarato tale (con sentenza appellata) non vi sono ostacoli a considerare possibile l’esecuzione provvisoria delle statuizioni di condanna, non solo per il capo della sentenza sulle spese processuali ma anche per gli altri capi contenenti una condanna. Sarebbe strano il contrario, cioè che la regolamentazione del mantenimento per esempio del figlio minore venisse posticipata ad un tempo successivo al giudicato che potrebbe sopraggiungere solo dopo molti anni con evidenti ripercussioni negative sul diritto del figlio ad essere salvaguardato nelle sue esigenze primarie (contra Trib. Roma, 28 febbraio 2018, che ha accolto un’opposizione a precetto relativa all’esecuzione provvisoria del capo di condanna al mantenimento futuro del figlio minore sulla base della teoria della sinallagmaticità).
5) Del tutto nuovo è il tema della provvisoria esecuzione delle questioni connesse all’affidamento. Nonostante gli effetti costituivi della sentenza di accertamento non dovrebbero, però, esserci pro¬blemi a considerare provvisoriamente esecutiva questa parte della decisione nell’interesse esclusi¬vo della salvaguardia del rapporto tra genitore di cui è accertata la paternità e figlio.
VIII Il cognome
L’attuale articolo 262 del codice civile – nel testo introdotto dall’art. 27 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 – è il seguente:
Art. 262. Cognome del figlio nato fuori del matrimonio
Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre.
Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al ricono¬scimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, ante¬ponendolo o sostituendolo a quello della madre.
Se la filiazione nei confronti del genitore è stata accertata o riconosciuta successivamente all’attri¬buzione del cognome da parte dell’ufficiale dello stato civile, si applica il primo comma del presente articolo; il figlio può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o sostituen¬dolo al cognome del primo genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome del padre in caso di riconoscimento contemporaneo da parte di entrambi i genitori. Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del genitore, pre¬vio ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”.
Il nuovo testo contiene alcune novità rispetto al testo precedente alla riforma. Per quanto qui inte¬ressa la principale di queste novità sta nel fatto che in caso di “riconoscimento paterno” successivo a quello materno (anche a seguito di dichiarazione di paternità) “il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”. La motivazione di questa ampia opportunità di scelta sta nel fatto che il riconoscimento paterno tardivo può avvenire anche a distanza di molti anni. La legge, perciò, si preoccupa di garantire la possibilità che il co¬gnome materno possa mantenere una sua visibilità ove sia diventato un segno di identità del figlio. La precedente versione dell’articolo 262 prevedeva solo la possibilità di aggiunta o di sostituzione. La riforma del 2012/2013 ha inserito, quindi, la possibilità di anteposizione a quello materno del cognome tardivo paterno.
La seconda novità è contenuta nel nuovo terzo comma che riguarda i figli (di ignoti) ai quali il co¬gnome è stato attribuito dall’ufficiale di stato civile. Anche in questa evenienza troverà applicazio¬ne, in caso di riconoscimento successivo da parte di uno o di entrambi i genitori, la normativa per i figli nati fuori del matrimonio (cognome del genitore che riconosce il figlio o cognome paterno in caso di riconoscimento congiunto da parte di entrambi i genitori) ma il figlio tardivamente ricono¬sciuto – ove il cognome attribuitogli dall’ufficiale di stato civile sia divenuto segno autonomo della sua identità personale – può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli “aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo” al nuovo cognome.
La terza novità in tema di cognome nella filiazione fuori del matrimonio riguarda il cognome del figlio minore di età. In questo caso la decisione sul cognome in caso di riconoscimento tardivo non è dell’interessato (come avviene quando è maggiorenne) ma spetta, sia pure su indicazione dei genitori, al tribunale (ordinario secondo la riforma e non più il tribunale per i minorenni: cfr nuovo articolo 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile nel testo introdotto dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e poi ancora modificato dall’art. 96 lett. c) del D. Lgs. di attuazione 28 dicembre 2013, n. 154). I genitori si dovranno rivolgere al tribunale. Il giudice, pri¬ma di decidere, dovrà obbligatoriamente ascoltare il minore dodicenne o anche di età inferiore se capace di discernimento. Potrebbe avvenire che tra i due genitori vi sia contrasto sulla scelta del cognome: benché nessuna norma prescriva l’audizione dei genitori sarà evidentemente necessario che il tribunale proceda alla loro convocazione essendo diritto di ciascuno di essi esprimere una autonoma valutazione in ordine alla scelta del cognome (il padre potrebbe desiderare l’attribuzione del suo cognome mentre la madre potrebbe voler mantenere anche il proprio). Il procedimento – diversamente da quanto avviene quando sulla scelta non vi sia contrasto tra i genitori – diventa per ciò stesso un procedimento con due parti. Con la conseguenza che il decreto del tribunale sarà reclamabile in Corte d’appello entro dieci giorni non dalla comunicazione ma dalla notifica a cura della parte più diligente (articolo articolo 739, secondo comma, codice di procedura civile). La Cassazione ha ritenuto il Procuratore generale presso la Corte d’appello legittimato a proporre ri¬corso per cassazione avverso la decisione della Corte d’appello in materia di cognome (Cass. sez. VI, 27 giugno 2013, n. 16271).
L’articolo 262 del codice civile trova applicazione, come è evidente, anche in caso di dichiarazione giudiziale di paternità (sia relativamente a figli minori che in caso di figli maggiorenni) in quanto la legge non prevede che la decisione sul cognome sia effettuata con la sentenza che accerta la paternità. L’art. 277 c.c. a tale proposito si limita a dire che “la sentenza che dichiara la filiazione [meglio dovrebbe dirsi “la paternità”] produce gli stessi effetti del riconoscimento”. Sarà pertanto l’interessato maggiorenne a scegliere o i genitori del minore a promuovere il procedimento di cui all’articolo 262 indicando al tribunale la propria preferenza per l’attribuzione al figlio del cognome.
Le disposizioni sul cognome nell’Ordinamento di stato civile non sono appaganti. Salvo quanto si dirà sulle modifiche possibili del cognome (materia toccata da una riforma operata con DPR 13 marzo 2012, n. 54) a questa materia fa riferimento sostanzialmente l’art. 49 del Regolamento di stato civile approvato con DPR 2 novembre 2000, n. 396, che prevede l’annotazione nell’atto di nascita (già formato in occasione della nascita) del riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimo¬nio o delle sentenze che dichiarano la filiazione e l’art. 33 in cui si afferma che il figlio maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva, nonché il figlio nato da ignoti riconosciuto, dopo il raggiungimento della maggiore età, da uno dei genitori o contemporaneamente da entram¬bi, ha diritto di chiedere all’ufficiale di stato civile, entro un anno dalla conoscenza di tali eventi, di mantenere il cognome originario.
L’art. 33 in questione non prevede quindi che il figlio maggiorenne possa sempre mantenere il cognome originario ma attribuisce questo diritto soltanto al figlio maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva oppure al figlio non riconosciuto alla nascita e registrato direttamente dall’ufficiale di stato civile. Per questo motivo, come si vedrà più oltre, la Corte costituzionale ha ampliato questo diritto riconoscendo sempre e in ogni caso al figlio maggiorenne il diritto di poter mantenere il cognome originario materno in caso di successivo riconoscimento paterno (Corte cost. 3 febbraio 1994, n. 13).
Tuttavia, mentre in caso di riconoscimento di un figlio maggiorenne nato fuori da matrimonio (possibile solo con il consenso del figlio ex art. 250 c.c. che prevede sempre l’obbligatorietà del consenso del figlio che ha un’età superiore ai quattordici anni) è il figlio stesso che ai sensi dell’art. 262 c.c. esprime personalmente la scelta di “assumere il cognome del padre aggiungen¬dolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”, salvo sempre il diritto di mantenere il solo cognome originario, per il figlio minore di età (ancorché ultraquattordicenne) la decisione sul cognome è attribuita al tribunale. Come si è visto infatti l’art. 262 al quarto comma dispone che “Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”.
Occupandosi del cognome dei figli minori si è detto che la legge appare perentoria nel prescrivere “il giudice decide circa l’assunzione del cognome”, con ciò lasciando intendere che il tribunale sa¬rebbe obbligato a disporre il cambiamento (anteposizione, aggiunta o sostituzione) del cognome.
In realtà la giurisprudenza non ritiene che questo cambiamento sia necessitato. Il Tribunale potreb¬be lasciare anche quindi il cognome originario della sola madre al figlio riconosciuto dal padre. La giurisprudenza ha infatti precisato che non vi è un vero e proprio obbligo di cambiare il cognome originario e che questo effetto non è quindi automatico (Cass. civ. Sez. I, 2 ottobre 2015, n. 19734 per il figlio maggiorenne, e Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2014, n. 26062 per il figlio minore). Quest’ultima sentenza ha stabilito che l’attribuzione del cognome del genitore che effettua il secondo riconoscimento, anche in aggiunta al cognome del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento del figlio, costituisce facoltà e non anche necessità. In ipotesi siffatte l’esigenza preminente è quella di garantire l’interesse del figlio a conservare il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale in una determinata comunità. L’organo giurisdizionale, pertanto, deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto sino al momento del riconoscimento del secondo genitore (specificamente il padre), ed è chiamato ad emettere un provvedimento contrassegnato da ampio margine di discrezionalità e frutto di libero e prudente apprezzamento, nell’ambito del quale assume rilievo centrale l’interesse del minore ad essere identificato nel contesto delle relazioni so¬ciali in cui si trova inserito. Tale statuizione, proprio in quanto connotata da ampia discrezionalità, è incensurabile in Cassazione se adeguatamente motivata (come nella specie).
IX L’accertamento della paternità o della maternità in caso di figlio nato da relazione incestuosa
Secondo quanto dispone l’art. 278 c.c. (Autorizzazione all’azione) “Nei casi di figlio nato da per¬sone, tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta, l’azione per ottenere che sia giudizial¬mente dichiarata la paternità o la maternità non può essere promossa senza previa autorizzazione ai sensi dell’articolo 251”.
A sua volta l’art. 251 c.c. (che concerne il riconoscimento del figlio nato da relazione incestuosa prevedendo anche in questo caso l’autorizzazione del giudice) dispone che l’autorizzazione è concessa “avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio”.
In origine, l’art. 251 c.c. ammetteva il riconoscimento solo dei “figli incestuosi” nati da relazione in buona fede. E’ stata Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494 a dichiarare incostituzionale l’art. 278, 1° comma, c.c., nella parte in cui escludeva la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251, 1° comma, c.c., è vietato il riconoscimento dei figli incestuosi.
In conseguenza di ciò la riforma del 2012 e 2013 in materia di filiazione ha riformulato sia l’art. 251 (che riguarda il riconoscimento del figlio nato da relazione incestuosa) che l’art. 278 (che riguarda la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità nel caso di figlio nato da relazione incestuosa) ammettendo in entrambi i casi l’acquisizione dello status del figlio, sia pure subordina¬tamente ad una autorizzazione del giudice.
Il giudice è il tribunale ordinario in caso di figlio maggiorenne. Viceversa in caso di figlio minore di età, l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile10
10 La parte conclusiva del primo comma dell’art. 38 disp. att. c.c. – come modificato dall’art. 96, comma 1, lett. c), D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 – dispone “Sono, altresì, di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 251 e 317-bis del codice civile”. attribuisce al tribunale per i minorenni la competenza all’autorizzazione (sia nel caso di riconoscimento che nel caso di dichia-razione giudiziale).
L’indagine del giudice è limitata alla valutazione sull’interesse del figlio e sulla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio.
X Se la madre ha partorito nell’anonimato è ammissibile l’accertamento della maternità?
Il D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordi¬namento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) prevede all’art. 30 che 30 (Dichiarazione di nascita), primo comma, che “La dichiarazione di na¬scita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata” Per un approfondimento della problematica cfr la voce PARTO ANONIMO e la voce DIRITTO A CONOSCERE LE PROPRIE ORIGINI .
Pertanto la madre, nel nostro sistema giuridico, ha il diritto di chiedere di partorire nell’anonima¬to, sia in caso di figlio nato nel matrimonio (impedendo che si realizzi la presunzione di paternità prevista nell’art. 231 c.c.) che in caso di figlio nato fuori dal matrimonio (rendendo del tutto am¬missibile in tal modo il non riconoscimento).
È evidente che in quest’ultimo caso non sarà ammissibile la dichiarazione giudiziale di maternità, come ha avuto peraltro modo di precisare Trib. Milano Sez. I, 14 ottobre 2015 affermando che non è ammissibile la dichiarazione giudiziale di maternità nei confronti di una donna che al mo¬mento del parto ha dichiarato di non voler essere nominata, poiché altrimenti verrebbe frustrata la ratio della intera disciplina, ravvisabile non solo nell’esigenza di salvaguardare la famiglia legittima e l’onore della madre, ma anche di impedire che onde evitare nascite indesiderate, si faccia ricorso ad alterazioni di stato o a soluzioni ben più gravi quali aborti o infanticidi.
Il diritto della madre a non essere nominata dopo il parto si rinviene anche in altre due disposizio¬ni normative: per esempio nell’art. 93, comma secondo, del d.lgs. n. 196/2003 (Codice in materia di dati personali) che subordina l’accessibilità al certificato di assistenza al parto o alla cartella clinica, che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, al decorso di anni 100 dalla formazione del documento, così tutelando la scelta dell’anonimato della madre per tutta la vita della stessa e presumibilmente anche per l’intera durata della vita del figlio. Inoltre l’art. 28 della legge n. 184/1983 (Diritto del minore ad una famiglia) che, discipli¬nando l’ipotesi di accesso alle informazioni che riguardino l’origine e l’identità dei genitori biologici di soggetti adottati, prevede espressamente – al comma settimo – che l’accesso a tali informa¬zioni “non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396”.
Il fondamento costituzionale di tali disposizioni, come chiarito dalla Corte Costituzionale, riposa sull’esigenza di tutelare la gestante che versi in situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale ed abbia deciso di non tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata e di mantenere al contempo l’ano¬nimato nella conseguente dichiarazione di nascita. In tal modo si intende, da un lato, assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali sia per la madre che per il figlio, dall’altro, distogliere la donna da “decisioni irreparabili” per quest’ultimo ben più gravi (Corte cost., 25 novembre 2005, n. 425).
Il parto anonimo, che resta tale per cento anni, costituisce quindi un’alternativa offerta alla donna rispetto all’interruzione di gravidanza, lecita ma pur sempre traumatica, ovvero, nelle ipotesi peg¬giori, a comportamenti criminali quali l’infanticidio o l’abbandono di neonato. Il diritto della madre che la legge intende tutelare, per le ragioni sopra esposte, risulterebbe affievolito se la decisione della donna non fosse assistita dalla garanzia della sua perdurante validità per l’intero corso della vita, e se non fosse escluso il rischio per la stessa, in un imprecisato futuro e su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto, di essere disvelata o di essere soggetta agli obblighi genitoriali ai quali aveva inteso sottrarsi manifestando la facoltà, espressamente riconosciuta dalla legge, di rimanere anonima.
Il quadro normativo sopra citato osta alla proposizione e all’accoglimento della domanda di di¬chiarazione giudiziale di maternità ai sensi dell’art. 269 c.c., che avrebbe l’effetto di costituire lo status giuridico di genitorialità e di determinare l’insorgenza delle relative responsabilità, a fronte della perdurante volontà della madre di non essere nominata e di mantenere il proprio segreto nei confronti del figlio dato alla luce.
Recentemente Trib. Roma, 12 maggio 2017 ha precisato che gli eredi di una donna che dichiarò di voler rimanere anonima al momento del parto possono esprimere una determinazione diversa in caso in cui la medesima non lasciò nulla di dichiarato a questo proposito per il tempo successivo alla sua morte. In questo caso, – conclude la decisione – sarebbe ammissibile l’azione di dichiara¬zione giudiziale di maternità nonostante l’opzione per il parto anonimo al momento della nascita del ricorrente.
La decisione si fonda sul fatto che la Corte costituzionale nel caso di parto anonimo, ha riconosciu¬to il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all’identità personale della stessa, “non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, previsto dall’art. 93, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, che determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto (Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278) e l’affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta” (Cass. civ. Sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024; Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838).
In conclusione l’azione per l’accertamento giudiziale della maternità resta impedita dalla dichiara¬zione della madre di voler partorire nell’anonimato ma non nel caso in cui l’azione venga proposta in seguito alla morte della madre se i suoi eredi esprimono una determinazione diversa e la madre non lasciò nulla di dichiarato per il tempo successivo alla sua morte.
XI Accertamento giudiziale della paternità e revocazione della donazione e del testamento per sopravvenienza dei figli
L’art. 80312
12 Art. 803 (Revocazione per sopravvenienza di figli)
Le donazioni fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti al tempo della donazione, possono essere revocate per la sopravvenienza o l’esistenza di un figlio o discendente del donante. Possono inoltre es¬sere revocate per il riconoscimento di un figlio, salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio.
La revocazione può essere domandata anche se il figlio del donante era già concepito al tempo della donazione. e l’art. 687 c.c.13
13 Art. 687 (Revocazione per sopravvenienza di figli)
Le disposizioni a titolo universale o particolare, fatte da chi al tempo del testamento non aveva o ignorava di aver figli o discendenti, sono revocate di diritto per l’esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente del testatore, benché postumo, anche adottivo, ovvero per il riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio.
La revocazione ha luogo anche se il figlio è stato concepito al tempo del testamento.
La revocazione non ha invece luogo qualora il testatore abbia provveduto al caso che esistessero o sopravvenis¬sero figli o discendenti da essi.
Se i figli o discendenti non vengono alla successione e non si fa luogo a rappresentazione, la disposizione ha il suo effetto. prevedono che le donazioni e le disposizioni testamentaria fatte da chi al tempo della donazione o del testamento non aveva o ignorava di aver figli o discendenti, sono revocate di diritto per l’esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente del testatore.
In entrambi i casi alla nascita di un figlio è equiparato il riconoscimento di un figlio non solo spon¬taneo ma anche a seguito di accertamento giudiziale.
Il principio è stato precisato in materia di revocazione del testamento da Cass. civ. Sez. II, 5 gennaio 2018, n. 169, che, annullando una sentenza della Corte d’appello di Roma, ha affermato che va considerato revocato di diritto, ai sensi dell’art. 687 c.c., il testamento nell’ipotesi in cui, a seguito di una dichiarazione giudiziale di paternità intervenuta dopo la morte del testatore, risulti che il testatore aveva generato un figlio (non riconosciuto), il quale non risulti contemplato nel testamento stesso. La norma dell’art. 687 c.c. va cioè interpretata in senso oggettivo, e la sua ratio è ravvisata nella tutela di un interesse familiare a fronte del mutamento della composizione della famiglia, e precisamente nella tutela degli interessi dei più stretti familiari del de cuius, e cioè dei figli, lì dove ignorati o sopravvenuti.
La revocazione avviene, secondo questa sentenza, a prescindere dal fatto che il de cuius fosse o meno a conoscenza dell’esistenza del figlio. Infatti l’assenza di una previsione analoga a quella contenuta nell’art. 803 c.c. 14
14 Art. 803 (Revocazione per sopravvenienza di figli)
Le donazioni fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti al tempo della donazione, possono essere revocate per la sopravvenienza o l’esistenza di un figlio o discendente del donante. Possono inoltre es¬sere revocate per il riconoscimento di un figlio, salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio.
La revocazione può essere domandata anche se il figlio del donante era già concepito al tempo della donazione. (…salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio…”) nella norma di cui all’art. 687 c.c., in tema di testamento, fa propendere per la soluzione secondo cui la sola conoscenza del rapporto di filiazione, in assenza dell’acquisizione dello stato giuridico di figlio non preclude la revocazione del testamento.
XII Il riconoscimento incidenter tantum ai fini del solo mantenimento
Nel nostro sistema giuridico non è possibile scindere gli effetti dell’accertamento giudiziale della paternità o della maternità. La sentenza che accerta la genitorialità (art. 277 c.c.) attribuisce i doveri e i diritti che il genitore ha nei confronti dei figli (art. 261 c.c.).
In un caso, tuttavia, si producono soltanto i doveri di mantenimento ed a questo caso fa riferimen¬to l’art. 279 c.c. (Responsabilità per il mantenimento e l’educazione).
Art. 279 (Responsabilità per il mantenimento e l’educazione)
In ogni caso in cui non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paterni¬tà o di maternità, il figlio nato fuori del matrimonio può agire per ottenere il manteni¬mento, l’istruzione e l’educazione. Il figlio nato fuori del matrimonio se maggiorenne e in stato di bisogno può agire per ottenere gli alimenti a condizione che il diritto al mantenimento di cui all’articolo 315-bis, sia venuto meno.
L’azione è ammessa previa autorizzazione del giudice ai sensi dell’articolo 251.
L’azione può essere promossa nell’interesse del figlio minore da un curatore speciale nominato dal giudice su richiesta del pubblico ministero o del genitore che esercita la responsabilità genitoriale.
Se il genitore biologico è deceduto nessun diritto al mantenimento o di natura ali¬mentare è azionabile essendo i relativi doveri di natura personalissima e quindi non trasmissibili agli eredi.
Tuttavia il codice, volendo venire incontro alle necessità del figlio che si trova nelle condizioni di cui all’art. 279 c.c., prevede anche una tutela di tipo “ereditario” (con la precisazione che questa aggettivazione è impropria dal momento che il figlio che agisce non può essere qualificato erede del presunto genitore biologico defunto). La tutela del figlio in questo caso è la seguente. Nell’i¬potesi di successione ab intestato il figlio può pretendere un assegno vitalizio a carico dell’eredità “pari all’ammontare della rendita della quota di eredità alla quale avrebbe diritto, se la filiazione fosse stata dichiarata o accertata” (art. 580 c.c.), mentre in caso di successione testamentaria o in presenza di donazioni effettuate in vita dal de cuius e sempre che il genitore non abbia disposto in suo favore, il figlio può pretendere un assegno vitalizio a carico degli eredi, dei legatari e dei donatari (art. 594 c.c.).
Nel caso in cui il genitore biologico sia in vita l’azione è strutturata come azione di mantenimento o di natura alimentare, con la previsione di una fase preliminare di autorizzazione analoga alla fase di ammissibilità dell’accertamento giudiziale di paternità o maternità naturale che era prevista nell’art. 274 c.c. prima che la Corte costituzionale ne dichiarasse l’illegittimità costituzionale. Se invece il genitore biologico è deceduto l’azione è strutturata come azione di tipo “ereditario” e non dovrebbe essere preceduta da alcuna autorizzazione (secondo l’interpretazione che qui si proporrà contrastante con l’opinione della giurisprudenza).
Nei procedimenti azionati sulla base dell’art. 279 c.c. l’accertamento del rapporto biologico, ai fini dell’attribuzione delle obbligazioni economiche genitoriali, è fatto incidenter tantum – cioè ai soli fini dell’attribuzione dei doveri di mantenimento o alimentari – e senza dichiarazione formale dello status. Troveranno, ciononostante, applicazione ai fini dell’accertamento della compatibilità gene¬tica tra genitore e figlio gli stessi principi che regolamentano nelle azioni di status l’accertamento della paternità o della maternità biologica e quindi le regole che presiedono alla prova in questo settore, ivi compresi i principi che la giurisprudenza ha via affermato in tema di rifiuto di sottoporsi alle prove genetiche. Vale in particolare il principio generale di libertà di prova indicato nel secondo comma dell’art. 269 c.c. in base al quale “la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo”.
In entrambi i casi (azione di mantenimento/alimentare e azione di tipo “ereditario”) il presupposto è costituito dalla circostanza che “non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di pater¬nità o di maternità” (art. 279 c.c. richiamato anche negli articoli 580 e 594 c.c.).
I problemi, quindi, che la disposizione pone – anche a seguito dei ritocchi subìti ad opera dell’art. 36 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 – sono numerosi15
15 Per i molteplici problemi che l’art. 279 c.c. pone cfr diffusamente la voce RESPONSABILITA’ PER IL MANTENI¬MENTO .
Lo spettro applicativo della norma è piuttosto vasto (può agire previa autorizzazione del tribunale ordinario direttamente l’interessato o il genitore che esercita la responsabilità genitoriale sul figlio minore, ovvero un curatore speciale nominato su richiesta del pubblico ministero) ma il presuppo¬sto è soltanto uno e cioè il non potersi proporre l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità.
A dire il vero questa impossibilità è piuttosto ristretta nel nuovo sistema della filiazione, in quanto l’azione è imprescrittibile nei confronti del figlio e quindi sempre proponibile.
Poiché “la paternità o la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il ri-conoscimento è ammesso” (art. 269, primo comma,c.c.) l’azione di mantenimento e alimentare prevista nell’art. 279 c.c. è stata storicamente l’azione a disposizione dei figli per i quali non era ammesso il riconoscimento, cioè dei figli irriconoscibili, in particolare di quelli nati da relazione con¬sapevolmente incestuosa per i quali l’art. 251 della formulazione originaria del codice escludeva del tutto la possibilità di riconoscimento e quindi della corrispondente dichiarazione giudiziale. E’ stata la Corte costituzionale a modificare questo quadro di riferimento allorché dichiarò incosti¬tuzionale l’art. 278 c.c. (divieto di indagini sulla paternità e sulla maternità nei casi di nascita da relazione incestuosa) nella parte in cui non consentiva in tali casi l’azione per la dichiarazione della paternità e della maternità naturale (Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494) aprendo la strada alle norme sulla riconoscibilità, sia pure condizionata ad una autorizzazione giudiziaria, dei figli nati da relazione incestuosa introdotte con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154.
Con queste premesse si possono quindi indicare le situazioni in cui oggi è ammissibile e concreta¬mente praticabile l’azione ex art. 279 c.c.
1) Figli nati da relazione incestuosa per i quali l’autorità giudiziaria non concede l’autorizzazione per il riconoscimento o per l’accertamento giudiziale della paternità o della maternità.
L’attuale quadro normativo relativo ai figli nati da relazione incestuosa – cioè nati da persone “tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all’infinito [nonni, genitori, figli, nipoti] o in linea collaterale nel secondo grado [fratelli, sorelle], ovvero un vincolo di affinità in linea retta [suoceri,nuore, generi]” (art. 251 c.c.) – prevede la possibilità sia del riconoscimento che del promovimen¬to dell’azione per la dichiarazione giudiziale, ma in entrambi i casi subordinata alla autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria “avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio” (art. 251 c.c. anche richiamato dall’art. 278 c.c.).
Pertanto se l’autorità giudiziaria non concede l’autorizzazione si verifica un caso in cui “non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale” con la conse¬guenza che il figlio ai sensi dell’art. 279 c.c. può proporre l’azione di mantenimento o l’azione alimentare.
2) Il figlio nato da persona infrasedicenne
Secondo l’ultimo comma dell’art. 250 c.c. per poter riconoscere un figlio nato fuori del matrimonio è necessario aver compiuto i 16 anni. Sotto questa età per riconoscere un figlio occorre l’autoriz¬zazione del tribunale (ordinario ex art. 38 disp. att. c.c. come modificato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e dall’art. 96 lett. c del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154). Di conseguenza non è ipotizzabile nemmeno da parte del nato l’azione dichiarativa per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità (art. 269, primo comma c.c. . “la paternità o la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso”). Pertanto il genitore biolo¬gico che non ha compiuto 16 anni o che non chiede o non ottiene l’autorizzazione per riconoscere il figlio, potrebbe essere convenuto in un giudizio di mantenimento (da un curatore speciale nomi¬nato dal giudice su richiesta del pubblico ministero o dell’altro genitore che eventualmente abbia riconosciuto il figlio e che esercita la responsabilità genitoriale). Naturalmente al compimento del sedicesimo anno di età del genitore biologico (cioè in età in cui è possibile riconoscere un figlio) sarà possibile nei suoi confronti l’azione di paternità o di maternità con la conseguenza che viene meno la legittimazione ad agire del figlio ex art. 279 c.c. Si comprende perciò come questa ipotesi di azione ex art. 279 c.c. sia sostanzialmente un caso di scuola essendo del tutto ragionevole ipo¬tizzare che l’avente diritto possa attendere il poco tempo che lo separa dalla nascita al compimento del sedicesimo anno di età del genitore biologico per agire con l’azione di status nei confronti del genitore biologico stesso.
3) Figlio minore per il quale l’autorità giudiziaria ritiene contrastante con il suo interesse la dichia¬razione della paternità o maternità naturale o l’autorizzazione al riconoscimento tardivo.
L’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità naturale (art. 269 c.c.) era caratterizzata – nell’impianto originario del codice civile – dalla previsione di una fase di ammissi¬bilità (art. 274 c.c.) nella quale il giudice aveva il compito di accertare il fumus della pretesa. Nel caso di minore età del figlio l’azione era esercitata dal genitore esercente la potestà (art. 273 c.c.) e in questa fase compito del giudice era valutare anche l’interesse del minore (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341). Successivamente, come si è già detto, la Corte costituzionale ha cancellato la fase di ammissibilità ritenendola un inutile elemento di disturbo per la dilatazione dei tempi che deter¬minava e quindi contrastante con il diritto di azione garantito dall’art, 24 della costituzione (Corte cost., 10 febbraio 2006, n. 50). In questa sentenza la Corte precisava che “in presenza di una incostituzionalità che coinvolge il procedimento nella sua struttura e funzione, la circostanza che lo stesso abbia anche lo scopo di accertare l’interesse del minore non fa venire meno l’incostituzio¬nalità stessa, né giustifica la permanenza nell’ordinamento del giudizio di ammissibilità con questo solo scopo. L’esigenza, infatti, che l’azione di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale risponda all’interesse del minore non viene certamente meno con la soppressione del giudizio di cui all’art. 274 del codice civile, ma potrà essere eventualmente delibata prima dell’ac¬certamento della fondatezza dell’azione di merito”. Si è sopra visto come l’interesse del minore costituisca tuttora un elemento di valutazione in tutte le cause sullo status filiationis.
Quanto alla individuazione del giudice competente a trattare la causa e a concedere l’autorizzazio¬ne è necessario rilevare che il secondo comma dell’art. 279 c.c. nel testo vigente fa riferimento all’art. 251 c.c. (“L’azione è ammessa previa autorizzazione del giudice ai sensi dell’articolo 251”) il quale a sua volta prevede (per il riconoscimento del figlio nato da relazione incestuosa e per il promovimento, sempre in caso di nascita da relazione incestuosa, dell’azione dichiarativa della paternità o della maternità naturale) la previa autorizzazione da parte del giudice “avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio”. La competenza a concedere queste autorizzazioni è del tribunale per i minorenni secondo il testo dell’art. 38 disp. att. c.c. come modificato dall’art. 3 legge 219/2012 e dall’art. 96 lett. c del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154). Deriva da quanto detto che competente ad autorizzare la domanda di mantenimento ex art. 279 c.c. promossa dal curatore speciale nell’interesse del soggetto minore di età sarà il tribunale per i minorenni il quale sarà anche competente per la fase di merito essen¬do assolutamente inconcepibile che le due fasi di un unico giudizio possano essere attribuite alla cognizione di giudici diversi.
In conclusione la competenza sulla domanda di mantenimento ex art. 279 c.c. promossa dal figlio minore continua ad appartenere per entrambe le fasi (sia la fase di autorizzazione che per quella di merito) alla competenza del tribunale per i minorenni.
Se l’interessato è maggiorenne la competenza ad autorizzare l’azione e a trattare la causa è del tribunale ordinario.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 3638 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata partecipazione del Pubblico Ministero non comporta una lesione del contraddittorio rilevabile in ogni stato e grado del giudizio e tale da giustificare la rimessione degli atti al primo giudice, ai sensi dell’art. 354 cod. proc. civ., ma, essendo l’intervento prescritto pur sempre a pena di nullità, rilevabile anche d’ufficio ai sensi dell’art. 70 cod. proc. civ., la mancata effettuazione degli adempimenti necessari per portare la pendenza del giudizio a sua conoscenza si traduce in un vizio che, convertendosi in motivo di gravame, ai sensi dell’art. 161 cod. proc. civ., può essere fatto valere attraverso l’impugnazione della sentenza.
Cass. civ. Sez. II, 5 gennaio 2018, n. 169 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È revocato di diritto, ai sensi dell’art. 687 c.c., il testamento nell’ipotesi in cui, a seguito di una dichiarazione giudiziale di paternità intervenuta dopo la morte del testatore, risulti che il testatore aveva generato un figlio (non riconosciuto), il quale non risulti contemplato nel testamento stesso. La norma dell’art. 687 c.c. va cioè interpretata in senso oggettivo, e la sua ratio è ravvisata nella tutela di un interesse familiare a fronte del mu¬tamento della composizione della famiglia, e precisamente nella tutela degli interessi dei più stretti familiari del de cuius, e cioè dei figli, lì dove ignorati o sopravvenuti. La revocazione avviene a prescindere dal fatto che il de cuius fosse o meno a conoscenza dell’esistenza del figlio. Infatti l’assenza di una previsione analoga a quella contenuta nell’art. 803 c.c. nella norma di cui all’art. 687 c.c., in tema di testamento, fa propendere per la solu¬zione secondo cui la sola conoscenza del rapporto di filiazione, in assenza dell’acquisizione dello stato giuridico di figlio non preclude la revocazione del testamento.
va individuato in un’esigenza di carattere oggettivo rappresentata dalla tutela dei figli in conseguenza di una mo¬dificazione della situazione familiare, in relazione alla quale il testatore aveva disposto. Tenuto conto che ciò che rileva ai fini della caducazione del testamento è la sopravvenienza o la scoperta dell’esistenza di una filiazione in senso giuridico, e non anche in senso meramente naturalistico, ne segue che la sola conoscenza del rapporto di filiazione non preclude la revocazione del testamento, anche nel caso in cui la dichiarazione giudiziale di paternità intervenga dopo la morte del testatore.
Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il favor veritatis non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che l’art. 30 Cost. non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale. Nel disporre, al quarto comma, che “la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità “, l’art. 30 Cost. ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del figlio.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 novembre 2017, n. 26914 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche – nella specie opposto da tutti gli eredi legittimi del preteso padre – costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2017, n. 18626 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche – nella specie opposto da tutti gli eredi legittimi del preteso padre – costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2017, n. 15201 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità, è correttamente motivata la decisione di merito che ha accer¬tato il legame genitoriale sulla base sia della prova testimoniale, relativa alla relazione tra i pretesi genitori, sia di una consulenza tecnica d’ufficio genetica, oggetto di censure generiche, o prive di specifico riscontro scientifico, o comunque di merito (nella specie, il preteso padre si era limitato a illazioni sulle generalità del vero genitore e a segnalare che la stessa c.t.u. aveva evidenziato l’esistenza di due marcatori incompatibili tra lui e il minore, senza però nemmeno prospettare che da ciò sarebbe derivata l’erroneità delle conclusioni cui è giunta la relazio¬ne, che ha comunque stimato una compatibilità genetica, tra lui e il minore, del 99,98 per cento).
Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2017, n. 14896 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Posto che nelle cause relative allo stato delle persone (nella specie, accertamento giudiziale della paternità) l’intervento del pubblico ministero è obbligatorio, la mancata trasmissione degli atti a quest’ultimo, anche in grado di appello, in modo che egli sia informato e messo in condizione di adottare le proprie determinazioni al riguardo, comporta la nullità della sentenza (nella specie, la Suprema corte ha cassato quest’ultima con rinvio, una volta accertato che non vi era la prova della comunicazione della pendenza della causa al procuratore gene¬rale, affinché, integrato il contraddittorio, si proceda nuovamente al giudizio).
Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 2017, n. 13880 (Giur. It., 2017, 8-9, 1841 nota di FIORE)
Nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica c.d. percepiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l’inca¬rico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti ma di accertare i fatti stessi. È necessario e sufficiente, in tal caso, che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamen¬to richieda specifiche cognizioni tecniche, perché la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova.
Trib. Messina Sez. I, 17 maggio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269, comma 2, c.c., non tollera sur¬rettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa dispo¬sizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo “status”.
Trib. Roma, 12 maggio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli eredi di una donna che dichiarò di voler rimanere anonima al momento del parto possono esprimere una determinazione diversa in caso in cui la medesima non lasciò nulla di dichiarato a questo proposito per il tempo successivo alla sua morte. In questo caso, è ammissibile l’azione di dichiarazione giudiziale di maternità nono¬stante l’opzione per il parto anonimo al momento della nascita del ricorrente.
Cass. civ. Sez. I, 7 aprile 2017, n. 9059 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La prescrizione del diritto del genitore ad ottenere dall’altro genitore il rimborso pro quota delle spese anticipate per il mantenimento del figlio nato fuori dal matrimonio decorre dal riconoscimento del figlio da parte dell’altro genitore o dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2017, n. 8617 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il favor veritatis non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che l’art. 30 Cost., non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale, ma, nel disporre al comma 4, che “la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità “, ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituziona¬le, la paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del figlio.
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 c.c., e, quindi, giusta l’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 c.c.. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale ed assume, di conseguenza, pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frat¬tempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 c.c.), ha diritto di regresso per la corrispon¬dente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 c.c. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, la condanna al rimborso di detta quota per il periodo precedente la proposizione dell’azione non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronuncia alla definizione dei rapporti pregressi tra debi¬tori solidali, ossia a diritti disponibili, e, quindi, non incidendo sull’interesse superiore del minore, che soltanto legittima l’esercizio dei poteri officiosi attribuiti al giudice dall’art. 277, comma 2, c.c. La necessità di analoga domanda non ricorre riguardo ai provvedimenti da adottare in relazione al periodo successivo alla proposizione dell’azione, atteso che, durante la pendenza del giudizio, resta fermo il potere del giudice adito, in forza della norma suindicata, di adottare di ufficio i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore. (In applicazione di detti principi, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata per aver trascurato sia la circostanza che le parti avevano compiutamente delimitato, in termini temporali, l’ambito delle rispettive pretese, sia che, al momento dell’introduzione dell’azione, la figlia non era minorenne, con la conseguenza che non residuava alcuno spazio per l’esercizio di poteri officiosi da parte del giudice.
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell›art. 270 c.c. nella parte in cui prevede l›imprescrittibilità dell›azione per il riconoscimento di paternità naturale proposta dal figlio, con l›effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo, atteso che la mancata previsione di un termine, soprattutto alla luce della previgente norma che lo prevedeva, non significa che un bilanciamento con la contrapposta tutela del figlio sia mancato, ma solo che esso è stato operato rendendo recessiva l’aspettativa del padre rispetto alle esigenze di vita e di riconoscimento dell’identità perso¬nale del figlio.
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7958 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La prova della fondatezza della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità fuori dal matrimonio, non sussistendo un ordine gerarchico, può trarsi anche dal comportamento delle parti, e in particolare dal rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi alle prove genetiche, da valutarsi anche tenuto conto del contesto sociale e, globalmente, di tutte le circostanze del caso (la Suprema corte ha confermato la sentenza di merito, che ha accolto la domanda, tenuto conto, tra l’altro, della mancata disponibilità in concreto del padre al prelievo per l’esame genetico, in quanto egli si era limitato a far pervenire la copia di una analisi genetica effettuata all’estero, su un campione asseritamente da lui prelevato alla presenza di un notaio e di due testimoni, analisi non utilizzata sia per la mancanza di adeguate garanzie sulla sua corretta esecuzione, sia sulla coincidenza di quel campione con quello concretamente esaminato dal laboratorio).
Trib. Messina Sez. I, 20 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 269 c.c., la maternità è dimostrata provando l’identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre e si ritiene comunemente che tale prova possa essere fornita per presunzioni, essendo in pratica quasi impossibile fornire la diretta dimostrazione di un fatto intimo e riservato come il concepimento ad opera del preteso padre o della pretesa madre.
Trib. Treviso Sez. I, 10 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa del rapporto di filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento (tardivo) e quin¬di, a norma dell’art. 261 c.c., comporta da parte del genitore tutti i doveri e tutti i diritti propri della procreazione legittima.
Trib. Padova Sez. I, 6 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio promosso ai fini dell’accertamento della paternità naturale, il rifiuto del preteso padre di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, comma 2, c.p.c., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 15 febbraio 2017, n. 4020 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il principio del favor veritatis – che riconosce la prevalenza della verità biologica, su quella legale – è alla base della responsabilità genitoriale e della ricerca della paternità, previste dall’art. 30, commi 1 e 4, Cost., e dell’im¬portanza della discendenza biologica e della connessa identità personale, diritti fondamentali della persona rico¬nosciuti dalla Costituzione ed anche dalla normativa internazionale. Al legislatore ordinario resta la scelta discre¬zionale delle modalità procedurali ed attuative, che consente ai soggetti interessati di ottenere l’accertamento della verità biologica, com’è quella del curatore speciale nominato dal giudice (art. 244, ultimo comma, c.c.) su richiesta del minore che ha superato i 14 o anche su istanza del padre biologico – come nel caso di specie – ma non anche il potere di precludere tali accertamenti in base a valutazioni di opportunità preventive ed astratte.
Trib. Pordenone, 9 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’anticipazione in via provvisoria, ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie conte¬nute in sentenze costitutive, non è consentita, occorrendo il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico; è invece consentita quando la statuizione condannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento temporale successivo del pas¬saggio in giudicato.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 783 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità , l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, in forza del principio della libertà della prova, alla stregua del quale da un lato tutti i mezzi di prova hanno pari valore, dall’altro la loro scelta e valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito (nella specie, la Suprema corte ha confermato la sentenza di merito che aveva accertato la paternità alla stregua dei risultati univoci della consulenza tecnica d’ufficio, sicché non aveva ammesso, in quanto superflua, la prova per testi richiesta dalle altre parti).
L’azione di dichiarazione giudiziale di paternità, ove non riguardi un minore, deve essere introdotta, davanti al tribunale, con il rito ordinario; nondimeno, allorché sia stata introdotta con ricorso, e trattata con il rito camerale, la parte che fa rilevare la nullità della sentenza per tale motivo ha l’onere di dedurre lo specifico pregiudizio al diritto di difesa che le sarebbe derivato dal rito pur erroneamente seguìto.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 781 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, l’art. 250 c.c. (come modificato dall’art. 1, comma 2, lett. b, della l. n. 219 del 2012) subordina, nell’ipotesi di minore infraquattordicenne, la possibilità del secondo riconoscimen¬to al consenso del genitore che detto riconoscimento ha già effettuato e dispone, altresì, che, al compimento del quattordicesimo anno, il minore (anche se nato o concepito prima dell’entrata in vigore della l. n. 219 del 2012cit.) divenga titolare di un autonomo potere di incidere sul diritto del genitore al riconoscimento, confi¬gurando il suo assenso quale elemento costitutivo dell’efficacia della domanda stessa di riconoscimento. Ne consegue che il raggiungimento, da parte del minore, della “maggiore età” ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio, rilevabile d’ufficio, determina il venir meno della necessità del consenso del pri¬mo genitore al riconoscimento da parte dell’altro e, in difetto, dell’intervento del giudice. (Nella specie, la S.C., preso atto che il minore aveva compiuto quattordici anni nel corso del processo ed aveva rifiutato il suo assenso al riconoscimento, ha dichiarato, su ricorso della madre, cessata la materia del contendere, cassando senza rinvio la sentenza di riconoscimento della paternità).
Cass. civ. Sez. I, 29 novembre 2016, n. 24292 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c. nella parte in cui, affer¬mandosi l’imprescrittibilità dell’azione per il riconoscimento di paternità naturale proposta dal figlio, non sarebbe previsto un termine decadenziale per l’ipotesi in cui l’azione sia esercitata con notevole ritardo, con l’effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo. Infatti, da un lato, il diritto al riconoscimento di uno “status” filiale corrispondente alla verità biologica costituisce una componente essenziale del diritto all’identità personale, riconducibile all’art. 2 Cost. ed all’art. 8 CEDU, che accompagna la vita individuale e relazionale e l’incertezza su tale “status” può determinare una condizione di disagio ed un “vulnus” allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità; e, dall’altro, l’eventuale ac¬coglimento della questione sarebbe impedito dal rilievo secondo cui solo il legislatore potrebbe stabilire la durata del termine da sostituire all’imprescrittibilità.
Cass. civ. Sez. VI, 14 luglio 2016, n. 14417 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento da cui conseguono tutti i doveri propri della procreazione legittima tra i quali l’obbligo di mantenimento. La relativa obbligazione si collega allo status genitoriale e assume decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che l’altro genitore, il quale nel frattempo ha sostenuto l’onere di mantenimento anche per la porzione di pertinenza del figlio dichia¬rato giudizialmente, ha diritto di regresso per la corrispondente quota.
Trib. Milano, 14 ottobre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non può essere accolta la domanda di riconoscimento della maternità naturale, ai sensi dell’art. 269 c.c., nell’ipo¬tesi in cui la madre al momento del parto abbia espressamente dichiarato di non voler essere nominata e risulti la sua perdurante volontà di esercitare il suo diritto all’ anonimato.
Trib. Potenza, 16 novembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, che è un ordinario giudizio di cognizione al quale va applicata la normativa generale di cui agli artt. 70 e 72 c.p.c., l’obbligatorietà dell’in¬tervento del P.M. non richiede la partecipazione del rappresentante di quell’ufficio alle varie udienze, essendo assicurata l’osservanza del precetto normativo ove egli sia stato ufficialmente informato dell’esistenza del pro¬cedimento, così da avere la possibilità di intervenire e di esercitare i poteri attribuitigli dalla legge, restando irrilevante che in concreto egli non partecipi alle udienze e non formuli conclusioni.
Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838 (Famiglia e Diritto, 2017, 1, 19 nota di ANDREOLA)
Il diritto dell’adottato, nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ex art. 30, comma 1, D.P.R. n. 396 del 2000, ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l’identità della madre biologica, sussiste e può essere concretamente esercitato anche se la stessa sia morta e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando, nella fatti¬specie, il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto, o della cartella clinica, di cui all’art. 93, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 196 del 2003, salvo il trattamento lecito e non lesivo dei diritti di terzi dei dati personali conosciuti.
Cass. civ. Sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024 (Nuova Giur. Civ., 2017, 3, 319 nota di STANZIONE)
Il diritto all’anonimato è tutelato dall’art. 93, comma 2, D.Lgs. n. 196/2003, che consente il rilascio dei docu-menti idonei ad identificare la madre solo dopo che siano decorsi cento anni dalla loro formazione. Tuttavia, sulla scorta della giurisprudenza della Corte Costituzionale, si può affermare che l’istituto in questione è legittimo a condizione della sempre attuale reversibilità del segreto. Da ciò discende che il termine previsto dal citato art. 93, comma 2, D.Lgs. n. 196/2003 non può ritenersi operativo oltre il limite di vita della madre, perché la conseguenza della morte della madre che ha partorito in anonimo sarebbe quella di reintrodurre quella cristal¬lizzazione della scelta per l’anonimato che la Corte Costituzionale ha ritenuto lesiva degli artt. 2 e 3 della Carta fondamentale.
Trib. Cassino, 15 giugno 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio nasce al momento della sua nascita, anche se la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza. La sentenza dichiarativa della filiazione naturale, invero, produce gli effetti del riconoscimento comportando per il genitore, ai sensi dell’art. 261 c.c., tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ai sensi dell’art. 148 c.c. Conseguentemente, anche nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, per ciò stesso non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale. Su tale base, la violazione dei relativi doveri non trova la sua sanzione, necessariamente e soltanto, nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, in quanto la natura giuridica di tali obblighi implica che la relativa violazione, nell’ipotesi in cui provochi la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. (Nel caso di specie, Il Tribunale ha condannato il padre naturale di una ragazzina di tredici anni a risarcirle i danni non patrimoniali conseguiti al totale disinteresse dimostrato nei suoi confronti, tale da avere determinato una vera e propria lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione, i quali trovano negli artt. 2 e 30 della carta costituzionale, oltre che in normative internazionali recepite nel nostro ordinamen¬to, un elevato grado di riconoscimento e tutela. Di conseguenza, considerata anche la giovane età della figlia, il giudice di merito ha condannato il padre a versare, a titolo di danno non patrimoniale per abbandono morale della minore, la somma di 52.000 euro, liquidata in via equitativa).
Trib. Milano, 31 maggio 2016 (Nuova Giur. Civ., 2016, 11, 1473 nota di Siclari)
È ammissibile l›azione cautelare, promossa dalla madre del concepito, per accedere a materiale biologico del convivente defunto, al fine di conservare elementi di prova da spendere nel futuro giudizio di accertamento della paternità ex art. 269 cod. civ. L’azione può in particolare essere promossa dove, come nel caso di specie, il corpo del presunto padre non possa essere oggetto di esumazione, attesa la intervenuta cremazione.
Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 2016, n. 3479 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269, comma 2, c.c., non tollera sur¬rettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa dispo¬sizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo “status”.
App. Messina Sez. I, 19 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di filiazione naturale, la prova della fondatezza della domanda di accertamento della paternità naturale può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti da valutarsi globalmente, tenendo conto delle dichiarazioni della madre e della portata delle difese del convenuto. In tale ottica, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce un comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116, comma 2 c.p.c..
Trib. Perugia, 11 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le prove emato-genetiche sono prove in senso proprio, giacché l’attuale livello della ricerca ed esperienza scien¬tifica consente di esprimere, grazie ad esse, sufficienti garanzie nel ritenere decisivo il loro contributo nell’attri¬buzione della paternità o maternità di un soggetto, conseguendo risultati dotati di un alto grado di probabilità prossimo alla certezza.
Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25675 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito del giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi agli esami ematologici può essere liberamente valutato dal giudice, secondo quanto disposto dall’art. 116, comma 2, c.p.c., anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra le parti, non derivando da ciò né una restrizione della liberà personale del preteso padre, che conserva piena facoltà di determinazione in ordine all’assoggettamento o meno ai prelievi, né una violazione del diritto alla riservatezza, atteso che l’uso dei dati è rivolto solo a fini di giustizia, mentre il sanitario, chiamato a compiere l’accertamento, è tenuto al segreto professionale ed al rispetto della disciplina in materia di protezione dei dati personali.
Cass. civ. Sez. I, 1 dicembre 2015, n. 24444 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame del dna ai fini dell’accertamento della paternità non può essere qualificato come una presunzione desunta da una circostanza di fatto avente valore presuntivo, ma come uno elemento fattuale incidente sulla decisione finale, al pari di altre circostanze (quali, nella fattispecie, la crema¬zione del presunto padre, la sussistenza di una relazione sentimentale e sessuale compatibile con l’epoca del concepimento e della cura della minore da parte del defunto ecc.). Del resto, la valutazione di tali elementi effettuata dal giudice di merito risulta insindacabile da parte del giudice di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23296 (Giur. It., 2016, 5, 1117 nota di RONCO)
Nell’ambito del giudizio per la dichiarazione della paternità, l’accoglimento della domanda può fondarsi, in fatto, anche soltanto sul rifiuto del presunto padre di sottoporsi alle indagini ematiche volte ad accertare le sue carat¬teristiche genetiche e la loro relazione con quelle del presunto figlio.
Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23290 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, la consulenza tecnica ematologica è uno strumento istruttorio officioso rivolto verso l’unica indagine decisiva in ordine all’accertamento della verità del rapporto di filiazione e, pertanto, la sua richiesta, da un lato, non può essere ritenuta esplorativa, intendendosi come tale l’istanza rivolta a supplire le deficienze allegative ed istruttorie di parte, così da aggirare il regime dell’onere della prova sul piano sostanziale o i tempi di formulazione delle richieste istruttorie sul piano processuale, e, dall’altro, non essendo soggetta al regime processuale delle istanze di parte, non può essere oggetto di rinuncia, anche implicita.
Cass. civ. Sez. I, 2 ottobre 2015, n. 19734 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 262, comma 2, c.c., prospettando in termini di mera eventualità l’assunzione del cognome paterno in caso di riconoscimento o accertamento della filiazione nei confronti del padre successivamente al riconoscimento da parte della madre, esclude la configurabilità di tale vicenda come effetto automatico del riconoscimento o della dichiarazione giudiziale di paternità, riconoscendo al figlio nato fuori del matrimonio una facoltà discrezionale, cui corrisponde una situazione di soggezione al genitore.
In caso di dichiarazione giudiziale di paternità, l’assunzione del cognome paterno da parte del figlio maggiorenne non è configurabile quale pronuncia accessoria da rendere d’ufficio ma, in quanto espressione di un diritto po¬testativo del figlio, richiede una apposita domanda da formularsi nell’atto di citazione o comunque nel termine ultimo di cui all’art. 183, comma 5, c.p.c. (nel testo applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modifiche intro¬dotte con il d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. dalla l. n. 80 del 2005).
Cass. civ. Sez. VI – 1, 4 settembre 2015, n. 17664 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nelle cause relative allo stato delle persone (nella specie, accertamento giudiziale della paternità), la mancata trasmissione degli atti al P.M., il cui intervento è obbligatorio ai sensi dell’art. 70, n. 3, c.p.c., dà luogo a nullità della sentenza che, se resa nel giudizio di appello, va cassata con rinvio alla corte d’appello affinché, previo coinvolgimento del P.G., proceda alla trattazione e decisione della causa.
Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2015, n. 12312 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dichiarazione giudiziale di paternità naturale non può trovare esclusivo fondamento probatorio sull’ingiusti¬ficato rifiuto del presunto genitore di sottoporsi al prelievo biologico necessario all’espletamento del disposto esame ematologico, qualora, prima della pronuncia della sentenza recante il predetto accertamento, gli eredi del presunto genitore, deceduto nelle more del giudizio, abbiano manifestato la loro disponibilità a sottoporsi agli esami, genetici ed ematologici, necessari all’accertamento della dedotta paternità ed abbiano, altresì, dichiarato la loro non opposizione allo svolgimento di esami anche attraverso prelievo di materiale generico dal corpo del loro ascendente deceduto. La valorizzazione del rifiuto a sottoporsi ad un accertamento peritale di così pene¬trante rilevanza presuppone, invero, che il rifiuto sia effettivo e persistente al momento della decisione da parte del giudice di merito e che una revoca di tale rifiuto non possa essere soggetta a preclusioni che attengono alla deduzione ed all’acquisizione dei mezzi di prova; la valorizzazione del predetto rifiuto, pertanto, non è giustifi¬cata nell’ipotesi in cui gli eredi del presunto genitore abbiano manifestato la loro disponibilità nei termini di cui innanzi, non essendo ad essi opponibile un comportamento processuale pregresso che trova le sue ragioni in motivazioni strettamente personali e, come tali, non estensibili all’erede.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11874 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, la prova della fondatezza della doman¬da può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti, da valutarsi globalmente, tenendo conto delle dichiarazioni della madre naturale e della portata delle difese del convenuto.
Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 3079 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 della Costituzione – oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento – un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.
Cass. civ. Sez. VI, 20 gennaio 2015, n. 798 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato la sospensione del giudizio pregiudicato può essere disposto soltanto ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., sicché ove il giudice abbia provveduto ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., il relativo provvedimento, a prescindere da ogni accertamento circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità, è illegittimo e va annullato, ferma restando la possibilità, da parte del giudice di merito dinanzi al quale il giudizio andrà riassunto, di un nuovo e motivato provvedimento di sospensione ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ. (In applicazione del detto principio, la S.C. ha accolto il ricorso proposto avverso l’ordinanza di sospensione, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., del giudizio introdotto dall’INAIL in surroga, nei confronti dei responsabili dell’infortunio sul lavoro occorso al lavoratore, pendendo in appello il giudizio tra i danneggiati e i responsabili del sinistro stradale.
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2014, n. 26062 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di filiazione naturale, l’attribuzione del cognome del genitore che effettua il secondo riconoscimento, anche in aggiunta al cognome del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento del figlio, costituisce facoltà e non anche necessità. In ipotesi siffatte l’esigenza preminente è quella di garantire l’interesse del figlio a conservare il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale in una determinata comunità. L’organo giurisdizionale, pertanto, deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto sino al momento del riconoscimento del secondo genitore (specificamente il padre), ed è chiamato ad emettere un provvedimento contrassegnato da ampio mar¬gine di discrezionalità e frutto di libero e prudente apprezzamento, nell’ambito del quale assume rilievo centrale l’interesse del minore ad essere identificato nel contesto delle relazioni sociali in cui si trova inserito. Tale sta¬tuizione, proprio in quanto connotata da ampia discrezionalità, è incensurabile in Cassazione se adeguatamente motivata (come nella specie).
Cass. civ. Sez. VI, 9 dicembre 2014, n. 25861 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pendenza di una lite sulla validità dell’accordo giustificativo della separazione consensuale tra coniugi pregiu¬dica, in senso tecnico giuridico, l’esito del giudizio, contemporaneamente pendente, di cessazione degli effetti civili del loro matrimonio, e ne comporta la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ., perché l’eventuale annul¬lamento di quell’accordo determinerebbe il venir meno, con effetto “ex tunc”, di un presupposto indispensabile della pronuncia di divorzio.
È configurabile la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. del giudizio di cessazione degli effetti civili del ma-trimonio che penda contemporaneamente a quello riguardante l’annullamento della separazione consensuale omologata tra gli stessi coniugi.
Cass. civ. Sez. VI, 12 novembre 2014, n. 24046 (Giur. It., 2015, 6, 1395 nota di BERTILLO)
L’ordinanza con la quale viene disposta la sospensione discrezionale del processo ai sensi dell’art. 337, cpv., c.p.c. deve anche indicare le ragioni per le quali il giudice non intenda riconoscere l’autoritaè della prima sen¬tenza, giaè intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condivide il merito e le ragioni giustificatrici.
Ai fini del legittimo esercizio del potere di sospensione discrezionale del processo, previsto dall’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., è indispensabile un’espressa valutazione di plausibile controvertibilità della decisione di cui venga invocata l’autorità in quel processo, sulla base di un confronto tra la decisione stessa e la critica che ne è stata fatta. Ne consegue che la sospensione discrezionale in parola è ammessa ove il giudice del secondo giudizio motivi esplicitamente le ragioni per le quali non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condivide il merito o le ragioni giustificatrici.
Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2014, n. 19790 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità, l’art. 276 c.c., come novellato dall’art. 1, 5° comma, L. 10 dicembre 2012, n. 219, che prevede, qualora sia deceduto il preteso genitore e manchino, o siano a loro volta deceduti i suoi eredi, la legittimazione passiva di un curatore speciale, si applica anche ai giudizi pendenti alla sua entrata in vigore (nella specie, la Suprema corte ha cassato la sentenza di merito che, in applicazione del testo originario dell’art. 276 c.c., mancando legittimati passivi, aveva disatteso la domanda, benché gli attori avessero tempestivamente ma inutilmente chiesto la nomina di un curatore speciale, e ha pertanto dichiarato nullo il procedimento, rimettendo la causa al giudice di primo grado per la nomina di tale curatore, fermo il diritto di intervento degli eredi degli eredi del preteso genitore).
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di filiazione naturale, il diritto al rimborso delle spese a favore del genitore che ha provveduto al man¬tenimento del figlio fin dalla nascita, ancorché trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all’altro genitore, ha natura in senso lato indennitaria, in quanto diretto ad indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, degli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole. Ne consegue che il giudice di merito, ove l’importo non sia altrimenti quantificabile nel suo preciso ammontare, legittimamente provvede, per le somme dovute dalla nascita fino alla pronuncia, secondo equità trattandosi di criterio di valutazione del pregiudizio di portata generale, fermo restando che, essendo la richiesta di indennizzo assimilabile ad un’azione di ripetizione dell’indebito, gli interessi, in assenza di un precedente atto stragiudiziale di costituzione in mora, decorrono dalla data della domanda giudiziale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 24 giugno 2014, n. 14274 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 295 c.p.c., la cui ragione fondante è quella di evitare il rischio di un conflitto tra giudicati, fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico – giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione neces¬saria del processo non è configurabile nell’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello sul “quantum”, fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico, essendo in tal caso applicabile l’art. 337, secondo comma, c.p.c., il quale, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa di tale processo.
Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 2014, n. 11211 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di accertamento della paternità naturale, mentre la condanna al rimborso della quota del genitore che, prima della pronuncia, abbia provveduto integralmente al mantenimento della prole, presuppone la domanda di parte, non è necessaria alcuna specifica richiesta in ordine ai provvedimenti relativi al mantenimento del minore per il periodo successivo alla proposizione dell’azione, in relazione ai quali il giudice è dotato di poteri ufficiosi.
Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2014, n. 10783 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di morte del preteso genitore, legittimati passivi all’azione di dichiarazione giudiziale di paternità sono esclusivamente i suoi eredi, e non anche gli eredi degli eredi, ai quali, in quanto portatori di un interesse con¬trario all’accoglimento della domanda, è riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio. Tale soluzione risponde ad una interpretazione, letterale e sistematica, dell’art. 276 cod. civ., che, nel prevedere che l’azione “deve” essere proposta nei confronti degli eredi diretti ed immediati del preteso genitore defunto, ne esclude, implicitamente, la possibilità di altri (ai quali, diversamente, resterebbe preclusa la possibilità di intervenire) e trova conferma nella nuova formulazione della norma, che contempla, in mancanza di eredi, la possibilità di agire nei confronti di un curatore nominato dal giudice.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di mantenimento del figlio naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente azionabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, che conseguentemente costituisce il “dies a quo” della decor¬renza della ordinaria prescrizione decennale.
Cass. civ. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 6207 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato – salvo nel caso in cui la sospensio¬ne sia imposta da una disposizione specifica fino al passaggio in giudicato – soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., come si trae dall’interpretazione sistematica della disciplina del processo, in cui un ruolo decisivo rive¬ste l’art. 282 cod. proc. civ. e il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, giustificando sia l’esecuzione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado. (Nella specie, la S.C. ha cassato l’ordinanza di sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. emesso dal tribunale affermando che la pendenza in appello di un giudizio in cui era stata accolta, in primo gra¬do, la domanda di una società volta all’accertamento della validità dell’acquisto di un complesso immobiliare non era necessariamente pregiudiziale al procedimento introdotto in primo grado dalla medesima società e volto a far valere l’acquisto immobiliare per usucapione abbreviata per effetto dell’immissione in possesso conseguente all’aggiudicazione, potendo tale secondo procedimento essere sospeso solo ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., ove il giudice avesse inteso riconoscere l’autorità della prima decisione).
Trib. Roma Sez. I, 21 febbraio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di disconoscimento della paternità, le prove genetiche sono prove in senso proprio, in considerazione del fatto che l’attuale livello della ricerca e della esperienza scientifica consente di esprimere, grazie ad esse, suf¬ficienti garanzie circa il decisivo contributo di esse nell’attribuzione della paternità di un soggetto, conseguendo risultati dotati di un alto grado di probabilità prossimo alla certezza.
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli (artt. 147 e 148 cod. civ.) è eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così de¬terminandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presupposto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consa¬pevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento.
Cass. civ. Sez. VI, 27 giugno 2013, n. 16271 (Pluris,Wolters Kluwer Italia)
La scelta del Giudice nell’attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, non può essere condizionata né dal favor per il patronimico, né dalla esigenza di equiparare il risul¬tato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate nell’articolo 262 del co¬dice civile, che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio legittimo, poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongo¬no in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello è legittimato a proporre impugnazione, ex art. 95 del DPR n. 396 del 2000, avverso il decreto, emesso dai medesimi Giudici, di annullamento del provvedimento per mezzo del quale sia stata disposta l’aggiunta, al cognome materno, di quello del padre del minore che abbia successi¬vamente effettuato il riconoscimento dello stesso, versandosi in materia di rettificazione di atti dello Stato Civile.
Trib. Milano, 26 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di azione ex art. 269 c.c., la competenza si radica nel luogo di residenza del convenuto (Cass. Civ. 1373/1992, Sez. Un.; Cass. Civ., 11021/1997: precedenti che si richiamano ex art. 118 disp. att. c.p.c.), non rintracciandosi, peraltro, nel codice di rito, un foro del “concepimento” e nemmeno potendosi ritenere preva¬lente la tutela del minore, in quanto la causa ha ad oggetto la paternità biologica che, se accertata, legittima le domande nell’ interesse della prole, per le quali, sì, opera il foro di residenza del minore (es. 317-bis c.c., 38 disp.att.c.p.c.).
Cass. pen. Sez. II, 5 febbraio 2013, n. 8434 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche con¬fermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen.; pe¬raltro, nei casi in cui l’indagine genetica non dia risultati assolutamente certi, ai suoi esiti può essere attribuita valenza indiziaria.
Trib. Sulmona, 26 novembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le domande a contenuto economico correlate alla domanda di dichiarazione giudiziale di paternità naturale pos¬sono essere svolte e decise in un unico processo, fermo restando che il credito derivante dall’accoglimento delle prime potrebbe essere azionato soltanto all’esito del passaggio in giudicato del capo relativo all’accertamento dello status di figlio.
Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2012, n. 15158 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito alla dichiarazione giudiziale di paternità, può ravvisarsi la contrarietà all’interesse del minore solo nell’ipotesi di concreto accertamento di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale, ovvero di una prova della sussistenza di gravi rischi per l’equilibrio affet¬tivo e psicologico del minore e per la sua collocazione sociale. Orbene, siffatti rischi devono emergere da fatti obiettivi, desunti dalla pregressa condotta di vita del preteso padre. Di talché, in assenza di essi, l’interesse del minore va, di norma, considerato sussistente, a prescindere dai rapporti di affetto che possano concretamente instaurarsi con il presunto genitore e dalla disponibilità di quest’ultimo ad instauraarli, avendo riguardo al miglio¬ramento obiettivo della sua situazione in relazione agli obblighi giuridici che ne derivano per il presunto padre.
Tribunale, Reggio Emilia, 6 settembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza con natura dichiarativa oppure costitutiva (e non di condanna) è provvisoriamente esecutiva sola¬mente con riferimento al capo che concerne le spese di lite.
Gli effetti dichiarativi e costitutivi, invece, diventano esecutivi (solamente) con il passaggio in giudicato della stessa sentenza.
Trib. Napoli Sez. I, 18 settembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio riconosciuto da entrambi i genitori, per effetto della sentenza dichia¬rativa della filiazione naturale, collegandosi allo status genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che il genitore, che nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del mi¬nore anche per la quota di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla base delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 c.c., da interpretarsi tuttavia alla luce del regime delle obbligazioni solidali sancito dall’art. 1229 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2012, n. 12198 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, nell’ipotesi di maggior età di colui che richiede l’ac¬certamento non può configurarsi un interesse principale ad agire della madre naturale ai sensi dell’art. 276, ulti¬mo comma, cod. civ., non essendo in tale evenienza ravvisabile un obbligo legale di assistenza o mantenimento nei confronti del figlio, potendo peraltro essa svolgere un intervento adesivo dipendente, allorchè sia ravvisabile un suo interesse di fatto tutelabile in giudizio. In ogni caso, alla stregua della disciplina normativa della legit¬timazione ad agire in tale giudizio, contenuta nell’art. 276 cod. civ., correlata all’interpretazione dell’art. 269, secondo e quarto comma, cod. civ., le dichiarazioni della madre naturale assumono un rilievo probatorio integra¬tivo ex art. 116 cod. proc. civ., quale elemento di fatto di cui non si può omettere l’apprezzamento ai fini della decisione, indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale posizione di terzietà della dichiarante, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 246 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 (Famiglia e Diritto, 2013, 5, 450 nota di VANZ)
Salvi soltanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato, quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., come si trae dall’interpretazione sistematica della disciplina del processo, in cui un ruolo decisivo riveste l’art. 282 cod. proc. civ.: il diritto pronunciato dal giudice di primo grado, invero, qualifica la posi¬zione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, giustificando sia l’esecuzione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado. Pertanto, allorché penda, in grado di appello, sia il giudizio in cui è stata pronunciata una sentenza su causa di riconoscimento di paternità naturale e che l’abbia dichiarata, sia il giudizio che su tale base abbia accolto la domanda di petizione di eredità, ed entrambe le sentenze siano state impugnate, il secondo giudizio non deve di necessità essere sospeso, in attesa che nel primo si formi la cosa giu¬dicata sulla dichiarazione di paternità naturale, ma può esserlo, ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., se il giudice del secondo giudizio non intenda riconoscere l’autorità dell’altra decisione. Non ostano, a tale conclusione, le disposizioni degli artt. 573 e 715 cod. civ., non essendo in questione il momento dal quale si producono gli effetti della dichiarazione di filiazione naturale, ma il potere del giudice, cui la seconda domanda sia proposta, di co¬noscerne sulla base della filiazione naturale già riconosciuta con sentenza, pur non ancora passata in giudicato.
Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5653 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 2 e 29 Cost., – dell’art. 244 c.c. nella parte in cui prevede un termine decadenziale per la proposizione dell’azione di discono¬scimento della paternità, in quanto è del tutto coerente con i principi costituzionali la possibilità che il legislatore ordinario preveda limitazioni nei confronti di detta azione, con riferimento sia ai casi in cui l’azione può essere esercitata, sia ai tempi della medesima. Il termine annuale decorre dalla data di acquisizione della conoscenza dell’adulterio della moglie, e non già da quella di raggiunta certezza negativa della paternità biologica, giacché la diversa tesi che differisce a tempo indeterminato l’azione di disconoscimento, facendone decorrere il termine di proponibilità dall’esito dei risultati di un’indagine (stragiudiziale) cui non è dato a priori sapere se e quando i genitori possano addivenire, sacrifica in misura irragionevole i valori di certezza e stabilità degli status e dei rapporti familiari, a garanzia dei quali la norma è viceversa predisposta. Stante la natura decadenziale del ter¬mine in argomento, afferendo esso a materia sottratta alla disponibilità delle parti, a norma dell’art. 2969 c.c. il giudice deve accertarne ex officio il rispetto, dovendo l’attore fornire la prova che l’azione sia stata proposta entro il termine previsto, sia in relazione al significato del termine “scoperta” dell’adulterio, che va inteso nel senso dell’acquisizione certa della conoscenza, e non come mero sospetto di un fatto (non potendo pertanto al riguardo valorizzarsi la mera infatuazione o la mera relazione sentimentale o la mera frequentazione della mo¬glie con un altro uomo) rappresentato o da una vera e propria relazione, o da un incontro, comunque sessuale, idoneo a determinare il concepimento del figlio che si vuole disconoscere.
Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, anche nell’ipotesi in cui la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza. Ciò in virtù del fatto che la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento e, quindi, in base all’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri tipici della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento di cui all’art. 148 c.c., ricollegandosi tale obbligazioni allo status genitoriale ed assumendo, di conseguenza, effi¬cacia retroattiva. Al riguardo, si precisa come l’obbligo di mantenimento dei figli sussiste per il solo fatto di averli generati, prescindendo da qualsiasi domanda in tal senso, con la conseguenza che, laddove al momento della nascita il figlio sia stato riconosciuto da uno solo dei genitori, l’altro è comunque obbligato al mantenimento per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale.
Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3935 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ interesse umano e affettivo del minore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità non va più valu¬tato dal Tribunale qualora il minore abbia raggiunto i sedici anni, essendo in tale caso la valutazione di detto interesse rimessa allo stesso minore, attraverso la diretta manifestazione di consenso all’azione. A maggior ragione, nel caso in cui l’interessato abbia raggiunto la maggior età nel corso del giudizio e intervenga personal¬mente nel processo, deve ritenersi superata la necessità del consenso.
Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 2011, n. 27090 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ancorché la pronuncia non contenga una condanna nel merito della domanda la statuizione in materia di con¬danna alle spese fruisce dell’efficacia esecutiva di cui al codice di rito.
App. Bologna Sez. minori, 5 dicembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio, per effetto della sentenza dichiarativa della filiazione naturale, colle¬gandosi allo status genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio. Ne consegue che il genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del minore anche per la porzione di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 c.c. da interpretarsi alla luce del regime delle obbligazioni solidali stabilito nell’art. 1229 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19603 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A norma del primo comma dell’art. 276 cod. civ., legittimato passivo nel giudizio per l’accertamento della pa¬ternità naturale è il presunto genitore, ovvero, in caso di mancanza di questo, i suoi eredi. Da ciò consegue che la posizione di altri soggetti, portatori di interessi, patrimoniali e non patrimoniali, contrari all’accertamento della filiazione, quali il coniuge ed i figli legittimi del presunto genitore, resta regolata dal secondo comma del richiamato art. 276 cod. civ., che attribuisce loro la legittimazione a contraddire alla domanda intervenendo nel processo, ma non anche quella ad essere citati in giudizio come contraddittori necessari, senza che ciò comporti contrasto con i precetti di cui agli artt. 3, 29 e 30 Cost..
Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’anticipazione in via provvisoria , ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenu¬te in sentenze costitutive, non è consentita, essendo necessario il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso); è invece consentita quando la statuizione condannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento tem¬porale successivo del passaggio in giudicato (come nel caso di specie riguardante la condanna di un istituto di credito alla restituzione delle somme di denaro ricevute da un istituto di credito a seguito di atti solutori dichiarati inefficaci ai sensi dell’art. 67 legge fall.).
Cass. civ. Sez. I, 23 aprile 2010, n. 9727 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 269 codice civile nella sua attuale formulazione, non pone alcun limite in ordine ai mezzi attraverso i quali può essere dimostrata la paternità naturale. Sicché il giudice di merito, dotato di ampio potere discrezionale al riguardo, può legittimamente fondare il proprio convincimento sulla effettiva sussistenza di un rapporto di filiazione anche su risultanze istruttorie dotate di valore puramente indiziario, quale il rifiuto ingiustificato di sot¬toporsi ad indagini ematologiche, che costituisce comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116 2° co., c.p.c., anche in assenza di prova specifica di rapporti sessuali tra le parti.
Corte cost. 29 ottobre 2009, n. 278 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 276, primo comma, c.c., cen¬surato, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede, nel caso di morte sia del genitore sia degli eredi diretti di questi, la possibilità, per colui che voglia far accertare la propria paternità o maternità naturale, di agire nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice oppure nei confronti degli eredi degli eredi del presunto genitore. Invero, da un lato, la pronuncia additiva richiesta non è costituzionalmente obbliga¬ta, rientrando nella discrezionalità del legislatore ordinario la scelta tra l’una o l’altra delle soluzioni prospettate dal giudice a quo; dall’altro, la questione è formulata in forma ancipite.
Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2010, n. 22506 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio riconosciuto da entrambi i genitori, per effetto della sentenza dichiara¬tiva della filiazione naturale, collegandosi allo “status” genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che il genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del minore anche per la porzione di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 del cod. civ. da interpretarsi però alla luce del regime delle obbligazioni solidali stabilito nell’art. 1299 cod. civ. Pertanto, il “quantum” dovuto in restituzione nel periodo di mantenimento esclusivo non può essere determinato sulla base dell’importo stabilito per il futuro nella pronuncia relativa al riconoscimento del figlio naturale, via via devalutato, in quanto l’ammontare dovuto trova limite negli esborsi presumibilmente sostenuti in concreto dal genitore che ha per intero sostenuto la spesa senza però pre¬scindere né dalla considerazione del complesso delle specifiche e molteplici esigenze effettivamente soddisfatte o notoriamente da soddisfare nel periodo in considerazione né dalla valorizzazione delle sostanze e dei redditi di cia¬scun genitore quali all’epoca goduti ed evidenziati, eventualmente in via presuntiva, dalle risultanze processuali, né infine dalla correlazione con il tenore di vita di cui il figlio ha diritto di fruire, da rapportare a quello dei suoi genitori.
Cass. civ. Sez. Unite, 7 ottobre 2010, n. 20773 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento disciplinare a carico degli avvocati, quanto all’aspetto procedurale, è disciplinato dalle norme dettate in materia dalla legge professionale in relazione ad ogni singolo istituto, nonché, in mancanza dalle nor¬me del codice di procedura civile. Le norme processuali penali, al contrario, possono trovare applicazione nelle sole ipotesi in cui la legge professionale ad esse faccia espresso rinvio, ovvero si renda necessario procedere all’applicazione di istituti che ivi trovano esclusiva regolamentazione. Ciò rilevato, quanto alla necessarietà o meno della partecipazione del Pubblico Ministero al menzionato procedimento disciplinare, non ravvisandosi nella normativa speciale alcuna espressa indicazione di segno diverso, deve concludersi per l’applicabilità della disciplina dettata dalle norme processuali civili, secondo cui la regolarità del procedimento è assicurata dal mero fatto che il Pubblico Ministero sia stato posto in condizioni di parteciparvi, seppur abbia concretamente scelto, come nella fattispecie concreta, di rimanere assente.
Cass. civ. Sez. I, 19 aprile 2010, n. 9300 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità, la contrarietà all’interesse del minore può sussistere solo in caso di concreto accertamento di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale, ovvero di prova dell’esistenza di gravi rischi per l’equilibrio affettivo e psicologico del minore e per la sua collocazione sociale. Tali rischi devono risultare da fatti obbiettivi, emergenti dalla pregressa condotta di vita del preteso padre, ed in mancanza di essi l’ interesse del minore va ritenuto di regola sussi¬stente, a prescindere dai rapporti di affetto che possano in concreto instaurarsi con il presunto genitore e dalla disponibilità di questo ad instaurarli, avendo riguardo al miglioramento obiettivo della sua situazione in relazione agli obblighi giuridici che ne derivano per il preteso padre; nè l’ interesse del minore può, di regola, essere escluso dalle normali difficoltà di adattamento psicologico al nuovo “status”, essendo queste normalmente con¬nesse al riconoscimento da parte del genitore naturale, ovvero alla dichiarazione di paternità naturale, quando intervengano a distanza di tempo dalla nascita del minore . E nemmeno detto interesse è escluso dall’assenza di “affectio” da parte del presunto padre nè dalla dichiarazione di costui, convenuto con l’azione di dichiarazione giudiziale ex art. 269 c.c., di non voler comunque adempiere i doveri morali inerenti alla potestà genitoriale.
Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di preliminare di compravendita e di pronuncia ex art. 2932 c.c. l’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretroattività della sentenza che determina l’effetto sostitutivo del contratto definitivo. La sentenza di primo grado di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. non può pertanto produrre, prima del passaggio in giudicato, gli effetti del contratto definitivo con la conseguente impossibilità di scissione, nelle sentenze ex art. 2932 c.c. in tema di contratto preliminare di compravendita, tra capi costitutivi principali e capi di condanna consequenziali, con riferimento specifico a quelli cosiddetti sinallagmatici le cui relative statuizioni fanno parte.
Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, com¬ma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità).
Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella determinazione del contributo previsto dall’art. 277, secondo comma, cod. civ. per il mantenimento del figlio minore nato fuori del matrimonio, a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il giudice, ai sensi dell’art. 155 cod. civ., applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati in virtù del rinvio contenuto nell’art. 4 della legge n. 54 del 2006, deve tener conto non solo delle esigenze attuali del figlio, ma anche del tenore di vita goduto dallo stesso nel corso della convivenza con entrambi i genitori, nonché delle risorse economiche di questi, in modo da realizzare il principio generale di cui all’art. 148 cod. civ., secondo cui i genitori devono concorrere al mantenimento dei figli in proporzione delle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.
Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 2009, n. 8250 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza che dispone l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce i propri effetti solo dal momento del passaggio in giudicato; ne consegue che, quando detta sentenza abbia subordinato l’effetto traslativo al pagamento del residuo prezzo, l’obbligo di pagamento in capo al promissario acquirente non diventa attuale prima dell’irretrattabilità della pronuncia giudiziale, essendo tale pagamento la prestazione corrispettiva destinata ad attuare il sinallagma contrattuale.
Corte cost. 20 marzo 2009, n. 80 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell›art. 276, primo comma, c.c., censurato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 30 Cost., nella parte in cui non prevede, nel caso di morte sia del genitore sia degli eredi di questo, la possibilità, per colui che voglia far accertare la propria paternità o maternità naturale, di agire comunque nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice oppure nei confronti degli eredi degli eredi del presunto genitore. Invero, da un lato, la pronuncia richiesta non è costituzionalmente obbligata, ma rientra nella discrezionalità del legislatore ordinario, dall›altro, la questione è formulata in forma ancipite.
Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, com¬ma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità).
Corte cost. 20 novembre 2008, n. 379 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
questione di legittimità costituzionale dell’art. 276, comma 1, c.c., nella parte in cui non prevede, nel caso di morte del genitore e degli eredi diretti di questo, la possibilità, per colui che voglia far accertare la propria pa¬ternità o maternità naturale, di agire comunque nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost..
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2008, n. 3708 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di interdizione o di inabilitazione, la mancata partecipazione del pubblico ministero all’esame perso¬nale dell’interdicendo o dell’inabilitando non determina la nullità della sentenza, una volta che siano state osser¬vate le norme volte a consentire la sua partecipazione al processo (norme che lasciano al pubblico ministero di modulare discrezionalmente il proprio intervento).
Corte cost. 21 dicembre 2007, n. 450 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 276 c.c., censurato, in riferi¬mento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede la possibilità della nomina di un curatore speciale nei cui confronti promuovere l’azione di riconoscimento di paternità o maternità naturale in caso di premorienza sia del presunto genitore sia dei suoi eredi, dal momento che il giudice rimettente omette di descrivere la fatti¬specie sottoposta al suo esame, venendo così meno all’obbligo di rendere esplicite le ragioni che lo inducono a sollevare la questione di costituzionalità con una motivazione autosufficiente, tale da permettere la verifica della valutazione sulla rilevanza nel giudizio a quo.
Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 563 nota di RUSSO)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale dichiara ed attribuisce uno status che conferisce al figlio naturale i diritti che competono al figlio legittimo con efficacia retroattiva, sin dal momento della nascita, con la conseguenza che dalla stessa data decorre anche l’obbligo di rimborsare pro quota l’altro genitore che abbia inte¬gralmente provveduto al mantenimento del figlio; peraltro, la condanna al rimborso di detta quota, per il periodo precedente la proposizione dell’azione, non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronunzia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali in relazione a diritti disponibili.
Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24409 (Famiglia e Diritto, 2008, 12, 1133 nota di MISEFARI)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento ai sensi dell’art. 277 c.c. e quindi implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento.
Trib. Trani, 27 settembre 2007 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 564 nota di RUSSO)
La domanda di risarcimento del danno esistenziale conseguente al mancato riconoscimento del figlio naturale va rigettata ove sfornita di prova, in quanto, premesso che la legge non prevede l’obbligatorietà del riconoscimento del figlio naturale, il figlio ha l’onere di provare che, benché alla soddisfazione dei suoi bisogni avesse provve¬duto la sola madre, quest’ultima non è riuscita a garantirgli un diverso tenore di vita, che altrimenti sarebbe stato raggiunto attraverso la regolare corresponsione dell’assegno di mantenimento da parte del padre. D’altra parte – anche in considerazione dell’elevato lasso di tempo fatto decorrere dal diretto interessato per la richiesta di risarcimento del danno derivante dal mancato riconoscimento e mantenimento (ventiquattro anni) – non può affatto presumersi che la prova del danno esistenziale sia “in re ipsa”, ovvero che derivi, automaticamente, dal solo mancato riconoscimento. Infatti, non può essere risarcito un danno che prescinda completamente dalla prospettazione e dimostrazione di una qualche conseguenza negativa in capo alla vittima, in quanto disancorare il risarcimento del danno dall’accertamento dell’esistenza di un qualche riflesso negativo, di carattere personale e patrimoniale nella sfera del soggetto leso, significa costruire una categoria di danno “automatico”, direttamen¬te innescato da un fatto illecito senza che vi sia dimostrazione alcuna della modificazione, “in peius”, della vita della vittima.
Cass. civ. Sez. III, 3 settembre 2007, n. 18512 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 282 c.p.c., nel conferire la provvisoria esecutorietà alla sentenza di primo grado, si riferisce alle statuizioni condannatorie della sentenza, sia che essa abbia a presupposto un’azione di condanna, sia che essa abbia a presupposto un’azione costitutiva, sicché la sentenza di primo grado può comunque venire utilizzata come titolo esecutivo.
Nel caso di pronuncia della sentenza costitutiva ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., le statuizioni di condanna con¬sequenziali, dispositive dell’adempimento delle prestazioni a carico delle parti fra le quali la sentenza determina la conclusione del contratto, sono da ritenere immediatamente esecutive ai sensi dell’art. 282 cod. proc. civ., di modo che, qualora l’azione ai sensi dell’art. 2932 c.c. sia stata proposta dal promittente venditore, la statuizione di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo è da considerare immediatamente esecutiva.
Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2007, n. 16752 (Famiglia e Diritto, 2008, 3, 251 nota di VALENTE)
Nel giudizio diretto ad ottenere la dichiarazione giudiziale della paternità naturale, una volta che il giudice del merito abbia deciso di fare ricorso a prove ematologiche o genetiche, per confermare gli elementi acquisiti attra¬verso l’ordinario sistema probatorio, l’ingiustificato rifiuto del preteso padre a sottoporsi alla prova biologica può valutarsi come elemento di convincimento in ordine alla richiesta di dichiarare che lo stesso è padre del minore.
Corte cost. 20 luglio 2007, n. 319 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 276, primo comma, c.c., nella parte in cui non prevede la possibilità della nomina di un curatore speciale nei cui confronti promuovere l’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità naturale in caso di premorienza sia dei presunti padre o madre sia degli eredi, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., in presenza di una sentenza, emes¬sa fra le stesse parti e passata in giudicato, che ha già dichiarato l’inammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità per carenza di legittimazione passiva dei soggetti convenuti, e ha individuato i legittimati passivi dell’azione di cui all’art. 269 c.c. nel presunto genitore o, in mancanza di lui, nei suoi eredi diretti, poi¬ché, non avendo il giudice rimettente motivato in ordine alla persistenza del proprio potere decisorio, né circa l’applicabilità alla fattispecie dell’eventuale auspicata pronuncia di incostituzionalità, tali omissioni si risolvono in carenza di motivazione sulla rilevanza.
Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando la legge prevede un potere del giudice, il cui esercizio si deve concretare nell’adozione di un provvedi¬mento avente la forma dell’ordinanza ed un determinato contenuto, l’adozione del provvedimento con quel con¬tenuto e con l’espressa indicazione della sua pronuncia, ai sensi della norma che prevede il potere di emissione del provvedimento, comporta che, nel giudizio di impugnazione che sia previsto in ordine al provvedimento, il giudice dell’impugnazione debba scrutinare il provvedimento considerandolo pronunciato in forza dell’esercizio del potere previsto dalla norma indicata nel provvedimento, restando preclusa la possibilità di qualificarlo come provvedimento che avrebbe potuto o dovuto essere pronunciato ai sensi di altra norma, che pure preveda un potere di emissione di un provvedimento di analogo contenuto, ma basato su presupposti e ragioni diverse, salvo il caso in cui proprio queste ultime siano espressamente esplicitate nel provvedimento sì da indurre a far ritenere che, al di là della formale invocazione di una norma, in realtà il giudice abbia in concreto esercitato il potere previsto dall’altra (Principio enunciato dalla S.C. in sede di regolamento di competenza avverso pronuncia di sospensione del processo adottata ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., che il ricorrente pretendeva fosse consi¬derata adottata ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ.).
Trib. L’Aquila, 6 giugno 2007 (Famiglia e Diritto, 2007, 10, 950)
La dichiarazione giudiziale di paternità produce gli effetti del riconoscimento e ciò determina, a carico del ge¬nitore, tutti i doveri derivanti dalla procreazione legittima, incluso quello del mantenimento del figlio, gravante in solido su entrambi i genitori a decorrere dal momento della nascita; di conseguenza, in base alla disciplina dell’obbligazione solidale, il genitore che abbia sostenuto il mantenimento del figlio fino alla dichiarazione di paternità ha diritto di regresso nei confronti dell’altro.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2007, n. 8355 (Famiglia e Diritto, 2007, 8-9, 959 nota di FRASSINETTI)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale, l’ultimo comma dell’art. 276 c.c., in base al quale alla domanda può contraddire “chiunque vi abbia interesse”, configura una forma di intervento principa¬le, ai sensi dell’art. 105, primo comma, c.p.c., e non meramente adesivo.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006 n. 23596 (Famiglia e Diritto, 2007, 11, 1007 nota di ORTORE)
Nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a prov¬vedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori. Da ciò consegue, per un verso, che il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla obbliga¬zione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita, e, per altro verso, che il genitore il quale ha provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio ha azione nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita. Tale azione non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale (atteso che soltanto per effetto della pronuncia si costituisce lo “status” di figlio naturale, sia pure con effetti retroagenti alla data della nascita), con la conseguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 cod. civ.. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispon¬dente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, in considerazione dello stato di incertezza che precede la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la con-seguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266 (Fam. Pers. Succ., 2007, 7, 628 nota di BEMBO)
È illegittimo l’art. 235, comma 2, codice civile, nella parte in cui subordina l’accesso alle prove ematologiche alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie.
Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2006, n. 6694 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio diretto ad ottenere una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giu¬dice ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., anche in assenza di prova di rapporti sessuali tra le parti, in quanto proprio la mancanza di prove oggettive assolutamente certe e ben difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti tra le stesse parti intercorsi e circa l’effettivo concepimento ad opera del preteso genitore naturale, se non consente di fondare la dichiarazione di paternità sulla sola dichiarazione della madre e sull’e¬sistenza di rapporti con il presunto padre all’epoca del concepimento (secondo l’espresso disposto dell’ultimo comma dell’art. 269 cod. civ.), non esclude che il giudice possa desumere, appunto, argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti, ed in particolare dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi agli accertamenti biologici, e possa persino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre.
Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50 (Fam. Pers. Succ. 2006, 5, 403)
L’intrinseca, manifesta irragionevolezza della norma (art. 3 Cost.) fa sì che il giudizio di ammissibilità ex art. 274 c.c. si risolva in un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost., e ciò, per giunta, in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica; da tale manifesta irragionevolezza discende anche la violazione del precetto (art. 111, 2° co., Cost.) sulla ragionevole durata del processo, gravato di un’autonoma fase, articolata in più gradi di giudizio, prodromica al giudizio di merito, e tuttavia priva di qualsiasi funzione. Nè può tacersi come l’evoluzione della tecnica consenta, ormai, di pervenire alla decisione di merito, in termini di pressoché assoluta certezza, in tempi estremamente concentrati. Da quanto precede deriva l’incostituzionalità dell’art. 274 c.c., relativamente ad ogni ipotesi di delibazione di ammissibilità dell’azione, per violazione degli artt. 3, 2° co., 24, e 111 Cost.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 (Famiglia e Diritto, 2006, 5, 504 nota di FIGONE)
Il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante a genitore naturale che ha allevato il figlio, può essere esercitato solo al momento della emissione della sentenza che accerta il vincolo di filiazione con l’altro genitore, con la conseguenza che tale momento segna il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Corte cost. 25 novembre 2005, n. 425 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell›articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983 n. 184 («Diritto del minore ad una famiglia»), nel testo modificato dall›articolo 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196 («Codice in materia di protezione di dati personali»), sollevata con riferimento agli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare l›adottato all›accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non essere nominata da parte della madre biologica.04, 1, 1053
Cass. civ. Sez. Unite, 3 novembre 2005, n. 21287 (Giur. It., 2007, 3, 622 nota di ANTONICA)
La domanda per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, in caso di morte del presunto genitore, va proposta solo nei confronti dei suoi eredi, quali legittimati passivi, mentre gli eredi degli eredi del presunto ge¬nitore, o altri soggetti, comunque portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, possono solo intervenire in giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100 (Foro It., 2006, 2, 1, 476)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 cod. civ.. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Peraltro, la condanna al rimborso di detta quota per il periodo precedente la proposizione dell’azione non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronunzia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali, ossia a diritti disponibili, e quindi non incidendo sull’interesse superiore del mino¬re, che soltanto legittima l’esercizio dei poteri officiosi attribuiti al giudice dall’art. 277, comma secondo, cod. civ. La necessità di analoga domanda non ricorre riguardo ai provvedimenti da adottare in relazione al periodo successivo alla proposizione dell’azione, atteso che, durante la pendenza del giudizio, resta fermo il potere del giudice adito, in forza della norma suindicata, di adottare di ufficio i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore. (In applicazione di detti principi, la S.C. ha confermato la decisione di merito la qua¬le aveva escluso, rigettando la contraria pretesa, che nell’esercizio dei poteri officiosi conferitigli dall’art. 277, comma secondo, cod. civ., il giudice potesse disporre per il periodo antecedente la proposizione del giudizio, in assenza di domanda dell’altro genitore, peraltro nella specie non proponibile non avendo la ricorrente agito in proprio, ma solo in nome e per conto del figlio minorenne).
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2005, n. 10131 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturale, il consenso del figlio che ha com¬piuto l’età di sedici anni, necessario (“ex” art. 273 c.c.) per promuovere o proseguire validamente l’azione, è configurabile come un requisito del diritto di azione, integratore della legittimazione ad agire del genitore, sosti¬tuto processuale del figlio minorenne. Detto consenso può sopravvenire in qualsiasi momento ed è necessario e sufficiente che sussista al momento della decisione; in mancanza, il giudice deve dichiarare, anche d’ufficio, l’improseguibilità del giudizio e non può pronunciare nel merito. Alla necessaria prestazione del consenso – che non può ritenersi validamente prestato dal sedicenne fuori dal processo, né può essere desunto da fatti e comportamenti estranei ad esso, come, ad esempio, dal mero fatto di “portare” il cognome del presunto padre naturale – non osta la circostanza che il figlio abbia raggiunto, nel corso del processo, la maggiore età, sempre che detto compimento non abbia prodotto l’interruzione del processo ai sensi dell’art. 300 c.p.c., rendendo così necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’”ex” minorenne.
Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 2005, n. 1619 (Corriere Giur., 2005, 9, 1229 nota di PETRILLO)
Non solo le sentenze di condanna ma anche quelle costitutive possono essere provvisoriamente esecutive in¬dipendentemente da una esplicita statuizione in tal senso del giudice se contengono una condanna implicita, desumibile anche dalla sola motivazione o dalla funzione stessa che il titolo è destinato a svolgere.
Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché l’articolo 295 del c.p.c., la cui ragione fondante è quella di evitare il rischio di un conflitto di giudicati, fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione necessaria del processo non può essere disposta nell’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello sul quantum, fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico, essendo in tal caso applicabile l’articolo 337, comma 2, del c.p.c., il quale, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa di tale processo, e che, a norma dell’articolo 336, comma 2, del c.p.c., la riforma o la cassazione della sentenza sull’”an debeatur” determina l’automatica caducazione della sentenza sul quantum anche se su quest’ultima si sia formato un giudicato apparente, con conseguente esclusione del conflitto di giudicati.
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13665 (Foro It., 2005, 1, 432)
In materia di accertamento giudiziale della paternità e della maternità, le indagini ematologiche e immunogene¬tiche, in quanto ormai affidabili, possono fornire elementi di valutazione sia per escludere che per affermare il rapporto biologico di paternità, non rilevando il carattere probabilistico delle risultanze di tali indagini, comune a tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche, cui è sempre immanente la possibilità di errore.
Le indagini ematologiche e immunogenetiche possono fornire elementi di valutazione non solo per escludere, ma anche per affermare il rapporto biologico di paternità, anche quando le risultanze delle indagini consentono una valutazione meramente probabilistica, attesa la natura probabilistica di tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche.
Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2004, n. 13296 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di azione di accertamento della paternità naturale e di conseguente determinazione del contributo al mantenimento del minore figlio naturale per il periodo successivo alla proposizione dell’azione stessa, ove la parte attrice, nell’atto introduttivo del giudizio, dopo aver indicato quale “petitum” un certo importo di tale con¬tributo, abbia usato l’espressione “ovvero la minore o maggiore somma dovuta” o altra espressione equivalente, il giudice di merito che liquidi un importo maggiore di quello richiesto non viola il principio di cui all’art. 112 c.p.c., sia perchè deve ritenersi che la parte attrice, con l’uso dell’espressione predetta, non abbia posto un limite preciso all’ammontare della somma richiesta, ma si sia rimessa agli elementi probatori da acquisire nel corso del giudizio ed alla loro valutazione ad opera del giudice, sia perchè, in ordine alla condanna del padre naturale al pagamento del contributo, il giudice che ha accertato il rapporto di paternità non è vincolato alla domanda della parte, in quanto l’art. 277, comma 2, c.c. conferisce a detto giudice il potere di adottare di ufficio, in ragione dell’interesse superiore del minore, i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore stesso.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2004, n. 11351 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale, il rimborso delle spese spettanti al geni¬tore che ha provveduto al mantenimento del figlio fin dalla nascita, ancorché trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all’altro genitore, ha natura in senso lato indennitaria, essendo diretta ad indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, a causa degli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole; poiché è principio generale (desumibile da varie norme, quali ad esempio gli articoli 379, secondo comma, 2054, 2047 cod. civ.) che l’equità costituisca criterio di valutazione del pregiudizio non solo in ipotesi di responsabilità extracontrattuale ma anche quando la legge si riferisca in genere ad indennizzi o indennità, il giudice di merito può utilizzare il criterio equitativo per determinare le somme dovute a titolo di rimborso.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante al genitore che ha allevato il figlio nei confronti del genitore che procede al riconoscimento, non è utilmente esercibile se non dal giorno del riconoscimento stesso (soltanto il riconoscimento comportando, ex art. 261 c.c., gli effetti tipici connessi dalla legge allo status giuridico di figlio naturale), con la conseguenza che detto giorno segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale pone a carico del genitore tutti i doveri propri della procre¬azione legittima, compreso quello del mantenimento; tale obbligazione decorre dalla data della nascita, e non da quella della relativa domanda
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale, in quanto ha natura dichiarativa dello stato biologico di procreazione, fa sorgere a carico del genitore tutti i doveri di cui all’art. 147 c.c. propri della procreazione legitti¬ma, compreso quello di mantenimento che, unitamente ai doveri di educare ed istruire i figli, obbliga i genitori ex art. 148 c.c. a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale. A tal fine, il criterio di quantificazione dell’assegno può essere adottato dal giudice di merito anche in termini complessivi ed unitari (anziché in termini di ripetibilità separata della quota delle spese straordinarie), nell’esercizio di una valutazione discrezionale insindacabile in sede di legittimità, ove logicamente e correttamente motivata.
Corte cost., 28 novembre 2002, n. 494 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È incostituzionale l’art. 278, 1° comma, c.c., nella parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251, 1° comma, c.c., è vietato il riconoscimento dei figli incestuosi.
Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 2002, n. 11041 (Giur. It., 2003, 1138 nota di BELLOMA)
La contrarietà dell’accertamento della paternità all’interesse del minore può sussistere solo in caso di concreta verifica di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà ge¬nitoriale, ovvero di prova dell’esistenza di gravi rischi per l’equilibrio affettivo e psicologico del minore e per la sua collocazione sociale, mentre del tutto irrilevanti debbono ritenersi i suoi atteggiamenti psicologi di rifiuto di rapporti nei confronti della madre, nonché di indifferenza nei confronti della pretesa paternità.
Cass. civ. Sez. I, 25 febbraio 2002, n. 2749 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale, il ricorso alle prove ematologiche, anche se richiesto dal preteso padre, è rimesso alla valutazione del giudice di merito, il quale può ritenerle superflue ove abbia già acquisito elementi sufficienti a fondare il suo convincimento. La relativa decisione è, peraltro, incensu¬rabile in sede di legittimità nei limiti in cui sia adeguatamente motivata.
La dimostrazione della paternità naturale può essere fornita, a mente dell’art. 269 c.c. con ogni mezzo, ed il rifiuto di sottoporsi alla prova ematologica costituisce argomento di prova ulteriore.
Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 273 c.c. con riferimento agli art. 2 e 24 cost. nella parte in cui, in ipotesi di figlio minorenne, attribuisce al genitore la legittimazione ad agire per la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità naturale senza prevedere la necessità della nomina di un curatore speciale per il minore e, in caso di inattività del sostituto processuale , la sospensione dei termini fino al raggiungimento della maggiore età del sostituito; infatti, l’interesse del minore risulta adeguatamente protetto, nel caso di promovimento dell’a¬zione da parte del genitore attraverso la verifica della sua rispondenza a quell’interesse demandata al tribunale per i minorenni (a seguito della sentenza della Corte cost. n. 341 del 1990), nel caso contrario con la possibilità per il figlio, una volta divenuto maggiorenne, di promuovere l’azione, per lui imprescrittibile ai sensi dell’art. 270 c.c.; nella prima ipotesi, inoltre, la scelta di non affiancare obbligatoriamente il rappresentante del minore con un curatore speciale, che ne controlli le iniziative processuali, è ragionevole e coerente con la qualità soggetti¬va del rappresentante e la sua natura di sostituto processuale, mentre la previsione di una sospensione dei termini o di una rimessione in termini a favore del minore, divenuto maggiorenne, per esercitare le attività (in particolare le impugnazioni) da cui il genitore è decaduto, contrasterebbe con le esigenze di certezza del diritto e costituirebbe violazione del diritto di difesa della controparte, soggetta ad unilaterale possibilità di riesame di una sentenza passata in giudicato.
Corte cost. 14 maggio 1999, n. 170 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., l’art. 244, comma 2, cod. civ., nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza solo di generare, contemplata dal n. 2) dell’art. 235 cod. civ., decorra per il marito dal giorno in cui esso sia venuto a conoscenza della propria impotenza di generare, in quanto – posto che l’impotenza di generare rappresenta, diversamente dalla “impotenza coeundi”, uno stato fisico che può rimanere per lungo tempo ignoto, poiché in una elevata percentuale di casi consiste in un’affezione, che può essere priva di sintomatologia e di manifestazioni esteriori e che è diagnosticabile solo attraverso esami clinici cui non si ricorre usualmente; e che il legislatore della riforma del diritto di famiglia ha superato la impostazione tradizionale che attribuiva preminenza al “favor legitimitatis” attraverso la equiparazione della filiazione naturale a quella legittima ed ha di conseguenza reso omogenee le situazioni che discendono dalla conservazione dello stato ancorato alla certezza formale rispetto a quelle che si acquisiscono con l’affermazione della verità naturale, la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini – la disposizione impugnata (art. 244 cod. civ., commi 1 e 2), rispetto alla impotenza di generare, appare irragionevole nella misura in cui preclude l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità, decorso l’anno dalla nascita del figlio, se il marito non sia stato a conoscenza di un elemento costitutivo dell’azione medesima, e precisamente della propria incapacità di generare; nonché lesiva del diritto di azione, nella misura in cui consente che il termine per il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi del diritto stesso (e ciò, soprattutto in ipotesi, quale quella di specie, in cui è dato di comune esperienza che l’elemento costitutivo dell’azione, rappresentato dall’impotenza di generare, può rimanere a lungo e a volte anche indefinitamente ignoto).
Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 1998, n. 2944 (Famiglia e Diritto, 1999, 1, 40 nota di FRASSINETTI)
La dimostrazione della paternità naturale può essere fornita, a mente dell’art. 269 c.c. con ogni mezzo e, per¬tanto, il giudice di merito può legittimamente fondare il proprio convincimento in ordine alla effettiva esistenza di un rapporto di filiazione anche su risultanze probatorie dotate di valore puramente indiziario ed è corretta¬mente motivata la pronuncia del giudice di merito che ha fondato la propria pronuncia affermativa della pater¬nità naturale su una motivazione – logicamente corretta – con cui è posta in evidenza, da un canto, l’univocità e convergenza degli elementi indiziari acquisiti al processo, come la lunga relazione intercorsa tra la madre ed il padre naturale, i comportamenti tenuti da quest’ultimo alla notizia della gravidanza della donna, la condotta processuale del medesimo – e, in particolare, il pretestuoso ed immotivato rifiuto di sottoporsi ad indagini ema¬tologiche – dall’altro, la attendibilità dei testi indicati dalla madre del riconoscendo).
Cass. civ. Sez. I, 8 novembre 1997, n. 11021 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza per territorio nel procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale e in quello preliminare per l’ammissibilità della relativa azione, deve essere determinata secondo i principi generali sul foro del convenuto, ai sensi dell’art. 18 c.p.c., anche quando la controversia riguardi un figlio minore.
Corte cost. 22 aprile 1997, n. 112 (Foro It., 1999, I, 1764)
È infondata la q.l.c. dell’art. 263 c.c., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore, in riferimento agli art. 2, 3, 30 e 31 cost.
Non è fondata, con riferimento agli art. 2, 3, 30 e 31 cost., la q.l.c. dell’art. 263 c.c. – nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minorenne per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore stesso – in quanto (…) non vi può essere conflitto tra “favor veritatis e favor minoris”, ove si consideri che l’autenticità del rapporto di filiazione costituisce l’essenza stessa dell’interesse del minore, quale inviolabile diritto alla sua identità, e che ad eventuali pregiudizi per il minore, conseguenti all’accertamento della falsità del riconoscimento, può porsi rimedio con il ricorso ad altri strumenti, predisposti proprio a tutela del minore, quali l’adozione in casi particolari di cui all’art. 44 comma 1 lett. c) l. n. 184 del 1983.
Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 1997, n. 807 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora nel giudizio di primo grado sia mancata la partecipazione del pubblico ministero in causa nella quale ne è obbligatorio l’intervento ai sensi dei numeri 2, 3 e 5 dell’art. 70 c.p.c., (quale nella specie un’azione di dichiarazione giudiziale di paternità) il giudice d’appello, rilevata la nullità della sentenza, non può rimettere la causa al primo giudice, ma deve trattenerla presso di se e deciderla nel merito, dovendo escludersi che nelle menzionate ipotesi di cui al cit. art. 70 (diversamente da quella di cui al numero 1 dello stesso articolo) la man¬cata partecipazione del P.M. comporti un difetto di integrale contraddittorio e consenta pertanto l’applicazione dell’art. 354 stesso codice.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 maggio 1996 n. 4844 (Foro It., 1997, I, 1109 nota di TRISORIO LIUZZI)
Poiché l’art. 295 c.p.c., la cui “ratio” è quella di evitare il rischio di un conflitto tra giudicati, fa esclusivo riferi¬mento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione necessaria del processo non può essere disposta nell’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello “sul quantum” (fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico); ne consegue che deve essere cassata l’ordinanza con cui il pretore ha disposto la sospensione necessaria del processo “sul quantum” in attesa della definizione del processo sull’”an debeatur”.
Cass. civ. Sez. III, 24 maggio 1993, n. 5837 (Giust. Civ., 1994, I, 3248 r. It., 1998)
Per aversi titolo esecutivo, costituito da una sentenza di I grado contenente condanna alle spese del giudizio, è necessario che questa parte della sentenza sia accessoria ad una pronuncia di condanna, dichiarata provvisoria¬mente esecutiva ai sensi dell’art. 282 c.p.c. oppure esecutiva per legge.
Cass. civ. Sez. Unite, 7 febbraio 1992, n. 1373 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza per territorio, nel procedimento per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale ed in quel¬lo, preliminare, per l’ammissibilità dell’azione, va determinata, anche quando si tratti di figlio naturale minore,
secondo i princìpi generali sul foro del convenuto, ai sensi dell’art. 18 c.p.c., e non in base alla residenza del minore, considerato che i princìpi predetti non sono derogati, né esplicitamente, né implicitamente, dalla nuova normativa circa la competenza, per materia, del Tribunale minorile di cui all’art. 68 della legge n. 184/1983.
Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In base alla regola generale dell’art. 374 cod. civ., n. 5, – secondo cui il tutore non può promuovere giudizi senza l’autorizzazione del giudice, tranne quelli espressamente indicati, mentre il genitore è in generale legittimato ad agire senza bisogno di detto atto, ad eccezione di giudizi relativi a negozi per il cui compimento è richiesta l’autorizzazione dall’art. 320, terzo comma, cod. civ. – si giustifica che il tutore soltanto, e non pure il genitore, debba chiedere al giudice di essere autorizzato ad esercitare l’azione di dichiarazione della paternità o maternità naturale, non potendo nei confronti del genitore la valutazione dell’interesse del minore da parte del giudice essere prospettata nella forma di un atto (autorizzatorio) integrativo della legittimazione ad agire. (Non fonda¬tezza della questione di legittimità costituzionale – in riferimento all’art. 3 Cost. – dell’art. 273, primo comma,
Non è più giustificabile – alla stregua del principio di pari trattamento di casi simili – una volta trasferita (art. 38 disp. att. c.c., modificato dall’art. 68 della legge 4 maggio 1983, n. 184) al tribunale per i minorenni la compe¬tenza a giudicare dell’azione di reclamo della paternità o maternità naturale proposta nell’interesse dei minori di età, la preclusione a questo giudice, specializzato per la tutela dei minori, della possibilità di esplicare anche in questa ipotesi la sua funzione istituzionale valutando, ove sia in causa un minore infrasedicenne, se l’azione intentata dal genitore che per primo lo ha riconosciuto, al fine di imporre all’altro una paternità o una maternità che quegli rifiuta di riconoscere, sia effettivamente rispondente all’interesse del figlio, quando analogo controllo è invece previsto nell’ipotesi in certo senso inversa di conflitto di cui al comma quarto dell’art. 250 cod. civ., allorché cioè il genitore che ha già riconosciuto il figlio si opponga al riconoscimento dell’altro giudicandolo non conveniente all’interesse del minore. È pertanto costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 3 Cost. (nonché con il principio di razionalità, essendo incoerente col rilievo sistematico centrale che nell’ordinamento dei rapporti di filiazione, fondato sull’art. 30 Cost., assume l’esigenza di protezione dell’interesse dei minori) – l’art. 274, comma primo, del codice civile stesso, nella parte in cui, ove si tratti di minore infrasedicenne, non prevede che la detta azione di reclamo promossa dal genitore esercente la potestà sia ammessa solo ove ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore.
Cass. civ.Sez. I, 2 dicembre 1985, n. 6015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine della declaratoria giudiziale della paternità naturale, la dichiarazione della madre e l’esistenza di rapporti carnali fra questa ed il preteso pa¬dre, pur non costituendo di per sé prove di detta paternità, possono concor¬rere alla formazione del convincimento del giudice del merito, ove siano suffragate da altre circostanze, anche presuntive, ivi incluso quindi il comportamento processuale del convenuto, consistente nella ingiustificata man¬cata presentazione davanti al consulente incaricato delle indagini ematologiche e genetiche.
Corte cost. 6 maggio 1985, n. 134 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Negli ultimi decenni la coscienza collettiva si è ulteriormente evoluta nel senso di accordare maggiore rilevanza al rapporto effettivo di procreazione rispetto alla qualificazione giuridica della filiazione. Di conseguenza, il legi¬slatore del 1975 – spostando l’accento dal “favor legitimitatis” al “favor veritatis”, nel modificare gli artt. 235 e 244 cod. civ., ed allargando la possibilità di far valere la verità sull’apparenza, anche in relazione alla sicurezza della prova negativa della paternità assicurata dal progresso scientifico – e quello del 1983 – accordando l’azione di disconoscimento nell’interesse del minore infrasedicenne al P.M., nell’intento di favorire ancora di più il per¬seguimento del valore verità – non hanno fatto che seguire la evoluzione della coscienza collettiva sempre più sensibile a quel valore.
Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 1985, n. 2739 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, e per il caso in cui sia stata disposta la cosiddetta prova ematologica, la facoltà della parte di sottrarsi ai prelievi che si rendano necessari per la suddetta prova non esclude che il relativo rifiuto, alla stregua delle motivazioni addotte, possa essere valutato dal giudice del merito quale elemento di convincimento, ai sensi dell’art. 116, 2° comma c. p. c.
Corte cost. 1 aprile 1982, n. 64 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riforma del diritto di famiglia ha indubbiamente spostato l’accento dal favor legitimitatis al favor veritatis, ma lasciando ancorato il termine di de¬cadenza dell’azione di disconoscimento del padre, pur elevato ad un anno, alla conoscenza della nascita (e non dei fatti rilevanti per la proposizione dell’azione), cioè ad un evento di meno aleatoria prova, il legislatore ha posto un limite al favor veritatis giustificato dai pericoli ed inconvenienti di uno sconvolgimento dei rapporti familiari protrattisi per lungo tempo. La denunciata disparità di trattamento tra pa¬dre e figlio è giustificata, d’al¬tronde, dalla diversità delle situazioni poste a raffronto: l’adulterio, infatti, si verifi¬ca al tempo del concepimento e di esso il figlio non può venire a conoscenza se non in tempo assai posteriore alla nascita, per cui collegare anche per lui il termine alla nascita avrebbe significato negargli per sempre l’esercizio dell’azione. Né è violato il diritto di difesa, essendo tale censura strettamente collegata, nella prospettazione dei giudici a quibus, a quella relativa al principio di eguaglianza.

Ai fini dell’autorizzazione al riconoscimento tardivo del figlio minore ha rilevanza solo l’idoneità a rivestire la figura genitoriale

Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2018, n. 4763
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 29113/2016 proposto da:
C.B., in proprio e nella qualità di esercente la responsabilità genitoriale sulla minore C.E., elettivamente domiciliata in Roma, viale Cortina d’Ampezzo, n.190, presso lo studio dell’avvocato Codini Francesco, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
P.C., elettivamente domiciliato in Roma, piazza San Giovanni Bosco, n.5, presso lo studio dell’avvocato Marcellitti Giovanni, che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso notificato;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2996/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/05/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/10/2017 dal cons. DE MARZO GIUSEPPE;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI FRANCESCA che chiede alla Corte di Cassazione, riunita in camera di consiglio, in accoglimento del ricorso di C.B., la cassazione della sentenza n. 5300/16 della Corte d’Appello di Roma.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza depositata il 12 maggio 2016 la Corte d’appello di Roma, sezione per i minorenni, ha rigettato l’appello proposto da C.B., in proprio e nella qualità di esercente la potestà sulla figlia minore C.E., nei confronti di P.C. avverso la decisione di primo grado, che aveva accolto la domanda proposta da quest’ultimo, ai sensi dell’art. 250 c.c., comma 4, in tal modo tenendo luogo del consenso mancante della prima al riconoscimento della minore.
2. Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha osservato: a) che, a fronte dell’interesse prioritario della minore ad acquisire uno stato che completi la sua personalità nella integrale dimensione psico – fisica, perdevano di significato i singoli episodi riferiti dalla C., che non assumevano rilievo tale da screditare la figura del P.; b) che il diritto del genitore ad operare il riconoscimento del figlio naturale, garantito dall’art. 30 Cost., non si pone in contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso; c) che il rifiuto della C. doveva ritenersi ingiustificato, considerato il diritto della minore ad entrambi i genitori in vista di una serena ed equilibrata crescita psico – fisica e dell’arricchimento che la stessa avrebbe ricevuto, da un punto di vista affettivo, oltre che materiale, dalla presenza anche del nucleo familiare paterno, composto da persone irreprensibili; d) che il P., nel corso dell’indagine da parte dei servizi sociali, aveva mostrato consapevolezza dei reati commessi, dei quali si era assunto ogni responsabilità; e) che l’adeguatezza dell’uno o dell’altro genitore, avrebbe potuto essere oggetto di successiva valutazione da parte del giudice, ai fini dei provvedimenti da adottare sia con riguardo alle modalità dell’affidamento, sia con riguardo all’esercizio della responsabilità genitoriale.
3. Avverso tale sentenza la C. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi cui resiste il P. con controricorso.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione dell’art. 250 c.c., comma 4, rilevando: a) che il sistema normativo esclude che al minore infraquattordicenne possano essere imposti rapporti familiari che infondano angoscia e che costituiscano fonte di dissidi, di distruzione o di oppressione; b) che, pertanto, dovevano essere presi in considerazione i numerosi episodi di violenza posti in essere dal P. in danno della C., anche in presenza di terze persone e degli altri figli della donna; c) che, del pari, doveva essere considerato che il P. non aveva ma fatto nulla per la figlia e non aveva contribuito in alcun modo alla sua crescita.
2. Con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, con riferimento alla mancata considerazione dei gravi episodi di violenza dei quali il P. si era reso responsabile.
3. I due motivi, esaminabili congiuntamente per la loro stretta connessione, sono fondati.
Secondo il costante orientamento espresso da questa Corte (v., ad es., di recente, Cass. 27 marzo 2017, n. 7762) il riconoscimento del figlio minore infraquattordicenne nato fuori dal matrimonio, già riconosciuto da un genitore, costituisce un diritto soggettivo dell’altro, tutelato nell’art. 30 Cost., che può, tuttavia, essere sacrificato in presenza del rischio della compromissione dello sviluppo psicofisico del minore stesso. In questo quadro, si pone la necessità di realizzare un bilanciamento tra l’esigenza di affermare la verità biologica con l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari, attraverso una valutazione in concreto dell’interesse del minore stesso.
In tale contesto, è certamente esatto che il riconoscimento di un figlio naturale minore, già riconosciuto da un genitore, da parte dell’altro genitore non può essere escluso sulla sola base di una condotta morale non esente da censure, di per sé rilevante per il diverso fine dell’affidamento (Cass. 22 febbraio 2000, n. 1990), come pure in ragione della mera pendenza di un processo penale a carico del genitore richiedente (Cass. 3 febbraio 2011, n. 2645). Tuttavia, resta ferma la rilevanza che può assumere il percorso di vita del richiedente e l’eventuale accertamento di gravi carenze come figura genitoriale, con conseguente compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore derivante dal riconoscimento (Cass. 11 dicembre 2013, n. 27729).
In tale contesto, l’indicato bilanciamento è stato condotto dalla Corte territoriale non in concreto, ma attraverso formule generali che o non danno conto delle conclusioni raggiunte (così, ad es., quando si afferma semplicemente, a fronte dell’interesse del minore al secondo riconoscimento, che “perdono valenza i singoli episodi riferiti dalla resistente, che non assumono una portata tale da screditare la figura del richiedente”; o, ancora, quando a fronte della commissione di reati dei quali dà atto la medesima decisione, senza esaminarne tipologia e caratteristiche concrete, si attribuisce significato al fatto che il P. se ne sia assunto la responsabilità, rimproverandosi di aver coinvolto i genitori, senza che venga dato conto di alcuna rimeditazione verso le vittime di tali illeciti e con riguardo al contesto in cui sono maturati) o valorizzano profili privi di concludenza (quale la premessa, secondo la quale “l’altro genitore è quello che ognuno ha scelto per il proprio figlio” o l’inadeguatezza genitoriale della madre).
4. Ne discende che la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di appello di Roma, sezione per i minorenni, in diversa composizione, che provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza e rinvia alla Corte di appello di Roma, sezione per i minorenni, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Dispone che, in caso di utilizzazione del presente provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti, riportati nel provvedimento.

L’obbligo di contribuire al mantenimento dell’ex coniuge è personale e si estingue con il decesso

Cass. civ. Sez. I, 20 febbraio 2018, n. 4092
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
D.G., elettivamente domiciliato in Roma via del Banco di Santo Spirito 3, presso lo studio dell’avv. Giorgio Clementi, che lo rappresenta e difende, unitamente all’avv. Alessandra Fienga, giusta procura speciale a margine del ricorso, e dichiara di voler ricevere le comunicazioni e notificazioni relative al processo al fax n. 06/68300954 e alla p.e.c. giorgioclementi(at)ordineavvocatiroma.org;
– ricorrente –
nei confronti di:
G.A., elettivamente domiciliata in Roma, via Barberini 3 (fax n. 06/4745779), presso lo studio delle avvocate Laura Remiddi e Sabrina Fasulo, che la rappresentano e difendono, giusta procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1407/14 della Corte di appello di Roma, emessa il 5 febbraio 2014 e depositata il 3 marzo 2014, n. R.G. 6582/11;
Rilevato che all’udienza del 10 febbraio 2017 il Procuratore Generale cons. Dott. Francesca Ceroni ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità per sopravvenuta carenza di interesse;
Udita la relazione in camera di consiglio del cons. Dott. Giacinto Bisogni.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. Con ricorso depositato, presso il Tribunale di Latina, il (OMISSIS) D.G., detto P., ha chiesto lo scioglimento del matrimonio, contratto nel (OMISSIS), con G.A..
2. Il Tribunale di Latina, con sentenza non definitiva del 30 agosto 1999, ha dichiarato lo scioglimento del matrimonio. La decisione è stata impugnata dalla G. e il giudizio sulle altre domande è rimasto sospeso sino al passaggio in giudicato della dichiarazione di scioglimento del matrimonio conseguente alla decisione della Corte di Cassazione del 5 agosto 2003.
3. Con sentenza definitiva, depositata in data 18 luglio 2011, il Tribunale di Latina ha stabilito la corresponsione di un assegno annuo, a favore della G., di 75.000 Euro, ritenendo invece cessato l’obbligo di mantenimento nei confronti dei figli.
4. Ha proposto appello il D. il quale si è lamentato del fatto che il Giudice di prime cure, nella determinazione dell’importo dell’assegno divorzile, non avesse preso in considerazione circostanze quali l’esistenza di un nuovo nucleo familiare, composto anche da tre figli minorenni, il decremento della redditività della sua attività artistica di musicista e i suoi problemi di salute.
5. La G. ha proposto appello incidentale chiedendo la rideterminazione in aumento dell’assegno divorzile e il ripristino del mantenimento a favore dei figli facendo rilevare che solo il figlio A. aveva raggiunto l’indipendenza economica nel gennaio 2002 mentre era rimasta la condizione di dipendenza della figlia.
6. Con sentenza depositata in data 3 marzo 2014 la Corte d’Appello di Roma ha respinto entrambi gli appelli, ha confermato l’importo dell’assegno divorzile annuo in 75.000 Euro e la sua decorrenza a far data dalla decisione di primo grado (18 luglio 2011), rilevando che, pur avendo il D. provato una riduzione dei proventi della sua attività artistica, aveva nello stesso tempo intrapreso una nuova attività imprenditoriale, consistente nell’apertura di un resort turistico, e dato vita, nel 2010, alla società (OMISSIS), destinata allo svolgimento di tale attività, oltre ad aver goduto ed essere titolare di un consistente patrimonio immobiliare.
7. Ha proposto ricorso per cassazione il D. affidandosi a tre motivi di ricorso.
8. Con il primo motivo e il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6e dell’art. 2697 c.c.. In particolare con il primo motivo il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello abbia riconosciuto il diritto della G. all’assegno divorzile in mancanza di un esame relativo al tenore di vita in costanza di matrimonio, limitandosi a fare riferimento ad una situazione di sicuro benessere ma omettendo la comparazione tra la condizione economica dei coniugi in corso di matrimonio e quella attuale della richiedente, non considerando infine le capacità lavorative della G. tenuto conto dell’omessa prova da parte della ex coniuge e dell’oggettiva impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per conseguire un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio.
9. Con il secondo motivo il ricorrente contesta la determinazione in concreto dell’assegno divorzile, rilevando che, in sede di quantificazione, la Corte d’Appello non ha correttamente applicato i criteri indicati dall’art. 5 della legge sul divorzio che, secondo giurisprudenza di questa Corte (Cass. Civ S.U. 11492/1990; Cass. civ. sez. 1, Sent. n. 7990/1996), possono agire come fattori di moderazione o diminuzione della somma considerabile in astratto. Il ricorrente si duole in particolare del fatto che il Giudice di seconda istanza abbia omesso di considerare la riduzione dei suoi redditi, specificamente quelli relativi all’attività artistica e ai diritti d’autore, non abbia preso atto del peggioramento delle sue condizioni di salute e abbia ignorato le spese derivanti dal mantenimento del nuovo nucleo familiare, costituito dalla sua nuova compagna e dai tre figli nati dalla loro unione.
10. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazionedell’art. 132 c.p.c., n. 4, in quanto è stata omessa dalla Corte di appello qualsiasi motivazione sulla determinazione in concreto dell’assegno divorzile. La Corte d’Appello si è infatti limitata, secondo il ricorrente, a condividere la valutazione effettuata dal giudice di prime cure, senza specificare le ragioni dell’aumento del 240% dell’assegno di mantenimento stabilito e corrisposto in adempimento delle condizioni previste dalla separazione consensuale. Il ricorrente rileva che, seppure l’ammontare dell’assegno di mantenimento determinato in sede di separazione ha diversa natura e carattere rispetto all’assegno di divorzio (Cass. Civ., 1 sez. n. 18433/2010), tuttavia, esso può essere considerato indice rivelatore del tenore di vita dei coniugi (Cass. Civ. sez. 1 n. 1758/2008; Cass. Civ. sez. 1 22500/2006; Cass. Civ. sez. 1 3905/2011).
11. La G. contesta con controricorso le difese del ricorrente e propone ricorso incidentale affidandosi a tre motivi di ricorso cui il D. si oppone con controricorso.
12. Le parti hanno depositato memorie difensive e la controricorrente, all’udienza di discussione, ha presentato note di replica alle conclusioni del P.G., che devono essere dichiarate irricevibili perché predisposte per iscritto prima della stessa udienza e quindi dirette a replicare irritualmente alla memoria difensiva della controparte.
13. Con il primo motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.6, comma 6e dell’art. 2697 c.c., nella parte in cui la sentenza d’appello ha fissato la determinazione concreta dell’assegno in 75.000.00 Euro annui, non tenendo conto in maniera adeguata delle condizioni economiche di entrambe le parti. Rileva la ricorrente incidentale che il D. ha ampliato negli ultimi 18 anni la sua attività anche in altri campi (attività manageriale e di produzione musicale, sua e di altri autori), e ha omesso di fare riferimento, nelle dichiarazioni fiscali, ai proventi derivanti dalle sue partecipazioni societarie.
14. Con il secondo motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione dellaL. n. 898 del 1970,art. 41, nella parte in cui la Corte d’Appello ha fatto decorrere il versamento dell’assegno divorzile dal deposito della sentenza definitiva sulle statuizioni economiche (18 luglio 2011) e non dal passaggio in giudicato, in data 5 agosto 2003, della sentenza non definitiva sullo scioglimento del vincolo matrimoniale.
15. Con il terzo motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione e falsa applicazionedell’art. 148 c.c.eL. n. 898 del 1970,art.6, lamentando l’erronea determinazione dell’importo dell’assegno a favore dei figli.
16. Il ricorrente D.G. è deceduto in data (OMISSIS), come documentato dal certificato di morte prodotto in uno con la memoria difensiva con la quale si chiede la dichiarazione di cessazione della materia del contendere, richiesta quest’ultima cui si oppone la G..
Ritenuto che:
17. La circostanza da ultimo fatta presente implica l’esame della questione controversa, che è stata oggetto di contrasto nella giurisprudenza della Suprema Corte e che riguarda le sorti del giudizio di separazione o divorzio quando intervenga, nel corso del loro svolgimento, la morte di una parte e se, dunque, un evento simile determini la cessazione della materia del contendere.
18. Una prima linea giurisprudenziale (Cass. Civ. 1 sez. civ. n. 17041 del 3 agosto 2007; n. 9238 del 23 ottobre 1996), che pure riconosce come il diritto al mantenimento abbia una natura patrimoniale speciale poiché, come previstodall’art. 447 c.c., è indisponibile e incedibile e ha un carattere strettamente personale, ritiene, tuttavia, che la morte del soggetto obbligato, avvenuta nelle more del giudizio, non determina la cessazione della materia del contendere, permanendo l’interesse della parte richiedente l’assegno al credito avente ad oggetto le rate scadute anteriormente alla data del decesso, credito che risulterebbe trasmissibile nei confronti degli eredi. Pertanto il requisito della intrasmissibilità dell’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile non troverebbe applicazione, una volta proposta la domanda giudiziale, per il periodo successivo all’inizio del procedimento e fino alla data del decesso dell’ex coniuge obbligato, periodo nel quale permarrebbe l’interesse della parte richiedente l’assegno alla definitiva regolamentazione del suo diritto.
19. Più di recente si è affermata una giurisprudenza di segno opposto che ha rinnovato un filone di pronunce risalenti e conformi. Secondo tale indirizzo va rilevato chel’art. 149 c.c.prevede che il matrimonio si scioglie in conseguenza della morte di uno dei coniugi e che tale evento non solo deve considerarsi preclusivo della dichiarazione di separazione e di divorzio ma ha anche l’effetto di travolgere ogni pronuncia accessoria alla separazione e al divorzio emessa in precedenza e non ancora passata in giudicato (Cass. Civ. 1 sez. n. 18130 del 26 luglio 2013, n. 9689 del 27 aprile 2006; n. 27556 del 20 novembre 2008; cfr. anche Cass. civ. sez. 1 n. 661 del 29 gennaio 1980; n. 1757 del 18 marzo 1982, n. 740 del 3 febbraio 1990, n. 2944 del 4 aprile 1997).
20. Come è noto l’art.4, comma 12dellalegge 898/1970prevede che, nel caso in cui il tribunale emetta sentenza non definitiva relativa alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, il giudizio può continuare per la decisione relativa all’an e al quantum dell’assegno. Nel presente giudizio il Tribunale si è già pronunciato sullo status dichiarando lo scioglimento del matrimonio e tale pronuncia, come si è visto, è ormai passata in giudicato. La questione controversa si pone pertanto, nella specie, con specifico riferimento alla possibilità di applicare, per estensione, al giudizio relativo alla determinazione dell’assegno lo stesso principio riferibile al giudizio di separazione e divorzio in tema di dichiarazione sullo status e dunque dichiarare cessata la materia del contendere sulle domande accessorie al divorzio nonostante la sentenza dichiarativa del divorzio sia passata in giudicato prima della morte del coniuge nei cui confronti era stato richiesto l’assegno.
21. Il Collegio, pur valutando le ragioni sottese al primo indirizzo giurisprudenziale menzionato, ritiene di aderire all’indirizzo contrario e prevalente, cui intende dare continuità, perché esso appare più coerente al presupposto indiscusso secondo cui la morte del coniuge, in pendenza di giudizio di separazione o divorzio, anche nella fase di legittimità davanti a questa Corte, fa cessare il rapporto coniugale e la stessa materia del contendere sia sul giudizio relativo allo status che su quello relativo alle domande accessorie. Tale principio legale deve estendersi anche alle domande accessorie che sono “autonomamente” sub judice al momento della morte del coniuge nei cui confronti era stato richiesto l’assegno. Infatti se è vero che la pronuncia del divorzio, con sentenza non definitiva, non è più tangibile, per effetto del suo passaggio in giudicato, la pendenza del giudizio sulle domande accessorie al momento della morte non può costituire una causa di scissione del carattere unitario proprio del giudizio di divorzio. Se la pronuncia non definitiva sullo status si legittima nell’ottica di una attribuzione non procrastinabile dello status di divorziato ai fini della riacquisizione della libera determinazione delle scelte personali degli ex coniugi, connessa alla fine dello status derivante dal matrimonio, e in quanto tale status non ha più ragione di perdurare, è nello stesso tempo indiscutibile che solo ragioni di complessità istruttoria giustificano la pronuncia differita sulle domande accessorie. Tali ragioni se non possono costituire il presupposto per una dilazione ingiustificata sulla pronuncia relativa allo status non possono altresì costituire una fonte di deroga al principio per cui l’obbligo di contribuire al mantenimento dell’ex coniuge è personalissimo e non trasmissibile proprio perché si tratta di una posizione debitoria inscindibilmente legata a uno status personale e che conserva questa connotazione personalissima perché può essere accertata solo in relazione all’esistenza della persona cui lo status personale si riferisce. Ciò comporta che, per un verso, deve ritenersi improseguibile, nei confronti degli eredi del coniuge, l’azione intrapresa per il riconoscimento del diritto all’assegno divorzile, e, per altro verso, comporta che gli eredi del coniuge obbligato non possono subentrare nella sua posizione processuale al fine di far accertare la insussistenza del suo obbligo di contribuire al mantenimento e di ottenere la restituzione delle somme versate sulla base di provvedimenti interinali o non definitivi.
22. Va pertanto dichiarata la cessazione della materia del contendere. Il dibattito giurisprudenziale cui si è fatto cenno giustifica la compensazione delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte, riconvocatasi in data 3 ottobre 2017, dichiara cessata la materia del contendere e compensa le spese del giudizio di cassazione.

Il proprietario comodante può ottenere il rilascio dell’immobile solo ove provi una finalità diversa dalla destinazione ad esigenze familiari del comodatario

Cass. civ. sez. VI – 3, 12 febbraio 2018, n. 3302
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12239-2016 proposto da:
S.E. e R.G., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la Cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato EMANUELE CONTINO;
– ricorrenti –
contro
SH.KA., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI VILLA GRAZIOLI n. 15, presso lo studio dell’avvocato BENEDETTO GARGANI, rappresentata e difesa dall’avvocato TERESA BESOSTRI GRIMALDI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2119/2015 della CORTE D’APPELLO di TORINO, emessa il 25/11/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 29/11/2017 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI. IL COLLEGIO:
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Premesso:
La Corte d’appello di Torino con sentenza in data 25.11.2015 n. 2119 ha rigettato l’appello proposto da R.G. e S.E. e confermato la decisione di primo grado, accertando il diritto di Sh.Ka. ad opporsi al rilascio dell’immobile – di proprietà degli appellanti- in cui abitava in qualità di ex coniuge di S.A. ed affidataria della figlia minore nonché assegnataria, in sede di separazione giudiziale, della casa coniugale già concessa in comodato gratuito dai genitori al figlio A..
Il Giudice di appello ha rilevato che: a) la destinazione dell’immobile ad esigenze familiari doveva desumersi dal certificato di residenza anagrafica che attestava il trasferimento della Sh. fin dal 31.10.2001 e dalla abitazione ininterrotta anche dopo la separazione giudiziale del 2006, non avendo immutato la sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, ma anzi confermato, la situazione abitativa precedente; b) la tesi dei proprietari secondo cui il comodato gratuito prevedeva esclusivamente la destinazione ad esigenze lavorative del figlio -il quale abusivamente aveva poi destinato l’immobile a casa coniugale-, era smentito dalla circostanza che i proprietari non avevano fornito prova di aver sollevato obiezioni o contestazioni per tutto il lungo periodo trascorso, mentre inammissibile ex art. 2721 c.c. era la richiesta di prova orale volta a dimostrare la destinazione esclusivamente ad esigenze di lavoro dell’immobile concesso in comodato; c) in ogni caso il coniuge doveva ritenersi subentrato “per facta concludentia” nel rapporto di comodato dell’ex marito ed i proprietari non avevano neppure allegato il presupposto dell’ urgente ed impreveduto bisogno ex art. 1809 c.c., comma 2, che giustificava la richiesta di restituzione anticipata dell’immobile.
– La sentenza di appello è stata impugnata con due motivi da R.G. ed S.E..
– Resiste con controricorso Sh.Ka..
– I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c..
OSSERVA:
Il primo motivo (violazione artt. 1803, 1809 e 1810 c.c.; artt. 2697, 2721 e 115 c.p.c.) è inammissibile.
Il nucleo essenziale della “ratio decidendi” della sentenza impugnata va colto nell’accertamento in fatto, compiuto dalla Corte d’appello, secondo cui indipendentemente dalla ipotizzata concessione dell’immobile in comodato gratuito al figlio al fine di utilizzo esclusivo dell’immobile per l’esercizio dell’attività commerciale – i genitori, avuto riguardo allo svolgimento delle vicende familiari del figlio (matrimonio contratto il (OMISSIS); stipula nel 2000 del contratto di comodato predetto; trasferimento del nucleo famigliare nell’immobile a far data dal 31.10.2001 – certificato di residenza anagrafica-; nascita della figlia nel 2005; permanenza ininterrotta della famiglia nell’immobile per circa dieci anni; protratta inerzia dei genitori-comodanti in relazione alla attuata modifica di fato della destinazione d’uso dell’immobile da parte del figlio-comodatario e della sua famiglia) non potevano non avere avuto conoscenza della destinazione di fatto dell’immobile a residenza della famiglia, e del perdurare della situazione abitativa della famiglia nell’immobile concesso in comodato dai genitori al figlio: con la conseguenza che la protrazione per lungo tempo del diverso uso dell’immobile in – asserita – violazione degli originari patti contrattuali, essendo suscettibile di ingenerare un affidamento del comodatario nell’accettazione da parte dei comodanti della diversa destinazione del bene, imponeva a questi ultimi l'”onere di parlare”, quanto meno contestando formalmente l’inadempimento della obbligazione ai sensi dell’art. 1804 c.c.. In assenza di qualsiasi iniziativa assunta dai comodanti per contestare il diverso uso dell’immobile e nel concorso delle circostanze di fatto sopra indicate, doveva inferirsi che gli stessi comodanti avessero inteso autorizzare tacitamente il comodatario ad immettere il coniuge e quindi la figlia nel godimento dell’immobile e che le originarie parti contraenti – genitori e figlio – avessero inteso, di comune accordo, modificare i precedenti accordi contrattuali concernenti l'”uso determinato” (per esigenze lavorative) cui l’immobile originariamente era stato destinato ex art. 1803 c.c., riconoscendo che lo stesso era, invece, diretto a soddisfare le esigenze della famiglia e dunque costitutiva “casa familiare”, in tal senso deponendo in modo convergente anche la successiva assegnazione dell’immobile, in quanto “casa coniugale”, alla coniuge affidataria della figlia minore, prevista nel verbale di separazione consensuale omologato dal Tribunale di Torino in data 9.10.2006, nonché l’assenza di contestazioni od altre iniziative assunte, fino al 2013, dai genitori-comodanti, incompatibili con il tacito assenso al mutamento di destinazione d’uso dell’immobile.
Tale essendo il percorso motivazionale seguito dalla sentenza impugnata che ha assolto al compito di indagare in concreto la intenzione delle parti, come esplicitamente richiesto da Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 20448 del 29/09/2014 – ne segue che la censura con la quale si impugna la statuizione di inammissibilità delle istanze istruttorie (se pure in astratto fondata: non applicandosi i limiti della prova orale ai fini dell’accertamento della esistenza e del contenuto di un negozio non formale concluso “inter alios”, e che assume quindi rilievo come mero “fatto storico”, in quanto tale oggetto di appercezione e quindi anche di confessione ex art. 2730 c.c.) non investe in modo idoneo la indicata “ratio decidendi”, in quanto le prove – come emerge dal capitolo riprodotto a pag. 8 ricorso – erano rivolte esclusivamente a dimostrare che il contratto di comodato, stipulato nel 2000 tra i genitori-comodanti ed il figlio – comodatario, limitava “in origine” l’uso gratuito dell’immobile ad esigenze di “laboratorio di restauro e deposito di mobili”, fatto questo da ritenersi irrilevante in conseguenza della successiva tacita modifica consensuale della destinazione d’utilizzo del bene per esigenze familiari.
Deve poi ritenersi esente da censura la statuizione della Corte territoriale secondo cui non era stata fornita alcuna prova di ripetute precedenti richieste di restituzione dell’immobile rivolte dai genitori al figlio od alla Sh..
I ricorrenti sostengono di avere allegato tali “fatti” – per la prima volta – nell’atto di appello e che, non avendoli negati la Sh. nelle difese svolte nella comparsa di risposta in grado di appello, doveva ritenersi incontestata la descritta condotta dei genitori – comodanti volta ad inficiare la prova presuntiva di una modifica consensuale dell’originario contratto di comodato.
Premesso che in sede di valutazione della prova, ritenere che la mancata contestazione di determinati fatti costituisca implicita ammissione dei fatti medesimi è questione riservata in via esclusiva al giudice di merito, il cui apprezzamento, se non lacunoso o viziato sotto il profilo logico – giuridico, è incensurabile in sede di legittimità (Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 13686 del 06/11/2001), la censura è priva dei requisiti di ammissibilità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, non essendo compiutamente descritto il “fatto processuale” indispensabile a consentire la verifica richiesta alla Corte. Difetta invero la chiara specificazione: a) delle allegazioni contenute nell’atto di appello che non vengono neppure riassunte in ordine alle ragioni delle richieste ed alla cronologia dei fatti: nella parziale trascrizione – riportata a pag. 17 ricorso – la circostanza è dedotta in modo assolutamente generico e tale da non consentire come e quando tali richieste di rilascio sarebbero state rivolte alla Sh.; b) delle difese svolte dalla appellata nella comparsa 9.4.2013 e nei “verbali successivi” dalle quali si evincerebbe la mancanza di specifica contestazione. Ed infatti in virtù del principio di autosufficienza, il ricorso per cassazione con cui si deduca l’erronea applicazione del principio di non contestazione non può prescindere dalla trascrizione degli atti sulla cui base il giudice di merito ha ritenuto non integrata la non contestazione che il ricorrente pretende di affermare, atteso che l’onere di specifica contestazione, ad opera della parte costituita, presuppone, a monte, un’allegazione altrettanto puntuale a carico della parte onerata della prova (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 3023 del 17/02/2016; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 20637 del 13/10/2016).
In ogni caso l’assunto difensivo dei ricorrenti non è comunque condivisibile, laddove mira alla applicazione del principio di non contestazione in grado di appello, con riferimento a “nuovi fatti” che costituiscono ampliamento del tema di indagine come definito in primo grado. Gli stessi ricorrenti hanno, infatti, affermato di avere dedotto la indicata circostanza di fatto -e cioè le pregresse e reiterate richieste di restituzione dell’immobile- soltanto nell’atto di appello, introducendo quindi fatti nuovi -preesistenti e non sopravvenuti- rispetto a quelli allegati e discussi in primo grado, con ciò avendo inammissibilmente modificato il quadro fattuale originario (individuato dai fatti secondari rilevanti ai fini della valutazione della prova per presunzione) nel perimetro del quale soltanto può operare la devoluzione del “thema decidendum” al Giudice del gravame (salva l’ipotesi di fatti nuovi, sopravvenuti al giudizio di prime cure, incidenti sulla fattispecie costitutiva del diritto controverso), tanto dovendo desumersi dall’art. 345 c.p.c., comma 3, che nel testo riformato dal D.L. n. 83 del 2012 conv. in L. n. 134 del 2012 (che ha eliminato il potere di ammissione di ufficio di nuove prove ritenute indispensabili alla decisione), applicabile al giudizio introdotto con atti di citazione notificato in data 15.1.2013, pone il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova (salvo impedimento non imputabile alla parte) volti a fornire la dimostrazione di fatti ritualmente allegati e che, anche nel testo anteriore alla modifica introdotta dalla L. n. 69 del 2009 (che ha fatto espresso divieto anche di nuove produzioni documentali), era costantemente interpretato dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che erano ammesse nuove prove costituite, ma nei limiti in cui, ferma la domanda ed i fatti già dedotti, non fossero introdotte dalla parte in secondo grado nuove allegazioni di fatto (Corte cass. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 3506 del 06/03/2012) tali da comportare l’apertura di un nuovo fronte d’indagine, rimanendo circoscritta la deroga parziale al divieto di nuove prove in grado di appello soltanto al potere delle parti di “deduzione istruttoria” e non anche al potere di “allegazione” dei fatti (Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 13432 del 29/05/2013; id. Sez. L, Sentenza n. 18418 del 28/08/2014. Vedi:
Corte cass. Sez. U -, Sentenza n. 10790 del 04/05/2017). Ne segue che, essendo inammissibile l’allegazione di fatti nuovi in grado di appello, non poteva sorgere a carico dell’appellata alcun onere di puntuale contestazione di tali fatti, essendo questi sottratti al “thema decidendum”.
Per la restante parte della esposizione il motivo è diretto, attraverso la deduzione del vizio di “error in judicando”, a contestare invece il diverso vizio di legittimità di errore di fatto, venendo criticata dai ricorrenti l’argomentazione logica sviluppata dalla Corte territoriale per raggiungere il convincimento della modifica contrattuale fondato sulla prova presuntiva, andando incontro la censura -ove ricondotta nello schema dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – ai limiti di deducibilità del vizio di “error facti” secondo la interpretazione che dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – come modificato dall’art. 54 del DL nb. 83012 conv. in L. n. 134 del 2012 – ha fornito questa Corte (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016), atteso che la norma ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado, per vizio di motivazione, alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, escludendo il sindacato sulla inadeguatezza del percorso logico posto a fondamento della decisione e condotto alla stregua di elementi extratestuali, e circoscrivendolo alla verifica del requisito essenziale di validità ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), inteso come “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, secondo la interpretazione fornita da questa Corte: l’ambito in cui opera pertanto il vizio motivazionale deve individuarsi, pertanto, nella omessa rilevazione e considerazione da parte del Giudice di merito di un “fatto storico”, principale o secondario, ritualmente verificato in giudizio e di carattere “decisivo” in quanto idoneo ad immutare l’esito della decisione.
Non essendo indicato nel motivo il fatto storico decisivo che il Giudice di appello avrebbe omesso di considerare, la censura, anche sotto tale profilo, si palesa inammissibile.
Il secondo motivo, con il quale si deduce la violazione degli artt. 1803, 1809, 1810, 337 sexies e 337 ter c.c., nonché della L. n. 898 del 1970, art. 6, ed inoltre il vizio di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve ritenersi in parte infondato ed in parte inammissibile.
Sostengono i ricorrenti che il Giudice di merito avrebbe erroneamente rinvenuto nella sentenza del Tribunale di Torino in data 21.11.2013 dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio una disposizione di assegnazione della casa coniugale alla Sh., che soltanto avrebbe potuto costituire titolo opponibile al comodante, in quanto il Giudice si era limitato soltanto a regolare l’affidamento congiunto “disponendo che la minore mantenga la residenza anagrafica e la dimora abituale presso la madre”.
Occorre premettere che il Giudice di appello dopo aver correttamente richiamati i principi affermati da questa Corte in ordine al diritto del coniuge separato, assegnatario della casa familiare, di continuare a godere dell’immobile in conformità alla destinazione d’uso abitativo e centro di interessi della famiglia prevista nel contratto di comodato, quanto all’assetto degli interessi familiari determinati a seguito della sentenza che ha pronunciato la cessazione degli effetti civili, ha poi affermato la persistenza del diritto al godimento dell’immobile, in quanto: a) la sentenza di divorzio non aveva travolto il titolo in forza del quale la Sh. utilizzava l’immobile, avendo ribadito che la figlia minore dovesse convivere con la madre, pur in affidamento congiunto ad entrambi i genitori; b) non era venuto meno il presupposto della convivenza ed il titolo che legittimava al godimento era da rinvenire del contratto di comodato “nel quale ella, per (acta concludentia e per espressa determinazione del giudice della separazione, è subentrata al marito”.
Tanto premesso vale richiamare i principi fondamentali che regolano la materia, e che debbono trovare applicazione in relazione alla fattispecie concreta.
Costituisce “jus receptum” dalla giurisprudenza di questa Corte che il provvedimento con il quale il Giudice della separazione o del divorzio dispone l’assegnazione della casa coniugale -anche a favore del coniuge che non sia titolare di diritti reali o personali sul bene nei confronti del terzo proprietario-non investe il titolo negoziale che regolava la utilizzazione dell’immobile prima del dissolvimento della unità del nucleo familiare (Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 13603 del 21/07/2004), alla stregua del quale continuano ad essere disciplinate le obbligazioni derivanti dal rapporto tra le parti, venendo soltanto a “concentrare” l’esercizio dei diritti e delle obbligazioni esclusivamente in capo al coniuge assegnatario (nella specie non contraente il comodato) a favore del quale, pertanto, non viene costituito alcun nuovo diritto che va a limitare la preesistente situazione giuridica del dominus.
Il provvedimento di assegnazione della casa familiare (con riferimento al giudizio di separazione: art. 155, comma 4, introdotto dalla L. n. 151 del 1975; art. 155 quater c.p.c., comma 1, introdotto dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54; art. 337 sexies c.p.c., comma 1, introdotto dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154; con riferimento al giudizio di divorzio: L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 6, comma 6, come sostituito dalla L. 6 marzo 1987, n. 74; art. 337 sexies c.c., comma 1, introdotto dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, artt. 7 e 55. Deve ricomprendersi nell’ambito di tale provvedimento anche la disposizione contemplata nell’accordo di definizione consensuale della separazione o del divorzio, intervenuto tra i coniugi con prole minore o maggiorenne incapace o portatore di gravi handicap o non autosufficiente senza colpa, a seguito di procedimento mediante convenzione di negoziazione assistita, ai sensi del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 6 conv. in L. 10 novembre 2014, n. 162, atteso che ai sensi del comma 3 della medesima norma “l’accordo raggiunto…produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali…”. Ricevono, invece, una speciale disciplina legislativa le vicende della abitazione familiare relativa alle unioni civili, in presenza di minori: L. 20 maggio 2016, n. 76, art. 1, commi 42-45) è volto a tutelare esclusivamente l’interesse della prole a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta (Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 1545 del 26/01/2006; id. Sez. 1, Sentenza n. 16398 del 24/07/2007; id. Sez. 1, Sentenza n. 1491 del 21/01/2011; id. Sez. 1, Sentenza n. 9079 del 20/04/2011; id. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 19347 del 29/09/2016), sicché il provvedimento in questione implica l’accertamento che l’immobile si identifica con “il luogo degli affetti, degli interessi, e delle abitudini in cui si esprime la vita familiare e si svolge la continuità delle relazioni domestiche, centro di aggregazione e di unificazione dei componenti del nucleo, complesso di beni funzionalmente organizzati per assicurare l’esistenza della comunità familiare” (cfr. Corte cass. SS.UU. n. 13603/2004 cit.).
Pertanto in difetto originario o sopravvenuto delle condizioni predette (1-esistenza di prole minorenne o maggiorenne che versa nelle particolari situazioni indicate e che risulti effettivamente convivente con l’assegnatario; 2-stabile abitazione dell’immobile da parte dell’assegnatario; 3-sussistenza di un preesistente titolo idoneo al godimento dell’immobile; 4-insussitenza di condizioni sopravvenute ostative alla assegnazione ex art. 337 sexies c.p.c., comma 1), il Giudice non può disporre o deve revocare il provvedimento di assegnazione dell’immobile del terzo (Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 5857 del 22/04/2002; id. Sez. 1, Sentenza n. 4753 del 28/03/2003; id. Sez. 3, Sentenza n. 2103 del 14/02/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 14177 del 07/08/2012; id. Sez. 1, Sentenza n. 15367 del 22/07/2015 che specifica chiaramente come la opponibilità del titolo di godimento ai terzi acquirenti è condizionata dalla perdurante efficacia del provvedimento di assegnazione della casa coniugale, il venir meno del quale “legittima il terzo acquirente dell’immobile…..a proporre un’ordinaria azione di accertamento al fine di conseguire la declaratoria di inefficacia del titolo e la condanna degli occupanti al pagamento della relativa indennità di occupazione illegittima, con decorrenza dalla data di deposito della sentenza di accertamento”).
Occorre rimarcare che, se il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare non è costitutivo di un nuovo diritto, tuttavia deve ritenersi elemento indispensabile in quanto presupposto di legittimazione affinché il coniuge (o l’ex coniuge) assegnatario della casa familiare che non sia già titolare di diritti reali o personali nei confronti del dominus (come nel caso di specie in cui la posizione di comodatario era rivestita dall’ex marito) possa continuare a godere dell’immobile “utendo jure” del titolare-comodatario, in quanto componente di quel “nucleo familiare” che deve considerarsi l’effettivo beneficiario dell’uso dell’immobile. In tal senso il contratto di comodato di “lunga durata”, figura nella quale si inscrive il rapporto in questione caratterizzato dalla destinazione d’uso per le esigenze della famiglia, non può ritenersi scollegato dalle vicende del nucleo familiare -tanto nel momento fisiologico che in quello patologico della convivenza matrimoniale- così come accertate nel provvedimento giudiziale adottato dal Giudice nel procedimento di separazione o di divorzio, atteso che solo in seguito a tale provvedimento risultano verificate le condizioni legali che consentono l’assegnazione della casa familiare, in difetto delle quali cessa il presupposto che legittima l’assegnatario – che non era titolare di diritti sull’immobile – a permanere nel godimento del bene.
Occorre opportunamente distinguere, infatti, nell’ambito del medesimo contratto di comodato gratuito immobiliare, stipulato dalle parti per la destinazione del bene all’uso del nucleo familiare, l’ipotesi in cui il rapporto si svolga in assenza di provvedimento giudiziale di assegnazione, da quella invece in cui cessata la convivenza di fatto tra i coniugi intervenga il provvedimento di assegnazione e sia escluso dal godimento dell’immobile il coniuge esclusivo titolare formale del contratto di comodato.
Nel primo caso, infatti, la vicenda contrattuale si svolge interamente nell’ambito della esecuzione del rapporto tra le parti contraenti e, nel caso di separazione di fatto dei coniugi o di volontà del comodatario -pur convivente-di cessare anticipatamente il rapporto di durata l’altro coniuge non è legittimato ad ingerirsi nel rapporto contrattuale “inter alios” (rimanendo salva la facoltà del coniuge -che non è parte contraente- di agire con ricorso di separazione personale chiedendo la emissione dei provvedimenti provvisori ed urgenti a tutela della prole, ovvero, nel caso di condotta tale da porre in pericolo la stessa esigenza abitativa da assicurare alla prole, instando per i provvedimenti di cui agli artt. 330, 333 e 336 c.c.); nel secondo caso il comodatario è privato, invece, dei diritti derivanti dal contratto la cui attuazione è tuttavia ancora possibile, in quanto lo scopo di destinazione a casa familiare non può ritenersi cessato “se e solo se” sia stato accertato dal Giudice che sussistono e permangono le condizioni di asservimento dell’immobile all’uso della famiglia (nella componente ridotta risultante dalla separazione o dal divorzio).
Il provvedimento giudiziale ha l’effetto di “cristallizzare” il rapporto preesistente, da un lato, consentendo di qualificare “ex ante” come pregiudizievole alla famiglia, e quindi violativa degli obblighi di assistenza e solidarietà, l’eventuale condotta del coniuge escluso il quale -per motivi meramente conflittuali ed emulativi- si accordi con il comodante, stipulando un “contrarius actus”, per sciogliere anzitempo il rapporto di comodato, e dunque esponendo l’atto dispositivo del diritto di godimento all’azione revocatoria ex art. 2901 c.c. dell’assegnatario, o all’azione di simulazione, ricorrendone i presupposti, o all’azione di nullità dell’atto di scioglimento del comodato per difetto di giustificazione causale; dall’altro non interferisce nei diritti del comodante, che rimangono regolati dal medesimo originario titolo negoziale che, in considerazione della destinazione d’uso alle esigenze del nucleo familiare, impressa dalle parti all’immobile, determinando in tal modo “per relationem” la durata del contratto, va ricondotto nello schema negoziale del comodato a tempo determinato ex artt. 1803 e 1809 c.c., che “è destinato a persistere o venire meno con la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari che avevano legittimato l’assegnazione dell’immobile”, ovvero alla sopravvenienza di un bisogno, serio, “imprevisto ed urgente” del comodante (cfr. in termini Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 20448 del 29/09/2014; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 20892 del 17/10/2016).
Tanto premesso la questione controversa non è, come sembrano prospettare i ricorrenti, l'”errore di diritto” commesso dalla Corte territoriale nell’avere riconosciuto alla Sh. in base alla semplice indicazione contenuta nella sentenza di divorzio della materiale collocazione abitativa della figlia presso la madre, così escludendo qualsiasi rilevanza legittimante all’indispensabile provvedimento giudiziale di assegnazione (in violazione del principio secondo cui la sentenza di divorzio viene a caducare il precedente regime delle disposizioni relative ai rapporti familiari adottate nel corso della separazione personale: Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 9689 del 24/07/2000), quanto piuttosto la questione “in fatto” concernente l’errore -in ipotesi- commesso nella rilevazione delle statuizioni adottate con la sentenza 21.11.2013 del Tribunale di Torino che ha pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio che, secondo i ricorrenti, non conterrebbe disposizioni in ordine alla assegnazione della casa coniugale, con ciò venendo ad essere contestata dai ricorrenti la attività della Corte territoriale attinente alla rilevazione ed interpretazione del contenuto delle statuizioni della sentenza divorzile.
Se tale è il vizio di legittimità sottoposto all’esame della Corte, pare evidente il difetto di specificità del motivo che ne rende inammissibile l’esame, atteso che, indipendentemente dalla applicabilità – ratione temporis – alla fattispecie della L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, e non dell’art. 337 sexies c.c. (introdotto a decorrere dal 7.2.2014, giusta il D.Lgs. n. 154 del 2013, art. 108, comma 1), emerge dal controricorso che il procedimento, iniziato con notifica del ricorso contenzioso L. n. 898 del 1970, ex art. 4, comma 2, è stato trasformato dai coniugi in ricorso congiunto ex art. 4, comma 16, della medesima legge, avendo questi concordato alla udienza presidenziale in data 10.6.2013 le condizioni inerenti la prole e ed i rapporti economici, rinviando inoltre per relationem alle “altre condizioni di cui alla separazione consensuale” (controricorso pag. 10), sicchè in difetto di ostensione da parte dei ricorrenti del testo completo della sentenza di divorzio e delle “altre condizioni” adottate nel regime di separazione personale dei coniugi, ove non successivamente modificate, non è consentito a questa Corte procedere alla verifica del dedotto errore di rilevazione, non potendo escludersi -in considerazione delle controdeduzioni della resistente- che, oltre alla proposizione, estrapolata dal testo della sentenza e riportata alla pag. 18 del ricorso, il Tribunale abbia potuto confermare -in difetto di revoca espressa che non viene neppure allegata dalle parti- le previgenti condizioni relative anche alla assegnazione della casa familiare.
La censura ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 difetta pertanto dei requisiti prescritti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 e va dichiarata pertanto inammissibile.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato ed i ricorrenti condannati alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dal L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

L’adottato (ultra 25enne) ha diritto di conoscere anche l’identità delle sorelle e dei fratelli biologici adulti

Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2018, n. 6963
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 16038/2014 proposto da:
Z.P.L., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dagli avvocati Ferlisi Filippo, Cavaglià Elena, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Torino;
– intimato –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 27/12/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/05/2017 dal cons. ACIERNO MARIA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per: istanza di rimessione alle SS.UU. in ordine al potere d’intervento del P.G. nel giudizio d’appello, in subordine nel merito, accoglimento.
Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Torino, sezione minori e famiglia, confermando quanto deciso dal Tribunale per i minorenni, ha rigettato l’istanza di acquisizione delle generalità delle proprie sorelle, proposta da Z.P.L.. A sostegno della richiesta lo Z. ha riferito che sia lui che le sue sorelle venivano adottati da famiglie diverse e di aver rivolto già due istanze analoghe al riguardo, ugualmente rigettate.
Secondo l’istante doveva trovare applicazione la Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia del 20/11/1989, meglio conosciuta come Convenzione di New York e poteva essere applicato quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il Tribunale per i minorenni può procedere ad un bilanciamento tra il diritto al legame familiare ed il diritto alla riservatezza dei fratelli biologici, così come affermato in qualche sentenza di merito.
1.1 Il Procuratore Generale in appello aveva richiesto che si procedesse all’audizione delle sorelle per verificarne il consenso all’accesso ai dati, ed in caso di risposta affermativa, aveva chiesto che il reclamante fosse autorizzato all’accesso.
1.2 A sostegno della reiezione della domanda la Corte d’Appello ha affermato:
la L. n. 184 del 1983, art. 28, commi 4 e 5, indicano le ipotesi in cui è possibile accedere alle informazioni relative all’identità dei genitori biologici e all’origine dell’adottato, mentre il comma 6, prevede l’ascolto delle persone individuate dal Tribunale. Il diritto ai legami familiari è stato di conseguenza considerato ed apprezzato limitatamente alle origini e all’identità dei genitori biologici. Nel caso di specie è stato fatto valere il diritto alla relazione con le sorelle biologiche che sono state adottate ma su tale diritto risulta prevalente quello alla riservatezza delle sorelle tutelato addirittura mediante la previsione del reato di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 73. L’accesso ai dati dei fratelli biologici adottati non è previsto al pari di un’istruttoria preventiva nei loro confronti ed anche l’ascolto finalizzato a verificare il consenso all’accesso ai dati sarebbe destinato a ripercuotersi sui delicati equilibri connessi allo stato di soggetto adottato delle sorelle oltre che sui genitori adottivi delle stesse.
2. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione Z.P. affidato a due motivi accompagnati da memoria. Il ricorso inizialmente destinato alla trattazione camerale presso la Sesta Sezione di questa Corte ex art. 380 bis c.p.c., è stato rimesso alla pubblica udienza.

Motivi della decisione

3. Il ricorrente, prima di illustrare i due motivi di ricorso ha precisato nei termini che seguono la questione da risolvere:
il diritto ai legami familiari è stato considerato ed apprezzato dal legislatore limitatamente all’origine ed all’identità dei genitori biologici o anche con riferimento alla relazione con le sorelle o fratelli biologici, alla stregua dell’interpretazione sistematica delle norme sovranazionali e nazionali, confortata dai principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale nonché di legittimità e merito? 4. Le censure formulate sono le seguenti:
4.1 nel primo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 7 e 8 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 ottobre 1989, resa esecutiva con la L. n. 176 del 1991, laddove si impone il rispetto dei diritti del minore ivi compresi quelli volti a preservare la sua identità, il suo nome e le sue relazioni familiari. Per l’adottato l’identità consiste proprio nel ricercare le proprie origini, le proprie radici e conoscere le informazioni relative alla famiglia biologica. Viene altresì dedotta la violazione dell’art. 30, della Convenzione dell’Aja 29 maggio 1993, resa esecutiva con la L. n. 476 del 1998, e l’errata interpretazione della L. n. 184 del 1983, art. 28, commi 4 e 5, ritenendo che si possano comprendere nei legami familiari anche i fratelli. Infine, in relazione al diritto alla riservatezza delle sorelle, il ricorrente rileva che il diritto azionato è di natura esclusiva ed attuale, essendo riconosciuto da norme costituzionali e convenzionali. Il pregiudizio dovuto all’ascolto od interpello delle sorelle è invece soltanto ipotetico.
La riservatezza peraltro può essere tutelata mediante adeguata istruttoria tendente ad accertare quale potrebbe essere la reazione delle sorelle alla predetta richiesta.
4.2. Nel secondo motivo si sviluppa quest’ultimo profilo anche ex art. 360 c.p.c., n. 5. Il ricorrente sottolinea come una fase istruttoria riservata preserverebbe i diritti concorrenti delle sorelle.
5. In ordine alla preliminare richiesta del Procuratore generale di rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, sul rilievo dell’omessa notifica del ricorso al pubblico ministero e del suo mancato intervento nel giudizio d’appello, il Collegio ritiene di poter disattendere tale istanza.
L’esame testuale dell’art. 28 consente di escludere l’obbligatorietà della partecipazione del pubblico ministero ai procedimenti che hanno ad oggetto le informazioni relative all’identità dei genitori biologici dell’adottato, maggiore di età.
Secondo il paradigma normativo, superato il venticinquesimo anno di età, all’adottato è consentito l’accesso “alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici”.
In questa ipotesi, coincidente dal punto di vista anagrafico con il caso di specie, il legislatore, coerentemente con lo statuto costituzionale del diritto all’identità personale, ha ritenuto in via generale, la prevalenza del diritto a conoscere le proprie origini rispetto a quello potenzialmente contrapposto dei genitori biologici. Prima del raggiungimento dell’età di 25 anni l’accesso è, invece, consentito solo se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla salute psico fisica dell’adottato. In questa peculiare ipotesi, il Tribunale per i minorenni accerta che l’accesso alle notizie non comporti grave turbamento all’equilibrio psico fisico del richiedente.
Il procedimento non richiede l’instaurazione del contraddittorio in quanto, come già rilevato, il diritto a conoscere le proprie origini, nella ipotesi sopra esaminata, può essere limitato od impedito soltanto dall’accertamento di un pregiudizio per la sfera psico fisica del richiedente, reputato così grave da far recedere il diritto alla conoscenza delle proprie origini. La valutazione del tribunale per i minorenni non ha ad oggetto la comparazione od il bilanciamento con i diritti della persona eventualmente confliggenti dei destinatari delle istanze conoscitive dell’adottato, ma rimane ancorata alla sfera personale del richiedente, alla costruzione della sua identità, all’esame dell’incidenza della conoscenza delle proprie origini sullo sviluppo equilibrato della sua personalità, avendo ritenuto il legislatore con valutazione, svolta in via generale ed ex ante, che la giovane età del richiedente, ancorché maggiorenne, imponga particolari cautele.
Anche in questo procedimento, tuttavia, può escludersi l’intervento necessario del pubblico ministero, trattandosi dell’esercizio di un diritto che può soltanto essere temporalmente differito ma non compresso od escluso, avendo natura potestativa dopo il compimento dei 25 anni (S.U. n. 1946 del 2017).
Può, pertanto, ritenersi che soltanto nell’ipotesi disciplinata all’art. 28, comma 4, si possa porre in concreto la questione della necessità dell’intervento del pubblico ministero. La norma contiene un’esplicita deroga al principio generale, stabilito nei commi precedenti, del divieto di fornire informazioni, sui genitori biologici del minore adottato, ai genitori adottivi. Solo per gravi e comprovate ragioni, legate a problemi sanitari, il Tribunale per i minorenni può accogliere tale richiesta, previa “adeguata preparazione ed assistenza del minore”. Le informazioni in questione possono essere fornite anche al responsabile di una struttura ospedaliera o di un presidio sanitario, ove ricorrano i presupposti della necessità e dell’urgenza e vi sia grave pericolo per la salute del minore.
Nei commi successivi, relativi al diritto di conoscere le proprie origini dell’adottato maggiore di età, il procedimento si caratterizza per la mancanza di contraddittorio, svolgendosi nei confronti di una sola parte, e per la conseguente assenza di un interesse di natura pubblicistica comparabile con quello relativo ai soggetti minori di età, il quale, invece, richiede in via generale il controllo e, quando previsto dalla legge, l’iniziativa dell’ufficio del pubblico ministero.
5. Si ritiene opportuno rilevare, a fini di completezza, che la mancata notifica del ricorso per cassazione al Pubblico Ministero, anche nei procedimenti nei quali sia previsto il suo intervento ma non il potere di promuovere l’accertamento giudiziale, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, non determina l’inammissibilità del ricorso stesso tutte le volte che le sue funzioni s’identificano con quelle svolte dal procuratore generale presso il giudice “ad quem” e siano assicurate dalla partecipazione di quest’ultimo al successivo grado di giudizio (S.U. 3556 del 2017).
I precedenti richiamati nella requisitoria del P.G. riguardano azioni di stato nelle quali il pubblico ministero, non solo deve intervenire ex art. 70 c.p.c., ma ha anche il potere di promuovere l’azione.
6. In conclusione deve escludersi l’inammissibilità del ricorso per omessa notifica al Pubblico Ministero e per il difetto di partecipazione dello stesso al procedimento di merito.
7. Prima di affrontare la questione sottoposta al vaglio del Collegio deve rilevarsi, sempre in via preliminare, l’ammissibilità del ricorso. La domanda rivolta al Tribunale ha ad oggetto il riconoscimento di diritti fondamentali ed inviolabili della persona. Ne consegue che il contenuto del provvedimento non può che avere natura decisoria, essendo rivolto all’accertamento dell’esistenza e dell’estensione della tutela di tali diritti. Infine la decisione ha anche il carattere della definitività, ancorché nei limiti dei provvedimenti assunti rebus sic stantibus non essendo il provvedimento in oggetto qualificabile come provvisorio od interinale.
8. Il diritto a conoscere le proprie origini costituisce un’espressione essenziale del diritto all’identità personale. Lo sviluppo equilibrato della personalità individuale e relazionale si realizza soprattutto attraverso la costruzione della propria identità esteriore, di cui il nome e la discendenza giuridicamente rilevante e riconoscibile costituiscono elementi essenziali, e di quella interiore.
8.1 Quest’ultimo aspetto, più complesso, può richiedere la conoscenza e l’accettazione della discendenza biologica e della rete parentale più prossima. La funzione di primaria importanza che riveste il riconoscimento giuridico dell’identità personale e la consapevolezza della pluralità di elementi anche dialettici di cui si compone, quali il diritto a conoscere la verità sulla propria storia personale e quello a conservare la costruzione preesistente dell’identità propria e dei terzi eventualmente coinvolti, ha formato oggetto dell’attenzione e dell’incisivo intervento delle Corti supreme nazionali e sovranazionali.
L’impegno sul riconoscimento del diritto a conoscere le proprie origini è stato stimolato, in tempi molto recenti, proprio dalla necessità di trovare una composizione equilibrata tra diritti contrapposti, quello della persona che vuole completare la costruzione della propria identità attraverso la ricerca delle origini biologiche e quello della madre biologica che ha esercitato, al momento del parto, il diritto di non essere nominata e che può voler conservare questo segreto proprio al fine di non alterare l’identità anche relazionale costruita nel tempo.
9. Su questa dialettica ed al fine di temperare l’assolutezza del divieto di conoscere le proprie origini biologiche, contenuto nella L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, rispetto alla madre che abbia dichiarato alla nascita di non essere nominata, è intervenuta la Corte Europea dei diritti umani con la sentenza del 25 settembre 2012 (ricorso n. 33783/09), Godelli contro Italia, affermando che è necessario stabilire un equilibrio ed una proporzionalità tra gli interessi delle parti in causa e che l’esclusione di qualsiasi possibilità di conoscere le proprie origini, propria della legislazione italiana, a differenza di quella di altri paesi, costituisce una violazione dell’art. 8 Cedu. Con la norma contestata, lo Stato italiano ha oltrepassato il margine di discrezionalità compatibile con la tutela dei diritti della persona garantito dalla Convenzione.
10. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 278 del 2013, condividendo la valutazione della Corte Europea dei diritti umani in ordine all’ingiustificata assolutezza del divieto di conoscere le proprie origini ha ritenuto che la L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, contrasti con gli artt. 2 e 3 Cost., ed ha indicato, con una sentenza additiva di principio (così qualificata da S.U. n. 1946 del 2017), il modello procedimentale da introdurre per rendere effettivo il bilanciamento delle posizioni giuridiche soggettive, almeno potenzialmente confliggenti rappresentate dal diritto all’anonimato della madre biologica e dal diritto a conoscere le proprie origini biologiche del figlio. All’illegittimità dell’assolutezza del divieto, derivante dal complesso normativo costituito dall’art. 28 della L. n. 184 del 1983, e dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, non è conseguita la configurabilità del diritto a conoscere le proprie origini come diritto potestativo ma è stato ritenuto necessario l’interpello della madre biologica al fine di verificarne il consenso all’eventuale revoca della scelta dell’anonimato fatta al momento della nascita. Il diritto di quest’ultima a conservare l’identità costruita anche mediante il segreto sull’abbandono del figlio al momento del parto è stato ritenuto rilevante nel bilanciamento d’interessi compiuto dalla Corte ma è stata eliminata l’intangibilità della scelta, sul rilievo dell’intrinseca mutabilità delle tappe dello sviluppo e consolidamento della personalità umana.
Di peculiare rilievo è la metodologia indicata dalla Corte Costituzionale per procedere ad un adeguato bilanciamento degli interessi confliggenti. La tecnica prescelta non è stata quella di attribuire al giudice la valutazione in concreto del bilanciamento ma di predefinire un modulo procedimentale ritenuto idoneo allo scopo, fondato sulla verifica della volontà e della disponibilità a rimuovere il segreto sulla propria identità da parte della madre biologica in modo da rendere possibile, per la persona che è stata adottata a causa di questa scelta, di completare il quadro della propria genealogia ed identità personale.
11. L’attuabilità del modello sopra descritto, anche senza preventivo intervento legislativo, è stata riconosciuta, infine, nella recente sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 1946 del 2017. In questa pronuncia si è ritenuto che, rimossa dalla pronuncia della Corte Costituzionale la norma sull’assolutezza ed intangibilità dell’anonimato, potesse procedersi all’interpello materno all’interno di un procedimento garantito dalla massima riservatezza al fine di provocare la revoca dell’originario segreto.
12. Può, pertanto, ritenersi che la procedimentalizzazione del bilanciamento d’interessi sia la modalità, costituzionalmente e convenzionalmente adeguata, al fine di attuare, anche in ipotesi diverse da quella disciplinata dalla L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, il corretto bilanciamento d’interessi tra l’adottato maggiore di età che vuole conoscere le proprie origini al fine di aggiungere una tessera di primario rilievo al mosaico della propria identità ed i componenti del nucleo familiare biologico-genetico, diversi dai genitori.
13. Deve, al riguardo precisarsi, che, come già illustrato, il diritto ad avere informazioni sui propri genitori biologici, per la persona adulta ultraventicinquenne, ha carattere potestativo, salva l’eccezione di cui al citato art. 28, comma 7, che ha dato luogo agli interventi delle Corti Supreme.
L’art. 28, comma 5, stabilisce, infatti, che l'”adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici”. L’esame testuale della norma pone la questione, di natura interpretativa, relativa all’ampiezza delle informazioni cui può accedere l’adottato. La norma afferma che l’adottato, raggiunta l’età di 25 anni, può accedere ad informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Occorre, pertanto, stabilire se la formula legislativa possa essere qualificata come un’endiadi e, conseguentemente, esprimere un concetto unitario per il tramite di due termini coordinati ovvero se formula congiunta abbia una valenza pleonastica, o se contenga, invece, due ambiti d’informazioni non necessariamente coincidenti. La prima opzione interpretativa, induce a ritenere che il riferimento normativo all’origine dell’adottato sia soltanto una specificazione dell’ambito delle informazioni che esso ha il diritto di conoscere, da limitarsi all’identità dei genitori biologici, ritenendo, di conseguenza, che questa ultima informazione sia idonea a soddisfare l’esigenza conoscitiva relativa alle origini. Nella seconda, invece, si ritiene che con la formula normativa sopra illustrata il legislatore abbia inteso non limitare esclusivamente all’identità dei genitori biologici il diritto dell’adottato che abbia raggiunto i 25 anni di età (o nei limiti previsti dall’art. 28, comma 5 l’infraventicinquenne) a conoscere le proprie origini ma estenderne il contenuto all’intero nucleo familiare originario, in particolare quando questa indagine sia necessaria per integrare il contenuto del diritto che si vuole esercitare. Il riferimento alle origini, congiunto con quello relativo all’identità dei genitori biologici, può implicare uno spettro più esteso d’informazioni, al fine di ricostruire in modo effettivo il quadro dell’identità personale.
Ove si acceda a quest’ultima opzione ermeneutica, occorre, tuttavia, verificare se la posizione giuridica dei componenti del nucleo familiare originario diversi dai genitori biologici, ed in particolare quella delle sorelle e dei fratelli, a fronte di una richiesta formulata dall’adottato ex art. 28, comma 5, sia da considerare in modo diverso da quella dei genitori i quali, salva l’ipotesi di cui all’art. 28, comma 7, come risultante dall’intervento della Corte Costituzionale e delle S.U. con le sentenze ampiamente richiamate n. 278 del 2013 e 1946 del 2017, non possono impedire l’esercizio del diritto a conoscere le proprie origini a chi ne sia titolare secondo le condizioni previste dal citato art. 28.
14. Ritiene il Collegio che un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma possa valorizzare il richiamo testuale al diritto di accedere alle informazioni sulla propria origine in modo da includervi oltre ai genitori biologici, in particolare nell’ipotesi in cui non sia possibile risalire ad essi, anche i più stretti congiunti come i fratelli e le sorelle ancorché non espressamente menzionati dalla norma. La natura del diritto e la funzione di primario rilievo nella costruzione dell’identità personale che viene riconosciuta alla scoperta della personale genealogia biologico-genetica, induce ad accogliere tale interpretazione estensiva.
15. Deve, tuttavia, rilevarsi che l’esercizio del diritto nei confronti dei genitori biologici e nei confronti degli altri componenti il nucleo familiare biologico-genetico originario dell’adottato, non può realizzarsi con modalità identiche.
Nei confronti dei genitori biologici, il legislatore ha svolto una valutazione generale ex ante sulla netta preminenza del diritto dell’adottato rispetto a quello dei genitori biologici tale da escludere alcun bilanciamento d’interessi da eseguirsi ex post. La scelta del legislatore in ordine ai genitori biologici consegue alla peculiare natura del loro ruolo nel complesso processo che conduce allo status filiationis dell’adottato.
La medesima soluzione non è, tuttavia, automaticamente applicabile anche al diritto di conoscere l’identità delle proprie sorelle e fratelli, in considerazione della radicale diversità della loro posizione rispetto a quella dei genitori biologici con riferimento sia alle ragioni della decisione riguardante lo status di figlio adottivo del richiedente sia all’incidenza di questa decisione sullo sviluppo della sua personalità. Può legittimamente determinarsi una contrapposizione tra il diritto del richiedente di conoscere le proprie origini, e quello delle sorelle e dei fratelli a non voler rivelare la propria parentela biologica ed a non voler mutare la costruzione della propria identità attraverso la conoscenza d’informazioni ritenute negativamente incidenti sul raggiunto equilibrio di vita.
Soltanto nei confronti dei genitori biologici, di conseguenza, il diritto del soggetto adottato adulto che voglia accedere alle informazioni sulle proprie origini si può configurare alla stregua di un diritto potestativo.
Nei confronti delle sorelle e dei fratelli deve, invece, ritenersi necessario procedere, in concreto, al bilanciamento degli interessi tra chi chiede di conoscere le proprie origini e chi, per appartenenza al medesimo nucleo biologico familiare, può soddisfare tale esigenza, ancorché riconosciuta come diritto fondamentale.
Per realizzare in questa peculiare ipotesi il corretto bilanciamento tra le due posizioni almeno astrattamente in conflitto si deve ricorrere alla medesima modalità procedimentale che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 278 del 2013, e le S.U. di questa Corte, con la sentenza n. 1946 del 2017, hanno individuato come lo strumento idoneo a non impedire l’esercizio del diritto a conoscere le proprie origini anche nei confronti di soggetti diversi dai genitori biologici i quali, a differenza di questi ultimi, possono non assentire alla richiesta ma devono essere interpellati al riguardo.
Le informazioni che si vogliono conoscere, in quanto legate ad una comune origine biologica, hanno natura ontologicamente riservata, trattandosi di dati personali sensibili e sono, di conseguenza, protette in via generale dalle ingerenze di terzi. D’altra parte, il diritto a conoscere la propria origine da parte dell’adottato adulto (infra o ultraventicinquenne, nel primo caso il diritto è condizionato in funzione dell’esclusivo interesse del richiedente, nel secondo manca di limitazioni) gode di un riconoscimento costituzionale, convenzionale e di diritto positivo (art. 28) non comprimibile (con esclusione dei genitori biologici) se non mediante il dissenso espresso del possessore delle informazioni richieste.
Pur non sussistendo per le sorelle ed i fratelli un divieto espresso a far conoscere la propria identità, come quello che vige (con il forte temperamento individuato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità sopra illustrata) per la madre biologica che ha scelto l’anonimato al momento del parto, deve riconoscersi anche ai predetti componenti del nucleo familiare originario il diritto di essere interpellati in ordine all’accesso alle informazioni sulla propria identità, trovandosi a confronto posizioni giuridiche soggettive di pari rango e di contenuto omogeneo sulle quali non vi è stata alcuna predeterminazione legislativa della graduazione gerarchica dei diritti e degli interessi da comporre, come invece previsto nell’art. 28, commi 5 e 6, con riferimento all’adottato maggiorenne che voglia conoscere l’identità dei propri genitori biologici.
Le modalità procedimentali in concreto adottabili possono essere tratte dai numerosi protocolli elaborati dai Tribunali per i minorenni dei diversi distretti giudiziari dei quali si trova ampia illustrazione nel par. 11 delle S.U. n. 1946 del 2017.
Deve aggiungersi che, nel caso di specie, la situazione personale di partenza del ricorrente e delle sorelle è del tutto identica, essendo specificato nel ricorso che anche queste ultime sono state adottate ma da coppie diverse, con conseguente allontanamento e perdita di ogni contatto ed informazione reciproca dall’avvenuta adozione.
Il diritto a conoscere le proprie origini, alle condizioni sopra indicate, è limitato all’accesso, riservato, alle informazioni relative all’identità delle sorelle biologiche, con esclusione di alcun vincolo di parentela o relazionale e con obbligo di trattamento dei dati personali conosciuti non lesivo dei diritti altrui.
16. In conclusione, il ricorso deve essere accolto nei limiti di cui in motivazione e la pronuncia impugnata deve essere cassata con rinvio al giudice del merito perché si attenga al seguente principio di diritto: “L’adottato ha diritto, nei casi di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 5, di conoscere le proprie origini accedendo alle informazioni concernenti, non solo l’identità dei propri genitori biologici, ma anche quella delle sorelle e fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell’esercizio del diritto”.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa il provvedimento impugnato e rinvia alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione.

CONFLITTO DI INTERESSI (tra genitori e figli)

Di Gianfranco Dosi
I L’esigenza di una nuova ricostruzione sistematica del tema del conflitto di interessi tra genitori e figli
Il tema del conflitto di interessi tra genitori e figli viene trattato nella manualistica tradizionale quasi esclusivamente nell’ambito delle funzioni genitoriali di rappresentanza dei figli e di amministrazione del loro patrimonio.
Questo approccio tradizionale si deve al fatto che il codice civile colloca la disciplina del “conflitto di interessi” nell’ambito delle norme sulla rappresentanza, specificamente nell’art. 1394 (libro IV sulle obbligazioni, titolo II dei contratti, capo VI della rappresentanza) nel quale si legge che “il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato può essere annullato su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile”. Ipotesi paradigmatica, unica prevista ex lege, del conflitto di interessi è il contratto che il rappresentante conclude con se stesso (art. 1395 c.c.). Il conflitto di interessi è tema, quindi, che attiene nel codice civile alla rappresentanza (volontaria). Ed anche nel diritto di famiglia, conseguentemente, la manualistica tradizionale tratta il tema del conflitto di interessi soprattutto nel contesto delle norme sulla rappresentanza (legale) del figlio minore da parte dei genitori.
Questa collocazione sistematica è oggi assolutamente inadeguata perché mette in risalto nella molteplicità delle funzioni genitoriali solo un aspetto problematico – concernente il lato esterno della rappresentanza (risolvibile con la nomina di un curatore speciale) – mentre trascura del tutto i conflitti di interesse che possono emergere nell’ambito del rapporto genitori – figli collegati ai doveri genitoriali di educazione, istruzione, mantenimento e assistenza (risolvibili non solo attraverso la nomina di un curatore, ma più spesso attraverso diversi e ulteriori strumenti di perseguimento dell’interesse del minore).
In effetti nell’ambito della “responsabilità genitoriale” (art. 316 c.c.) la rappresentanza è solo uno degli aspetti che definiscono le funzioni genitoriali e forse il meno problematico. Nella nozione di “responsabilità genitoriale” sono sovrapposti, infatti, sia il potere di rappresentanza (che dura finché dura la minore età), sia un altro vasto fascio di funzioni educative, di cura, di mantenimento e di assistenza (che supera anche il limite della minore età).
Le disposizioni, quindi, che, in caso di conflitto di interessi tra il figlio minore e i suoi genitori, prevedono la nomina al minore di un curatore speciale e altri strumenti di tutela del figlio (minore ma anche maggiore di età) vanno correttamente ricollocate nel contesto di tutte queste funzioni connesse alla responsabilità genitoriale, costituite sia dai poteri di rappresentanza dei figli minori e di amministrazione del loro patrimonio da parte dei genitori, sia dai poteri di indirizzo collegati alle altre più ampie funzioni genitoriali.
Da un lato vi sono, perciò, funzioni fisiologiche del potere rappresentativo (appunto quelle cui fa riferimento soprattutto la manualistica tradizionale) concernenti quello che costituisce il risvolto esterno della responsabilità genitoriale e cioè il compimento necessario da parte dei genitori di atti o il perseguimento giudiziario di interessi in nome e per conto (e quindi in rappresentanza) del minore e che altrimenti il minore – privo di capacità di agire – non potrebbe compiere. A questo fascio di funzioni fanno riferimento le norme sul conflitto nell’ambito dell’esercizio del potere rappresentativo e di amministrazione (art. 320 c.c., art. 321 c.c.; articoli 78, 79 e 80 c.p.c.; alcuni procedimenti relativi allo status filiationis) per lo più risolvibile con la nomina di un curatore speciale.
Dall’altro lato vi sono, invece, funzioni genitoriali di carattere interno al rapporto genitori-figli, che si esercitano attraverso l’adempimento dei doveri genitoriali collegati ai diritti indicati nell’art. 315- bis c.c. (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 8, della legge 10 dicembre 2012, n. 219) secondo cui “il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”. Nelle molteplici situazioni in cui l’ordinamento giuridico chiede ai genitori di garantire questi diritti ai figli (non solo minori di età) si possono determinare altrettante situazioni di conflitto di interessi per le quali la soluzione, in caso di minore età del figlio, può essere la nomina di un curatore speciale (in ambito civile art. 336 c.c.; articoli 8 e 10 della legge 4 maggio 1983, n. 184 nell’interpretazione pacifica in giurisprudenza; in ambito penale art. 121 c.p. e 338 c.p.p.) ma può anche essere diversa. Così in sede di separazione, divorzio e affidamento dei figli la tutela dei diritti dei figli è garantita dall’utilizzazione di altri strumenti come l’ascolto del figlio (Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8100; Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478).
Pertanto la sistematica del conflitto di interessi tra genitori e figli va oggi completamente ricostruita assumendo come criterio di riferimento non più soltanto l’aspetto esterno della responsabilità genitoriale costituito dai tradizionali poteri di rappresentanza dei figli da parte dei genitori, ma l’intero fascio di poteri e doveri che presiedono all’esercizio delle funzioni genitoriali.
II Il conflitto di interessi nell’esercizio delle funzioni di rappresentanza del figlio minore da parte dei genitori
Premesso quindi che la responsabilità genitoriale si esprime sia attraverso le tradizionali funzioni di rappresentanza e amministrazione, sia attraverso ulteriori e più ampie funzioni di educazione, istruzione, mantenimento e assistenza del figlio, l’indagine sul conflitto di interessi può cominciare dalla verifica del concetto di conflitto di interessi nell’approccio tradizionale legato alle funzioni di rappresentanza dei figli minori da parte dei genitori.
Anche in questo caso, però, come anche in ambito contrattuale (citato art. 1394 c.c.), il concetto di conflitto di interessi non viene esplicitato dal legislatore e pertanto va ricostruito a partire dalle nozioni tradizionali interne al tema della rappresentanza e dalla casistica che si presenta nella prassi.
Con riferimento alle indicazioni che emergono dal codice civile sul conflitto di interessi va detto che l’art. 1394 c.c. secondo cui “il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato è annullabile se tale conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo” ha valore nel solo ambito contrattuale e non è applicabile al conflitto di interessi cui fa riferimento l’art. 320 ultimo comma c.c. per il quale l’inosservanza delle norme sulla sostituzione del rappresentante legale comporta l’annullabilità sempre e indipendentemente dalla riconoscibilità del conflitto da parte del terzo (art. 322 c.c.).
La dottrina riconduce correttamente il conflitto di interessi all’abuso della rappresentanza e ne individua il dato caratteristico nel fatto che si tratta di un esercizio anormale del potere rappresentativo, una deviazione funzionale, una specie di sviamento di potere. L’atto è regolare ma il rappresentante agisce sostanzialmente nel proprio interesse e non nell’interesse del rappresentato. Lo scopo, quindi, delle disposizioni che intendono porre riparo al conflitto di interessi nell’ambito della rappresentanza genitoriale è quello di evitare che i genitori nell’esercizio del potere legale di rappresentanza dei figli minori possano perseguire un loro interesse piuttosto che quello dei loro figli ovvero l’interesse di un figlio a scapito di quello di un altro figlio.
Il rilevamento del conflitto di interessi (in vista del suo superamento) è reso possibile grazie alla previsione dell’obbligo di autorizzazione giudiziaria per il compimento di determinati atti e determinate attività che i genitori possono compiere in nome e per conto dei figli minori. Come meglio si vedrà tra breve, allorché per determinati atti di straordinaria amministrazione si renda necessaria un’autorizzazione in sede giudiziaria, il giudice chiamato ad autorizzare un atto o una iniziativa giudiziaria relativa ad un minore, ove rilevi un conflitto di interessi tra genitori e figli o un qualsiasi altro difetto di rappresentanza deve nominare al figlio minore un curatore speciale in funzione sostitutiva delle funzioni genitoriali.
Proprio per questo motivo – per non estendere oltre il necessario l’attribuzione a terzi delle funzioni genitoriali – la giurisprudenza si è trovata nella necessità di circoscrivere correttamente il concetto di conflitto di interessi ed ha messo in evidenza che il conflitto di interessi tra genitore e il figlio è ipotizzabile allorché i due interessi siano nel caso concreto incompatibili tra loro, nel senso che l’interesse del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, mal si concilia con quello del rappresentato (Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533; Cass. civ. Sez. II, 26 ottobre 1981, n. 5591) o si presenta contrastante con quello del figlio minore (Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869). Ed è anche per questa ragione che per il compimento di atti patrimoniali che appaiono, invece, utili e necessari al minore, non viene ipotizzato tra genitori e figli minori alcun conflitto di interessi con la conseguenza che in questi casi non è necessario nominare un curatore speciale (Trib. Roma, 12 marzo 1991, in Temi Romana, 1991, 428).
Per quanto in particolare concerne il promovimento di un’azione giudiziaria (iniziativa che, come meglio si dirà, il giudice è anche chiamato ad autorizzare) la nomina di un curatore speciale si paleserà necessaria tutte le volte in cui ci si avvede che i genitori esercenti la responsabilità genitoriale, agendo in rappresentanza del figlio, possano perseguire un proprio vantaggio o allorché la causa possa arrecare al minore un pregiudizio, ma non quando il genitore chieda un provvedimento che si presenti oggettivamente vantaggioso per il figlio, quale una pronuncia di risarcimento dei danni sofferti dal minore in conseguenza di un fatto illecito (Cass. civ. Sez. II, 19 gennaio 2012, n. 743; Cass. civ. Sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59; Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1983, n. 3977; Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 1981 n. 294; Cass. civ. Sez. III, 15 dicembre 1980, n. 6503) ovvero una qualunque altra azione che possa portare vantaggio al minore.
È stato anche precisato che vi è un rapporto di totale autonomia tra la eventuale valutazione negativa sul conflitto di interessi che il giudice tutelare (chiamato ad autorizzare un atto di straordinaria amministrazione) abbia fatto in sede di autorizzazione dell’atto e l’eventuale conflitto di interessi che si dovesse poi palesare concretamente in sede processuale. Con la conseguenza che se anche il giudice tutelare, in sede di autorizzazione di un atto, non abbia ritenuto di nominare un curatore speciale, non è escluso che in sede processuale, ove per esempio il genitore promuova in nome e per conto del figlio minore una causa concernente l’atto autorizzato, venga rilevato in concreto un conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato tale da richiedere – sulla base delle norme generali di cui agli articoli 79, 80 e 81 c.p.c. che saranno più oltre esaminate – la nomina di un curatore speciale al rappresentato. Questo è l’orientamento della giurisprudenza (Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 2001, n. 10822) dove il principio è stato prospettato in un caso di conflitto di interessi tra un anziano interdetto e la figlia che ne era tutore, ma viene in motivazione espressamente dichiarato applicabile anche al caso in cui il giudice tutelare, ritualmente richiesto, abbia ritenuto di non nominare un curatore speciale per il promovimento di un’azione giudiziaria per conto di un minore, in quanto il giudice tutelare “pone ad oggetto della propria determinazione la sola valutazione sull’opportunità o meno dell’azione sulla base delle prospettazioni di esito favorevole o meno della stessa, al cui accertamento perviene prendendo in considerazione esclusivamente gli elementi di giudizio prospettati dall’istante o acquisiti a seguito dell’istruttoria su di essi espletata”.
Analogamente – e sempre perché vi è autonomia tra i due differenti contesti normativi – l’eventuale invalidità dell’atto di nomina del curatore speciale (per esempio nominato da giudice incompetente) può essere fatta valere come ragione di annullamento della nomina in sede di reclamo ma non incide sulla validità della eventuale causa promossa da o contro il curatore speciale. Il principio è stato espresso da Cass. civ. Sez. I, 18 febbraio 1985, n. 1357 in una causa che era stata promossa contro un curatore speciale.
Nonostante il chiaro disposto dell’art. 320 c.c. che lo prevede testualmente, la giurisprudenza non sempre ritiene necessario nominare un curatore speciale allorché il genitore promuova un giudizio per il risarcimento di danni cagionati al minore (Cass. civ. Sez. III, 13 aprile 2010, n. 8720; Cass. civ. Sez. III, 14 marzo 2003, n. 3795; Cass. civ. Sez. III, 22 maggio 1997, n. 4562 hanno precisato che l’autorizzazione serve quando “il danno, per la sua natura e la sua entità, possa incidere profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato”; Contra in passato Cass. civ. Sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59 che aveva ritenuto sempre necessaria la nomina di un curatore speciale in caso di transazione).
Il conflitto di interessi, in definitiva, si ricollega alla titolarità, in capo al genitore, di una situazione giuridica idonea a determinare la possibilità che il potere rappresentativo possa essere in contrasto con l’interesse del minore e presuppone che il genitore sia interessato ad un atto di contenuto diverso o ad un esito della lite diverso da quello che avvantaggia il rappresentato (Cass. civ. Sez. III, 15 settembre 1983, n. 5582 in cui la Corte ha escluso una situazione di conflitto di interessi in relazione al genitore che, nella qualità di rappresentante del figlio minore, avendo promosso il giudizio per il risarcimento del danno subito dal figlio, aveva resistito, in appello all’impugnazione del terzo ritenuto responsabile, ancorché il giudice di primo grado avesse affermato un concorso di colpa di esso genitore).
Non si configura, pertanto, alcun conflitto di interessi, e non è conseguentemente necessaria la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 320 ultimo comma c.c., quando il compimento dell’atto, pur avendovi i due soggetti un interesse proprio e distinto, realizza un vantaggio comune di entrambi senza danno reciproco (Cass. civ. Sez. III, 28 febbraio 1992, n. 2489 relativo alla costituzione della madre, in proprio ed in rappresentanza dei figli minori, nel giudizio di risarcimento di danno extracontrattuale instaurato contro il padre, poi deceduto; nello stesso senso anche Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869 e Cass. sez. III, 17 maggio 1985, n. 3020) ovvero quando, pur avendo tali soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, i due interessi, secondo l’apprezzamento del giudice di merito, siano tra loro concorrenti e compatibili (Cass. civ. Sez. II, 26 ottobre 1981, n. 5591 nella fattispecie, in cui il genitore resisteva in giudizio nell’interesse proprio di erede e nell’interesse dei figli minori legatari, la Cassazione, enunciando il principio sopra ricordato ha ritenuto escluso, dai giudici di merito, il conflitto di interessi tra i primI ed i secondi). Per questi motivi Cass. civ. Sez. II, 29 gennaio 2016, n. 1721 ha precisato che la verifica del conflitto del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa, e non in astratto ed “ex ante”.
Insomma il conflitto di interessi fra genitore e figlio minore – che legittima la nomina di un curatore speciale – sussiste soltanto quando i due soggetti si trovino o possano in seguito trovarsi in posizione di contrasto nel senso che l’interesse proprio del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, appare contrastante con quello del rappresentato.
Naturalmente, secondo i principi generali, il convincimento circa l’esistenza di un conflitto di interessi e la conseguente nomina del curatore speciale, se correttamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869).
In base a quanto anche si ritiene in tema di rappresentanza volontaria – dove si ha conflitto di interessi sia quando il rappresentante persegue in interesse proprio (conflitto di interessi diretto) sia quando persegue un interesse non del rappresentato ma di terze persone (conflitto di interessi indiretto) – il conflitto di interessi che comporta l’obbligo di nomina di un curatore speciale può presentarsi anche in forma indiretta allorché i genitori perseguano un interesse non dei figli e nemmeno di essi genitori ma di una terza persona (Cass. civ. Sez. I, 19 gennaio 1981, n. 439).
Non si realizza specificamente una vera e propria situazione di conflitto di interessi nell’art. 321 c.c. (che si avrà modo tra breve di esaminare) dove, invece, ciò che rileva è l’impossibilità o la negligenza nella cura degli interessi del minore. Tuttavia in senso ampio anche la nozione di atti che i genitori non possono o non vogliono compiere può essere assimilata al conflitto di interessi; conflitto appunto tra l’interesse del minore che dovrebbe essere tutelato in una direzione e un fatto (impossibilità di compiere un atto) ovvero un comportamento (negligenza nel compiere un atto) del genitore che si pone in contrasto con quella esigenza.
Nell’ipotesi in cui al minore, rimasto privo dei genitori, sia stato nominato un tutore (art. 343 c.c.), il conflitto di interessi tra il tutore e il minore è risolto preventivamente attraverso la nomina di un protutore il quale “rappresenta il minore nei casi in cui l’interesse di questo è in opposizione con l’interesse del tutore” (art. 360 comma 1). Anche in questo caso residua, però, la possibilità di nomina di un curatore speciale al minore ogni qualvolta il protutore sia in conflitto di interessi con lui (art. 360 comma 2).
III Le caratteristiche del conflitto di interessi nel compimento di atti di straordinaria amministrazione (art. 320 c.c.) e in caso di inerzia dei genitori (art. 321 c.c.)
Il potere sostitutivo di rappresentanza dei figli minori nei confronti dei terzi non è considerato dalla legge del tutto libero. Infatti per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione per conto dei figli minori i genitori devono munirsi dell’autorizzazione del giudice tutelare (art. 320 c.c.) il quale è chiamato, quindi, ad esercitare un controllo di merito sugli atti di potenziale maggiore rischio compiuti dai genitori nell’interesse del figlio minore. L’autorizzazione deve essere preventiva, a pena dell’annullabilità dell’atto (art. 322 c.c.).
Sono esclusi dalla funzione sostitutiva e quindi non sollevano un problema giuridico di conflitto di interessi tra genitore e figli minori – e non possono comportare la nomina di un curatore speciale – sia gli atti personalissimi che un minore intendesse compiere, come il riconoscimento di un figlio, sia gli atti per i quali i figli sono considerati capaci prima del raggiungimento della maggiore età come l’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro cui il minore è abilitato al compimento in genere del quindicesimo anno di età o per l’esercizio dei diritti e delle azioni relative alle opere dell’ingegno da lui create cui il minore è abilitato al sedicesimo anno di età. Ugualmente si ritiene – in conformità, peraltro, a quanto prevede espressamente l’art. 777 c.c. – che il genitore non possa compiere atti a titolo gratuito per conto dei figli minori, posto che la funzione sostitutiva dei genitori ha come limite connaturale l’utilità degli atti compiuti nell’interesse dei figli minori.
L’art. 320 c.c. rubricato rappresentanza e amministrazione collocato, nell’ambito delle norme del codice riservate alla responsabilità genitoriale (libro I, titolo IX, dall’art. 315 all’art. 337-octies dopo la riforma attuata con la legge 10 dicembre 2010, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154), prevede al primo e al secondo comma che “i genitori congiuntamente, o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale, rappresentano i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni. Gli atti di ordinaria amministrazione, esclusi i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore. Si applicano in caso di disaccordo o di esercizio difforme dalle decisioni concordate, le disposizioni di cui all’art. 316”. Il terzo, il quarto e il quinto comma elencano gli atti – di più significativa importanza – che i genitori non possono compiere se non dopo aver richiesto l’autorizzazione del giudice tutelare (atti di straordinaria amministrazione elencati nel terzo comma e la riscossione di capitali cui fa riferimento il quarto comma) ovvero del tribunale (autorizzazione alla continuazione da parte del minore di una impresa commerciale cui si riferisce il quinto comma). Il giudice è chiamato a valutare la corrispondenza dell’atto all’interesse del minore e autorizzare o meno l’atto.
L’ultimo comma prevede che “se sorge conflitto di interessi patrimoniali tra i figli soggetti alla stessa responsabilità genitoriale o tra essi e i genitori o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale, il giudice tutelare nomina ai figli un curatore speciale. Se il conflitto sorge tra i figli e uno solo dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale la rappresentanza dei figli spetta esclusivamente all’altro genitore”.
L’art. 321 c.c., rubricato nomina di un curatore speciale, chiarisce in un unico comma che “in tutti i casi in cui i genitori congiuntamente o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale non possono o non vogliono compiere uno o più atti nell’interesse del figlio, eccedente l’ordinaria amministrazione, il giudice, su richiesta del figlio stesso, del pubblico ministero o di uno dei parenti che vi abbia interesse, e sentiti i genitori, può nominare al figlio un curatore speciale autorizzandolo al compimento di tali atti”.
La competenza alla nomina del curatore speciale appartiene al giudice tutelare nel caso del conflitto di interessi indicato nell’art. 320 c.c. e – secondo una interpretazione letterale delle norme da parte della giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 13 marzo 1992, n. 3079) – al tribunale nel caso previsto dall’art. 321 c.c.
Il curatore speciale ha la funzione (di diritto sostanziale), in sostituzione dei genitori, di compiere nell’interesse del minore quel determinato atto giuridico a contenuto patrimoniale eccedente l’ordinaria amministrazione che i genitori non è opportuno che compiano essendosi evidenziata, appunto, una situazione di conflitto di interessi. Tra gli atti in questione vengono espressamente annoverati dalla disposizione citata i casi in cui occorre promuovere (o transigere) in nome e nell’interesse di un minore una determinata azione giudiziaria concernente gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione ai quali fa riferimento lo stesso art. 320 c.c..
Analogamente prevede l’art. 321 c.c. per quelle situazioni in cui i genitori non possono o non intendono compiere uno o più atti eccedenti l’ordinaria amministrazione nell’interesse del loro figlio minore. Si verifica in questi casi non un conflitto di interessi in senso stretto ma un conflitto di interessi in senso ampio e cioè un difetto di esercizio dei poteri di rappresentanza per mancanza dei genitori o per loro disinteresse.
Gli articoli 320 e 321 c.c. delineano, quindi, sia la figura del curatore speciale ad acta e, nel caso di promovimento di un’azione giudiziaria, quella del curatore speciale ad processum (terminologia che non compare nella giurisprudenza e nemmeno nella dottrina ma che rende bene la differenza tra queste due categorie di curatori speciali). La giurisprudenza ha precisato che il curatore speciale ad acta può anche rappresentare il minore in sede processuale nei giudizi sorti in seguito ed in relazione all’atto per il cui compimento è stato nominato; quindi le funzioni di curatore ad acta possono evolvere verso quelle del curatore ad processum (Cass. civ. Sez. III, 28 marzo 2017, n. 7889; Cass. civ. Sez. unite, 16 ottobre 1985, n. 5073). Il principio è, insomma, che il curatore speciale che venga nominato dal giudice tutelare, ex art. 320 c.c., in una situazione di conflitto di interessi tra il minore e il genitore, ha poteri di rappresentanza del minore identici a quelli del genitore, sicché ha legittimazione processuale quanto ai giudizi che sorgono in relazione all’atto per cui sia stata disposta la nomina
Si possono individuare le seguenti caratteristiche:
a) Natura patrimoniale dell’interesse tutelato
La disfunzionalità nella rappresentanza degli interessi del minore al quale entrambe le norme intendono porre riparo attiene ad interessi di natura patrimoniale. È lo stesso ultimo comma dell’art. 320 c.c. a qualificare il conflitto di interessi come avente necessariamente contenuto patrimoniale. Lo si deduce, però, chiaramente anche dal fatto che le norme parlano di “atti” e non di “fatti” o “comportamenti”. Sulla base della circostanza che il conflitto di interessi di cui si parla ha natura eminentemente patrimoniale la giurisprudenza ha ritenuto, per esempio, che non debba ritenersi soggetto all’autorizzazione ai sensi dell’art. 320 c.c. il ricorso giurisdizionale avverso un atto di riprovazione di un alunno di scuola media (TAR Abruzzi, sez. Pescara, 10 maggio 1984, n. 157, in Riv. giuridica scuola, 1986, 845) e della scuola dell’obbligo (TAR Lombardia, sez. III, Milano, 9 giugno 1986, n. 284, in Foro It., 1987, III, 308) involgendo tali controversie interessi non di natura patrimoniale ma di natura personale ancorché ne possano derivare indiretti riflessi economici.
Parte della dottrina non condivide la limitazione del conflitto di interessi richiamato dall’art. 320 c.c. al conflitto di interessi di natura patrimoniale e ritiene che l’espressione “conflitto di interessi patrimoniale” – che testualmente era stata così riformulata dalla riforma del diritto di famiglia del 75 in sostituzione della precedente espressione che semplicemente parlava di “conflitto di interessi”- servirebbe soltanto ad impedire che contrasti di vedute e di opinioni sul modo di condurre l’educazione dei figli, fra questi e i propri genitori, vengano portati davanti al giudice. Tuttavia l’indicazione testuale delle norme è molto chiara e il conflitto di interessi non patrimoniali può trovare posto solo nell’art. 78 c.p.c. limitandosi quest’ultima norma a parlare di “conflitto di interessi con rappresentante” senza alcuna specificazione circa la natura del conflitto.
b) Atto di straordinaria amministrazione
A differenza degli atti di ordinaria amministrazione che possono essere compiuti disgiuntamente da entrambi i genitori (che, in caso disaccordo, potranno attivare lo speciale procedimento previsto nell’art. 316 c.c. di competenza oggi non più del tribunale per i minorenni ma del tribunale ordinario dopo le riforme dell’art. 38 disp. att. c.c. attuata con la legge 10 dicembre 2010, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) viceversa gli “atti” che, sussistendo un conflitto di interessi o un disinteresse dei genitori, giustificano, in sede di autorizzazione, la nomina del curatore speciale del minore sono quelli eccedenti l’ordinaria amministrazione. Tra questi i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento (per i quali il primo comma dell’art. 320 c.c. esclude, pur trattandosi di atti di ordinaria amministrazione, che possano applicarsi le regole dell’amministrazione disgiuntiva). Il principio della necessità della autorizzazione per i soli atti di straordinaria amministrazione si desume chiaramente dal fatto che il terzo comma dell’art. 320 c.c. dopo avere elencato nella prima parte gli atti che necessitano della autorizzazione conclude il breve elenco con l’espressione “o compiere altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione” con ciò chiaramente intendendo attribuire agli atti subito prima elencati la natura di atti eccedenti, appunto, l’ordinaria amministrazione. L’autorizzazione del giudice tutelare è richiesta – in base al quarto comma dell’art. 320 c.c. – anche per la riscossione di capitali in nome e per conto del minore che potrebbe essere considerato un atto di ordinaria amministrazione in quanto volto al miglioramento del patrimonio del minore; in questa evenienza il conflitto di interessi tra i genitori e il minore viene rimosso in radice in quanto si prevede espressamente che il giudice debba determinare il reimpiego delle somme riscosse (nell’art. 372 c.c. sono indicate le modalità di investimento dei capitali del minore). I medesimi atti di straordinaria amministrazione sono richiamati nell’art. 321 c.c. e per essi è applicabile il meccanismo previsto nell’ultimo comma dell’art. 320 c.c. relativo alla nomina del curatore speciale del minore nel caso in cui si evidenzi il conflitto di interessi. Espressamente, quindi, anche l’inerzia dei genitori, che l’art. 321 c.c. pone a fondamento della nomina ivi prevista del curatore speciale, deve concernere un atto “eccedente l’ordinaria amministrazione”.
La distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione si fonda tradizionalmente sulla funzione dell’atto; in questa prospettiva sarebbero atti di ordinaria amministrazione quelli che, senza alterare l’integrità del patrimonio sono rivolti al suo mantenimento e che abbiano finalità di conservazione (Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 1999, n. 8484; Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869) oppure quelli che sono tesi al miglioramento del patrimonio. Occorre, però, osservare che anche gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possono avere la funzione di migliorare o incrementare il patrimonio. È difficile individuare, perciò, un criterio unitario. Appare plausibile il riferimento – che si fa anche in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. II, 15 novembre 2004, n. 21614; Cass. civ. Sez. I, 30 gennaio 1982, n. 599) – tra atti che non alterano l’integrità del patrimonio del minore ed atti che, invece, in quanto rischiosi potrebbero incidere su di esso con modificazioni o trasferimenti idonei a mutarne la struttura e la consistenza, sempre, beninteso che si chiarisca che gli atti soggetti ad autorizzazione non possono che essere diretti a migliorare il patrimonio del minore, non certo a recargli pregiudizio. Il “rischio” potrebbe essere pertanto alla base della distinzione tra le due categorie di atti.
Un tentativo di individuare le caratteristiche che fondano la distinzione è stato fatto da Cass. civ. Sez. II, 15 novembre 2004, n. 21614 secondo cui vanno considerati di ordinaria amministrazione gli atti che presentino tutte e tre le seguenti caratteristiche: 1) siano oggettivamente utili alla conservazione del valore e dei caratteri oggettivi essenziali del patrimonio in questione; 2) abbiano un valore economico non particolarmente elevato in senso assoluto e soprattutto in relazione al valore totale del patrimonio medesimo; 3) comportino un margine di rischio modesto in relazione alle caratteristiche del patrimonio predetto. Vanno invece considerati di straordinaria amministrazione gli atti che non presentino tutte e tre queste caratteristiche.
Per alcuni atti è espressamente l’art. 320 c.c. che indica la necessità dell’autorizzazione previa verifica dell’utilità evidente per il figlio minore e, quindi, l’inclusione nella categoria degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione: alienazione o iscrizione di ipoteca o sottoposizione a pegno di beni pervenuti al figlio minore; accettazione o rinuncia ad eredità o a legati, accettazione di donazioni, scioglimento di comunioni, conclusione di contratti di mutuo (Cass. civ. Sez. III, 28 luglio 1987, n. 6542 la quale, in un caso di concessione di mutuo a minori, nonostante la espressa inclusione di tale tipo di negozio fra gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, ha ritenuto esente tale atto dalla preventiva autorizzazione del giudice tutelare ove venga fornita la prova specifica che il prestito sia suscettibile di restituzione mediante impiego del reddito del minore e senza pericolo di decurtazione dei suoi capitali o di diminuzione del valore del suo patrimonio) o di locazione ultranovennale e, infine, promovimento di azioni, transazione o arbitrato relativamente agli atti elencati.
È stato considerato di ordinaria amministrazione il promovimento da parte dei genitori di un’azione di responsabilità verso terzi per danni subìti dal minore (Trib. Cagliari, 8 agosto 1989, citata in Riv. giuridica sarda, 1995, 53). In tal caso la ritenuta non necessità della nomina viene in genere giustificata non per il fatto che si tratta di un atto di ordinaria amministrazione quanto piuttosto dalla considerazione della vantaggiosità per il figlio che escluderebbe il conflitto di interessi (Cass. civ. Sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59; Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1983, n. 3977; Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 1981, n. 294; Cass. civ. Sez. III, 15 dicembre 1980, n. 6503).
Atto di straordinaria amministrazione, che richiede come tale l’autorizzazione del giudice tutelare, è la confessione giudiziale o stragiudiziale su fatti dalla cui prova il diritto del figlio potrebbe risultare pregiudicato (Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 1995, n. 4015 che fa nella specie riferimento alla confessione – che sarebbe inammissibile senza autorizzazione – da parte del genitore relativamente alla gratuità di un atto di alienazione apparentemente oneroso stipulato senza testimoni; in tal caso, infatti, la confessione avrebbe come conseguenza la nullità dell’atto per difetto di forma).
Ugualmente atto di straordinaria amministrazione è la continuazione (non, quindi, l’inizio) dell’esercizio di una impresa commerciale per il quale, tuttavia, l’art. 320 comma 5 c.c. prevede la competenza all’autorizzazione del tribunale relegando il giudice tutelare – chiamato peraltro ad esprimere un parere non vincolante – alla funzione di autorizzazione solo dell’esercizio provvisorio (Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 1994, n. 7204). L’autorizzazione alla continuazione dell’impresa commerciale presuppone, naturalmente, che l’impresa sia già entrata nel patrimonio del minore, altrimenti, in caso di imprese che non sono ancora di proprietà del minore, l’autorizzazione sarebbe invalida (Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 1984, n. 2936). Il genitore, autorizzato dal tribunale ai sensi dell’art. 320, quinto comma, cod. civ., alla continuazione dell’esercizio dell’impresa commerciale del minore, può compiere, senza necessità di specifica autorizzazione del giudice tutelare, anche i singoli atti strettamente collegati a tale esercizio, stante il carattere dinamico dell’impresa e la necessità di assumere decisioni pronte e tempestive, le quali sarebbero gravemente ostacolate, o addirittura paralizzate qualora, per ogni singolo atto, occorresse rivolgersi all’autorità giudiziaria (Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 2011, n. 10654; Cass. civ. Sez. II, 5 giugno 2007, n. 13154).
Un’indicazione specifica per la distinzione di natura tra atti potrebbe ricavarsi anche dall’art. 374 c.c. il quale, nel contesto delle norme che disciplinano l’esercizio della tutela, attribuisce al giudice tutelare la funzione di autorizzare alcuni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (acquisto dei beni, riscossione dei capitali, cancellazione di ipoteche, assunzione di obbligazioni, accettazione di eredità e di donazioni, contratti di locazione ultranovennale o che si prolungano oltre un anno dopo il raggiungimento della maggiore età, promovimento di giudizi con le eccezioni previste). L’art. 375 c.c. a sua volta indica altri atti di straordinaria amministrazione la cui competenza per l’autorizzazione spetta al tribunale: alienazione di beni, costituzione di pegni o di ipoteche, divisioni giudiziali o stragiudiziali, compromessi o transazioni. Sebbene nel caso degli art. 374 e 375 c.c. l’elencazione sia certamente tipica, si tratta sostanzialmente degli stessi atti indicati nell’art. 320 c.. con ciò, quindi, mettendosi in evidenza che l’aspetto più problematico consiste proprio nella ritenuta non esaustività delle indicazioni fornite dall’art. 320 c.c. La giurisprudenza ha ritenuto, in ogni caso, che la distinzione tra atti di ordinaria amministrazione ed atti di straordinaria amministrazione prevista negli art. 320, 374 e 394 c.c. si applica soltanto a proposito dei beni degli incapaci e non è applicabile alle società per le quali gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, pur se eccedenti l’ordinaria amministrazione devono ritenersi di competenza degli amministratori mentre sono di competenza dell’assemblea tutti gli atti di alienazione di beni strumentali o suscettibili di modificare la struttura della società (Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 1994, n. 2430; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5353; sul punto anche Cons. Stato Sez. V, 21 giugno 2013, n. 3402, in Pluris Wolters Kluwer Italia).
Naturalmente, è configurabile, e opponibile al minore rappresentato, la eventuale simulazione assoluta di un atto, eccedente i limiti dell’ordinaria amministrazione, compiuto dal legale rappresentante, preventivamente e regolarmente autorizzato dal giudice tutelare (Cass. civ. Sez. II, 9 giugno 2014, n. 12953).
La competenza ad autorizzare gli atti di straordinaria amministrazione spetta al giudice tutelare del luogo di residenza del minore.
In ordine alla vendita di beni immobili ereditati dal minore Cass. civ. Sez. II, 27 luglio 2012, n. 13520 e Cass. civ. Sez. III, 4 novembre 1998, n. 11071 hanno ribadito questa regola unicamente per quei beni che, provenendo da una successione ereditaria, si possono considerare acquisiti al suo patrimonio mentre, ai sensi del primo comma dell’art. 747 cod. proc. civ., la competenza spetta, sentito il giudice tutelare, al tribunale del luogo di apertura della successione, ove il procedimento dell’acquisto “iure hereditario” non si sia ancora esaurito per essere pendente la procedura di accettazione con beneficio di inventario, in quanto, in tale ipotesi, l’indagine del giudice non è circoscritta soltanto alla tutela del minore, ai sensi dell’art. 320 cod. civ., ma si estende a quella degli altri soggetti interessati alla liquidazione dell’eredità, così evitandosi una disparità di trattamento fra minori “in potestate” e minori sotto tutela, con riguardo alla diversa competenza a provvedere per i primi (giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 cod. civ.) e i secondi (tribunale quale giudice delle successioni, in base all’art. 747 cod. proc. civ.).
Come detto non tutti gli atti di straordinaria amministrazione producono un conflitto di interessi. La nomina, quindi, del curatore speciale al minore va disposta solo quando l’atto viene valutato come potenzialmente configgente con l’interesse del genitore che è chiamato ad effettuarlo in rappresentanza del minore.
c) Le quattro tipologie di conflitto di interessi prese in considerazione dall’art. 320 c.c.
Per espressa previsione dell’ultimo comma dell’art. 320, c.c. il conflitto di interessi nell’esercizio dei poteri di rappresentanza e amministrazione può evidenziarsi unicamente in quattro modalità: a) tra figli soggetti alla stessa responsabilità genitoriale (si pensi ad un atto che i genitori intendono compiere in favore di uno tra più figli e che determina, pertanto, un conflitto di interessi tra il beneficiato e i fratelli); b) tra il figlio ed entrambi i genitori che esercitano la responsabilità genitoriale (si pensi ad un lascito ereditario ad un figlio che i genitori sono chiamati ad accettare); c) tra il figlio e il genitore che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale (per esempio il conflitto di interessi tra il minore e il genitore che ne è affidatario esclusivo); d) è prevista, infine, una quarta ipotesi di conflitto di interessi di natura patrimoniale (la meno problematica) che si verifica quando il conflitto sorge tra il figlio ed uno dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale (si pensi al caso in cui, in costanza di matrimonio o in situazione di convivenza con l’altro genitore ovvero in regime di affidamento condiviso in sede di separazione o divorzio, uno dei genitori intenda donare al figlio un bene). In tale ultimo caso, come si è sopra anticipato, il giudice non deve nominare un curatore speciale in quanto l’ultima parte dell’art. 320 prevede per tale ipotesi (come si è detto meno problematica) che la rappresentanza del figlio spetta esclusivamente all’altro genitore coesercente la responsabilità genitoriale il quale quindi sarà chiamato a rappresentare il minore nell’atto o nell’iniziativa giudiziaria oggetto di autorizzazione. Occorre ricordare – per precisare meglio la terza ipotesi alla quale si è fatto riferimento (conflitto di interessi tra il figlio e il genitore che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale) – che in base all’art. 317 c.c. l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale da parte di un genitore si verifica sostanzialmente nei casi “di lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della responsabilità genitoriale” oppure quando l’altro genitore sia deceduto o dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale o rimosso dall’amministrazione oppure quando il genitore esercita la responsabilità genitoriale nella qualità di affidatario esclusivo in sede di separazione o divorzio. Va anche precisato – per quanto attiene alla situazione che si verifica in separazione o divorzio – che per quanto concerne il potere di rappresentanza esso spetta in via esclusiva al genitore affidatario esclusivo anche per quanto concerne le “decisioni di maggiore interesse per i figli” che, in base a quanto dispone l’art.337- quater c.c. “devono essere adottate da entrambi i genitori”. Questa precisazione consente di evitare gravi situazioni di incertezza per i terzi e consente di tenere separata la nozione di “atti eccedenti l’ordinaria amministrazione” da quella di “decisioni di maggiore interesse” mantenendo separati l’aspetto personale e quello patrimoniale della responsabilità genitoriale. Ne consegue in primo luogo che il genitore affidatario esclusivo (a differenza di quanto deve avvenire per le “decisioni di maggiore interesse”) è abilitato a compiere da solo, senza necessità di farlo congiuntamente all’altro genitore, anche le decisioni relative ad atti eccedenti l’ordinaria amministrazione e, in secondo luogo, che è proprio in questa ipotesi che può riscontrarsi il conflitto di interessi al quale fa riferimento l’ultimo comma dell’art. 320 c.c. (conflitto tra il figlio e il genitore che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale) sorgendo quindi per il compimento di tale atto l’obbligo della nomina di un curatore speciale per garantire la rappresentanza del figlio minore.
d) Il conflitto di interessi indiretto
Per analogia la nomina di un curatore speciale può dirsi necessaria anche quando il conflitto di interessi insorga tra il figlio minore e altra persona alla quale i genitori siano legati da vincoli affettivi od economici tali da far ritenere che il loro interesse sia sentito come proprio dal rappresentante. Il conflitto di interessi non è, quindi, soltanto quello che sussiste direttamente tra i genitori e i figli, ma è anche quello cosiddetto indiretto che si verifica quando i genitori perseguono non un interesse del figlio ma nemmeno un interesse proprio, sebbene l’interesse di un terzo soggetto con il quale quindi l’interesse del figlio entra in collisione.
e) Impossibilità di conflitto di interessi tra genitori e nascituri
Sebbene l’art. 320 c.c. estenda la rappresentanza dei genitori anche agli atti relativi ai nascituri (“I genitori… rappresentano i figli nati e nascituri…”) non è ipotizzabile un conflitto di interessi tra genitori e nascituri. Naturalmente, poiché i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati alla nascita (art. 1 comma 2 c.c.), il conflitto di interessi potrebbe porsi nel momento in cui, dopo la nascita, i genitori o quello che esercita la responsabilità genitoriale fossero chiamati per conto del figlio per esempio ad accettare un lascito testamentario fatto a favore del nascituro o a rinunciarvi.
f) Casi di conflitto di interessi
La giurisprudenza ha ritenuto esistente un conflitto di interessi patrimoniale tra il minore e i suoi genitori:
1) In un caso in cui uno dei figli minorenni aveva causato un danno ad un altro figlio minorenne, ritenendo sussistente un conflitto di interessi tra il figlio minore danneggiato ed entrambi i genitori e ritenendo, quindi, legittima la nomina al figlio minore danneggiato di un curatore speciale per l’esercizio dell’azione civile di danno (Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1999, n. 5694).
2) In casi in cui i genitori avevano stipulato un contratto di compravendita a favore del figlio minore (fattispecie di contratto a favore del terzo inquadrabile nell’art. 1411 c.c.), ritenendo necessaria la nomina di un curatore speciale per rendere in nome del figlio minore la dichiarazione di voler profittare della stipulazione (Pretura Santa Maria Capua Vetere, 19 maggio 1995, in Vita notar. 1995, 663, con nota di GIULIANO). Di contrario avviso è stata, però, la giurisprudenza di legittimità la quale ha ritenuto che nel contratto a favore di terzo la validità ed operatività della convenzione medesima postula soltanto la ricorrenza di un interesse dello stipulante senza che si richieda l’osservanza delle norme sulla rappresentanza del minore ove stipulato dal genitore a vantaggio del figlio minore, non implicando il detto contratto né l’esercizio dei poteri di rappresentanza né l’accettazione da parte del figlio
3) Nel caso di donazione al minore da parte di chi esercita la responsabilità genitoriale, in quanto il conflitto di interessi fra donante e donatario discenderebbe dalla stessa natura contrattuale del negozio. La competenza per la nomina del curatore speciale spetta sempre al giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 c.c. e non al tribunale ai sensi dell’art. 321 del medesimo codice, essendo irrilevante che donanti siano entrambi i genitori, uno soltanto di essi o l’unico che eserciti la responsabilità genitoriale. Così secondo Cass. civ. Sez. I, 19 gennaio 1981, n. 439 in tema di donazione in favore di minore per la cui accettazione è richiesta in ogni caso l’autorizzazione del giudice tutelare, a norma dell’art. 320 comma 3 c.c., qualora la qualità di donante venga assunta da entrambi o anche solo da uno dei genitori investiti della legale rappresentanza del minore stesso, si verifica una ipotesi di conflitto di interessi patrimoniali, che rientra nella previsione dell’ultimo comma del citato art. 320 c.c. con il conseguente potere dovere del giudice tutelare di nominare un terzo curatore speciale e non nella previsione del successivo art. 321, il quale, con l’intervento del tribunale, regola il diverso caso dell’impedimento o della voluta omissione dei genitori medesimi rispetto all’attività necessaria per la tutela del figlio minore (analogamente nella giurisprudenza di merito Appello Palermo, 7 dicembre 1989, in Vita Notar. 1990, 652; Giudice tutelare di Roma, 12 novembre 1986, in Rivista notar. 1987, 159; Tribunale Roma, 15 gennaio 1987, in Riv. notar. 1987, 152; Contra Pretura Roma, 14 aprile 1984, in Riv. Notar. 1984, 627 secondo cui nella donazione dal padre al figlio minore la rappresentanza del figlio per l’accettazione della donazione spetta all’altro genitore non potendosi configurare con quest’ultimo conflitto di interessi tale da necessitare la nomina di un curatore ad acta).
4) In caso di partecipazione del minore agli utili, ai beni acquistati ed ai proventi, dell’impresa familiare, operazioni per le quali deve procedersi, ai sensi dell’art. 320 comma 6 c.c., alla nomina di un curatore speciale. Nell’impresa familiare la qualifica di imprenditore spetta esclusivamente a chi ha la gestione ordinaria dell’impresa limitandosi i familiari ad una prestazione lavorativa nel suo ambito, pur se partecipano ad essa con poteri anche notevolmente incisivi di collaborazione-direzione, ma non di effettiva gestione. Ne consegue, per l’effetto, che per partecipare a tale impresa è sufficiente la capacità di essere parte di un rapporto di lavoro subordinato senza necessità di alcuna autorizzazione da parte del giudice tutelare. Tale autorizzazione, peraltro, è certamente necessaria per la riscossione delle quote degli utili spettanti ai minori e della liquidazione del loro diritto di partecipazione.
5) In caso di liquidazione della quota sociale spettante al minore “iure ereditario” (Tribunale Ascoli Piceno 26 settembre 1984, Riv. Notar., 1986, 732).
6) In caso di riscossione dell’indennità di fine rapporto devoluto ad un minore di età (Consiglio di Stato, sez. VI 16 giugno 1997 n. 902 in Foro amm., 1997, 1690) anche se la tesi non appare convincente considerato che l’art. 2 comma 2 c.c. abilita il minore che presta attività lavorativa, all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro.
7) È stato anche ritenuto che sussiste un inevitabile conflitto di interessi allorché uno dei genitori agisca nei confronti dell’altro con procedimento ex art. 709-ter c.p.c. chiedendo il risarcimento dei danni a favore del figlio minore (Trib. Varese, 7 maggio 2010, in Resp. civ., 2010, 7, 554 dove si sostiene che la domanda di risarcimento del danno, proposta con istanza ex art. 709-ter c.p.c. in favore della prole minore di età deve essere presentata da un curatore speciale nominato ai sensi dell’art. 78, co. 2, c.p.c. atteso che le istanze di un figlio contro uno dei genitori, se proiettate nell’orbita del giudizio intentato dall’altro, sono inevitabilmente intrise di un conflitto di interessi che solo il terzo rappresentante può evitare).
Non è stato, invece ritenuto esistente un conflitto di interessi:
1) Nel caso di azione per il risarcimento del danno subìto da un minore in quanto, essendo diretta al recupero di somme e alla reintegrazione del patrimonio leso è stata considerata un’attività di ordinaria amministrazione, così come la resistenza in giudizi promossi da altri nei confronti del minore d’età configurandosi in tali casi atti di ordinaria amministrazione che possono essere compiuti anche disgiuntamente da ciascun genitore (Tribunale Cagliari, 8 agosto 1989 citato in Rivista giuridica sarda, 1995, 53). Analogamente la giurisprudenza di legittimità non ritiene necessaria la nomina di un curatore speciale in caso di azione di risarcimento danni ma sotto il diverso profilo che la vantaggiosità dell’atto per il minore escluderebbe senz’altro il conflitto di interessi (Cass. sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59; Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1983, n. 3977; Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 1981, n. 294; Cass. civ. Sez. III, 15 dicembre 1980, n. 6503).
2) Nel caso di costituzione di una società in accomandita semplice in seno alla quale il minore assuma la qualità di socio accomandante, non ritenendosi esistente un conflitto di interessi tra genitore e figlio minore (Pretura Roma, 24 gennaio 1995, in Dir. fam. 1997, 1473, con nota di MARROCCO).
3) Nel caso di instaurazione da parte di un minore del giudizio di interdizione nei confronti del genitore in quanto l’oggetto di tale giudizio non è la tutela degli interessi patrimoniali dell’interdicendo in contrapposizione a quelli del minore mancando, perciò, quel conflitto di interessi patrimoniali per il quale l’art. 320 c.c. prevede l’intervento del giudice tutelare a protezione del figlio minore (Tribunale minorenni Palermo, 12 dicembre 1997, in Dir. fam. 1999, 167, con nota di DI MARZIO).
4) Nel caso di impugnazione del riconoscimento di un figlio minore promossa da chi ha effettuato il riconoscimento oggetto dell’impugnazione (nella specie il coniuge del genitore naturale del minore). Si è detto a tale proposito che il conflitto di interessi nel rapporto processuale tra genitore esercente la potestà (responsabilità genitoriale) e figlio è ipotizzabile non già in presenza di un interesse comune, sia pure distinto ed autonomo, di entrambi al compimento di un determinato atto, ma soltanto allorché i due interessi siano nel caso concreto incompatibili tra loro, nel senso che l’interesse del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, non si concilia con quello del rappresentato; l’esistenza di una siffatta situazione di conflitto, il cui apprezzamento è rimesso al giudice di merito, non è normativamente presunta nel caso dell’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, la quale non rientra tra le ipotesi, tassativamente indicate dal legislatore nelle quali il giudizio deve essere proposto, in rappresentanza del minore, nei confronti di un curatore speciale nominato al riguardo dal giudice; ne consegue che in ordine a tale azione, trova applicazione, in mancanza della deduzione di una concreta situazione di conflitto di interessi, la regola secondo cui il genitore esercente la potestà (responsabilità genitoriale) è legittimato, nell’interesse del figlio minore, a resistere al giudizio da altri intentato (Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533)
IV Il conflitto di interessi (patrimoniale e non patrimoniale) nel processo civile (art. 78, 79 e 80 c.p.c.)
L’art. 78 c.p.c. prevede al primo comma che “se manca la persona cui spetta la all’incapace, alla persona giuridica o all’associazione non riconosciuta un curatore speciale che lo rappresenti o assista finché subentri colui al quale spetta la rappresentanza o l’assistenza”. Il secondo comma aggiunge che “si procede altresì alla nomina di un curatore speciale al rappresentato, quando vi è conflitto di interessi col rappresentante”.
L’art. 79 prevede che la nomina del curatore speciale “può essere in ogni caso chiesta dal pubblico ministero” e “dalla persona che deve essere rappresentata o assistita sebbene incapace, nonché dai suoi prossimi congiunti e, in caso di conflitto di interessi dal rappresentante”. Può anche essere chiesta “da qualunque altra parte in causa che vi abbia interesse”.
L’art. 80 prescrive che l’istanza si propone al presidente del tribunale il quale “assunte le opportune informazioni provvede con decreto”.
Come ha chiarito Cass. civ. Sez. III, 13 aprile 2015, n. 7362, allorquando l’esigenza della nomina di un curatore speciale ex art. 78 cod. proc. civ. si manifesti nel corso del giudizio ed in relazione ad esso, la corrispondente istanza deve essere proposta al giudice (monocratico o collegiale nelle ipotesi di cui all’art. 50 bis cod. proc. civ.) della causa pendente, a tanto non ostando la riconducibilità alla giurisdizione volontaria del provvedimento di cui all’art. 80 cod. proc. civ.
Il contesto in cui tali norme sono inserite è quello della capacità processuale delle parti, cioè della loro capacità di partecipare al processo (legitimatio ad processum) riconosciuta, in base alla norma fondamentale di cui all’art. 75 c.p.c., alle persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere. I criteri di legittimazione processuale coincidono, quindi, con la disciplina della capacità processuale e perciò, anche in questo caso intersecano il tema della rappresentanza.
Riferito ai soggetti minori di età l’art. 75 in questione sta a significare che i minori possono stare in giudizio solo se rappresentati “secondo le norme che regolano la loro capacità”, cioè – secondo quanto dispone l’art. 320 c.c. – se rappresentati dai genitori o da chi, comunque, esercita la responsabilità genitoriale.
Il rappresentante non deve necessariamente essere sempre la stessa persona fisica. La giurisprudenza ritiene, infatti, che la persona fisica del rappresentante potrebbe mutare, per qualsiasi ragione, senza che si dia vita ad alcuna interruzione processuale (Cass. civ. Sez. I, 25 giugno 1998 n. 6292). Si verifica, invece, l’interruzione del processo (art. 299 c.p.c. per il periodo precedente alla costituzione e art. 300 c.p.c. per il periodo successivo alla costituzione) se cessa la rappresentanza e cioè per esempio se il minore diventa maggiorenne. Secondo il codice di procedura civile, infatti, eventi interruttivi del processo sono “la morte o la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo rappresentante legale o la cessazione di tale rappresentanza”. L’interruzione comporta (ex art. 304 c.p.c.) che non possono più essere compiuti atti processuali (art. 298 c.p.c.) e che il processo si estingue se nei sei mesi successivi non viene ritualmente riassunto (art. 205 c.p.c.). Per evitare queste conseguenze il figlio divenuto maggiorenne prima della costituzione in giudizio potrà costituirsi volontariamente o essere citato in riassunzione. Se invece diventa maggiorenne dopo la costituzione in giudizio, questo evento verrà dichiarato dal genitore o dal curatore speciale e il processo si interrompe salvo che il figlio maggiorenne non si costituisca volontariamente (art. 302 c.p.c.):
Come si è già accennato, essendo il conflitto di interessi cui fanno riferimento gli art. 320 e 321 c.c. un conflitto di interessi espressamente di natura patrimoniale, si può ritenere che il conflitto di interessi al quale fa riferimento l’art. 78 c.p.c., per il caso di conflitto tra genitori e figli minori, possa essere anche di natura non patrimoniale. L’art. 78 c.p.c. trova applicazione per lo più nei casi in cui il minore è convenuto in un giudizio essendo viceversa l’art. 320 c.c. la norma di riferimento per i casi in cui i genitori intendano promuovere l’azione. Non si può escludere, naturalmente, essendoci autonomia tra le norme civilistiche e quelle processuali, che – anche quando i genitori promuovano un’azione e il giudice tutelare abbia ritenuto di non dover nominare un curatore speciale – ove in corso di causa venga ritenuta l’esistenza di un conflitto di interessi possa essere nominato al minore un curatore speciale. Il caso in cui il minore sia convenuto in giudizio è il caso più ricorrente in cui si presenti la situazione di conflitto di interessi che determina la necessità di nomina del curatore speciale. Il giudice ex art. 182 c.p.c. può promuoverne d’ufficio la nomina quando rileva il difetto di rappresentanza.
Va chiarito che la nomina di un curatore speciale al minore ai sensi degli articoli 78, 79 e 80 c.p.c. in caso di conflitto di interessi di natura non patrimoniale tra il minore e i genitori non può considerarsi ammissibile nei casi in cui la nomina stessa si dovesse tradurre in una intrusione nelle scelte di carattere educativo dei genitori. In una vicenda in cui Appello Ancona, 26 marzo 1999 (in Famiglia e diritto, 1999, 467, con nota di LENA) aveva annullato la nomina di un curatore da parte del tribunale per i minorenni in materia di scelta del tipo di cure sanitarie al figlio minore la motivazione è stata che il curatore speciale può essere nominato solo e sempre in caso di conflitti di interesse di natura patrimoniale. Si tratta di un’affermazione, tuttavia, non condivisibile da un punto di vista strettamente sistematico perché l’art. 78 c.p.c. non contiene, come fanno invece gli art. 320 e 321 c.c., una limitazione di questo genere. Tuttavia l’intenzione dei giudici è certamente condivisibile ed è stata sicuramente quella di circoscrivere i casi di nomina di un curatore per impedire una eccessiva dilatazione del potere attribuito al giudice di provocare la sostituzione dei genitori. A questo proposito secondo Trib. Milano Sez. IX Decreto, 19 giugno 2014 il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, può sempre procedere alla nomina di un curatore speciale in favore del minore, avvalendosi della disposizione dettata dall’art. 78 c.p.c., che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nominare un rappresentante all’incapace.
Come detto la nomina del curatore speciale prescinde da un’istanza di parte e può essere disposta d’ufficio dal giudice.
Nella giurisprudenza meno recente e in parte della dottrina il coordinamento tra le norme di cui agli art. 320 e 321 c.c. e quelle di cui agli articoli 78, 79 e 80 c.p.c. è stato operato, considerando gli articoli 320 e 321 c.c. norme speciali nel settore minorile rispetto agli art. 78, 79 e 80 c.p.c. considerate disposizioni di carattere generale, cioè dirette ad apprestare in via generale – e perciò residuale – una tutela giudiziaria dei diritti dell’incapace ove questi venga a trovarsi in situazione in senso ampio di conflitto di interessi con il suo rappresentante legale e ove non siano rinvenibili norme speciali di composizione del conflitto (Cass. civ. Sez. II, 10 agosto 1982, n. 4491).
La giurisprudenza ritiene che sia configurabile il conflitto di interessi tra genitori e figli “ogni volta che l’incompatibilità delle rispettive posizioni è anche solo potenziale a prescindere dalla sua effettività” e che “la relativa verifica va compiuta in astratto ed ex ante secondo l’oggettiva consistenza della materia del contendere dedotta in giudizio anziché in concreto e a posteriori alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa” con la conseguenza che in caso di omessa nomina del curatore speciale il giudizio è nullo per vizio di costituzione del rapporto processuale e per violazione del contraddittorio a prescindere dal fatto che il conflitto di interessi si sia effettivamente evidenziato nel comportamento processuale delle parti in causa. (Cass. civ. Sez. II, 30 maggio 2003, n. 8803; Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 2001, n. 10822; Cass. civ. Sez. II, 16 novembre 2000, n. 14866; Cass. civ. Sez. II, 9 luglio 1997, n. 6201). Sulle conseguenze della mancata nomina del curatore speciale ha espresso un convincimento diverso Cass. civ. Sez. III, 9 marzo 2017, n. 6020 ritenendo che la mancata nomina attiene all’esercizio dei poteri processuali e non al contraddittorio con la conseguenza che il giudice di appello, in difetto della suddetta nomina in primo grado per la risoluzione dell’indicato conflitto, deve decidere la causa nel merito, rinnovando eventualmente gli atti nulli.
Va infine precisato che è ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell›art. 111 Cost. contro il decreto di nomina di curatore speciale ex art. 78 c.p.c., perché tale provvedimento non attribuisce o nega un bene della vita, ma assicura la rappresentanza processuale all›incapace che ne sia privo o al rappresentato che sia in conflitto d›interessi con il rappresentante, ha una funzione strumentale al singolo processo, destinata ad esaurirsi nell›ambito del processo medesimo, ed è sempre revocabile o modificabile ad opera del giudice che l›ha pronunciato, anche d›ufficio in primo grado e, successivamente, su gravame di parte, ad opera dei giudici di merito e di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2015, n. 22566).
V La molteplicità di funzioni nella soluzione del conflitto di interessi nei procedimenti relativi alla filiazione (azioni di status ed altri procedimenti)
Si può affermare che le azioni di stato e gli altri procedimenti in materia di filiazione sono collocati al crocevia tra le due diverse concezioni del conflitto di interessi, da un lato come problema della rappresentanza e dall’altro come problema più vasto connesso alla verifica e al perseguimento dell’interesse del minore e dello status di figlio in generale. Per questo motivo di può parlare di molteplicità di funzioni attribuite ai modi di soluzione del conflitto di interessi individuati dal legislatore e dalla giurisprudenza in questi procedimenti.
Nella disciplina giuridica delle azioni di stato e degli altri procedimenti relativi alla filiazione le ipotesi di nomina di un curatore speciale non sono poche. Potrebbe perciò ritenersi che il conflitto di interessi mantenga la sola connotazione tradizionale del conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante (cui consegue la nomina di un curatore speciale) e che quindi si tratti sempre di un conflitto delle funzioni esterne della rappresentanza genitoriale. Vi è, tuttavia, in questo settore una problematicità del conflitto di interessi molto più articolata che consente di riscontrare un sovrapporsi di obiettivi qualcuno raggiunto con modalità finora inedite. In effetti nelle azioni di stato in materia di filiazione sono visibili sia soluzioni tradizionali al problema del difetto di rappresentanza e del conflitto di interessi tra genitori e figli, riconducibili sostanzialmente alle medesime regole processuali che risolvono questi problemi nel processo civile (articoli 79, 80 e 81 c.p.c.), sia motivazioni come detto inedite, sia, ancora, forme di soluzione del conflitto di interessi orientate al controllo di quel fascio di ulteriori funzioni genitoriali connesse al diritto del figlio “di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni” (art. 315-bis c.c.) che, come si dirà, costituiscono la motivazione centrale della nomina del curatore speciale nelle procedure di adottabilità e de potestate oltre che in ambito penale nonché l’obiettivo prioritario delle particolari modalità di tutela dell’interesse del minore nelle procedure di separazione, divorzio e affidamento.
Con l’espressione “azioni di stato in tema di filiazione”, ci si riferisce a quei procedimenti che tendono al disconoscimento della paternità (articoli 243-bis – 247 c.c.), alla contestazione o al reclamo dello status (articoli 248 e 249 c.c.), all’impugnazione del riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio (articoli 263 – 268 c.c.) e alla dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità (art. 269 ss c.c.). Non costituiscono, invece, azioni di stato, perché non si concludono con una sentenza costitutiva dello stato di figlio, altri procedimenti sempre concernenti la filiazione quali il procedimento per il riconoscimento tardivo in caso di mancato consenso del genitore che ha effettuato per primo il riconoscimento (art. 250 c.c.), né l’azione per ottenere il mantenimento nei casi in cui non sia possibile o ammissibile proporre l’azione per la dichiarazione giudiziale (art. 279 c.c.); nel primo caso la sentenza del giudice è solo autorizzativa del riconoscimento, mentre nel secondo caso il procedimento giudiziario prevede solo un accertamento incidentale di compatibilità genetica e non l’attribuzione dello status. Tuttavia per ragioni di completezza sul tema del conflitto di interessi la rassegna sulle azioni di stato in materia di filiazione può anche estendersi a questi due procedimenti.
In particolare:
– In alcune ipotesi di azioni di stato previste nel nuovo libro VII sulla filiazione del codice civile (come riformato dalla legge 10 dicembre 2010, n. 219 e dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) è prescritta la consueta nomina di un curatore speciale in sostituzione dei genitori per supplire ad una situazione di oggettivo conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante (per il promovimento del disconoscimento nei casi previsti nell’ultimo comma dell’art. 244, per l’integrazione del contradditorio nel disconoscimento ex art. 247; per il promovimento dell’impugnazione del riconoscimento: art. 264; per l’azione di mantenimento ex art. 279 con le riserve cui si è accennato in quanto questa azione non costituisce una azione di stato) ovvero per risolvere un problema di difetto di capacità dell’interessato (nomina del curatore per supplire allo stato di incapacità del figlio nel disconoscimento: art. 245, secondo comma, ovvero nell’azione di contestazione dello stato: art. 248 o di reclamo dello stato:art. 249). Per il promovimento dell’azione di disconoscimento e di impugnazione del riconoscimento la legge attribuisce anche al figlio minore ultraquattordicenne il potere diretto di pretendere la nomina di un curatore speciale in applicazione sia del principio generale indicato nell’art. 79 c.p.c. in base al quale lo stesso rappresentato incapace può richiedere la nomina del curatore sia soprattutto di principi più specifici di tutela proprio dei diritti del minore. Costituisce certamente una ipotesi inedita di reazione ad un evidente conflitto di interessi tra il figlio e i suoi genitori nelle situazioni che legittimerebbero il disconoscimento, l’attribuzione al genitore biologico del potere di richiedere la nomina di un curatore speciale per l’inizio dell’azione (art. 244, ultimo comma, c.c. nel testo modificato dall’art. 18 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154).
– In altre ipotesi la nomina del curatore speciale è prescritta non per sostituire il rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato, ma per consentire all’interessato di poter perseguire, instaurando il contraddittorio con il curatore, il diritto azionato che altrimenti non potrebbe trovare tutela processuale. Si tratta delle ipotesi in cui la nomina di un curatore speciale viene prevista allorché mancano gli eredi – che dovrebbero essere convenuti in giudizio – del soggetto deceduto (così in caso di morte del presunto padre il disconoscimento può promuoversi nei confronti dei discendenti o degli ascendenti e in loro mancanza nei confronti di un curatore speciale: art. 247; il reclamo di stato di figlio se manca il presunto padre può promuoversi nei confronti degli eredi e in mancanza nei confronti di un curatore speciale: art. 249; l’accertamento giudiziale della paternità in caso di morte del presunto genitore e di mancanza di eredi può promuoversi nei confronti di un curatore speciale: art. 276). In queste ipotesi si è in presenza in verità di una situazione di conflitto di interessi piuttosto anomala determinata dal fatto che l’interesse processuale del soggetto titolare del diritto di azione sarebbe frustrato e destinato a soccombere ove non soccorresse la nomina del curatore;
– In altre ipotesi ancora a situazioni di conflitto di interesse tra figli e genitori il codice civile reagisce non prescrivendo la nomina di un curatore speciale, ma attraverso modalità che consentono ugualmente il controllo delle funzioni genitoriali e il perseguimento del migliore interesse del minore (per esempio – con le riserve cui si è accennato circa l’inquadrabilità di questo procedimento tra le azioni di stato – l’art. 250 del codice civile prevede un meccanismo di verifica della plausibilità del dissenso espresso dal genitore che per primo ha riconosciuto il figlio rispetto alla richiesta di riconoscimento tardivo da parte dell’altro genitore nel quale la verifica dell’interesse del minore è imposta attraverso l’ascolto del figlio minore; ugualmente l’ascolto del figlio è previsto per il suo inserimento nella famiglia di uno dei genitori: art. 252 ovvero per l’acquisizione del cognome: art. 262; nel caso di riconoscimento o di accertamento della filiazione in caso di nascita da una relazione incestuosa gli articoli 251 e 278 prevedono una autorizzazione da parte del tribunale per i minorenni). La Corte costituzionale, intervenendo proprio sull’art. 250 c.c. ha irrobustito le garanzie nei confronti del minore prevedendo che in questi procedimenti debba essere nominato un curatore al minore sul presupposto che egli ne è parte processuale (Corte cost. 11 marzo 2011, n. 83; Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101; Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729; Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884; App. Napoli, 17 aprile 2013 in Corriere del Merito, 2013, 6, 595).
– Del tutto inedito, infine, è l’utilizzo di un termine massimo di cinque anni per l’esperibilità dell’azione di disconoscimento e dell’impugnazione del riconoscimento da parte dei legittimati diversi dal figlio (nuovo testo degli articoli 244 e 263 c.c.). Non sarà più possibile alcun procedimento ad iniziativa dei genitori o degli altri legittimati ma solo ad iniziativa del figlio. Il conflitto di interessi è risolto dando la prevalenza all’interesse del figlio rispetto a quello degli altri legittimati all’azione.
In adesione al principio di tipicità per cui l’accertamento dello stato di filiazione non può essere richiesto se non dai soggetti ai quali il relativo potere è attribuito espressamente, tra le cause riguardanti lo stato di filiazione è previsto che il pubblico ministero (il quale non ha azione per l’accertamento di uno status) possa sollecitare la promozione delle sole azioni di disconoscimento (art. 244 ultimo comma c.c.) e di impugnazione di riconoscimento (art. 264 c.c.) – quindi delle sole azioni con cui si elimina uno status che non corrisponde al vero – attraverso la richiesta di nomina di un curatore speciale. Nelle altre cause di stato della filiazione il pubblico ministero “deve intervenire a pena di nullità rilevabile d’ufficio” (art. 70 n. 3 c.p.c.) ed all’uopo il giudice davanti al quale è proposta la causa ordina che gli atti gli siano comunicati affinché possa intervenire (art. 71 c.p.c.) anche se le regole del contraddittorio nel rito a cognizione piena impongono ovviamente all’attore la notifica dell’atto introduttivo anche al pubblico ministero. Il pubblico ministero quando interviene nelle cause che avrebbe potuto proporre ha gli stessi poteri che competono alle parti e, quindi, per esempio può impugnare la sentenza. Nei casi in cui deve soltanto intervenire – e salvo che ciò avvenga nei giudizi davanti alla Corte di cassazione – può solo produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti (art. 72 c.p.c.).
Tanto premesso in linea generale possono ore essere esaminati alcuni aspetti problematici delle azioni di stato con riferimento al tema specifico del conflitto di interessi includendo per ragioni di completezza anche il procedimento di cui all’art. 250 c.c. e quello di cui all’art. 279 c.c. che non concludendosi con una sentenza attributiva dello status non possono essere considerate azioni di stato.
a) L’azione di disconoscimento della paternità (articoli 243-bis – 247 c.c.)
Con l’azione di disconoscimento di paternità – nella versione riformata con la legge 10 dicembre 2010, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 – è possibile vincere la presunzione generale di paternità del marito di cui al nuovo art. 231 c.c. secondo cui “il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”, considerandosi concepito durante il matrimonio “il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 232 c.c. il cui secondo comma conferma che “la presunzione non opera decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale o dalla omologazione di separazione consensuale ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione o dei giudizi previsti nel comma precedente”).
Non sono più indicati presupposti specifici per il disconoscimento è quindi non è più necessaria la prova dei presupposti che erano indicati nel previgente art. 235 c.c. (cioè mancata coabitazione nel periodo del concepimento, impotenza, adulterio: quest’ultimo eliminato da Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266) salvo allorché serva dare la prova dei medesimi presupposti per esercitare l’azione oltre i termini dei sei mesi per la madre e dell’anno per il padre come previsto nell’art. 244 codice civile. Pertanto chi esercita l’azione deve solo a provare che “non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre. La sola dichiarazione della madre non esclude la paternità” (art. 235 c.c.). Diventa decisiva, in sostanza, in questi procedimenti la prova genetica.
La nomina di un curatore speciale – sintomatica del conflitto di interessi che in materia di disconoscimento il legislatore prende in considerazione – è prevista in quattro casi: a) quando uno dei legittimati passivi è minore età o in condizioni di incapacità piena o ridotta (art. 247 comma 2 e 3 c.c.); b) per la promozione della causa quando lo richiede un minore che abbia compiuto quattordici anni (art. 244 ultimo comma prima parte c.c.) ovvero quando lo richiedono il pubblico ministero o “l’altro genitore” nell’ipotesi in cui il soggetto da disconoscere sia un minore di età inferiore ai quattordici anni (art. 244 ultimo comma ultima parte c.c.); c) allorché il figlio o gli altri legittimati si trovano in stato di interdizione ovvero versano in condizioni di abituale grave infermità di mente, che li rendano incapaci di provvedere ai propri interessi; d) nelle ipotesi di morte degli eredi di uno dei legittimati passivi (art. 247 comma 4 c.c.). In tutti questi casi il contraddittorio non può dirsi validamente instaurato se non viene previamente nominato un curatore speciale.
1) La prima ipotesi di nomina del curatore speciale è quella per così dire fisiologica nel caso in cui l’azione sia promossa dalla madre o dal marito di lei i quali prima di procedere dovranno richiedere, appunto, la nomina di un curatore speciale per il minore. In effetti l’art. 247 c.c. – non modificato dalla riforma sulla filiazione del 2012/2013 – prevede al primo comma che nell’azione di disconoscimento della paternità sono litisconsorti necessari “il presunto padre [cioè il marito], la madre e il figlio”. Pertanto il figlio è inevitabilmente parte processuale del giudizio di disconoscimento e quindi, se si tratta di figlio minore, “l’azione è proposta in contraddittorio con un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso” (secondo comma).
L’art. 244 c.c. – nel testo completamente rivisto dall’art. 18 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 – prevede che l’azione da parte della madre deve essere proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio ovvero dal giorno in cui la madre è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento mentre per il marito il termine è di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio; se prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza. Se il marito non si trovava nel luogo in cui è nato il figlio il giorno della nascita, il termine decorre dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno nella residenza familiare se egli ne era lontano. In ogni caso, se egli prova di non aver avuto notizia della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto notizia. La novità più significativa è che sia la madre che il marito non possono in ogni caso proporre più l’azione oltre cinque anni dal giorno della nascita (pertanto in queste cause dopo la riforma del 2013 il figlio sarà sempre inevitabilmente minore e rappresentato dal curatore) mentre per il figlio l’azione è diventata imprescrittibile. Prima della riforma del 2013 sulla filiazione il figlio era ammesso ad esercitare l’azione “entro un anno dal compimento dalla maggiore età o dal momento in cui viene successivamente a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il riconoscimento”).
2) L’altra ipotesi di nomina del curatore speciale (istanza del minore quattordicenne ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore) è disciplinato nell’ultimo comma dell’art. 244 c.c. il cui nuovo testo ripropone il meccanismo secondo cui “L’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni [sedici prima della riforma del 2013] ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratta di minore di età inferiore”. Quindi oltre il quattordicesimo anno l’iniziativa non può che essere assunta dal figlio.
Una prima considerazione concernente proprio il tema del conflitto di interessi tra minore e suoi genitori legittimi o comunque tra il minore e chi (pubblico ministero o altro genitore) ha sollecitato la promozione dell’azione può essere immediatamente svolta. L’art. 244 c.c. – anche nel testo riformato – non prevede espressamente la previa valutazione dell’interesse del minore al disconoscimento. Ed in effetti il testo della norma non prevede che l’azione possa in alcuni casi configgere con l’interesse del minore (si pensi all’ipotesi in cui a distanza di tempo – oggi comunque non oltre i cinque anni dalla nascita – un’azione di disconoscimento possa compromettere gli equilibri di un bambino all’interno della famiglia senza nessuna certezza che al disconoscimento possa poi seguire il riconoscimento). È stata, però, la Corte costituzionale, esprimendosi sul punto con una sentenza interpretativa di rigetto (Corte cost. 27 novembre 1991, n. 429), a precisare che il diritto vigente, correttamente interpretato, fornisce strumenti sufficienti per proteggere il minore contro iniziative avventate ed i genitori legittimi contro azioni temerarie o ricattatorie: a) allorquando si tratti di azione di disconoscimento relativa a minore infrasedicenne (oggi infraquattordicenne); infatti dalla ratio della norma si desume la regola per cui la ricerca della paternità, pur quando concorrano specifiche circostanze che la facciano apparire giustificata non è ammessa ove risulti un interesse del minore contrario alla privazione dello stato di figlio legittimo e, rispettivamente, all’assunzione dello stato di figlio naturale nei confronti di colui contro il quale si intende promuovere l’azione; interesse che deve essere apprezzato dal giudice soprattutto in funzione dell’esigenza di evitare che l’eventuale mutamento dello status familiare del minore possa pregiudicare gli equilibri affettivi o l’educazione; b) quando la domanda di nomina del curatore speciale è proposta dal PM nel presunto interesse di un minore infrasedicenne (oggi infraquattordicenne), al giudice è affidato un ufficio di tutela di un soggetto incapace, con la conseguenza che egli deve allargare il campo di acquisizione delle sommarie informazioni, includendovi tutti gli elementi necessari o utili per valutare la sussistenza dell’interesse del minore all’esperimento dell’azione (tra gli altri, audizione dei genitori legittimi ed eventualmente anche delle persone interessate che hanno eccitato l’iniziativa del PM); c) il provvedimento del tribunale – che ai sensi dell’art. 737 c.p.c. ha la forma del decreto motivato – deve giustificare congruamente la valutazione dell’interesse del minore sui cui la decisione si fonda e indicare i mezzi informativi utilizzati. Poiché la legge prevede che il minore possa attivarsi per l’azione di disconoscimento (richiedendo addirittura egli stesso, se ultraquattordicenne, la nomina di un curatore) è evidente che in tal caso la rappresentanza processuale del minore non può essere lasciata alla madre o al marito di lei (cioè al padre legittimo del minore). Il conflitto di interessi è in re ipsa. Si tratta di un conflitto di interessi in verità più ampio a cui la legge con questo meccanismo pone riparo ed è il conflitto tra il diritto (imprescrittibile) attribuito al figlio e il diritto (prescrittibile) attribuito alla madre e al marito di lei. Se la madre e il marito di lei non promuovono l’azione o lasciano decorrere i termini di prescrizione, il figlio maggiorenne potrà in seguito sempre promuovere il disconoscimento mentre nel periodo della minore età la nomina di un curatore per il promovimento dell’azione può essere richiesta direttamente dal figlio ultraquattordicenne ovvero – sotto i quattordici anni – dal “pubblico ministero” o “dall’altro genitore”.
A proposito del potere attribuito al “pubblico ministero” e “all’altro genitore” di sollecitare la nomina di un curatore per l’esercizio del disconoscimento è necessaria qualche ulteriore osservazione. L’art. 247 c.c. – non modificato dalla riforma sulla filiazione del 2012/2013 – prevede al primo comma che nell’azione di disconoscimento della paternità sono litisconsorti necessari “il presunto padre [cioè il marito], la madre e il figlio”. Non vengono menzionati altri soggetti. Tuttavia, come si è detto, l’ultimo comma dell’art. 244 c.c. (nel testo modificato dall’art. 18 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) attribuisce la legittimazione a richiedere la nomina di un curatore anche all’altro genitore. L’espressione non si riferisce al genitore decaduto dal diritto di promuovere l’azione per essere trascorso il termine di decadenza di sei mesi per la madre e di un anno per il marito indicati nei primi commi della norma. Se così fosse non è chiaro perché è stata utilizzata l’espressione “l’altro genitore” e non quella di “soggetti di cui ai commi precedenti” cioè la madre e il marito di lei. Ugualmente parlare di “altro genitore” con riferimento al marito della madre è un non senso. E d’altro lato se il legislatore della riforma ha indicato un termine massimo di prescrizione dell’azione di cinque anni per la madre e per il marito della madre (art. 244, quarto comma, c.c.) che senso avrebbe consentire l’aggiramento di questo sbarramento attribuendo a tali soggetti il potere di richiedere al giudice la nomina di un curatore oltre il termine in questione (e cioè fino al compimento dei 14 anni di età del figlio)? Pertanto l’espressione altro genitore sembra riferirsi al padre biologico che è effettivamente l’altro genitore oltre alla madre. La norma cioè attribuisce al genitore biologico (oltre al pubblico ministero) il potere di richiedere direttamente al giudice la nomina del curatore speciale fino al compimento del quattordicesimo anno di età del figlio. Oltre i quattordici anni la decisione resta sempre del figlio.
Prima di questa riforma il ruolo del genitore biologico era assolutamente di secondo piano in quanto il padre biologico poteva solo rivolgersi al pubblico ministero auspicando la presentazione da parte di quest’ultimo della richiesta di nomina del curatore speciale. Pertanto l’asserito padre biologico nell’azione di disconoscimento non ha titolo a promuovere o a partecipare alla causa di disconoscimento ma può richiedere al giudice (presidente del tribunale) di nominare un curatore speciale per l’inizio dell’azione.
Il Presidente del tribunale è tenuto a vagliare l’istanza del pubblico ministero o del padre biologico (“assunte sommarie informazioni”) e di accoglierla o respingerla dopo aver valutato l’interesse del minore infraquattordicenne e quindi l’opportunità dell’azione (Corte cost., 27 novembre 1991, n. 429). In verità l’interesse del minore secondo questa sentenza deve essere necessariamente sempre valutato dal tribunale ma l’ipotesi in cui la valutazione si rende veramente opportuna è soprattutto quella in cui un terzo (cioè il pubblico ministero o l’altro genitore) chiede l’avvio del procedimento. Se l’istanza di nomina del curatore speciale è fatta dal figlio ultraquattordicenne il presidente ha senz’altro l’obbligo di nominare un curatore come la sentenza della corte costituzionale da ultima citata ha espressamente riconosciuto (osservando che in tal caso il giudice non ha il potere di scrutinare un interesse la cui gestione il legislatore ha lasciato al minore che ha superato l’età indicata). Contro il decreto di nomina è sempre possibile il reclamo alla corte d’appello da parte sia della madre (o del marito di lei) che del pubblico ministero o del padre biologico che avessero fatto la richiesta o dello stesso figlio quattordicenne che si vedesse negata la nomina del curatore speciale (il quale però prima dovrebbe chiedere ex articoli 78,79 e 80 c.p.c. la nomina di un apposito curatore per il reclamo).
3) Il terzo caso di nomina del curatore speciale è previsto nell’art. 245 c.c. allorché la parte interessata a promuovere l’azione di disconoscimento di paternità si trova in stato di interdizione per infermità di mente ovvero versa in condizioni di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, la decorrenza del termine indicato nell’articolo 244 è sospesa nei suoi confronti, sino a che duri lo stato di interdizione o durino le condizioni di abituale grave infermità di mente (primo comma) mentre quando il figlio si trova in stato di interdizione ovvero versa in condizioni di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, l’azione può essere altresì promossa – in base ai principi generali che interessano i soggetti maggiorenni incapaci – da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del pubblico ministero, del tutore, o dell’altro genitore. Per gli altri legittimati l’azione può essere proposta dal tutore o, in mancanza di questo, da un curatore speciale, previa autorizzazione del giudice (secondo comma).
4) L’ultima ipotesi di nomina del curatore speciale concerne l’azione promossa contro gli eredi (legittimazione passiva) dove si prevede che in mancanza di eredi debba essere nominato un curatore speciale.
La riforma del 2013 sulla filiazione non ha toccato il tema della trasmissibilità (attiva e passiva) dell’azione agli eredi; tema di cui si occupa l’art. 246 c.c. il quale per quanto attiene alla trasmissione del diritto di azione ammette i discendenti e gli ascendenti del marito o della madre oppure il coniuge o i discendenti del figlio ad esercitarla, quando il titolare muore senza averla promossa e prima che siano trascorsi i termini sopra indicati. Il nuovo principio di imprescrittibilità dell’azione per il figlio comporta la conseguenza che anche il coniuge e i discendenti del figlio morto senza aver promosso l’azione saranno anche loro sempre ammessi ad esercitarla senza limiti di tempo.
Anche la legittimazione passiva è trasmissibile agli eredi. L’art. 247 c.c. (come detto non modificato dalla riforma del 2013) indica come legittimati passivi all’azione, e quindi litisconsorti necessari la madre, il marito di lei (cioè il presunto padre) e il figlio. L’ultimo comma dell’art. 247 c.c. prescrive che, in caso di morte dei litisconsorti, l’azione si propone nei confronti delle medesime persone alle quali si trasmette il potere di azione e cioè i discendenti e gli ascendenti (congiuntamente) del presunto madre (marito) o della madre ovvero il coniuge o i discendenti (sempre congiuntamente, anche se viene usata la disgiuntiva o) del figlio; in mancanza degli eredi indicati l’azione è promossa nei confronti di un curatore nominato dal giudice.
b) L’azione di contestazione dello stato di figlio (nato nel matrimonio) (art. 248)
Il conflitto di interessi che emerge come rilevante in questa azione è quello – al quale si è accennato – in cui la nomina del curatore speciale è prescritta non per sostituire il rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato, ma per consentire all’interessato di poter perseguire, instaurando il contraddittorio con il curatore, il diritto azionato che altrimenti non potrebbe trovare tutela processuale.
Con l’azione prevista nell’art. 248 c.c. (nel testo modificato dall’art. 20 del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) e cioè con l’azione di contestazione dello stato di figlio (al quale lo status è stato attribuito in base alla presunzione di paternità per chi nasce nel matrimonio), si intende eliminare per motivi diversi da quelli alla base dell’azione di disconoscimento lo status erroneamente attribuito ad una persona nata nel matrimonio. L’azione tende all’eliminazione di difformità nello status di figlio nato nel matrimonio diverse da quelle connesse alla contestazione della paternità (cioè diverse da quelle poste a base dell’azione di disconoscimento), cioè gli elementi della nascita nel matrimonio documentati dall’atto di nascita, come il parto, la maternità o l’identità del nato.
L’azione “spetta a chi dall’atto di nascita del figlio risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse” ed è è imprescrittibile. Quando l’azione è proposta nei confronti di persone premorte o minori o altrimenti incapaci, si osservano le disposizioni dell’art. 247 e quindi “se una delle parti è minore o interdetta l’azione è proposta in contraddittorio con un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso” (art. 247, secondo comma) e “se una delle parti è un minore emancipato o un maggiorenne inabilitato l’azione è proposta contro la stessa assistita da un curatore parimenti nominato dal giudice” (art. 247, secondo comma), In caso di morte dei litisconsorti, l’azione si propone nei confronti dei discendenti e degli ascendenti (congiuntamente) del presunto padre (marito) o della madre ovvero nei confronti del coniuge o dei discendenti del figlio; in mancanza degli eredi indicati l’azione è promossa nei confronti di un curatore nominato dal giudice.
c) L’azione di reclamo dello stato di figlio (nato nel matrimonio) (art. 249)
Analogamente a quanto si è osservato per l’azione di contestazione dello stato di figlio, in seguito alle modifiche che il D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 ha apportato anche all’art. 249 c.c. il conflitto di interessi che emerge come rilevante nell’azione di reclamo dello stato di figlio (nato nel matrimonio) è diverso da quello alla base delle regole ordinarie che prevedono la nomina di un curatore speciale allorché si debba instaurare correttamente il contraddittorio quando sono deceduti i litisconsorti della causa (come emergeva dal previgente testo della disposizione).
Per rendersene conto è sufficiente esaminare il nuovo testo dell’art. 249 c.c. nel quale si conferma che l’azione è imprescrittibile e che spetta al figlio medesimo; ma, se egli non l’ha promossa ed è morto in età minore o nei cinque anni dopo aver raggiunto la maggiore età, può essere promossa dai discendenti di lui. Essa deve essere proposta contro entrambi i genitori e, in loro mancanza, contro i loro eredi.
Nel nuovo testo si aggiunge che in mancanza di eredi, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso. Nel testo precedente alla riforma sulla filiazione del 2013 la possibilità di proporre l’azione nei confronti di un curatore, in caso di morte dei genitori e in mancanza di eredi non era prevista e pertanto in mancanza di eredi dei genitori deceduti l’azione restava improponibile. E già questa modifica è sintomatica della soluzione di un conflitto di interessi altrimenti non risolvibile. Vi è però nel nuovo testo qualcosa di più che induce anche ad un’altra considerazione relativa al modo con cui la legge reagisce al conflitto di interessi tra il figlio e i genitori. Infatti si prevede – mediante riferimento al sesto comma dell’art. 244 e al secondo comma dell’art. 245 – rispettivamente che “l’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni, ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratta di minore di età inferiore” e che “quando il figlio si trova in stato di interdizione ovvero versa in condizioni di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, l’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del pubblico ministero, del tutore, o dell’altro genitore. Per gli altri legittimati l’azione può essere proposta dal tutore o, in mancanza di questo, da un curatore speciale, previa autorizzazione del giudice”.
d) L’impugnazione del riconoscimento del figlio (articoli 263 – 268 c.c.)
Nel contesto della filiazione fuori dal matrimonio l’azione più importante che elimina uno status non veritiero è l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità’. Si tratta della principale azione di caducazione dello status di figlio nato fuori dal matrimonio. Il primo comma dell’art. 263 c.c. – non toccato dalla riforma sulla filiazione che ha interessato però la parte rimanente della disposizione – prevede che “il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse”. Chi asserisce di essere il padre biologico, in quanto soggetto che vi ha certamente interesse, è, quindi, tra i soggetti che può promuovere l’azione e partecipare poi a pieno titolo al processo (come ha precisato Cass. civ. Sez. I, 15 aprile 2005, n. 7924 che ha ritenuto il sistema non lesivo dei principi costituzionali e Cass. civ. Sez. I, 16 marzo 1994, n. 2515).
Gli altri commi dell’art. 263 c.c. (introdotti dall’art. 18 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) prevedono che l’azione di impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno che decorre dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Se l’autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza; nello stesso termine, la madre che abbia effettuato il riconoscimento è ammessa a provare di aver ignorato l’impotenza del presunto padre. L’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento. L’azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Riguardo al figlio l’azione è, invece, imprescrittibile.
Nell’azione deve essere valutato anche l’interesse del minore alla caducazione dello status (Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272).
Secondo quanto affermato da Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2016, n. 1957 nel giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex artt. 263 e 264 cod. civ., così come nell’azione di disconoscimento di paternità disciplinata agli artt. 243-bis ss. cod. civ., è sempre configurabile un potenziale conflitto di interessi tra il minore ed il genitore cui spetta la rappresentanza processuale, quali soggetti legittimati passivi e litisconsorti necessari, con la conseguenza che il minore ha il diritto di contraddire nel giudizio attraverso la nomina di un curatore speciale, nonostante la lacuna normativa sul punto. La nomina è necessaria a pena di nullità del relativo procedimento per violazione del principio del contraddittorio.
La giurisprudenza ha anche riflettuto sul conflitto di interessi tra il minore e il genitore esercente la responsabilità genitoriale, nel caso di azione promossa da chi ha effettuato il riconoscimento oggetto dell’impugnazione (nella specie il coniuge del genitore naturale del minore), ritenendo che un conflitto di interessi possa anche non esserci e ammettendo, in questa ipotesi, che il genitore potrebbe legittimamente rappresentare il figlio (Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533). Si legge nella decisione che il conflitto di interessi nel rapporto processuale tra genitore esercente la responsabilità genitoriale e figlio è ipotizzabile soltanto allorché i due interessi siano nel caso concreto incompatibili tra loro, nel senso che l’interesse del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, non si concili con quello del rappresentato; l’esistenza di una siffatta situazione di conflitto, il cui apprezzamento è rimesso al giudice di merito, non è normativamente presunta nel caso dell’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità. Ne consegue che in ordine a tale azione, trova applicazione, in mancanza della deduzione di una concreta situazione di conflitto di interessi, la regola secondo cui il genitore esercente la responsabilità genitoriale è legittimato, nell’interesse del figlio minore, a resistere al giudizio da altri intentato.
La scadenza del termine massimo di cinque anni previsto per l’esperibilità dell’azione di disconoscimento e dell’impugnazione del riconoscimento da parte dei legittimati diversi dal figlio renderà inattaccabile lo status a meno che il figlio non ritenga di dover esercitare il diritto imprescrittibile che la legge gli attribuisce. E’ anche questo un modo di risolvere un conflitto di interessi dando la prevalenza all’interesse del figlio rispetto a quello degli altri legittimati all’azione.
Il ruolo di possibile attore della causa che la legge riconosce all’asserito padre biologico nell’impugnazione del riconoscimento si differenzia da quello riconosciutogli nel procedimento di disconoscimento dove l’asserito padre biologico non ha legittimazione alcuna a promuovere o ad intervenire nel disconoscimento di paternità, ma soltanto il potere (nuovo testo dell’art. 244 c.c.) di presentare istanza di nomina di un curatore speciale per il minore infraquattordicenne affinché possa essere iniziata la causa. Questa diversità di poteri del padre biologico nell’azione di disconoscimento e in quella di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità potrebbe porre qualche problema di legittimità costituzionale in quanto in un sistema orientato soprattutto al favor veritatis – che la riforma sulla filiazione del 2013 oggettivamente ha perseguito – il ruolo eventuale di parte processuale del padre biologico non dovrebbe restare illogicamente mortificato di fronte alla famiglia matrimoniale (terreno tradizionalmente permeato dal favor legitimitatis). Non può neanche tacersi, inoltre, che un profilo problematico è certamente costituito dal fatto che l’iniziativa del padre biologico potrebbe stravolgere l’equilibrio psicologico del minore nella famiglia in cui vive (fondata o meno sul matrimonio), senza peraltro che sussista la certezza che alla eliminazione dello status consegua poi l’azione per il riconoscimento da parte del padre biologico. Da questo punto di vista l’introduzione in entrambe le azioni (cfr nuovo quarto comma dell’art. 244 c.c. e nuovo ultimo comma dell’art. 263 c.c.) di un termine massimo di cinque anni dalla nascita per l’esperimento delle rispettive azioni – salva l’imprescrittibilità in entrambi i casi per il figlio – può considerarsi una soluzione soddisfacente.
Per quanto riguarda l’impugnazione da parte del figlio minore il nuovo art. 264 c.c. – anch’esso riformato nel 2013 – prevede che “l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto quattordici anni, ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore che abbia validamente riconosciuto il figlio, quando si tratti di figlio di età inferiore.”.
La possibilità che l’autorità giudiziaria venga a conoscenza della eventuale falsità di riconoscimenti di figli nati fuori dal matrimonio è garantita da tre meccanismi giuridici specifici.
In primo luogo, ed in sede civile, dalla normativa in tema di adozione di minori nella parte in cui prevede che l’ufficiale di stato civile debba trasmettere al tribunale per i minorenni (oggi tribunale ordinario dopo la modifica dell’art. 38 disp. att. c.c. effettuata dalla riforma del 2013 sulla filiazione) “comunicazione, sottoscritta dal dichiarante, dell’avvenuto riconoscimento da parte di persona coniugata di un figlio non riconosciuto dall’altro genitore”(art. 74 della legge 4 maggio 1983 n. 184) e, quindi, in tutte i casi in cui una persona coniugata riconosca un figlio da solo, senza che l’altro genitore biologico ne effettui anche lui il riconoscimento; il tribunale, in base a quanto prevede il secondo comma della norma citata “nel caso in cui vi siano fondati motivi per ritenere che ricorrano gli estremi dell’impugnazione del riconoscimento… assume, anche d’ufficio, i provvedimenti di cui all’art. 264 secondo comma del codice civile” il che significa che, di fronte ad un fondato sospetto di non veridicità del riconoscimento potrebbe, anche senza istanza del pubblico ministero, nominare il curatore speciale perché eserciti l’azione di impugnazione secondo, appunto, quanto prevede l’art. 264 comma 2 c.c.
La conoscibilità dei falsi riconoscimenti è, in secondo luogo, assicurata dall’art. 252 c.c. il quale prevede che quando uno dei coniugi durante il matrimonio riconosca un figlio la decisione circa l’affidamento e l’eventuale inserimento del figlio nella famiglia legittima dell’autore del riconoscimento spetta al tribunale (oggi ordinario secondo il testo attuale dell’art. 38 disp. att. c.c.) il quale, naturalmente – e sempre che la domanda in proposito gli venga inoltrata – potrebbe effettuare quegli accertamenti che, in caso di sospetto di falso riconoscimento, possono condurre alla nomina del curatore speciale per l’esercizio dell’azione. In proposito l’art. 252, comma 1 c.c. prevede espressamente che, a seguito della domanda di affidamento e di inserimento di un figlio naturale nella sua famiglia legittima da parte dell’autore del riconoscimento, il tribunale “valutate le circostanze, decide in ordine all’affidamento del minore e adotta ogni altro provvedimento a tutela del suo interesse morale e materiale”.
L’autorità giudiziaria può, infine, venire a conoscenza della falsità di eventuali riconoscimenti attraverso il meccanismo consueto della segnalazione delle notizie di reato al pubblico ministero da parte della polizia giudiziaria, considerato che il falso riconoscimento di un figlio costituisce reato di alterazione di stato se realizzato in sede di formazione dell’atto di nascita, cioè in sede di prima dichiarazione del riconoscimento (art. 564 c.p. punito con la reclusione da cinque a quindici anni) oppure reato di false attestazioni all’ufficiale di stato civile se realizzato in sede di riconoscimento tardivo (art. 495 c.p. punito con la reclusione non inferiore ad un anno e fino a tre anni).
Oltre all’impugnazione di cui si è parlato, cosiddetta per difetto di veridicità sono previste altre due impugnazioni del riconoscimento: a) per violenza, quando il riconoscimento – che è un atto personalissimo e libero – è stato effettuato sotto la pressione di una violenza anche esercitata da un terzo (art. 265 c.c.); b) per effetto di interdizione, quando il riconoscimento è stato effettuato da una persona interdetta per infermità di mente (art. 266 c.c.).
L’azione di impugnazione del riconoscimento per violenza può essere esercitata entro il termine di decadenza di un anno dal giorno in cui la violenza è cessata o, se l’autore del riconoscimento è minore, entro un anno dal conseguimento della maggiore età (art. 265 c.c.). L’azione di impugnazione del riconoscimento per effetto di interdizione giudiziale può essere esercitata sempre dal rappresentante dell’interdetto e, dopo la revoca dell’interdizione, dall’autore del riconoscimento entro il termine di un anno dalla data della revoca (art. 266 c.c.). In questi due ultimi casi di impugnazione del riconoscimento – che sono anche essi di competenza del tribunale ordinario e che si svolgono sempre con procedura contenziosa – l’azione, in caso di morte dell’interessato, può essere promossa dai suoi discendenti, dagli ascendenti o dagli eredi, sempre però, che non sia scaduto il termine indicato negli art. 265 e 266 c.c.
In base a quanto prevede espressamente l’art. 268 c.c. il tribunale di fronte al quale viene promosso uno dei tre giudizi di impugnazione sopra ricordati, “può dare, in pendenza del giudizio, provvedimenti che ritenga opportuni nell’interesse del figlio”. Il provvedimento al quale evidentemente la norma si riferisce è soprattutto riferibile all’impugnazione di riconoscimento per difetto di veridicità e consiste evidentemente nell’allontanamento del minore dalla persona che ha effettuato falsamente il riconoscimento o dal nucleo familiare nel quale il minore sia stato fraudolentemente inserito.
e) La dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità (articoli 269 – 277 c.c.)
Le norme che disciplinano questa azione non sono state sostanzialmente toccate dalla riforma del 2013 sulla filiazione.
Nel caso di azione promossa nell’interesse del minore dal genitore esercente la responsabilità genitoriale fino alla sentenza con cui la Corte costituzionale dichiarando incostituzionale l’art. 274 c.c. (Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50) ha eliminato la fase di ammissibilità che prima era obbligatoria per poter esercitare l’azione. L’ultimo comma dell’art. 274 c.c prevedeva la facoltà per il giudice (allora il tribunale per i minorenni) di nominare un curatore speciale al minore; non si trattava, però, di un obbligo come la giurisprudenza aveva chiarito (Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1993, n. 2576).
La giurisprudenza ha poi sempre ribadito questa indicazione affermando espressamente che nel giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità la nomina o il diniego di nomina di un curatore speciale secondo il testuale tenore dell’art. 274 comma 4 c.c. costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito che può farvi luogo anche prima di ammettere l’azione, ai fini della rappresentanza in giudizio. Si tratta di un atto che non incide sui diritti del minore e che non ha alcuna autonomia nell’ambito del procedimento (in quanto la rappresentanza del minore è in ogni caso affidata al genitore esercente la potestà ai sensi dell’art. 273 comma 1 c.c. e che è privo di efficacia decisoria, non spiegando riflessi di sorta sul provvedimento che dichiara ammissibile l’azione. Conseguentemente, trattandosi di un atto a carattere meramente ordinatorio, esso non è ricorribile per cassazione neanche con il ricorso straordinario per violazione di legge previsto nell’art. 111 Cost. (Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 1997, n. 9316).
La Corte di cassazione, chiamata a verificare se la non obbligatorietà della nomina del curatore speciale in caso di azione di riconoscimento della paternità o maternità naturale su un minore, sia in contrasto con i principi costituzionali, ha ritenuto di considerare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 273 c.c. con riferimento agli art 2 e 24 Cost. nella parte in cui, in ipotesi di figlio minorenne, attribuisce al genitore la legittimazione ad agire per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale senza prevedere la necessità della nomina di un curatore speciale per il minore e, in caso di inattività del sostituto processuale, la sospensione dei termini fino al raggiungimento della maggiore età del sostituito. Infatti l’interesse del minore risulta adeguatamente protetto, nel caso di promovimento dell’azione da parte del genitore attraverso la verifica della sua rispondenza a quell’interesse demandata al tribunale per i minorenni a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 341 del 1990; nel caso contrario con la possibilità per il figlio, una volta divenuto maggiorenne, di promuovere l’azione per lui imprescrittibile ai sensi dell’art. 270 c.c. (Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786). In questa sentenza si legge che nel giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale l’art. 273 comma 1 c.c. prevede l’autorizzazione del tribunale e, come facoltativa la nomina di un curatore speciale, solo quando l’azione è esercitata dal tutore, ma non prevede tale nomina, neppure come facoltativa, né la necessità di autorizzazione, quando l’azione è esercitata dal genitore che esercita la potestà, configurando una estensione, rispetto ad un diritto strettamente personale del figlio, del potere di rappresentanza ex lege spettante al genitore medesimo; ne deriva che né la nomina di un curatore speciale, disposta al di fuori della previsione normativa, né la valutazione dell’interesse del minore infrasedicenne (oggi infraquattordicenne) da parte del giudice (dopo l’intervento della Corte costituzionale con sentenza n. 341 del 20 luglio 1990), che è da annoverarsi fra le condizioni di ammissibilità dell’azione nel quadro dell’art. 274 c.c., possono riflettersi negativamente sulla legittimazione del genitore esercente la responsabilità genitoriale a promuovere l’azione (Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 1992, n. 3416).
Nella prassi – venuta meno la fase di ammissibilità – non sono numerosi i casi di nomina di un curatore speciale al minore nelle cause di riconoscimento della paternità naturale verosimilmente perché è lo stesso giudice che è stato investito in questi procedimenti del compito di valutare l’interesse del minore (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341 aveva parzialmente dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 274, comma 1, del codice civile nella parte in cui, se si tratta di minore infrasedicenne [oggi infraquattordicenne] non prevede che l’azione promossa dal genitore esercente la potestà [oggi responsabilità genitoriale] sia ammessa solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del figlio).
L’azione è possibile in tutti i casi in cui è ammesso il riconoscimento della filiazione fuori dal matrimonio (art. 278 c.c.).
La legittimazione ad agire, come detto, spetta al figlio per il quale l’azione è imprescrittibile. L’azione non è, invece, imprescrittibile per i suoi discendenti i quali pure sono ammessi a promuovere l’azione in caso di morte del figlio, ma entro due anni dalla morte. Se il figlio muore dopo averla promossa, i discendenti possono continuare l’azione intrapresa (art. 270 c.c.).
In caso di minore età del figlio – che costituisce l’ipotesi statisticamente più frequente di azione giudiziale per l’accertamento della paternità fuori dal matrimonio – la legittimazione è attribuita, nell’interesse del minore, come si è detto, al solo genitore esercente la responsabilità genitoriale oppure al tutore (art. 273 comma 1 c.c.). Unica differenza tra l’azione promossa nell’interesse del minore dal genitore e quella promossa sempre nell’interesse del minore dal tutore è che il tutore deve prima richiedere l’autorizzazione del giudice il quale potrebbe nominare un curatore speciale che promuova il giudizio.
Naturalmente se il genitore esercente la responsabilità genitoriale o il tutore non esercitano l’azione nell’interesse del figlio minore, questi, divenuto maggiorenne potrà esercitarla lui stesso.
Il tutore è anche il soggetto legittimato a promuovere l’azione nell’interesse dell’interdetto (art. 273 ultimo comma c.c.).
Una novità derivante dalla riforma sulla filiazione del 2013 è contenuta nell’art. 276 c.c. (come modificato dall’art. 1, comma 5, legge 10 dicembre 2012, n. 219 e dall’art. 33 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) in base al quale “la domanda per la dichiarazione di paternità o di maternità deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in mancanza di lui, nei confronti dei suoi eredi. In loro mancanza, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso. Alla domanda può contraddire chiunque vi abbia interesse”.
La possibilità che la causa potesse essere proseguita, in mancanza di eredi, nei confronti di un curatore speciale era stata esclusa da Cass civ. Sez, unite 3 novembre 2005, n. 21287.
La sentenza che dichiara la filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento (art. 277 comma 1 c.c.).
Come detto la giurisprudenza esclude che vi sia un obbligo di nomina di un curatore speciale per il figlio ma questo non esclude che possa comunque esservi un conflitto di interessi – o una difformità di vedute – tra il figlio (in ordine alla valutazione del suo effettivo interesse) e il genitore e che esercita l’azione in sostituzione del figlio medesimo. Proprio per questo, come si è detto, la Corte costituzionale aveva ritenuto necessaria (oggi nell’azione di merito, dopo la scomparsa della fase di ammissibilità) la valutazione dell’interesse del minore (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341).
f) Il procedimento di autorizzazione al riconoscimento tardivo del figlio (art. 250 cc)
Va ribadito che la procedura di cui all’art. 250 c.c. – prevista per il caso di opposizione del primo genitore al riconoscimento tardivo da parte dell’altro – non configura una azione di stato sulla filiazione in quanto il procedimento termina con una sentenza che autorizza il richiedente ad effettuare il riconoscimento e non con una decisione costitutiva dello status. Si accenna tuttavia a questa procedura per motivi di completezza sul tema del conflitto di interessi.
Il riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio può avvenire, disgiuntamente o congiuntamente, da parte dei genitori. Se il figlio ha meno di quattordici anni il genitore che per primo lo abbia da solo riconosciuto deve esprimere il proprio consenso al riconoscimento tardivo che l’altro genitore intendesse effettuare fare (art. 250 c.c.). Se il figlio ha compiuto i quattordici anni il consenso non è necessario, prevedendosi espressamente che debba essere il figlio ultraquattordicenne ad esprimere il proprio assenso.
Pertanto oltre i quattordici anni del figlio il conflitto di interessi tra genitore che ha già riconosciuto il figlio e il figlio stesso viene risolto in radice attribuendosi al figlio stesso il potere di assentire al riconoscimento da parte del secondo genitore.
Se il figlio è, invece infraquattordicenne e il genitore che per primo lo ha riconosciuto intende consentire al riconoscimento tardivo da parte dell’altro genitore non vi è per la legge alcun conflitto di interessi da risolvere. Il consenso di entrambi i genitori esclude un conflitto di interessi. Questo meccanismo in effetti è comprensibile e ragionevole (in effetti quando due genitori riconoscono congiuntamente un figlio nessuno ha il potere di sindacare preliminarmente l’interesse del minore) e le eventuali dissonanze per i figli (si pensi al caso in cui un genitore dovesse acconsentire solo per aver subito le pressioni minacciose dell’altro genitore o nonostante una grave condizione di devianza personale dell’altro genitore) potranno essere risolte come per tutti i figli attraverso i consueti meccanismi di controllo dell’esercizio della responsabilità genitoriale.
Se, invece, il genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento non intende dare il proprio consenso al riconoscimento tardivo da parte dell’altro genitore, allora è evidente che si crea una situazione di conflitto di interessi tra genitore e figlio che l’ordinamento affronta attribuendo al giudice il potere di intervento per sindacare se il dissenso del genitore è giustificato o se invece non corrisponde all’interesse del figlio. In tal caso il riconoscimento tardivo potrà avvenire solo in virtù del provvedimento del giudice.
Il procedimento è previsto nell’art. 250 c.c. (ampiamente modificato dall’art. 1, comma 2, della legge 10 dicembre 2012, n. 219) dove si prevede che “Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ricorso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giudice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante; se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento, e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la relazione, salvo che l’opposizione non sia palesemente fondata. Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell’articolo 315-bis e al suo cognome ai sensi dell’articolo 262”.
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che il riconoscimento del figlio costituisce un diritto soggettivo sacrificabile solo in presenza di un pericolo di danno gravissimo per lo sviluppo psicofisico del minore (Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2011, n. 2645; Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4).
Le modalità procedimentali – che in questa sede non è necessario approfondire ulteriormente – rendono evidente che secondo il legislatore il conflitto di interessi tra figlio e genitore (che dissente dal tardivo riconoscimento) viene risolto dall’intervento del giudice attraverso “l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento” (Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729; Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884) oltre che – come si dirà tra breve – dalla nomina del curatore speciale. Siamo quindi in presenza di uno di quei casi di conflitto di interessi trattato secondo il legislatore con modalità differenti da quelle classiche della nomina del curatore speciale e dunque nel contesto delle norme di verifica delle funzioni genitoriali connesse al diritto dei figli all’educazione, alla cura, all’assistenza, più che nell’ambito delle norme sulla rappresentanza esterna.
Opposta era stata in passato l’interpretazione proposta dalla giurisprudenza che aveva sistematicamente affermato – evidentemente ritenendo soddisfacente la valutazione dell’interesse del minore – che nel procedimento di cui all’art. 250 c.c. il minore non assume la qualità di parte, ma deve essere soltanto ascoltato, sempre che ne sia capace per ragione di età o per altre cause con la conseguenza che in tale procedimento non sorge l’esigenza della nomina di un curatore speciale del minore (Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2004, n. 14934; Cass. civ. sez. I, 10 maggio 2001, n. 6470; Cass. civ. sez. I, 16 giugno 1990, n. 6093; Cass. civ. sez. I, 13 marzo 1987, n. 2654; Cass. civ. sez. I, 16 dicembre 1981, n. 6660).
A modificare questa situazione è intervenuta la Corte costituzionale che ha praticamente imposto la nomina di un curatore al minore nei procedimenti di cui all’art. 250 c.c. affermando che in questi procedimenti al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio e che, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale; il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio, avuto riguardo allo specifico potere attribuito in proposito all’autorità giudiziaria dall’art. 9, primo comma, della citata Convenzione di Strasburgo (Corte cost. 11 marzo 2011, n. 83). In questa sentenza la Corte ha praticamente indicato il principio generale in base al quale la nomina del curatore (e, da parte di costui, del difensore) è adempimento riservato ai procedimenti in cui al minore è attribuibile la qualità di parte. Successivamente ha pienamente aderito alla ricostruzione della Corte costituzionale Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729.
g) L’azione di mantenimento in caso di non riconoscimento (art. 279 c.c.)
Per ragioni di completezza è opportuno fare qualche accenno anche all’azione di mantenimento prevista nell’art. 279 c.c., pur non trattandosi di un’azione di stato perché non produce l’attribuzione dello status ma solo il diritto al mantenimento o agli alimenti previo accertamento incidenter tantum della compatibilità genetica.
Può avvenire che la filiazione non possa essere accertata per l’esistenza di cause ostative. In questi casi il figlio può ugualmente agire per ottenere il solo mantenimento. L’azione è ammessa previa autorizzazione del tribunale per i minorenni (art. 38 disp. att. c.c. come modificato dall’art. 3 legge 10 dicembre 2012, n. 219 a sua volta ulteriormente modificato dall’art. 96 lett. c del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154).
La norma di riferimento è l’art. 279 c.c. (come modificato dall’art. 36 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) dove si prevede che “in ogni caso in cui non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità, il figlio nato fuori del matrimonio può agire per ottenere il mantenimento, l’istruzione e l’educazione. Il figlio nato fuori del matrimonio se maggiorenne e in stato di bisogno può agire per ottenere gli alimenti a condizione che il diritto al mantenimento di cui all’articolo 316 sia venuto meno.
L’azione è ammessa previa autorizzazione del giudice ai sensi dell’articolo 251. L’azione può essere promossa nell’interesse del figlio minore da un curatore speciale nominato dal giudice su richiesta del pubblico ministero o del genitore che esercita la responsabilità genitoriale”.
Quindi in base a questa disposizione ogni volta che “non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità” il figlio minore nato fuori dal matrimonio può agire per ottenere i soli diritti di mantenimento, educazione istruzione, mentre il figlio maggiorenne – che non goda del diritto al mantenimento – può agire per ottenere i soli alimenti.
Quali sono i casi in cui “non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità”?
Prima della riforma del 2013 uno dei casi in cui era ipotizzabile questa azione era quello del figlio nato da una relazione incestuosa in quanto i figli nati da persone unite da vincoli di parentela o affinità (indicati nell’art. 87 c.c.) non potevano agire per la dichiarazione giudiziale di paternità e non erano riconoscibili (previgente art. 251 c.c.). La norma in questione è stata dapprima dichiarata parzialmente incostituzionale Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494) ed è stata modificata dalla riforma sulla filiazione del 2013. Ora “il figlio nato da persone, tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta, può essere riconosciuto previa autorizzazione del giudice avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio” (art. 251 c.c. come modificato dall’art. 1, comma 3, legge 10 dicembre 2012, n. 219 e art. 22 D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) mentre negli stessi casi “l’azione per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la paternità o la maternità non può essere promossa senza previa autorizzazione ai sensi dell’articolo 251” (art.278 c.c. come modificato dall’art. 35 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154).
Pertanto certamente la prima ipotesi che residua di possibile azione per il solo mantenimento è quella in cui il tribunale per i minorenni dovesse negare l’autorizzazione al riconoscimento dei figli nati da relazione incestuosa o l’autorizzazione per la proposizione dell’azione dichiarativa della paternità.
Un altro caso è quello in cui il tribunale dovesse negare la dichiarazione di paternità ritenendola contraria all’interesse del minore secondo la valutazione che il giudice deve effettuare sempre (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341).
Ulteriore ipotesi è quella in cui il figlio avendo già uno status filiationis essendo nato all’interno del matrimonio intendesse agire nei confronti del vero genitore biologico (Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 1992, n. 711).
Inoltre certamente in tutti i casi in cui il figlio non possa essere riconosciuto perché per esempio nato da genitori infrasedicenni o perché avendo essi richiesto l’autorizzazione al riconoscimento questa venga negata (art. 250 ult. comma c.c. come modificato dall’art. 1, comma 2, legge 10 dicembre 2012, n. 219).
La giurisprudenza non ha, comunque, seguito un orientamento univoco nell’interpretazione del conflitto di interessi tra genitore e figlio. Così si è affermato che l’azione ex art. 279 c.c. se proposta nell’interesse di un minore, va proposta da un curatore speciale nominato dal giudice su richiesta del PM o del genitore che sul minore esercita la potestà (responsabilità genitoriale), dovendosi pertanto dichiarare inammissibile l’azione ex art. 279 c.c. proposta dalla madre di un minore, in nome e per conto di questi (Trib. min. L’Aquila, 9 febbraio 1999 in Dir. fam. pers., 2000, 147). Pertanto la domanda non può essere proposta se non dal figlio maggiorenne o dal curatore speciale.
L’azione tendente a far valere il rapporto di filiazione ai soli fini alimentari è esperibile previa autorizzazione del tribunale esclusivamente nei casi in cui la paternità o la maternità non sia giudizialmente dichiarabile, occorrendo altresì, qualora l’azione sia proposta nell’interesse di un minore, che essa sia promossa da un curatore speciale (Trib. min. Catania, 16 marzo 1990 in Dir. Fam e pers., 1992, 273; Trib. Vigevano, 13 marzo 1980 in Dir. Fam e pers., 1980, 892).
VI A quale tipo di conflitto di interessi tra genitori e figli fanno riferimento le norme sovranazionali sui diritti dei minori?
Anche le norme sovranazionali fanno riferimento al confitto di interessi tra genitori e figli. Se si esaminano i due testi normativi più richiamati (la Convenzione del 1989 sui diritti dei minori e la Convenzione europea del 1996 sull’esercizio dei diritti dei minori) ci si avvede che all’interno di questa normativa sovranazionale sono contenute alcune indicazioni di grande rilevanza con le quali si è affermato – soprattutto nell’ambito processuale di regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale – il diritto del minore a partecipare ai procedimenti che lo riguardano, di ricevere adeguate informazioni, di essere consultato e di poter esprimere la propria opinione. In questo contesto la convenzione europea del 1996 prevede espressamente che al minore deve essere garantito il diritto ad un rappresentante speciale nelle procedure giudiziarie “allorché il diritto interno priva i detentori di responsabilità parentali delle facoltà di rappresentarli a causa dell’esistenza di un conflitto di interessi (art. 4).
Pertanto il conflitto di interessi al quale la normativa sovranazionale fa riferimento è quello collegato non alle funzioni di rappresentanza e di amministrazione ma a quel fascio di funzioni genitoriali concernenti il rapporto educativo e di accudimento del figlio che sono sostanzialmente l’oggetto sia delle procedure di contrasto agli abusi genitoriali e all’abbandono, si di quelle di separazione, divorzio o in cui si discute comunque dell’affidamento. Con il che si pone certamente nel nostro ordinamento la problematica di una possibile estensione del potere di nomina di un curatore speciale al minore dal settore nel quale oggi questa nomina è prevista senza problemi (abusi della responsabilità genitoriale e adottabilità in cui il minore è considerato parte processuale) al settore dell’affidamento e delle procedure di separazione e divorzio in cui – come si dirà – la prassi giudiziaria prevalente, sul presupposto che il minore non è parte processuale in questi procedimenti, non è favorevole né a ritenere l’esistenza di conflitti di interessi, ne’ quindi a procedere alla nomina al minore di un “rappresentante speciale” in funzione sostitutiva dei genitori
Entrando più nel merito delle due convenzioni si osserva che la Convenzione internazionale del 1989 sui diritti dei minori (ratificata e resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176) contiene una disposizione generale che prevede all’art. 12 il diritto del minore “di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa” e impone agli Stati di dargli “la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante legale o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale”. In questo timido riferimento alla necessità dell’ascolto del minore anche “tramite un rappresentante legale o un organo appropriato” la Convenzione rinvia per le modalità di attuazione di questi diritti alle legislazioni nazionali e impegna gli Stati aderenti a considerare che “in tutte le decisioni relative ai minori, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del minore deve essere una considerazione preminente”, ad assicurare al minore “la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori” (art. 3) e ad adottare “tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi ed altri necessari per attuare i diritti riconosciuti dalla presente Convenzione” (art. 4).
È, invece, soprattutto la Convenzione europea del 1996 sull’esercizio dei diritti dei minori (ratificata e resa esecutiva con la legge 20 marzo 2003, n. 77) che opera alcuni richiami essenziali sul tema della necessaria rappresentanza del minore da parte di un “rappresentante speciale” in caso di conflitto di interessi con i genitori.
L’obiettivo che la Convenzione europea ha avuto di mira – che segnala il passaggio dall’affermazione dei diritti dei minori all’indicazione concreta di come esercitarli – è proprio quello di “promuovere, nell’interesse superiore dei minori, i loro diritti, di attribuire loro diritti processuali e di agevolarne l’esercizio, facendo in modo che essi possano personalmente o per mezzo di altre persone od organismi, essere informati ed autorizzati a partecipare alle procedure giudiziarie che li riguardano” cioè “quelle in materia familiare e, in particolare, quelle relative all’esercizio delle responsabilità dei genitori, specie con riferimento alla residenza ed al diritto di visita riguardo ai figli” (art. 1). La Convenzione, perciò, tende a conferire effettività al sopra richiamato principio enunciato nell’art. 12 della convenzione di New York.
La Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori si occupa concretamente di tre aree di diritti processuali.
In primo luogo garantisce a tutti minori che siano considerati dalla legge interna di uno Stato come aventi sufficiente capacità di discernimento, il diritto di ricevere tutte le informazioni pertinenti, di essere informati e consultati e di esprimere la loro opinione nel corso delle procedure giudiziarie che li riguardano, di essere informati sulle possibili conseguenze dell’attuazione dei loro diritti e sulle possibili conseguenze di ogni decisione (art. 3). Si tratta di vero e proprio diritto di natura processuale di informazione e di consultazione che corrisponde ad una obbligazione di comportamento per i giudici (art. 6), per il rappresentante del minore (art. 10 comma 1) ed anche, se gli Stati lo riterranno opportuno, per i genitori stessi del minore (art. 10 comma 2).
In secondo luogo la Convenzione – ed è questa l’interferenza che qui interessa sottolineare con il tema del conflitto di interessi – garantisce ai minori il diritto, anch’esso di natura processuale, ad un rappresentante speciale, facendo, però, salva la facoltà di ogni Stato di garantire questo diritto soltanto ai minori ritenuti dotati di sufficiente capacità di comprensione. In particolare garantisce il diritto di richiedere personalmente o per mezzo di altre persone od organismi la designazione di un rappresentante speciale nelle procedure giudiziarie che li riguardano allorché il diritto interno priva i detentori di responsabilità parentali delle facoltà di rappresentarli a causa dell’esistenza di un conflitto di interessi (art. 4). Molto opportunamente la norma in questione fa espressamente salva l’applicazione dell’art. 9 della Convenzione dove si ribadisce che i genitori hanno in via primaria il potere di rappresentanza processuale dei propri figli minori. Quindi se i genitori non possono, secondo il diritto interno, rappresentare il figlio a causa di un conflitto di interessi con lui o perché comunque privati del potere di rappresentanza, può essere nominato al minore un rappresentante speciale dall’autorità giudiziaria, d’ufficio (art. 9 comma 1) o su richiesta dello stesso figlio fatta personalmente o attraverso altre persone od organi (art. 4 comma 1). È opportuno osservare come la Convenzione non obblighi gli Stati a prevedere la nomina di un rappresentante speciale al di fuori delle ipotesi di conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori sebbene nel successivo articolo 9 lasci liberi gli Stati di prevedere che nelle procedure riguardanti i minori l’autorità giudiziaria abbia comunque la facoltà di nominare sempre al minore un rappresentante speciale o un avvocato. L’art. 4 prevede anche l’obbligo per gli Stati di indicare espressamente al momento della ratifica a quali procedure interne si debba applicare la norma sulla designazione al minore del rappresentante speciale.
Un elenco esemplificativo dei procedimenti giudiziari nei quali si pone il problema della nomina di un rappresentante speciale al minore – e di conseguenza in cui secondo le norme sovranazionali può parlasi di conflitto di intesse tra genitori e figli – è indicato al punto 17 della relazione che accompagna il testo della Convenzione dove si afferma che le categorie di controversie cui la Convenzione è applicabile possono essere esemplificate nel modo seguente: l’affidamento, la residenza, il diritto di visita, la dichiarazione e la contestazione dello stato di figlio, la legittimazione e la contestazione dello stato di figlio legittimo, l’adozione, la tutela, l’amministrazione dei beni del minore, l’educazione, la decadenza e la limitazione dell’autorità dei genitori, la protezione contro i maltrattamenti, il trattamento sanitario.
Come si può notare si tratta di controversie nelle quali si discute in sostanza soprattutto delle funzioni genitoriali di carattere interno al rapporto genitori-figli, che si esercitano attraverso l’adempimento quotidiano dei doveri genitoriali indicati nell’art. 315-bis c.c. (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 8, della legge 10 dicembre 2012, n. 219) secondo cui “il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”.
Per questo si può affermare che la Convenzione europea del 1996 sull’esercizio dei diritti del minore segna il momento cronologico di passaggio dalla concezione del conflitto di interessi come relegata prevalentemente alle funzioni di rappresentanza esterna (secondo l’impostazione del codice civile: art. 320 e 321 c.c.) ad una concezione che abbraccia un significato molto più esteso del conflitto di interessi centrata sul rapporto interno genitori – figli a salvaguardia delle funzioni genitoriali soprattutto di educazione e di accudimento e che richiede interventi sostitutivi delle competenze genitoriali attraverso la nomina di un rappresentante speciale al minore tutte le volte in cui quelle funzioni non sono adeguatamente assolte dai genitori.
La figura del rappresentante speciale è, in sostanza, nel nostro ordinamento, la figura del curatore speciale del minore. Conseguentemente le ipotesi di nomina di un rappresentante speciale ipotizzate dalla Convenzione sono riconducibili ai casi in cui nel nostro sistema processuale viene nominato al minore un curatore speciale in funzione sostitutiva dei genitori che, se in linea generale è nella prassi un avvocato, non necessariamente deve esserlo.
La Convenzione si preoccupa di indicare quali sono le funzioni del rappresentante speciale: egli deve fornire al minore considerato dalla legge interna come dotato di una sufficiente capacità di discernimento ogni informazione pertinente e spiegazioni riguardo alle possibili conseguenze dell’attuazione dei suoi desideri e alle possibili conseguenze di ogni azione del rappresentante; deve inoltre determinare il punto di vista del minore facendo sì che questo punto di vista venga portato a conoscenza dell’autorità giudiziaria (art. 10).
In terzo luogo la Convenzione prevede che gli Stati possano garantire al minore altri diritti processuali come il diritto di essere assistiti da una persona idonea di propria scelta, al fine di essere aiutati ad esprimere la propria opinione; il diritto di chiedere personalmente o per mezzo di altre persone od organismi la nomina di un diverso rappresentante e, nei casi appropriati, la nomina di un avvocato; il diritto di nominare un proprio rappresentante; il diritto di esercitare, in tutto o in parte, le prerogative delle parti nelle procedure giudiziarie (art. 5). Questo articolo, diversamente dall’art. 4 non obbliga gli Stati a concedere i diritti specifici elencati, tuttavia li invita a valutare l’opportunità di prevedere diritti processuali supplementari rispetto a quelli minimi previsti dai precedenti articoli, lasciando poi al Comitato permanente istituito con l’art. 16 la funzione di verificare sul punto l’attuazione della Convenzione e di adottare eventualmente raccomandazioni in proposito. L’elenco dei diritti processuali elencati all’art. 5 non è evidentemente tassativo.
I diritti processuali il cui esercizio da parte dei minori è particolarmente raccomandato riguardano sostanzialmente, quindi, l’assistenza e la rappresentanza del minore da parte di un difensore nel processo e tali diritti si confermano, quindi, come i due diritti di natura processuale principali presi in considerazione dalla Convenzione quali diritti supplementari raccomandati, nella prospettiva del riconoscimento al minore, nelle procedure che lo riguardano, della qualità di parte processuale (“il diritto di esercitare, in tutto o in parte, le prerogative delle parti”).
In seguito all’approvazione della Convenzione europea del 1996 (come detto ratificata anni dopo in Italia con la legge 20 marzo 2003, n. 77) nell’ordinamento italiano negli anni 2000 si è andata realizzando una regolamentazione più attenta ai diritti del minore in ambito processuale grazie soprattutto a due riforme importanti: la prima è quella di cui alla legge 28 marzo 2001, n. 149, che ha previsto l’obbligo dell’assistenza legale per il minore e per i genitori nelle procedure di limitazione e di decadenza della responsabilità genitoriale e in quelle per la dichiarazione di adottabilità, e che è stata applicata faticosamente dalla giurisprudenza; la seconda è l’importante riforma sulla filiazione di cui alla legge 10 dicembre 2010, n. 219 e al decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 con cui il tema dei diritti del minore nel processo ha trovato attuazione attraverso l’elencazione puntuale dei diritti del minore (nuovo art. 315-bis c-c) e soprattutto del diritto di essere ascoltato – puntualizzato in tutti i suoi principali aspetti (articoli 336, 336-bis, 337-octies c.c., art. 38-bis disp. att. c.c.) – con ciò dandosi anche al tema del conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori una nuova impostazione. Con la nomina del curatore speciale, infatti, si consente di superare un conflitto di interessi tra i genitori e il figlio minore che nel processo ostacolerebbe la soddisfazione dei diritti del figlio minore, mentre con l’ascolto del minore si assegna al giudice la funzione di indispensabile verifica della corrispondenza delle decisioni all’interesse del figlio.
La nomina del curatore speciale nei casi di inidoneità genitoriale o di non assolvimento delle funzioni genitoriali e la regolamentazione dell’ascolto del minore costituiscono i nuovi pilastri, strettamente legati tra loro, sui quali si basa il processo civile in materia di tutela dei diritti del minore.
VII Il conflitto di interessi tra genitori e figli nei procedimenti di adottabilità e de potestate
Nei procedimenti per la dichiarazione di adottabilità e in quelli di controllo della responsabilità genitoriale (quest’ultimi denominati tradizionalmente procedimenti de potestate) il conflitto di interessi tra figli e genitori, pur presentandosi apparentemente come conflitto di interessi in un rapporto di rappresentanza, non è affatto inquadrabile nel contesto delle funzioni tradizionali della rappresentanza (esterna), ma va collocato – come si è detto all’inizio – nell’ambito delle altre funzioni genitoriali interne al rapporto genitori-figli. Ed infatti quello che rileva nel conflitto che in questi procedimenti si evidenzia tra genitori e figli è proprio l’(asserita) inadeguatezza dell’esercizio delle funzioni genitoriali che proprio in quei procedimenti sono sotto osservazione (potendo portare alla dichiarazione di adottabilità o a all’assunzione di provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale) e che non consentono oggettivamente di lasciare ai genitori nel processo la rappresentanza dei figli.
Ciò è tanto vero che la legge ha previsto proprio per i figli in quei procedimenti l’assistenza legale obbligatoria da parte di un difensore d’ufficio nominato (questo, almeno, era il senso originario della legge 28 marzo 2001, n. 149 che ha introdotto tale obbligo) non dai genitori ma dal giudice. La legge 149/2001 si era occupata di un tema più ampio, modificando in molte parti la normativa sull’adozione e sull’affidamento dei minori e proprio all’interno di questa riforma è stata introdotta anche l’assistenza legale obbligatoria per i genitori e per i minori nelle procedure di adottabilità (nuovo testo degli articoli 8, ultimo comma e 10, comma 2, della legge 184 del 1983, come modificati rispettivamente dall’art. 8 e dall’art. 10 della legge 149 del 2001) e nei procedimenti di limitazione e decadenza della responsabilità genitoriale (art. 336, ultimo comma c.c. come introdotto dall’art. 37 della legge 149 del 2001)1
1 In particolare, nella formulazione introdotta dalla legge di riforma, l’ultimo comma dell’art. 8 della legge 4 maggio 1983, n. 184 stabilisce il principio che “il procedimento di adottabilità deve svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza legale del minore e dei genitori o degli altri parenti di cui al comma 2 dell’art. 10” (cioè i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore) mentre sempre il predetto secondo comma dell’art. 10 prevede che, all’atto dell’apertura del procedimento, i genitori e i parenti devono essere espressa¬mente invitati dal giudice a nominare un difensore; in difetto deve essere loro nominato un difensore di ufficio.
Per i procedimenti di limitazione e decadenza della responsabilità genitoriale l’art. 37 della legge 149 del 2001 ha modificato l’art. 336 c.c. aggiungendovi un ultimo comma nel quale si prevede che “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”. .
Quindi nel 2001 il legislatore introduceva il principio dell’assistenza legale obbligatoria per il minore (e per i genitori) nei procedimenti di adottabilità e di controllo della responsabilità genitoriale interessando, così, pressoché la totalità degli affari civili attribuiti allora e ancora oggi alla competenza del tribunale per i minorenni.
Di fronte al testo abbastanza chiaro delle nuove norme, tuttavia, la giurisprudenza ha privilegiato una interpretazione della riforma che, sul pacifico presupposto di un conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori nelle procedure in questione, si è orientata per il mantenimento della prassi di nominare al minore non direttamente un difensore ma un curatore speciale lasciando al curatore il compito di nominare un difensore nel procedimento. Il più delle volte il curatore è egli stesso un avvocato che, ai sensi dell’art. 86 c.p.c. si costituisce direttamente nel procedimento. In verità la legge 28 marzo 2001, n. 149 – prevedendo l’assistenza obbligatoria del difensore, nella prospettiva di un processo civile più giusto di fronte ad un tribunale per i minorenni più terzo – spostava l’attenzione dalla rappresentanza sostanziale del minore (da parte dei genitori o da parte del curatore speciale) alla difesa processuale. Ed è proprio questa prospettiva che metteva bene in evidenza come la riforma avesse un’importanza il cui significato e la cui portata storica andavano ben oltre la disciplina che veniva introdotta. Si confermava, infatti, che il minore, nei casi indicati dalla riforma, aveva certamente la qualità di parte processuale (che comunque la giurisprudenza non gli ha mai disconosciuto in questi procedimenti) e si collocava con determinazione la difesa dei suoi diritti nel contesto della giurisdizione all’interno delle regole del processo.
In tutti i casi in cui la riforma ha previsto la nomina di un difensore al minore, si è in presenza di una situazione di conflitto di interessi tra il minore i suoi genitori. Si trattava perciò di verificare se la nomina del difensore – al quale indubbiamente sono attribuite funzioni di assistenza e di rappresentanza (art. 82 c.p.c.) – dovesse considerarsi sostitutiva della nomina di un curatore speciale o se nei casi in cui il giudice è chiamato a nominare al minore un difensore sia comunque necessaria e sufficiente la nomina di un curatore speciale al quale lasciare poi la scelta del difensore nel processo. E’ prevalsa la tesi secondo cui il principio dell“assistenza del minore” (nuovo art. 8 della legge 184 del 1983 e nuovo ultimo comma dell’art. 336 c.c.) non comporta il dovere del giudice di nominare egli un difensore al minore. E’ in sostanza rimasto in piedi il sistema precedente di nomina da parte del giudice del curatore speciale anche nei procedimenti di adottabilità e de potestate (oltre che in tutti gli altri in cui la legge già lo prevedeva). L’altra interpretazione avrebbe consentito al giudice di nominare egli direttamente sempre il difensore al minore sia nelle procedure di adottabilità che in quelle de potestate portando alla nascita di una nuova figura di avvocato la cui formazione e professionalità avrebbe dovuto concentrarsi sulla tutela del minore nell’ambito delle relazioni familiari.
La giurisprudenza ha privilegiato l’interpretazione secondo cui l’avvocato del minore è in sostanza l’avvocato del tutore del minore o del curatore speciale del minore.
Questa operazione interpretativa si è svolta innanzitutto nell’ambito delle procedure di adottabilità dove i giudici hanno interpretato le norme del 2001 alla luce soprattutto dei principi che erano stati già pacificamente affermati prima dell’entrata in vigore della riforma, salvo adattarli al nuovo impianto legislativo. Questi principi hanno continuato ad essere, in sostanza, applicati anche dopo la riforma del 2001 dalla giurisprudenza di legittimità la quale ha più volte ribadito che la nomina del difensore al minore è un compito del rappresentante legale e cioè, nel conflitto di interessi tra il minore e i genitori, un compito del tutore o del curatore speciale (Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 giugno 2016, n. 11782; Cass. civ. Sez. VI, 16 giugno 2011, n. 13221; Cass. civ. Sez. I, 17 febbraio 2010, n. 3804; Cass. civ. Sez. I, 17 febbraio 2010, n. 3805 dove si precisa che la legge 28 marzo 2001, n. 149, che ha novellato la legge 4 maggio 1983, n. 184, non prevede necessariamente (come si riteneva nel sistema precedente) la nomina di un curatore speciale al minore, il quale è rappresentato in giudizio dai genitori o dal tutore. E poiché il procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dalla sua apertura con l’assistenza legale del minore, il quale è parte a tutti gli effetti del procedimento, il minore sta in giudizio, secondo le regole generali, a mezzo del rappresentante legale (genitore o tutore) e, in caso di conflitto d’interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico.
Nell’ipotesi in cui il tutore o il curatore speciale non avessero nominato un difensore Cass. civ. Sez. I, 26 marzo 2010, n. 7281 precisava che la riforma del 2001 (che, come si è detto, aveva previsto all’art. 10 della legge 184/83 la nomina d’ufficio di un difensore ai genitori che non ne avevano uno di fiducia) doveva essere interpretata nel senso che il dovere del presidente del tribunale di nominare un difensore d’ufficio ai genitori o ai parenti entro il quarto grado, nel caso in cui essi non vi provvedano, espressamente introdotto con riguardo a detti soggetti, “a maggior ragione sussiste nei confronti del minore (rappresentato dal tutore o dal curatore speciale), che del procedimento di adozione è la parte principale”. Tuttavia – continuava la sentenza occupandosi dell’ipotesi in cui tali soggetti non avessero provveduto alla nomina del difensore o vi avessero provveduto in ritardo – “alla ritardata costituzione del difensore del minore o alla mancata assistenza da parte di costui ad uno o più atti processuali, non consegue l’automatica declaratoria della nullità dell’intero processo e/o dell’atto e di tutti quelli successivi, potendo tale sanzione essere invocata dal P.M. o dalle altre parti solo previa allegazione e dimostrazione del reale pregiudizio che la tardiva costituzione o la mancata partecipazione all’atto ha comportato per la tutela effettiva del minore”.
Quindi in queste decisioni da un lato si conferma l’obbligo della nomina del difensore da parte del tutore o del curatore speciale, o, in difetto, da parte del giudice, fin dall’inizio del procedimento, ma dall’altro si indebolisce anche questa previsione affermando che, tuttavia, la mancata nomina può anche non avere conseguenze processuali se non si dimostra che vi è stato un deficit di tutela per il minore. Affermazione francamente incomprensibile posto che il deficit di tutela è certamente in re ipsa se manca il difensore.
Negli stessi termini successivamente si sono espresse altre sentenze (Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 2010, n. 14063 e Cass. civ. Sez. I, 19 luglio 2010, n. 16870).
Nel frattempo Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12290 – sempre nella medesima linea interpretativa – aveva precisato molto opportunamente che nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, la partecipazione del minore, necessaria fin dalla fase iniziale del giudizio, richiede la nomina di un curatore speciale soltanto qualora non sia stato nominato un tutore o questi non esista ancora al momento dell’apertura del procedimento, con ciò chiarendo molto bene che il conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori va risolto con la nomina di un tutore oppure di un curatore speciale. Non di entrambi, come ancora la prassi prevede in molti tribunali. La sentenza affermava in particolare che il conflitto di interessi è ravvisabile “in re ipsa” nel rapporto con i genitori, portatori di un interesse personale ad un esito della lite diverso da quello vantaggioso per il minore, mentre nel caso in cui a quest’ultimo sia stato nominato un tutore il conflitto deve essere specificamente dedotto e provato in relazione a circostanze concrete, in mancanza delle quali il tutore non solo è contraddittore necessario, ma ha una legittimazione autonoma e non condizionata, che può liberamente esercitare in relazione alla valutazione degli interessi del minore”. Quanto detto riguarda le procedure di adozione a seguito della dichiarazione dello stato di adottabilità e non l’adozione ai sensi dell’art. 44 della legge 184/83 dove non è configurabile un conflitto di interessi “in re ipsa”, anche solo potenziale, tra il minore adottando ed il genitore-legale rappresentante (Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962).
Conclusivamente la nomina di un avvocato compete, quindi, al tutore o al curatore speciale, con la precisazione che ove il tutore (caso raro) o il curatore speciale (caso molto più diffuso) siano essi stessi avvocati potranno evidentemente esercitare direttamente la difesa in giudizio. A questa situazione si riferiscono anche espressamente Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2010, n. 16553 secondo cui qualora venga nominato, quale tutore, un avvocato, ai sensi dell’art. 86 del codice di procedura civile, egli può stare in giudizio personalmente, senza patrocinio di altro difensore, in rappresentanza del minore” e Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2010, n. 14216 dove si precisa che “nel procedimento di adozione, compete esclusivamente al rappresentante legale del minore la nomina di un avvocato per la difesa tecnica: infatti il genitore, il tutore ovvero il curatore speciale hanno anche la relativa rappresentanza processuale, non essendo il potere di agire e resistere in giudizio disponibile autonomamente rispetto alla titolarità del bene della vita per il quale la tutela giurisdizionale venga postulata; inoltre, i due ruoli restano distinti, pur quando cumulati nel medesimo soggetto che abbia il titolo, richiesto dall’art.82, secondo comma, codice di procedura civile, per esercitare la difesa tecnica”.
Per i procedimenti di limitazione e decadenza della responsabilità genitoriale l’art. 37 della legge 149 del 2001 ha modificato – come si è detto – l’art. 336 c.c. aggiungendovi un ultimo comma nel quale si prevede che “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”.
La prassi nei tribunali per i minorenni ha finora garantito un difensore al minore solo attraverso la nomina (d’ufficio o su richiesta del PM) di un curatore speciale (in genere avvocato) al minore nei casi di conflitto di interessi con i genitori. Conflitto che non è considerato sempre in re ipsa, come avviene nel procedimento di adottabilità (secondo la giurisprudenza di legittimità che si è esaminata nei paragrafi precedenti) ma che il tribunale valuta in concreto caso per caso. Ove il curatore speciale non sia un avvocato spetterà a lui la scelta se costituirsi in giudizio o meno con un difensore.
A proposito della nomina di un curatore speciale, in una vicenda che vedeva i nonni agire davanti al tribunale per i minori di Bari in un procedimento de potestate nel quale i ricorrenti chiedevano tutela alla loro relazione con il nipote, Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5097 ha ben chiarito che il minore è parte nei procedimenti de potestate e gli deve essere nominato un curatore speciale se vi è conflitto anche potenziale di interessi con i genitori. Ha fatto molto bene la Corte a ribadire che in questi procedimenti de potestate il minore è parte del processo e che proprio per questo motivo la sua partecipazione al giudizio avviene mediante il suo rappresentante legale e in caso di conflitto di interesse a mezzo del curatore speciale.
Resta confermato quindi che nelle procedure dirette all’accertamento dello stato di adottabilità del minore e in quelle cosiddette de potestate dirette alla verifica della adeguatezza dei comportamenti genitoriali il confitto di interessi tra il minore i suoi genitori nelle procedure di adottabilità (nelle quali quindi è sempre obbligatoria la nomina di un curatore speciale) è in re ipsa, mentre – in linea con la più recente giurisprudenza sopra richiamata – nelle procedure de potestate richiede sempre, ai fini della eventuale nomina di un curatore speciale, una valutazione caso per caso.
VIII In che modo l’ascolto del figlio minore risponde all’esigenza di risolvere un conflitto di interessi tra genitori e figli nei procedimenti di separazione, divorzio e di affidamento dei figli?
Si è accennato all’inizio al fatto che Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478 e Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8100 – in sintonia con la nuova ricostruzione sistematica qui proposta sul tema del conflitto di interessi – hanno escluso che il conflitto di interessi tra genitore e figlio minore possa essere risolto in sede di separazione, divorzio e procedure sull’affidamento, sulla base delle tradizionali regole sulla sostituzione della rappresentanza e hanno additato l’ascolto del minore come strumento idoneo a salvaguardare in quelle procedure i diritti del figlio minore nelle situazioni di conflitto di interesse con i genitori. A dire il vero la qualificazione del figlio come parte sostanziale anche se non parte processuale nei procedimenti di separazione (Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238) avrebbe potuto anche consentire alla giurisprudenza di superare l’impostazione che a suo tempo aveva dato Corte cost. 14 luglio 1986, n. 185 che, come si dirà tra breve, aveva escluso la nomina de curatore al figlio nei procedimenti di separazione sul presupposto che il figlio non è parte processuale in queste procedure. La giurisprudenza sembra più plausibilmente orientata a non istituzionalizzare nelle cause di separazione il conflitto genitori-figli attraverso la nomina di un curatore speciale.
La previsione della nomina di un rappresentante speciale al minore è, invece, avvenuta nei procedimenti di adottabilità e de potestate. A tale proposito – come anche si è visto – la legge 28 marzo 2001, n. 149 aveva previsto l’obbligo dell’assistenza legale per il minore e per i genitori nelle procedure di limitazione e di decadenza della responsabilità genitoriale (introducendo un ultimo comma all’art. 336 c.c. dove si prevede che “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”) e in quelle per la dichiarazione di adottabilità (introducendo un ultimo comma all’art. 8 della legge 4 maggio 1983, n. 184 dove si indica che “il procedimento di adottabilità deve svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza legale del minore e dei genitori o degli altri parenti di cui al comma 2 dell’art. 10”) e la giurisprudenza – che riconosce pacificamente al minore in questi procedimenti la qualità di parte processuale (Corte cost. 30 gennaio 2002, n. 1; Corte cost. 12 giugno 2009, n. 179) – ha dato successivamente attuazione a tali norme facendo applicazione dei principi in tema di nomina del curatore speciale nei casi di conflitto di interessi tra il minore e i genitori e ritenendo che la nomina del difensore nei procedimenti de potestate e in quelli adottabilità sia un compito del curatore speciale.
La Corte costituzionale – come si è detto – ha anche imposto la nomina di un curatore speciale al minore nei procedimenti previsti per il caso di opposizione al riconoscimento tardivo del figlio nato fuori del matrimonio (art. 250 c.c.) affermando che in questi procedimenti al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio e che, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento, qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale (Corte cost. 11 marzo 2011, n. 83 e Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729).
Sono rimasti fuori dal campo di applicazione della riforma introdotta dalla legge 28 marzo 2001, n. 149 – e quindi dall’obbligo di nominare un curatore (e tramite lui un difensore) al minore – sia le procedure di separazione e di divorzio, sia quelle per la regolamentazione dell’affidamento dei figli, tutte disciplinate negli articoli dal 337-bis al 337-octies del codice civile dopo la riforma operata con la legge10 dicembre 2012, n. 219 e con il D. Lgs. 8 dicembre 2013, n. 154.
In passato la giurisprudenza aveva ritenuto che spetta al legislatore la valutazione relativa al modo e al grado di effettiva tutela dell’interesse del minore ed aveva affermato che i giudizi di separazione e di divorzio non attengono né si riflettono, quale che sia l’esito di tali giudizi, sullo stato dei figli. Il legislatore non ha, quindi, ravvisato nella separazione e nel divorzio l’opportunità di istituzionalizzare un conflitto tra genitori e figli cosa che avverrebbe certamente con l’attribuzione della qualità di parte ai figli minori (Corte cost. 14 luglio 1986, n. 185; Cass. civ. Sez. I, 4 dicembre 1985 n. 6063). Nei procedimenti di separazione e di divorzio dunque, nonché nelle procedure di regolamentazione dell’affidamento di figli nati fuori del matrimonio, il minore non è considerato parte processuale e non ha, pertanto, diritto ad un curatore speciale, essendo il conflitto di interessi in questi procedimenti risolto attraverso gli altri strumenti.
La Corte di cassazione ha indicato nell’ascolto del minore questa prospettiva di tutela, affermando che l’’art. 336, ultimo comma, c.c. (“per i provvedimenti di cui ai commi precedenti i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”) trova applicazione soltanto per i provvedimenti limitativi ed eliminativi della responsabilità genitoriale, ove si pone in concreto un profilo di conflitto di interessi tra genitori e minore e non in una controversia relativa al regime di affidamento e di visita del minore, figlio di una coppia che ha deciso di cessare la propria comunione di vita (nel matrimonio o fuori del matrimonio). In tale ipotesi, la partecipazione del minore nel conflitto genitoriale deve esprimersi, ove ne ricorrano le condizioni di legge, solo se ne ravvisi la corrispondenza agli interessi del minore medesimo e si riscontri un grado di discernimento adeguato, mediante il suo ascolto, oltre che mediante l’esercizio dei poteri istruttori officiosi di cui il giudice può usufruire in virtù della natura e della preminenza dell’interesse da tutelare (Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478).
Questa sentenza conferma dunque la correttezza della sistematica proposta sul conflitto di interessi dove, accanto alla tradizionale modalità di risoluzione di tale conflitto costituita dalla nomina di un curatore speciale, sono oggi riconoscibili altre modalità (tra cui preminente l’ascolto del minore) connesse non tanto alle problematiche del potere di rappresentanza e di amministrazione quanto al controllo dell’altro fascio di importanti funzioni, interne al rapporto genitori-figli, in cui si articola l’esercizio della responsabilità genitoriale.
IX L’intervento volontario del figlio maggiorenne nel processo di separazione come strumento di soluzione di un conflitto di interessi
Nella ricostruzione sistematica del conflitto di interessi tra genitori e figli che si è proposta, acquistano rilevanza – accanto alle tradizionali soluzioni legate alla sostituzione del rappresentante e alla nomina quindi di un curatore speciale – anche altri strumenti di tutela rivolti alla soluzione di conflitti che emergono tra genitori e figli nell’ambito dell’esercizio di quelle funzioni genitoriali più ampie di quelle collegate alla semplice rappresentanza e che investono quindi anche il rapporto tra genitori e figli maggiorenni.
Si pensi per esempio al tema dell’assegnazione della casa familiare in occasione della separazione e del divorzio in cui si prevede che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli” (art. 337-sexies c.c., – già art. 155-quater c.c. – come modificato dall’art. 55 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n, 154) e che costituisce una dei rischi di conflitto più ricorrenti tra genitori e figli (soprattutto maggiorenni) per il peso che sull’assegnazione ha la decisione del figlio di voler rimanere ad abitare con l’uno o l’altro genitore.
Si consideri, poi, specificamente l’art. 337-septies c.c. (già art. 155-quinquies c.c. come modificato dall’art. 55 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n, 15) che aveva introdotto nel contesto della riforma sull’affidamento condiviso dei figli del 2006 disposizioni “in favore dei figli maggiorenni”. Per la prima volta nell’ordinamento una norma si occupava specificamente dei figli maggiorenni in particolare prevedendo che “il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico” che, “salvo diversa determinazione è versato direttamente all’avente diritto” cioè – secondo l’interpretazione ormai pacifica – al figlio maggiorenne direttamente o al genitore con il quale il figlio abita, essendo la loro legittimazione considerata concorrente (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 21 giugno 2002, n. 9067 nella quale si fa cenno per la prima volta all’ammissibilità dell’intervento del figlio maggiorenne affermandosi che “se il figlio non interviene nel giudizio pendente, e la sentenza di condanna viene emessa solo in favore del genitore convivente, nei suoi confronti non opera il giudicato formale della sentenza”).
La giurisprudenza successiva alla riforma del 2006 in tema di affidamento condiviso ha mantenuto la stessa linea interpretativa ammettendo la legittimazione concorrente del genitore convivente con il figlio maggiorenne (Cass. civ. Sez. I, 25 luglio 2013, n. 18075 che l’ha presupposta ritenendola esclusa solo in difetto di una stabile coabitazione e Cass. civ. Sez. VI, 28 ottobre 2013, n. 2431 che ha espressamente precisato che la mancata richiesta, da parte del figlio maggiorenne non indipendente economicamente, di corresponsione diretta dell’assegno di mantenimento giustifica la legittimazione a riceverlo da parte del genitore con lui convivente).
Già era riconosciuto, naturalmente, il diritto del figlio maggiorenne al mantenimento anche oltre il compimento della maggiore età, ma è stato inevitabile che l’introduzione di una norma giuridica che richiamava espressamente questo aspetto, avesse anche ripercussioni sul tema dell’intervento del figlio maggiorenne nel processo di separazione e di divorzio ed infatti la giurisprudenza (prima di merito e poi di legittimità) ha ritenuto – dopo la novella del 2006 – ammissibile l’intervento del figlio maggiorenne nella causa di separazione dei propri genitori (App. Roma 21 giugno 2006; Trib. Napoli Sez. I, 23 luglio 2009 in Famiglia e diritto, 2009, 12, 1136, nota di Arceri; Trib. Maceratata 22 ottobre 2009 in Giur. It., 2011, 1, 81, nota di SAVI; Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296). La questione della legittimazione del figlio maggiorenne (cui la legge garantiva una titolarità del diritto al mantenimento) ad intervenire nel giudizio di separazione e di divorzio dei propri genitori è intimamente connessa a quella della riconosciuta legittimazione iure proprio del genitore a richiedere anche egli stesso il contributo di mantenimento per il figlio convivente ed era perciò inevitabile che dal riconoscimento della coesistenza dei due diritti si arrivasse a prevederne anche processualmente la medesima contestuale possibile tutela.
D’altro lato ai fini dell’ammissibilità dell’intervento di terzo in un giudizio pendente tra altre parti, è ritenuto sufficiente che la domanda dell’interveniente presenti una connessione o un collegamento implicante l’opportunità di un simultaneus processus, indipendentemente dall’esistenza o meno nel soggetto che ha instaurato il giudizio della legitimatio ad causam. Questi principi sono stati sviluppati per esempio – come si è all’inizio già riferito – da Cass. civ. Sez. II, 28 dicembre 2009, n. 27398 in cui si è affermato che la facoltà d’intervento in giudizio, deve essere riconosciuta indipendentemente dall’esistenza o meno, nel soggetto che ha instaurato il giudizio medesimo, della legitimatio ad causam che attiene alle condizioni dell’azione proposta nel merito e da Cass. civ. Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14844 secondo cui la diversità dei rapporti giuridici non costituisce un elemento decisivo per escludere l’ammissibilità’ dell’intervento, essendo sufficiente che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento con quella di altre parti relative allo stesso oggetto sostanziale, tali da giustificare un simultaneo processo.
Questi richiami servono evidentemente alla giurisprudenza per superare l’obiezione che la legitimatio ad causam nel processo di separazione e di divorzio appartiene certamente solo ai genitori ma che questo non impedisce l’intervento del figlio maggiorenne nel processo atteso che egli ha comunque un diritto che può essere tutelato nello stesso processo.
Facendo applicazione dei principi sopra esposti è stato quindi affermato che, in tema di separazione coniugale, l’intervento in causa del figlio delle parti, per questioni attinenti il mantenimento, non si configura quale litisconsorzio necessario, bensì quale intervento volontario ai sensi dell’art. 105, sulla base della legittimazione del genitore concorrente con quella del figlio, la quale trova il suo fondamento nella titolarità del diritto al mantenimento (App. Roma 21 giugno 2006, in Pluris, Wolters Kluwer Italia) e che “l’intervento in giudizio del figlio maggiorenne economicamente non autosufficiente può avvenire in tutte le forme previste dall’art. 105 c.p.c. (per far valere un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo della controversia, o eventualmente in via adesiva) e assolve una funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito al mantenimento sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati” (Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296 che costituisce la prima articolata pronuncia di legittimità sul nuovo art. 155-quinquies dopo la novella del 2006). Come è stato tra l’altro ben sottolineato nel commento favorevole a queste decisioni non è di ostacolo al riconoscimento dell’opportunità del simultaneus processus la circostanza che il processo di separazione segua un rito speciale dal momento che la specialità attiene soprattutto alle questioni relative allo status coniugale e non all’accertamento accessorio del diritto relativo al mantenimento.
L’intervento del figlio maggiorenne (in via principale o in via adesiva) può esplicarsi, quindi, in tutti i procedimenti in cui i genitori discutono del suo mantenimento (separazione, divorzio, nullità, procedimenti di modifica, procedure relative al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio) anche allorché la maggiore età venga raggiunta nel corso del giudizio e costituisce certamente una modalità di risolvere anche in caso di minore età del figlio un possibile conflitto di interessi tra genitore e figlio.
X Il conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori in ambito penale
Il diritto di querela in caso di reati commessi contro un minorenne può essere sempre esercitato, entro tre mesi dal fatto oggetto del reato, da uno dei genitori, prescindendosi dall’esercizio della responsabilità genitoriale nel senso che per la presentazione della querela è sufficiente la rappresentanza legale (Cass. pen. Sez. V, 8 giugno 1995, n. 7595). Naturalmente la decadenza dalla responsabilità genitoriale, invece, fa venir meno il potere di presentare querela.
È stato chiarito che ai fini dell›esercizio del diritto di querela da parte del curatore speciale, non assume alcun rilievo il conflitto di interessi tra i genitori della persona offesa (minore o inferma di mente), in quanto l›unico possibile conflitto di interessi previsto dall›art. 121 cod. pen. è quello tra il curatore speciale e la persona rappresentata e non quello tra il rappresentante-curatore speciale ed altri soggetti, come l›imputato (Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 41828).
Se il minore è infraquattordicenne l’unico titolare del potere di presentare querela è il genitore. E’ valida la querela in tal caso anche se presentata dal minore infraquattordicenne ma sottoscritta dal genitore (Cass. pen. Sez. V, 28 marzo 2008, n. 16776).
Se la persona offesa ha più di quattordici anni la querela può essere proposta sia direttamente dal minorenne che da uno dei genitori (art. 120, comma 3, cod. pen.). La norma va pacificamente interpretata nel senso che i genitori possono esercitare il diritto di querela anche in presenza di una volontà contraria del figlio quattordicenne (Cass. pen. Sez. V, 4 ottobre 2012, n. 3207; Cass. pen. Sez. III, 20 dicembre 2001, n. 45474). L’art. 120 del codice penale prevede infatti proprio la possibilità che vi possa essere una sovrapposizione di volontà diverse. Uno dei due soggetti legittimati potrebbe, infatti, voler presentare querela e l’altro no. Il conflitto di interessi è risolto in base al principio di prevalenza della volontà di chi con la decisione di presentare querela consente la perseguibilità del reato. Così se il minore vuole presentare querela e i genitori no prevale la volontà del minore. Viceversa se il minore non intende avviare il procedimento ma uno dei genitori vuole presentare querela prevale la volontà di uno dei genitori, senza che mai possa prodursi alcuna invalidità della querela proposta dal genitore solo perché il figlio potrebbe avere un interesse contrario (Cass. pen. Sez. V, 26 maggio 1992). Ugualmente – in base all’art. 125 cod. pen. – il fatto che il genitore abbia rinunciato a presentare querela (art. 124 cod. pen.), “non priva il minore che ha compiuto i quattordici anni del diritto di proporre querela”.
Analogo conflitto può sorgere nel caso remissione (processuale ovvero extraprocessuale, espressa o tacita) della querela che, in base all’art. 152 del codice penale, produce l’estinzione del reato. Prevede l’art. 153 del codice penale che per i minori degli anni quattordici il diritto di rimettere e cioè ritirare la querela è esercitato dai genitori (entrambi se esercenti la responsabilità genitoriale) mentre i minorenni che hanno compiuto i quattordici anni possono anche esercitare questo diritto personalmente, anche nel caso in cui la querela sia stata presentata dai genitori. In questi casi però la remissione della querela deve essere espressamente approvata dai genitori. L’eventuale conflitto tra genitori (che per esempio volessero rimettere la querela da loro proposta o proposta dal minore) e il minore (che per esempio volesse non ritirare la querela) è risolto in base al principio di conservazione del processo. Prevale quindi chi con la sua volontà mantiene in corso il processo penale. Queste disposizioni trovano applicazione anche nel caso in cui il minore abbia superato i quattordici anni dopo la presentazione della querela.
Le stesse disposizioni valgono per l’accettazione della remissione della querela (art. 155 cod. pen.). Prevale anche in questo caso il principio di conservazione del processo nel senso che prevale sempre la volontà di chi mantiene in corso il procedimento rispetto a chi con la sua volontà intende porvi fine.
Può avvenire che il minore di quattordici anni non abbia chi lo rappresenti o, ipotesi più frequente, che entrambi i genitori si trovino con lui in conflitto di interessi, situazione non tipicizzata dalle norme e che deve quindi essere oggetto di valutazione caso per caso. Si pensi al caso in cui un minore di quattordici anni subisca percosse o lesioni lievi o ingiurie ad opera di persona – per esempio un parente o un convivente o un vicino di casa – nei confronti della quale i genitori si trovino in difficoltà psicologica a presentare querela o non intendano proprio presentarla. Oppure perché uno dei due genitori è responsabile del danno cagionato per esempio colposamente (si pensi ad un incidente stradale) al figlio minore. La situazione non può verificarsi per un minorenne che ha già compiuto quattordici anni perché, come si è visto, ha egli stesso diritto di querela.
In tal caso – sulla base di quanto espressamente dispone l’art. 121 del codice penale – su sollecitazione di chiunque che possa far rilevare l’esistenza del conflitto di interessi, il pubblico ministero può esercitare il potere a lui attribuito dall’art. 338 del codice di procedura penale e chiedere al giudice per le indagini preliminari la nomina di un curatore speciale per la presentazione della querela. In tal caso il termine per la presentazione decorre dalla nomina del curatore speciale.
Anche i servizi socio assistenziali del territorio cui è demandata la cura e l’assistenza dei minori di età possono promuovere – segnalando la situazione al pubblico ministero – la nomina di un curatore speciale (art. 338, comma 3, cod. proc. pen.).
La situazione è piuttosto delicata perché la volontà di presentare querela è sempre discrezionale e l’omessa querela da parte dei genitori potrebbe rispondere ad un intendimento non necessariamente condizionato o egoistico o contrastante con quello del figlio minore, ma espressione di principi rispettabili di libertà educativa, per esempio orientati, nei casi non gravi, a non traumatizzare con un processo il minore. Per questo è opportuno che il pubblico ministero valuti con attenzione la motivazione dell’omissione e l’esistenza del conflitto di interessi.
Naturalmente il curatore speciale non può presentare querela dopo la morte del titolare (minore o infermo di mente) (Cass. pen. Sez. II, 14 giugno 2007, n. 32873).
Il quinto comma dell’art. 338 del codice di procedura penale – che anche in questo caso prevede il meccanismo di nomina del curatore speciale su iniziativa del pubblico ministero – contempla l’ipotesi in cui la necessità della nomina del curatore speciale sopraggiunga dopo la presentazione della querela. Questo potrebbe per esempio avvenire quando nel corso del procedimento penale si intraveda un conflitto di interessi tra il genitore e il minore in ragione del quale occorre che il minore venga autonomamente rappresentato.
La stessa disciplina sopra esaminata per il minore infraquattordicenne è prevista dal codice penale (art. 120) anche per gli interdetti per infermità di mente. Quindi per l’interdetto la querela deve essere presentata dal tutore. Se manca il tutore o questi si dovesse trovare in situazione di conflitto di interessi verrà nominato un curatore speciale. Nel caso di infermi di mente non interdetti la giurisprudenza ha ritenuto che la querela da essi presentata sia perfettamente valida analogamente a quanto prevede per i minori ultraquattordicenni (e per gli inabilitati) l’art. 120 cod. pen. (Cass. pen. Sez. III, 4 novembre 2010, n. 42440; Cass. pen. Sez. III, 12 maggio 2010, n. 27044; Cass. pen. Sez. VI, 6 aprile 2000, n. 7280) ritenendosi necessaria la nomina di un curatore “soltanto nel caso in cui la persona offesa dal reato non abbia potuto proporre querela a causa della propria infermità”
Anche nel processo penale può verificarsi una situazione di conflitto di interessi tutte le volte in cui atti o comportamenti del genitore appaiano orientati in modo disfunzionale rispetto alla tutela dell’interesse del minore.
La pratica giudiziaria e il lavoro psicoterapeutico nei casi di abuso sui minori hanno messo in luce diverse motivazioni del conflitto di interessi: a) il comportamento di omertà, di copertura e di connivenza da parte del coniuge del genitore incestuoso o maltrattante; b) la circostanza che nel nucleo monogenitoriale ad essere indagato di reati commessi nei confronti del figlio minore sia l’unico genitore; c) la circostanza che il genitore non indagato sia gravemente insufficiente mentale; d) la grave inadeguatezza di entrambi i genitori nella relazione di aiuto dovuta al minore vittima di reati.
In molti casi il conflitto di interessi è in re ipsa come avviene quando del reato contro il minore è indagato il genitore che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale. Si pensi ai reati in danno del figlio commessi (dall’unico genitore o) dal genitore che, a seguito di separazione, divorzio o scissione della coppia genitoriale naturale, abbia l’affidamento esclusivo del figlio minore. In queste ipotesi l’art. 337-quater c.c. (come modificato dall’art. 55 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) attribuisce al genitore affidatario l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale, “salva diversa disposizione del giudice”. Il conflitto di interessi, quindi, è in re ipsa. Poiché l’ultimo comma della stessa disposizione prevede in questi casi che il genitore non affidatario abbia il diritto e dovere di vigilare sull’educazione del figlio ma non gli attribuisce espressamente la rappresentanza del figlio in sostituzione del genitore affidatario, ritengo che nelle ipotesi di conflitto di interessi determinate dall’essere il genitore affidatario indagato di reati contro il figlio il giudice debba sempre nominare al minore un curatore speciale. Fatto sempre salvo, naturalmente, il diritto del genitore non affidatario esclusivo di promuovere un giudizio per la modifica dell’affidamento o per l’intervento giudiziario di verifica della responsabilità genitoriale.
La nomina del curatore speciale non è comunque obbligatoria – soprattutto in presenza di un genitore adeguatamente protettivo che possa rappresentare il minore – perché ciò porterebbe ad una eccessiva dilatazione dell’intervento pubblico nella famiglia e comporterebbe rischi di forte deresponsabilizzazione e di delega da parte dei genitori.
Nei soli casi, quindi, in cui l’autorità giudiziaria riscontra un concreto conflitto di interessi tra il minore vittima di un reato e le persone che lo rappresentano legalmente, si deve garantire al minore che la rappresentanza dei suoi interessi non resti inquinata dal perseguimento di interessi diversi.
Il procedimento per la nomina del curatore speciale è disciplinata dagli art. 121 c.p. e art. 77 comma 2, 90 comma 2 e 338 c.p.p. che, sia pure in modi e situazioni differenziate, si propongono di garantire la possibilità di ovviare a situazioni in cui manca la persona alla quale spetta la rappresentanza legale del minore e che, nel loro nucleo più significativo – analogamente a quanto previsto in sede civile – intendono soprattutto salvaguardare l’esigenza di ovviare processualmente a casi di conflitto di interessi.
Giurisprudenza
Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 263 c.c., che regola l’im¬pugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, ritenendo che in detta fattispecie non è costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sull’inte¬resse del minore, con la conseguenza che i due valori (verità ed interesse del minore) devono essere bilanciati mediante un adeguato giudizio comparativo, all’esito del quale non è affatto necessario che, in base alle emer¬genze del caso concreto, l’esigenza di verità dello status filiationis prevalga sull’interesse del minore a rimanere in quel contesto familiare.
Cass. civ. Sez. II, 14 dicembre 2017, n. 30068 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel valutare le condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato nel caso in cui l’istanza sia formu¬lata in una causa di separazione personale tra i coniugi, si deve escludere dal cumulo dei redditi familiari il solo reddito dell’altro coniuge, e non anche quello dei figli conviventi, essendo esclusivamente il coniuge in conflitto di interessi con l’altro che ha promosso l’azione o che è convenuto.
Cass. civ. Sez. III, 28 marzo 2017, n. 7889 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il curatore speciale che venga nominato dal giudice tutelare, ex art. 320 c.c., in una situazione di conflitto di interessi tra il minore e il genitore esercente la patria potestà, ha poteri di rappresentanza del minore identici a quelli del genitore, sicché ha legittimazione processuale quanto ai giudizi che sorgono in relazione all’atto (nella specie, una donazione) per cui sia stata disposta la nomina.
Cass. civ. Sez. III, 9 marzo 2017, n. 6020 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il comma 2 dell’art. 78 c.p.c. si riferisce ai casi in cui sorga un conflitto di interessi tra rappresentante e rappre¬sentato non altrimenti disciplinato da norme sostanziali, per cui, nei casi di conflitto, la parte non può esercitare direttamente i poteri che le norme le riconoscono, dovendo gli stessi essere esercitati da un curatore speciale, la cui mancata nomina attiene all’esercizio dei poteri processuali e non al contraddittorio; ne consegue che, in base al principio secondo il quale le ipotesi di rimessione della causa al primo giudice sono quelle tassativamente indicate nei commi 1 e 2 dell’art. 354 c.p.c. (oltre a quelle di cui al precedente art. 353), il giudice di appello, in difetto della suddetta nomina in primo grado per la risoluzione dell’indicato conflitto, deve decidere la causa nel merito, rinnovando eventualmente gli atti nulli (attività, nella specie, esclusa dall’intervenuta costituzione del curatore speciale nel giudizio di gravame, fatta valere su istanza del rappresentato, produttiva di effetto sanante ai fini della rappresentanza processuale e dei poteri del curatore in ordine all’impugnazione).
Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962 (Famiglia e Diritto, 2016, 11, 1025 nota di VERONESI)
Nel procedimento di adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983, non è configurabile un conflitto di interessi “in re ipsa”, anche solo potenziale, tra il minore adottando ed il genitore-legale rappresentante, che imponga la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., dovendo, anzi, individuarsi nella necessità dell’assenso del genitore dell’adottando, di cui all’art. 46 della legge citata, un indice normativo contrario all’ipotizzabilità astratta di un tale conflitto, che, invece, va accertato in concreto da parte del giudice di merito. Tale peculiare istituto, infatti, mira a dare riconoscimento giuridico, previo accertamento della corrispondenza della scelta all’interesse del minore, a relazioni affettive continuative e di natura stabile instaurate con quest’ultimo e caratterizzate dall’adempimento di doveri di accudimento, di assistenza, di cura e di educazione analoghi a quelli genitoriali, in quanto inteso a consolidare, ricorrendone le condizioni di legge, legami preesistenti e ad evitare che si protraggano situazioni di fatto prive di uno statuto giuridico adeguato.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 giugno 2016, n. 11782 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di adozione, ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, il procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dalla sua apertura con l’assistenza legale del minore, il quale è parte a tutti gli ef¬fetti del procedimento, e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappresentan¬te, secondo le regole generali, e quindi a mezzo del rappresentante legale, ovvero, in caso di conflitto d’interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2016, n. 1957 (Nuova Giur. Civ., 2016, 7-8, 1032 nota di NASCOSI)
Nel giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex artt. 263 e 264 cod. civ., così come nell’azione di disconoscimento di paternità disciplinata agli artt. 243-bis ss. cod. civ., è sempre configurabile un potenziale conflitto di interessi tra il minore ed il genitore cui spetta la rappresentanza processuale, quali soggetti legittimati passivi e litisconsorti necessari, con la conseguenza che il minore ha il diritto di contraddire nel giudizio attraverso la nomina di un curatore speciale, nonostante la lacuna normativa sul punto.
In tema di impugnativa di riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio, per difetto di veridicità, è neces¬saria, a pena di nullità del relativo procedimento per violazione del principio del contraddittorio, la nomina di un curatore speciale per il minore, legittimato passivo e litisconsorte necessario, dovendosi colmare la mancanza di una espressa previsione in tal senso dell’art. 263 c.c. (anche nella formulazione successiva al d.lgs. n. 154 del 2013) mediante una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata in quanto la posizione del minore si pone, in via generale ed astratta, in potenziale conflitto di interessi con quella dell’altro genitore legittimato passivo, non potendo stabilirsi “ex ante” una coincidenza ed omogeneità d’interessi in ordine né alla conservazione dello “status”, né alla scelta contrapposta, fondata sul “favor veritatis” e sulla conoscenza della propria identità e discendenza biologica.
Cass. civ. Sez. II, 29 gennaio 2016, n. 1721 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La verifica del conflitto del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa, e non in astratto ed “ex ante”, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.
Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2015, n. 22566 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È inammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell›art. 111 Cost. contro il decreto di nomina di curatore speciale ex art. 78 c.p.c., perché tale provvedimento non attribuisce o nega un bene della vita, ma assicura la rappresentanza processuale all’incapace che ne sia privo o al rappresentato che sia in conflitto d’interessi con il rappresentante, ha una funzione strumentale al singolo processo, destinata ad esaurirsi nell’ambito del processo medesimo, ed è sempre revocabile o modificabile ad opera del giudice che l’ha pronunciato, anche d’ufficio in primo grado e, successivamente, su gravame di parte, ad opera dei giudici di merito e di legittimità. (Nella spe¬cie, era stato nominato un curatore speciale alla società costituita in giudizio in persona del suo amministratore unico, a sua volta convenuto da un socio per danni procurati anche alla medesima società).
Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8100 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 336, ultimo comma c.c. che prevede la nomina di un difensore del minore, trova applicazione solo relativa¬mente ai provvedimenti limitativi della potestà genitoriale, nel caso in cui si ravvisi un concreto profilo di conflitto di interessi tra genitori e minore, e non anche alle controversie relative al regime di affidamento e di visita del minore, nelle quali la partecipazione del minore si esprime mediante l’ascolto dello stesso, quale adempimento già previsto dall’art. 155-sexies c.c., divenuto necessario ai sensi dell’art. 315-bis c.c., in tutte le questioni e procedure che lo riguardano, in attuazione dell’art. 2 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo.
Cass. civ. Sez. III, 13 aprile 2015, n. 7362 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Allorquando l’esigenza della nomina di un curatore speciale ex art. 78 cod. proc. civ. si manifesti nel corso del giudizio ed in relazione ad esso, la corrispondente istanza deve essere proposta al giudice (monocratico o colle¬giale nelle ipotesi di cui all’art. 50 bis cod. proc. civ.) della causa pendente, a tanto non ostando la riconducibilità alla giurisdizione volontaria del provvedimento di cui all’art. 80 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 324 nota di TOMMASEO)
Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio sull’opposizione al riconoscimento successivo di cui all’art. 250 c.c. parte che, di regola, è rappresentata dal genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento oppure da un curatore speciale, nominato ai sensi della norma generale di cui all’art. 78 c.p.c. tutte le volte in cui si profili in concreto un conflitto d’interessi tra il minore e il genitore rappresentante.
Trib. Milano Sez. IX Decreto, 19 giugno 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, può sempre procedere alla nomina di un curatore speciale in favore del fanciullo, avvalendosi della disposizione dettata dall’art. 78 c.p.c., che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espres¬sione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nominare un rappresentante all’incapace; la nomina del curatore speciale prescinde da un’istanza di parte e può essere disposta d’ufficio dal giudice, In particolare, il curatore speciale può essere designato quando appaia necessario che sia una terza persona a rappresentare il minore. Il contenuto delle misure protettive del minore non deve essere stereotipato e automatico ma mirare, nel caso concreto, ad offrire una soluzione effettiva e celere del problema.
Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 41828 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’esercizio del diritto di querela da parte del curatore speciale, non assume alcun rilievo il conflitto di interessi tra i genitori della persona offesa (minore o inferma di mente), in quanto l’unico possibile conflitto di interessi previsto dall’art. 121 cod. pen. è quello tra il curatore speciale e la persona rappresentata e non quello tra il rappresentante-curatore speciale ed altri soggetti, come l’imputato. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto valida, pur se in assenza di un’autorizzazione del giudizio tutelare, la querela sporta da un genitore, nei confronti dell’altro genitore per l’inadempimento degli obblighi di assistenza gravanti su quest’ultimo).
Cass. civ. Sez. II, 9 giugno 2014, n. 12953 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È configurabile, e opponibile al minore rappresentato, la simulazione assoluta di un atto, eccedente i limiti dell’ordinaria amministrazione, compiuto dal legale rappresentante, preventivamente e regolarmente autorizza¬to dal giudice tutelare.
Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione di cui all’art. 336, ultimo comma, c.c. – che richiede l’assistenza di un difensore – trova applica¬zione soltanto per i provvedimenti limitativi ed eliminativi della potestà genitoriale, ove si pone in concreto un profilo di conflitto di interessi tra genitori e minore, e non già in una controversia relativa al regime di affidamen¬to e di visita del minore, figlio di una coppia che ha deciso di cessare la propria comunione di vita.
Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5097 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento finalizzato all’accertamento del diritto del minore a conservare rapporti significativi con gli ascendenti ed i parenti del genitore scomparso, il comportamento ostativo del genitore superstite costituisce una condotta pregiudizievole secondo la previsione degli artt. 330 e segg. cod. civ., poiché comporta la rescissione, nella fase evolutiva della formazione della personalità del ragazzo, di una sfera affettiva e identitaria assolu¬tamente significativa, e lo espone a una vicenda esistenziale particolarmente dolorosa. In tale procedimento il minore assume la qualità di parte e, in quanto tale, come affermato anche dall’art. 315 bis cod. civ., introdotto dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219, ha diritto di essere ascoltato, purché abbia compiuto gli anni dodici, ov¬vero, sebbene di età inferiore, sia comunque capace di discernimento, cosicché la sua audizione non può – anche nel caso in cui il giudice disponga, secondo il suo prudente apprezzamento, che l’audizione avvenga a mezzo di consulenza tecnica – in alcun modo rappresentare una restrizione della sua libertà personale ma costituisce, al contrario, un’espansione del diritto alla partecipazione nel procedimento che lo riguarda, quale momento formale deputato a raccogliere le sue opinioni ed i suoi effettivi bisogni.
Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’opposizione al riconoscimento ex art. 250 c.c. può essere accolta in caso di giudizio di inidoneità genitoriale del padre e di pericolo di compromissione dello sviluppo psico-fisico della minore in caso di riconoscimento della stessa da parte del genitore.
Nella interpretazione che è stata offerta dalla Corte costituzionale all’art. 250 c.c., con la sentenza n. 83 del 2011 – che ne ha per tale via confermato la conformità a Costituzione – essendo implicati nel procedimento de quo rilevanti diritti ed interessi del minore, ed in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse, questi, anche se di età inferiore a sedici anni, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica: sicché, in caso di opposizione dell’altro genitore al riconoscimento, egli gode di piena tutela dei suoi diritti ed interessi. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto di interessi, anche in via potenziale, la tutela della sua posizione può essere in concreto attuata soltanto se sia autonomamente rappresentato e difeso in giudizio, mediante nomina di un terzo rappresentante.
Cass. civ. Sez. VI, 28 ottobre 2013, n. 2431 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata richiesta, da parte del figlio maggiorenne non indipendente economicamente, di corresponsione diretta dell’assegno di mantenimento giustifica la legittimazione a riceverlo da parte del genitore con lui convi¬vente, il quale anticipa le spese per il suo mantenimento e le programma d’accordo con lui, e, di conseguenza, il genitore obbligato non ha alcuna autonomia nella scelta del soggetto nei cui confronti adempiere.
Cass. civ. Sez. I, 25 luglio 2013, n. 18075 (Famiglia e Diritto, 2014, 2, 135, nota di CARPENTIERI)
La legittimazione del genitore a richiedere “iure proprio” all’ex coniuge separato o divorziato la revisione del contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne, non ancora autosufficiente economicamente, va esclusa in difetto del requisito della coabitazione con il figlio, la quale sussiste solo in presenza di un collegamento stabile di questi con l’abitazione del genitore, compatibile con l’assenza anche per periodi non brevi, purché, tuttavia, si ravvisi la prevalenza temporale dell’effettiva presenza, in relazione all’unità di tempo considerata. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il motivo di ricorso avverso la decisione della corte di merito, che aveva ritenuto cessato il requisito della coabitazione per effetto del trasferimento del figlio maggiorenne, per ragioni di studio, in altra località, ove aveva preso in locazione un appartamento).
Cass. pen. Sez. V, 4 ottobre 2012, n. 3207 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di titolarità del diritto di querela, la previsione di cui all’art. 120, comma terzo, cod. pen. – per la quale il diritto di querela può essere esercitato dai minori che hanno compiuto gli anni quattordici e dagli inabilitati oltre che, in loro vece, dal genitore, tutore o curatore – non può essere intesa nel senso che questi ultimi possono esercitare tale diritto soltanto nel caso in cui i rappresentati non lo abbiano fatto, trattandosi di diritto distinto ed autonomo che può essere esercitato anche in presenza di una volontà contraria o a seguito dell’avvenuto esercizio da parte dei rappresentati.
Cass. civ. Sez. II, 27 luglio 2012, n. 13520 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza ad autorizzare la vendita di immobili ereditati dal minore soggetto alla potestà dei genitori appartiene al giudice tutelare del luogo di residenza del primo, a norma dell’art. 320, terzo comma, cod. civ., unicamente per quei beni che, provenendo da una successione ereditaria, si possono considerare acquisiti al suo patrimonio. Ne consegue che, ai sensi del primo comma dell’art. 747 cod. proc. civ., la competenza spetta, sentito il giudice tutelare, al tribunale del luogo di apertura della successione, ove il procedimento dell’acquisto “iure hereditario” non si sia ancora esaurito per essere pendente la procedura di accettazione con beneficio di inventario, in quanto, in tale ipotesi, l’indagine del giudice non è circoscritta soltanto alla tutela del minore, ai sensi dell’art. 320 cod. civ., ma si estende a quella degli altri soggetti interessati alla liquidazione dell’eredità, così evitandosi una disparità di trattamento fra minori “in potestate” e minori sotto tutela, con riguardo alla di¬versa competenza a provvedere per i primi (giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 cod. civ.) e i secondi (tribunale quale giudice delle successioni, in base all’art. 747 cod. proc. civ.).
Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884 (Famiglia e Diritto, 2012, 7, 653, nota di CARBONE)
Nel giudizio di opposizione al secondo riconoscimento di figlio naturale, ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c. il minore degli anni sedici dev’essere obbligatoriamente sentito, salvo che ne sia incapace per età o per altre ra¬gioni che il giudice di merito deve indicare in motivazione.
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296 (Giur. It., 2012, 6, 1288, nota di SAVI)
È ammissibile nei giudizi di separazione e divorzio l’intervento del figlio maggiorenne che abbia diritto al man¬tenimento, in tale veste legittimato in via prioritaria a ottenere il versamento diretto del contributo. L’intervento in giudizio del figlio maggiorenne economicamente non autosufficiente può avvenire in tutte le forme previste dall’art. 105 c.p.c. (per far valere un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo della controversia, o even¬tualmente in via adesiva) e assolve una funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità e al versamento del contributo al mantenimento sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati.
Nei giudizi di separazione o di divorzio, alla luce della introduzione dell’art. 155-quinquies c.c., l’intervento in giudizio, per far valere un diritto relativo all’oggetto della controversia, o eventualmente in via adesiva, del figlio maggiorenne, il quale, in quanto economicamente dipendente e sotto certi aspetti assimilabile al minorenne (in ordine al quale, proprio in epoca recente, in attuazione del principio del giusto processo, si tende a realizzare forme di partecipazione e di rappresentanza sempre più incisive), assolve, latu sensu, una funzione di amplia¬mento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità e al versamento – anche in forma ripartita – del contributo al mantenimento, sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati.
È legittimo l’intervento in giudizio ex art. 105 c.p.c. sia principale che litisconsortile, del figlio maggiorenne non ancora autosufficiente economicamente, nella causa di separazione coniugale dei propri genitori, volto ad otte¬nere il contributo al proprio mantenimento, per proseguire gli studi universitari; detto intervento, inquadrabile nella fattispecie sostanziale di cui all’art. 155 quinquies, comma 1, c.c., concerne un diritto relativo all’oggetto della lite ed ampliando il contraddittorio consente un simultaneus processus avanti al giudice del merito che deve decidere in ordine all’entità e al versamento dell’assegno di mantenimento, sulla base dell’analisi delle istanze proposte da tutti gli interessati.
Cass. civ. Sez. II, 19 gennaio 2012, n. 743 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rappresentanza processuale del minore, l’autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 cod. civ. è necessaria per promuovere giudizi relativi ad atti di amministrazione straordinaria, che possono cioè arrecare pregiudizio o diminuzione del patrimonio e non anche per gli atti diretti al miglioramento e alla conservazione dei beni che fanno già parte del patrimonio del soggetto incapace. Ne consegue che si atteggiano ad atti di ordinaria amministrazione, per i quali non è necessaria la predetta autorizzazione, tanto l’azione di rivendica finalizzata ad accrescere o a tutelare in senso migliorativo il patrimonio dell’incapace, quanto l’assunzione di una posizione processuale assimilabile a quella di un convenuto, come l’intervento volontario in giudizio per contrastare la domanda dell’attore di riconoscimento di un diritto di proprietà, giacché il provvedimento del giudice tutelare è richiesto solo quando il minore assuma la veste di attore in primo grado, ma non per le difese e gli atti diretti a resistere all’azione avversaria.
Cass. civ. Sez. VI, 16 giugno 2011, n. 13221 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei giudizi riguardanti lo stato di adottabilità, il tutore provvisorio è legittimato a rappresentare il minore, salvo che sussista in concreto il conflitto d’interessi tra esso e il minore. (Principio espresso ai sensi dell’art. 360 bis, n. 1, cod. proc. civ.).
Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 2011, n. 10654 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il genitore, autorizzato dal tribunale ai sensi dell’art. 320, quinto comma, cod. civ., alla continuazione dell’eser¬cizio dell’impresa commerciale del minore, può compiere, senza necessità di specifica autorizzazione del giudice tutelare, anche i singoli atti strettamente collegati a tale esercizio, stante il carattere dinamico dell’impresa e la necessità di assumere decisioni pronte e tempestive, le quali sarebbero gravemente ostacolate, o addirittura paralizzate qualora, per ogni singolo atto, occorresse rivolgersi all’autorità giudiziaria; pertanto, non necessita di previa autorizzazione la stipula del contratto di apertura di credito bancario, essendo strumento fondamentale e presupposto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale, la quale non potrebbe svolgersi senza i fondi necessari. È, inoltre, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 320, quinto comma, cod. civ., sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., per violazione del principio di uguaglianza tra minore esercente e minore non esercente un’attività commerciale, dal momento che nel primo caso è prevista dalla legge una du¬plice autorizzazione (provvisoria da parte del giudice tutelare, definitiva da parte del tribunale in composizione collegiale che, in detta sede, può controllare e valutare l’attività svolta dopo la prima autorizzazione) e che, in forza dell’art. 334 cod. civ., in ipotesi di cattiva amministrazione del patrimonio del minore, il tribunale per i minorenni può stabilire condizioni e prescrizioni ai genitori e, nei casi più gravi, rimuovere entrambi o uno di essi dall’amministrazione, come pure il curatore speciale esercente l’impresa.
Corte cost. 11 marzo 2011, n. 83 (Foro It., 2011, 5, 1, 1289)
È infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 250 c.c., in quanto nel giudizio promosso dal genitore naturale, a seguito dell’opposizione dell’altro genitore che abbia già operato il riconoscimento, al fine di effettuare a propria volta il riconoscimento, il giudice ha il potere di nominare un curatore speciale del minore, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost..
Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile, sollevata in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione, in quanto per la fattispecie prevista dall’art. 250, quarto comma, cod. civ., il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, può procedere alla nomina di un curatore speciale, avvalendosi della disposizione dettata dall’art. 78 cod. proc. civ. che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nominare un rappresentante all’incapace. Invero, già la norma censurata stabilisce che debba essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento (salvo che, per ragioni di età o per altre circostan¬ze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostenere l’audizione). Tale adem¬pimento, la cui importanza emerge dalla citata normativa convenzionale, dimostra che il minore infrasedicenne, nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interessi, in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale. Il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio, avuto riguardo allo specifico potere attribuito in proposito all’autorità giudiziaria dall’art. 9, primo comma, della citata Convenzione di Strasburgo.
Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2011, n. 2645 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale, ai sensi dell’art. 250, quarto comma, cod. civ., costituisce un diritto sog¬gettivo sacrificabile solo in presenza di un pericolo di danno gravissimo per lo sviluppo psico-fisico del minore, correlato alla pura e semplice attribuzione della genitorialità. Pertanto, la mera pendenza di un processo penale a carico del genitore richiedente (nella specie concorso in alterazione di stato, abbandono ed illecito affidamen¬to di neonato a terzi) non integra condizione “ex sé” ostativa all’autorizzazione al riconoscimento; neppure la valutazione del rischio di un eventuale distacco del minore dall’attuale contesto di affidamento deve costituire interferenza ostativa al riconoscimento, posto che non vi è alcun nesso con il diritto alla genitorialità, potendo invece tale valutazione costituire oggetto di giudizio in diverso procedimento “ad hoc”.
Cass. pen. Sez. III, 4 novembre 2010, n. 42440 (Dir. Pen. e Processo, 2011, 11, 1359, nota di BOZHEKU)
È valida la querela presentata in proprio dall’infermo di mente, non dichiarato interdetto né inabilitato, in quanto la nomina di un curatore speciale, su istanza del P.M., è necessaria solo nel caso in cui la persona offesa non possa proporre querela a causa della propria infermità.
Soltanto nel caso in cui la persona offesa dal reato non abbia potuto proporre querela a causa della propria infer¬mità è necessaria la nomina di un curatore speciale, su istanza del P.M., a norma del combinato disposto dell’art. 121 c.p. e dell’art. 388 c.p. Quando, invece, l’interessato, anche se infermo di mente, abbia presentato querela non occorre la nomina di un curatore speciale, neanche per la ratifica dell’atto.
Cass. civ. Sez. I, 19 luglio 2010, n. 16870 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il minore è parte a tutti gli effetti del nuovo procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, al quale partecipa dalla fase iniziale. Il giudizio, sin dalla sua apertura, deve, pertanto, svolgersi con l’assistenza legale del minore che, in mancanza di previsioni di segno contrario, partecipa a mezzo di un rappresentante secondo le regole generali, quindi a mezzo del genitore o del tutore, ovvero, in caso di conflitto di interessi, di un curatore speciale, soggetti questi ai quali compete la nomina del difensore tecnico. Quanto al conflitto di interessi deve rilevarsi che quello tra il minore ed in genitore è in re ipsa, per incompatibilità anche solo potenziale delle rispet¬tive posizioni, mentre quello tra minore e tutore deve essere specificamente ed immediatamente denunciato dal Pubblico Ministero, accertato in concreto dal Giudice e ritenuto idoneo a determinare la possibilità che il potere rappresentativo del tutore sia da questi esercitato in contrasto con il minore. La denuncia in oggetto non può, pertanto, come nella specie, essere prospettata nelle fasi e nei gradi ulteriori del giudizio al solo fine di conse¬guire la dichiarazione di nullità degli atti compiuti sulla base di una situazione non tempestivamente denunciata.
Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2010, n. 16553 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di adozione, mentre il conflitto d’interessi tra minore e genitore è “in re ipsa”, quello con il tutore è solo potenziale ed il relativo accertamento deve essere compiuto in astratto ed “ex ante” e non in con¬creto ed a posteriori, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti in causa; pertanto, deve escludersi che il tutore (nella specie un ente territoriale), pur se nominato nel corso del procedimento, versi sempre e comun¬que, anche soltanto potenzialmente, in conflitto d’interessi con il minore. (In applicazione del principio la Corte ha cassato la pronuncia della Corte d’appello, sezioni minori che aveva dichiarato la nullità del procedimento di primo grado per difetto di integrità del procedimento dovuta alla costituzione di un unico difensore nella duplice veste di legale del minore e del tutore).
Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2010, n. 14216 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di adozione, compete esclusivamente al rappresentante legale del minore la nomina di un avvocato per la difesa tecnica: infatti il genitore, il tutore ovvero il curatore speciale hanno anche la relativa rappresentanza processuale, non essendo il potere di agire e resistere in giudizio disponibile autonomamente rispetto alla titolarità del bene della vita per il quale la tutela giurisdizionale venga postulata; inoltre, i due ruoli restano distinti, pur quando cumulati nel medesimo soggetto che abbia il titolo, richiesto dall’art.82, secondo comma, cod.proc.civ., per esercitare la difesa tecnica.
Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 2010, n. 14063 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, così come profondamente novellato dalla legge n. 149 del 2001, si caratterizza, vista la soppressione della previgente fase dell’opposizione, come unico ed imme¬diatamente contenzioso. Il minore, nell’ambito di siffatto sistema, è rappresentato in giudizio da un rappresen¬tante legale, il genitore o il tutore, non necessariamente un curatore speciale, il quale è quindi investito tanto dell’apertura del procedimento quanto della rappresentanza del minore, secondo le regole generali, nell’ambito del giudizio. La nomina di un curatore speciale si impone solo nell’ipotesi in cui sussista un conflitto di interessi tra il rappresentante legale ed il minore stesso (conflitto che nel caso di genitore sussiste in re ipsa) nel qual caso posto che compete al rappresentante legale la nomina, sin dall’apertura del procedimento, di un difensore tecnico, tale onere ricadrà, ove necessario, sul curatore speciale all’uopo nominato.
Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12290 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, la partecipazione del minore, necessaria fin dalla fase iniziale del giudizio, richiede la nomina di un curatore speciale soltanto qualora non sia stato nominato un tutore o questi non esista ancora al momento dell’apertura del procedimento, ovvero nel caso in cui sussista un conflitto d’interessi, anche solo potenziale, tra il minore ed il suo rappresentante legale. Tale conflitto è ravvisa¬bile “in re ipsa” nel rapporto con i genitori, portatori di un interesse personale ad un esito della lite diverso da quello vantaggioso per il minore, mentre nel caso in cui a quest’ultimo sia stato nominato un tutore il conflitto dev’essere specificamente dedotto e provato in relazione a circostanze concrete, in mancanza delle quali il tutore non solo è contraddittore necessario, ma ha una legittimazione autonoma e non condizionata, che può libera¬mente esercitare in relazione alla valutazione degli interessi del minore.
Cass. pen. Sez. III, 12 maggio 2010, n. 27044 (in Foro It., 2011, 5, 2, 310)
È valida la querela presentata personalmente dal maggiorenne infermo di mente e non dichiarato interdetto, in quanto la situazione d’infermità, impeditiva dell’esercizio del diritto di querela implica l’incapacità di autodeter¬minazione consapevole e volontaria. (In motivazione la Corte ha precisato che sarebbe incongruo affermare che la volontà di un soggetto, che pure ha compreso il disvalore sociale di atti da cui risulta danneggiato, una volta espressa, debba soccombere di fronte all’astratta considerazione che la sua volizione sia legalmente viziata).
Cass. civ. Sez. III, 13 aprile 2010, n. 8720 (Giur. It., 2011, 1, 56, nota di SGOBBO)
La transazione avente ad oggetto la controversia relativa al risarcimento del danno, stipulata dal genitore nell’in¬teresse del figlio minore, costituisce atto di straordinaria amministrazione quando abbia ad oggetto un danno che, per la sua natura e la sua entità, possa incidere profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato. In questo caso è necessaria, per la validità della transazione, l’autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 26 marzo 2010, n. 7281 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di adozione, mentre il conflitto d’interessi tra minore e genitore è “in re ipsa”, per incompa¬tibilità anche solo potenziale delle rispettive posizioni, il conflitto d’interessi tra minore e tutore deve essere dedotto dal P.M. ovvero da uno dei soggetti indicati dall’art.10 della legge 28 marzo 2001, n.149, ed accertato in concreto dal giudice, come idoneo a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia esercitato dal tutore in contrasto con l’interesse del minore; in tal caso, tuttavia, la denuncia, tendendo alla rimozione pre¬ventiva del conflitto, nonché alla immediata sostituzione del rappresentante legale con il curatore speciale dal momento in cui la situazione d’incompatibilità si è determinata, non può più essere prospettata nelle ulteriori fasi del giudizio al solo fine di conseguire la declaratoria di nullità degli atti processuali compiuti in seguito ad una situazione non denunciata.
Cass. civ. Sez. I, 17 febbraio n. 3805 (Famiglia e Diritto, 2010, 6, 554, nota di FIGONE)
La previsione di un’”assistenza legale” del minore, fin dall’inizio del procedimento adozionale non significa che debba nominarsi un difensore d’ufficio del minore all’atto dell’apertura del procedimento: il minore è parte a tutti gli effetti della procedura, ma, secondo le regole generali, sta in giudizio a mezzo del tutore, ovvero, in mancanza o in caso di conflitto di interessi, del curatore speciale.
Il tutore del minore, ove nominato nel corso della procedura adozionale non può considerarsi sempre e comun¬que in conflitto di interessi con il minore: l’eventuale conflitto dovrà accertarsi caso per caso.
Cass. civ. Sez. I, 17 febbraio 2010, n. 3804 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di adozione, ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, il procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dalla sua apertura con l’assistenza legale del minore, il quale è parte a tutti gli effetti del procedimento, e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappre¬sentante, secondo le regole generali, e quindi a mezzo del rappresentante legale, ovvero, in caso di conflitto d’interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza della corte territoriale che aveva ritenuto spettasse al giudice il potere di nominare d’ufficio un difensore al minore).
Cass. civ. Sez. II, 28 dicembre 2009, n. 27398 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per l’ammissibilità dell’intervento di un terzo in un giudizio pendente tra altre parti è sufficiente che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento implicante l’opportunità di un “simultaneus pro¬cessus”. In particolare, la facoltà di intervento in giudizio, per far valere nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse un proprio diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto in causa, deve essere riconosciuta indipendentemente dall’esistenza o meno nel soggetto che ha instaurato il giudizio della “legitimatio ad causam”, attenendo questa alle condizioni dell’azione e non ai presupposti processuali.
Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238 (Famiglia e Diritto, 2010, 4, 364 nota di GRAZIOSI
Nei processi che hanno per oggetto l’affidamento dei minori, e comunque in tutti i giudizi destinati a regolare in via esclusiva o prevalente interessi primari degli stessi, i minori, anche quando non sono parti del procedimento, devono considerarsi portatori di interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori e per tale profilo devono quindi essere qualificati parti in senso sostanziale.
L’audizione dei minori, già prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario, nelle procedure giudiziarie che li riguardino, ed in particolare in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la legge n. 77 del 2003, e dell’art. 155-sexies cod. civ., introdotto dalla legge n. 54 del 2006, salvo che l’ascolto possa essere in contrasto con gli interessi superiori del minore. Costituisce, pertanto violazione del principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo il mancato ascolto che non sia sorretto da espressa motivazione sull’assenza di discernimento che ne può giustificare l’omissione, in quanto il minore è portatore d’interessi contrapposti e diversi da quelli del genitore, in sede di affidamento e diritto di visita e, per tale profilo, è qualificabile come parte in senso sostanziale.
È obbligatoria l’audizione dei figli minori nel procedimento ex art. 710 c.p.c. di modifica delle condizioni di sepa¬razione tra i coniugi, e la sua omissione determina la nullità del provvedimento decisorio per violazione dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 1996 sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, dell’art. 155-sexies c.c., oltreché dei principi del contraddittorio e del giusto processo.
Corte cost. 12 giugno 2009, n. 179 (Famiglia e Diritto, 2009, 10, 869, nota di ARCERI)
È inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 336 c.c., in riferimento agli artt. 3, 30 e 31 Cost. nella parte in cui “non prevede che il Tribunale, in caso di urgente necessità di tutela del minore e di mancato esercizio di azione di potestà da parte dei genitori, dei parenti entro il quarto grado o del Pubblico Ministero, pos¬sa d’ufficio nominare curatore al minore affinché tale organo valuti la proposizione di azione a tutela di quest’ul¬timo”. Invero, da un lato, il giudice a quo non descrive in modo sufficiente la fattispecie oggetto del procedimento principale e ciò determina un difetto di motivazione sulla rilevanza della questione sollevata; dall’altro, il medesi¬mo rimettente non ha valutato – incorrendo in tal modo in un ulteriore difetto di motivazione sulla rilevanza della questione – l’incidenza, sulla fattispecie concreta, della normativa introdotta dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 e dalla Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori adottata a Strasburgo il 25 gennaio 1996, convenzioni, dotate di efficacia imperativa nell’ordinamento interno e, quindi, recanti una disciplina integrativa rispetto alla previsione dell’art. 336 c.c., col quale devono essere coordinate.
Cass. pen. Sez. V 28 marzo 2008, n. 16776 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La querela presentata ad un organo di polizia da minore infraquattordicenne e sottoscritta da un genitore pre¬sente al fine di assisterlo “per ogni effetto di legge” rileva come querela presentata dal genitore ai sensi dell’art. 120, comma secondo, codice penale.
Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4 (Famiglia e Diritto, 2008, 3, 298)
L’interesse del figlio minore infrasedicenne al riconoscimento della paternità naturale, di cui all’art. 250 c.c. è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, e, in particolare, dal diritto alla identità personale nella sua precisa e integrale dimensione psicofisica. Pertanto, in caso di opposizione al riconoscimento da parte dell’altro genitore, che lo abbia già effettuato, il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale della genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi e irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore, e in particolare della sua salute psicofisica. La relativa verifica va compiuta in termini concreti dal giudice del merito, le cui conclusioni, ove logicamente e compiutamente motivate, si sottraggono a ogni sindacato di legittimità.
Cass. civ. Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14844 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’intervento principale o dell’intervento litisconsortile nel processo, anche se l’articolo 105 cod. proc. civ. esige che il diritto vantato dall’interveniente non sia limitato ad una meramente generica comunanza di riferimento al bene materiale in relazione al quale si fanno valere le antitetiche pretese delle parti, la diversa natura delle azioni esercitate, rispettivamente, dall’attore in via principale e dal convenuto in via riconvenzionale rispetto a quella esercitata dall’interveniente, o la diversità dei rapporti giuridici con le une e con l’altra dedotti in giudizio, non costituiscono elementi decisivi per escludere l’ammissibilità’ dell’intervento, essendo sufficiente a farlo ritenere ammissibile la circostanza che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento con quella di altre parti relative allo stesso oggetto sostanziale, tali da giustificare un simultaneo processo.
Cass. pen. Sez. II, 14 giugno 2007, n. 32873 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il curatore speciale nominato per l’esercizio del diritto di querela, di cui è titolare la persona offesa minore degli anni quattordici o inferma di mente, non può proporre querela una volta che il relativo diritto si è estinto per morte del titolare.
Cass. civ. Sez. II, 5 giugno 2007, n. 13154 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il genitore autorizzato alla continuazione dell’esercizio dell’impresa commerciale del minore ex art. 320, co. 4, c.c. può compiere, senza necessità di specifica autorizzazione giudiziale, anche gli atti che non rientrano fra quelli di c.d. straordinaria amministrazione purché si tratti di atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, ovvero direttamente a quest’ultimo ricollegatisi, restando viceversa escluso che l’autorizzazione si estenda ad atti privi, secondo una valutazione di fatto riservata al giudice di merito, di collegamento funzionale all’atto d’impresa.
Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266 (Giur. It., 2007, 8-9, 1901)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 235 c.c., 1° comma, n. 3 nella parte in cui, ai fini dell’azione di discono-scimento della paternità, subordina gli accertamenti istruttori sulla paternità effettiva, da cui risulta che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, alla pre¬via dimostrazione dell’adulterio della moglie.
Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50 (Foro It., 2006, 4, 1, 966)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 274 c.c., che disciplina il giudizio di ammissibilità dell’azione per la dichiara¬zione giudiziale di paternità o di maternità naturale, per violazione degli artt. 3, co. 2, 24 e 111 Cost. La norma si presenta intrinsecamente e manifestamente irragionevole, e si risolve in un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dall’ art. 24 Cost., per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica; da tale manifesta irragionevolezza discende inoltre la violazione del precetto (art. 111, co. 2 , Cost.) sulla ragionevole durata del processo, gravato di una autonoma fase, articolata in più gradi di giudizio, prodromica al giudizio di merito, e tuttavia ormai priva di qualsiasi funzione.
Cass. civ. Sez. Unite, 3 novembre 2005, n. 21287 (Corriere Giur., 2006, 3, 347, nota di FERRANDO)
Nel caso in cui il presunto genitore sia deceduto e siano morti anche i suoi eredi diretti l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità esercitata dal figlio non è proponibile, per mancanza di legittimati passivi, non essendo tali gli “eredi degli eredi”.
Cass. civ. Sez. I, 15 aprile 2005, n. 7924 (Famiglia e Diritto, 2005, 4, 436)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, commi 2 e 3, c.c, con riferi¬mento agli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost., nella parte in cui prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità possa essere proposta da chiunque vi abbia interesse.
Cass. civ. Sez. II, 15 novembre 2004, n. 21614 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di amministrazione dei beni dei figli “ex” art. 320 c.c., al di fuori dei casi specificamente individuati ed inquadrati nella categoria degli atti di straordinaria amministrazione dal legislatore, vanno considerati di ordi¬naria amministrazione gli atti che presentino tutte e tre le seguenti caratteristiche: 1) siano oggettivamente utili alla conservazione del valore e dei caratteri oggettivi essenziali del patrimonio in questione; 2) abbiano un valore economico non particolarmente elevato in senso assoluto e soprattutto in relazione al valore totale del patrimonio medesimo; 3) comportino un margine di rischio modesto in relazione alle caratteristiche del patri¬monio predetto. Vanno invece considerati di straordinaria amministrazione gli atti che non presentino tutte e tre queste caratteristiche.
Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2004, n. 14934 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento previsto dall’art. 250 c.c., quarto comma, il minore infrasedicenne non assume la qualità di parte, divenendo tale solamente all’esito della nomina del curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c., secondo comma, in presenza di un conflitto d’interessi con il genitore legale rappresentante che si oppone al riconosci¬mento da parte dell’altro genitore naturale, determinandosi in tal caso una sorta di intervento “iussu iudicis” del minore stesso, a mezzo del suddetto curatore. Ne consegue che la sentenza emessa a chiusura del procedimento deve essere notificata, ai fini della decorrenza del termine breve per la relativa impugnazione, anche al suddetto curatore, non determinandosi in difetto il passaggio in giudicato e la conseguente definitività della decisione, in ragione del mancato decorso di detto termine rispetto a tutte le parti in causa. [Principio enunciato nell’ambito di un giudizio concernente la domanda di equa riparazione dei danni (lamentati per effetto di una durata del giu¬dizio ex art. 250 c.c., quarto comma, prolungatasi, anche in ragione della condotta degli addetti alla Cancelleria, per quattro anni e cinque mesi e dedotta come irragionevole in considerazione pure della particolare semplicità del rito camerale e della delicatezza della vicenda in questione), proposta seppur in difetto di notificazione della sentenza emessa a conclusione del giudizio (anche) al curatore speciale nominato alla minore, e dal giudice di merito dell’impugnazione nondimeno ritenuta conclusiva del procedimento all’esito del decorso del termine breve per l’impugnazione fatto decorrere dalla relativa notifica effettuata solamente ai genitori e al P.M.).
Cass. civ. Sez. II, 30 maggio 2003, n. 8803 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di omessa nomina di un curatore speciale previsto dall’art. 78 c.p.c. quando vi sia conflitto d’interessi con il rappresentante, il vizio di costituzione del rapporto processuale, determinando la nullità dell’intero giudizio per violazione della garanzia costituzionale del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., deve essere rilevato dal giudice d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio ed anche in sede di legittimità, sempreché sulla questione non si sia formato il giudicato interno, atteso che si verte in tema di rappresentanza sostanziale nel processo e non di rappresentanza sostanziale, essendo invece in quest’ultima ipotesi rimessa all’apprezzamento del giudice di merito – come tale non deducibile per la prima volta né rilevabile d’ufficio in sede di legittimità – l’indagine sulla compatibilità o meno dell’interesse del rappresentante con quello del rappresentato. Nella specie la S.C., nel dichiarare la nullità dell’intero giudizio, ha rilevato d’ufficio l’omessa nomina da parte del giudice di merito del curatore, avendo ravvisato il conflitto d’interessi di cui all’art. 78 c.p.c. fra la società cooperativa convenuta, che aveva dedotto il difetto di titolarità del rapporto per essere stato il contratto – posto a base della domanda dall’attore – sottoscritto, a titolo personale e non quale organo rappresentativo della società stessa dalla mede¬sima persona fisica che nel giudizio ne aveva assunto la rappresentanza legale
Cass. civ. Sez. III, 14 marzo 2003, n. 3795 (Guida al Diritto, 2003, 27, 89)
La transazione dell’esercente la potestà genitoriale sui minori, costituisce atto di straordinaria amministrazione quando abbia per oggetto un danno che, per la natura ed entità, possa incidere profondamente nella vita pre¬sente e futura del minore danneggiato. Pertanto una transazione non autorizzata ai sensi dell’articolo 320 del c.c., dovrà ritenersi invalida nei confronti dei minori e tale invalidità è rilevabile d’ufficio da parte del giudice della cognizione.
Corte cost., 28 novembre 2002, n. 494 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 278, comma 1, c.c. nella parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251, comma 1, c.c. il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato. Infatti la “capitis deminutio perpetua” e irrimediabile imposta ai cosiddetti figli incestuosi come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi soggetti, costituisce una evi¬dente violazione del diritto a uno “status filiationis” e del principio costituzionale di uguaglianza, come pari digni¬tà sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali.
Cass. civ. Sez. I, 21 giugno 2002, n. 9067 (Famiglia e Diritto, 2002, 6, 651)
Nelle ipotesi di separazione o divorzio, il figlio divenuto maggiorenne ma non economicamente autosufficien¬te acquista una legittimazione “iure proprio” all’azione per ottenere dall’altro genitore il contributo al proprio mantenimento (che trova il suo fondamento nella titolarità del diritto al mantenimento), concorrente con la legittimazione, anch’essa iure proprio, del genitore convivente; peraltro se il figlio non interviene nel giudizio pendente, e la sentenza di condanna viene emessa solo in favore del genitore convivente, nei suoi confronti non opera il giudicato formale della sentenza, e pertanto egli non ha titolo per richiedere direttamente il pagamento del contributo al mantenimento al genitore obbligato non convivente, non potendosi ravvisare nel caso in esame una ipotesi di solidarietà attiva (che, diversamente da quella passiva, non si presume).
Corte cost., 30 gennaio 2002, n. 1 (Foro It., 2002, I, 3302)
Poiché deve ritenersi che la disposizione di cui all’art. 336 comma 2 c.c. è integrata dall’art. 12 della conven¬zione sui diritti del fanciullo, resa esecutiva con l. n. 176 del 1991, nel senso che il minore costituisce una parte del procedimento camerale in esito al quale il tribunale per i minorenni pronuncia provvedimenti ablativi o modificativi della potestà dei genitori, con la conseguente necessità del contraddittorio nei suoi confronti, se del caso previa nomina di un curatore speciale, la q.l.c. dell’art. 336 comma 2 c.c., in riferimento agli art. 2, 3, comma 2, 24 comma 2, 30 comma 1 e 111 commi 1 e 2 cost., nella parte in cui non prevede a pena di nullità rilevabile d’ufficio che i genitori e il minore che abbia compiuto gli anni dodici siano sentiti in quei procedimenti resta assorbita, mentre spetta al giudice “a quo” stabilire, applicando le norme generali sulle nullità processuali, quali conseguenze esplichi sul provvedimento reclamato l’inosservanza della disposizione censurata, come sopra interpretata.
Cass. pen. Sez. III, 26 novembre 2001, n. 45474 (in Pluris Cedam Utet, 2013, massima redazionale)
In tema di titolarità del diritto di querela, la previsione di cui all’art. 120, comma terzo, c.p. (per la quale in caso di persona offesa ultraquattordicenne o inabilitata il diritto di querela può essere esercitato, oltre che da quest’ultima in loro vece, dal genitore, tutore o curatore) non può essere intesa nel senso che tali soggetti pos¬sano esercitare tale diritto soltanto nel caso in cui i rappresentati non lo abbiano fatto, bensì nel senso che quel diritto è distinto ed autonomo potendo essere esercitato anche in presenza di una volontà contraria o dopo il già avvenuto esercizio da parte dei rappresentati.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2001, n. 6470 (Nuova Giur. Civ., 2002, II, 294, nota di LENA)
Nel procedimento previsto dall’art. 250, comma 4, c.c. per conseguire una pronuncia che tenga luogo del man¬cato consenso dei genitore, che abbia già riconosciuto il figlio infrasedicenne, al riconoscimento dello stesso mi¬nore da parte dell’altro genitore, il minore non assume la qualità di parte, ma ne è prevista l’audizione, sempre che ne sia capace per ragioni di età o per altre cause, sicchè in tale procedimento non insorge l’esigenza della nomina di un curatore speciale del minore nè la mancata previsione della necessità di tale nomina si pone in contrasto con gli art. 3, 31 e 111 cost., atteso che il minore risulta adeguatamente protetto dalla verifica che il tribunale per i minorenni è chiamato a compiere circa l’effettiva rispondenza all’interesse dei minore medesimo del secondo riconoscimento.
Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il conflitto di interessi nel rapporto processuale tra genitore esercente la potestà e figlio è ipotizzabile non già in presenza di un interesse comune, sia pure distinto ed autonomo, di entrambi al compimento di un determinato atto, ma soltanto allorché i due interessi siano nel caso concreto incompatibili tra loro, nel senso che l’interesse del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, non si concili con quello del rappresentato; l’esistenza di una siffatta situazione di conflitto, il cui apprezzamento è rimesso al giudice di merito, non è normativamente pre¬sunta nel caso dell’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, la quale non rientra tra le ipotesi, tassativamente indicate dal legislatore, nelle quali il giudizio deve essere proposto, in rappresentanza del minore, nei confronti di un curatore speciale nominato al riguardo dal giudice; ne conse¬gue che, in ordine a tale azione, trova applicazione, in mancanza della deduzione di una concreta situazione di conflitto di interessi, la regola secondo cui il genitore esercente la potestà è legittimato, nell’interesse del figlio minore, a resistere al giudizio da altri intentato.
Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 2001, n. 10822 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rappresentanza sostanziale nel processo, va ravvisata una situazione di conflitto di interessi tra rap¬presentante e rappresentato, tale da comportare la necessità della nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., ogni volta che sia dedotta in giudizio una situazione giuridica idonea a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia esercitato dal rappresentante in contrasto con l’interesse del rappresentato, e, quindi, anche se il conflitto si configuri come solo potenziale, non essendo necessaria la evidente ricorrenza di sintomi indicativi della effettività del conflitto stesso nomina.
Cass. civ. Sez. II, 16 novembre 2000, n. 14866 (Giust. Civ., 2001, I, 695)
In tema di rappresentanza sostanziale nel processo, va ravvisata una situazione di conflitto di interessi tra rap¬presentante e rappresentato, tale da comportare la necessità della nomina di un curatore speciale, ogniqualvolta sia dedotta in giudizio una situazione giuridica idonea a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia esercitato dal rappresentante in contrasto con l’interesse del rappresentato, essendo il primo portatore di un interesse personale ad un esito della lite diverso da quello vantaggioso per il secondo, dovendosi dichiarare, anche d’ufficio, la nullità dell’intero giudizio in mancanza della suddetta nomina.
Cass. pen. Sez. VI, 6 aprile 2000, n. 7280 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È valido l’atto di querela proposto in proprio dalla persona offesa inferma di mente.
Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 273 c.c. con riferimento agli art. 2 e 24 cost. nella parte in cui, in ipotesi di figlio minorenne, attribuisce al genitore la legittimazione ad agire per la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità naturale senza prevedere la necessità della nomina di un curatore speciale per il minore e, in caso di inattività del sostituto processuale, la sospensione dei termini fino al raggiungimento della maggiore età del sostituito; infatti, l’interesse del minore risulta adeguatamente protetto, nel caso di promovimento dell’a¬zione da parte del genitore attraverso la verifica della sua rispondenza a quell’interesse demandata al tribunale per i minorenni (a seguito della sentenza della Corte cost. n. 341 del 1990), nel caso contrario con la possibilità per il figlio, una volta divenuto maggiorenne, di promuovere l’azione, per lui imprescrittibile ai sensi dell’art. 270 c.c.; nella prima ipotesi, inoltre, la scelta di non affiancare obbligatoriamente il rappresentante del minore con un curatore speciale, che ne controlli le iniziative processuali, è ragionevole e coerente con la qualità soggettiva del rappresentante e la sua natura di sostituto processuale, mentre la previsione di una sospensione dei termini o di una rimessione in termini a favore del minore, divenuto maggiorenne, per esercitare le attività (in particolare le impugnazioni) da cui il genitore è decaduto, contrasterebbe con le esigenze di certezza del diritto e costituirebbe violazione del diritto di difesa della controparte, soggetta ad unilaterale possibilità di riesame di una sentenza passata in giudicato.
Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 1999, n. 8484 (Famiglia e Diritto, 1999, 6, 576)
L’autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 c.c. è necessaria per promuovere giudizi relativi ad atti di am¬ministrazione straordinaria, che possono cioè arrecare pregiudizio e diminuzione del patrimonio e non anche per gli atti diretti al miglioramento e alla conservazione che fanno già parte del patrimonio del minore. Ne consegue che l’autorizzazione non è necessaria per proporre domanda di demolizione di opere costruite dal vicino in viola¬zione delle norme legali sulle distanze, giacchè con detta azione si mira a impedire l’assoggettamento del fondo dell’incapace a vantaggio del fondo altrui.
Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1999, n. 5694 (Danno e Resp., 1999, nota di VIOLANTE)
È manifestamente infondata la questione di costituzionalità della norma di cui all’art. 2942 c.c. – sollevata con riferimento agli art. 2, 3, 10, 24 e 30 della Carta fondamentale – nella parte in cui non prevede la sospensione del corso della prescrizione in favore del minore in caso di inattività dei genitori esercenti la relativa potestà che versino, rispetto al predetto, in una situazione di conflitto di interessi (nella specie, per essersi reso responsabile del danno causato al minore un altro figlio, anch’egli minorenne), e di conseguente, mancata nomina, al minore stesso, di un curatore speciale da parte del giudice tutelare: dal combinato disposto di cui agli art. 320 e 321 c.c., può desumersi, difatti, anche con riferimento all’ipotesi in parola, la esistenza, in seno all’ordinamento, di un idoneo rimedio, costituito dalla facoltà di nomina di un curatore speciale, da parte del giudice tutelare, su istanza del figlio stesso, del p.m., o di uno dei parenti del minore. Il citato art. 2942 c.c. non può, inoltre, legittimamente ritenersi integrato, sul punto, dall’art. 6 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella parte in cui tale norma prevede “il diritto di ogni persona alla tutela giurisdizionale dei propri diritti”, al fine di ritenere implicita¬mente recepito, in seno alla norma statuale, il principio di sospensione della prescrizione “de quo”.
Cass. civ. Sez. III, 4 novembre 1998, n. 11071 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza ad autorizzare la vendita di beni ereditati dal minore soggetto alla potestà dei genitori appartiene al giudice tutelare del luogo di residenza del minore stesso unicamente per i beni che si possono considerare definitivamente acquisiti al patrimonio di questi, mentre appartiene al tribunale del luogo dell’apertura della successione allorchè l’acquisto “iure hereditatis” non sia ancora perfezionato, come quanto penda procedura di accettazione con beneficio d’inventario, perchè, in tal caso, l’indagine el giudice adito non è limitata alla tutela del minore – alla quale soltanto è circoscritta dall’art. 320 c.c. – ma si estende a quella degli altri soggetti inte¬ressati alla liquidazione dell’eredità.
Cass. civ. Sez. I, 25 giugno 1998, n. 6292 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il mandato “ad litem” rilasciato al difensore dal legale rappresentante di una società non si estingue per il so¬pravvenuto mutamento della persona fisica che rappresenta la società, ma continua a produrre effetti finchè non sia revocato dal nuovo rappresentante, con la conseguenza che la sostituzione dell’amministratore unico di una società di capitali che sia parte in giudizio, intervenuta al momento della notifica dell’atto d’appello, non incide in alcun modo nella procedibilità del gravame.
Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 1997, n. 9316 (Famiglia e Diritto, 1998, 2, 175)
Nel giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, la nomina (o il diniego di nomina) del cura¬tore speciale, secondo il testuale tenore dell’art. 274 comma 4 c.c., costituisce esercizio di un potere discrezio¬nale del giudice di merito, che può farvi luogo anche prima di ammettere l’azione, ai fini della rappresentanza in giudizio. Si tratta di un atto che non incide sui diritti del minore e che non ha alcuna autonomia nell’ambito del procedimento (in quanto la rappresentanza del minore è in ogni caso affidata al genitore esercente la po¬testà, ai sensi dell’art. 273 comma 1 c.c.) e che è privo di efficacia decisoria, non spiegando riflessi di sorta sul provvedimento che dichiara ammissibile o inammissibile l’azione. Conseguentemente, trattandosi di un atto a carattere meramente ordinatorio, esso è insuscettibile di ricorso per cassazione anche con riguardo al rimedio straordinario stabilito dall’art. 111 cost
Cass. civ. Sez. III, 22 maggio 1997, n. 4562 (Famiglia e Diritto, 1998, 1, 80)
La transazione avente ad oggetto la controversia relativa al risarcimento del danno, stipulata dal genitore nell’in¬teresse del figlio minore, costituisce atto di straordinaria amministrazione quando abbia ad oggetto un danno che, per la sua natura e la sua entità, possa incidere profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato. In questo caso è necessaria, per la validità della transazione, l’autorizzazione del giudice tutelare ex. art. 320 c.c.
Cass. civ. Sez. II, 9 luglio 1997, n. 6201(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Configura vizio insanabile della costituzione del rapporto processuale e perciò determina la nullità del relativo giudizio per violazione del principio del contraddittorio, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimen¬to, l’omessa nomina di un curatore speciale (art. 78 c.p.c.) ad una società, convenuta in giudizio dal preteso simulato alienante per accertare la simulazione di una vendita con essa intercorsa – e quindi recuperare il bene trasferitole – che contemporaneamente rivesta la qualità di amministratore unico e rappresentante legale della medesima società, essendo evidente la mera apparenza del contraddittorio – (tant’è che nella specie la società era rimasta contumace) – e il conflitto di interessi tra essa e il suo predetto rappresentante.
Cass. pen. Sez. V, 8 giugno 1995, n. 7595 (in Cass. Pen., 1997, 77)
Con la parola “genitore”, adoperata per designare la persona legittimata a proporre la querela in vece del minore ultraquattordicenne, l’art. 120 comma 3 c.p. prescinde dall’esercizio della patria potestà, riconoscendo la rap¬presentanza legale necessaria e sussidiaria ad entrambi i genitori. (Fattispecie relativa alla querela proposta dal genitore separato, non affidatario del figlio minore ultraquattordicenne, in ordine al delitto di lesioni volontarie).
Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 1995, n. 4015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il genitore, non avendo il potere di disporre dei beni dei figli minori senza l’autorizzazione del giudice tutelare ( art. 320 c.c.), non ha neppure il potere di confessare (giudizialmente o extragiudizialmente), senza tale autoriz¬zazione, fatti dalla cui prova il diritto del figlio possa risultare pregiudicato, perché l’art. 2731 c.c., nel prevedere che la confessione non è efficace se non proviene da persona che è capace di disporre del diritto, equipara la con¬fessione ad un atto di disposizione, che, come è precisato nel comma 2 del medesimo articolo, il rappresentante può compiere solo nei limiti in cui dispone del potere di vincolare il rappresentato, e si riferisce, perciò, non solo ai diritti indisponibili considerati dagli art. 2733 e 2735 c.c. (a norma dei quali la confessione a piena prova con¬tro colui che l’ha fatta purché non verta su fatti relativi a diritti non disponibili) ma, più in generale, alla capacità correlata allo stato del soggetto confitente, cioè alla capacità di disporre. Il genitore, conseguentemente, non può confessare la gratuità di un atto di alienazione apparentemente oneroso se tale diversa natura dell’atto ne comportasse la nullità per vizio di forma (nella specie, perché stipulato senza i due testimoni prescritti dall’art. 48 legge 16 febbraio 1913 n. 89) con effetti pregiudizievoli per il minore, essendo sufficiente, per qualificare come confessorio il predetto fatto, l’accertamento delle sue pratiche conseguenze sfavorevoli in relazione all’og¬getto della controversia ed ai termini della contestazione, anche quando queste conseguenze siano collegate a profili ed elementi strettamente giuridici dell’istituto del tutto estranei al contenuto della dichiarazione.
Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 1994, n. 7204 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza ad autorizzare il genitore esercente la patria potestà alla prosecuzione dell’esercizio dell’impresa per conto dei figli minori spetta al tribunale ordinario e non a quello per i minorenni, trattandosi di provvedi¬mento previsto dall’art. 320, comma 5, c.c., non richiamato nella tassativa elencazione di cui all’art. 38 disp. att. stesso codice.
Cass. civ. Sez. I, 16 marzo 1994, n. 2515 (Pluris, Wolters Kluwer Italia) Trotta c. Generoso
Nell’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale, l’espressione “chiunque vi abbia interesse”, usata dall’art. 263 c.c. per indicare i soggetti che vi sono legittimati, non può ritenersi comprensiva del P.M., essendo essa riferibile ai soli soggetti privati che abbiano un interesse individuale qualificato (concreto, attuale e legittimo) sul piano del diritto sostanziale, di carattere patrimoniale o morale, all’essere o al non essere dello status, del rapporto, dell’atto dedotto in giudizio (ad es. gli eredi e i parenti di chi risulti il genitore legittimo o l’autore del riconoscimento, colui che allega di essere il vero genitore ecc.), con la conseguenza che trova applicazione, in mancanza di una deroga esplicita, la regola generale prevista dall’art. 70 n. 3 c.p.c. secondo la quale nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone il P.M. deve (soltanto) intervenire sotto pena di nullità, e non può, quindi, (anche) esercitare l’azione e proporre impugnazione, senza neppure essere legittimato a proporre domande nuove o riconvenzionali, che comportino l’obbligo ex art. 292 c.p.c..
Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 1994, n. 2430 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione prevista dal codice civile in relazione ai beni degli incapaci non coincide con quella applicabile in tema di determinazione dei poteri attribuiti agli amministra¬tori delle società. Tali poteri, pertanto, devono essere determinati con riferimento all’oggetto sociale e non alla mera rilevanza economica dell’atto.
Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1993, n. 2576 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’azione per la dichiarazione della paternità o maternità naturale ha carattere personalissimo e la legittimazione al suo esercizio compete esclusivamente al figlio e, dopo la sua morte, ai suoi discendenti; se il soggetto legitti¬mato è legalmente incapace, essa può essere promossa, nel suo interesse, unicamente dal genitore che esercita la potestà o dal tutore, in forza delle tassative ipotesi di sostituzione processuale previste dall’art. 273 c.c.; ne consegue che l’eventuale nomina di curatore speciale (art. 274, ult. comma, c.c.) comporta la necessità della presenza di questi in giudizio – per tutelare l’incapace da possibili conflitti d’interesse con chi ha proposto l’azio¬ne – ma non determina una legittimazione attiva concorrente con quella del genitore o del tutore, né escludente la stessa.
Cass. pen. Sez. V, 26 maggio 1992 (Giust. Pen., 1993, II, 348)
In tema di nomina di un curatore speciale per l’esercizio del diritto di querela, la norma di cui all’art. 121 c.p.tende, per quel che riguarda il rapporto tra genitore e figlio, ed evitare che il diritto di querela per fatti offen¬sivi nei confronti del figlio non venga esercitato perchè vi è un interesse contrastante del genitore, ma non può valere a rendere invalida una querela proposta dal genitore solo perchè il figlio potrebbe avere un interesse per¬sonale ad evitare la punizione del colpevole. Una invalidità del genere non è prevista nè può dedursi dal sistema, il quale tende anzi a favorire la proposizione della querela, stabilendo (art. 120 comma 3 c.p.) che il minore che ha compiuto gli anni quattordici può proporre personalmente la querela, ma non può anche impedire che contro la sua volontà la proponga il genitore. (Fattispecie in cui una madre aveva proposto nell’interesse dei figli minori querela per lesioni e percosse nei confronti del padre, con il quale aveva in atto procedimento di separazione personale, e costui assumeva che sarebbe stata necessaria la nomina di un curatore speciale ex art. 121 c.p. in quanto, avendo la moglie un interesse personale alla sua punizione, sussisteva un conflitto di interessi con i figli, dato che questi erano portatori di un proprio interesse al rispetto ed alla tutela della personalità del padre che avrebbero potuto far prevalere su quello alla sua punizione; la Cassazione ha ritenuto infondato tale assunto enunciando il principio di cui in massima).
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 1992, n. 3416 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio sull’ammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità), l’art. 273, 1° comma c. c. prevede la autorizzazione del tribunale e, la nomina, facoltativa, di un curatore speciale qualora l’azione sia esercitata dal tutore, mentre non prevede la necessità di un’autorizzazione, né la nomina del curatore quando l’azione è esercitata dal genitore esercente la potestà; si configura così una estensione, rispetto ad un diritto strettamente personale del figlio, del potere di rappresentanza ex lege spettante al genitore stesso: ne deriva che né la nomina del curatore speciale disposta al di fuori della previsione normativa, né la valutazione dell’interesse del minore infrasedicenne da parte del giudice, da annoverarsi fra le condizioni di ammissibilità dell’azione nel quadro dell’art. 274 c. c. possono riflettersi negativamente sulla legittimazione del genitore eser¬cente la potestà a promuovere l’azione.
Cass. civ. Sez. I, 13 marzo 1992, n. 3079 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 321 c. c., così come modificato dall’art. 144 l. 19 maggio 1975 n. 151, giudice competente a nominare un curatore speciale al minore, nel caso in cui entrambi i genitori, o quello di essi che esercita in via esclusiva la potestà, non possono o non vogliono compiere uno o più atti di interesse del figlio, eccedenti l’or¬dinaria amministrazione, è il tribunale ordinario e non il tribunale dei minorenni, né il giudice tutelare, atteso che il riferimento ai provvedimenti del giudice tutelare a proposito dell’art. 321 c. c., contenuto nell’art. 45, 1° comma, disp. att. c. c., deve intendersi fatto con riferimento al 1° comma di detto articolo, non più sussistente nella unitaria formulazione del nuovo testo dell’art. 321, con la conseguenza che questo deve essere inteso, in mancanza di un’espressa attribuzione della detta competenza al tribunale dei minorenni o a diversa autorità giudiziaria, come riferito al tribunale ordinario.
Cass. civ. Sez. III, 28 febbraio 1992, n. 2489 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non si configura conflitto di interessi tra il genitore ed il minore da lui legalmente rappresentato, e non è conse¬guentemente, necessaria la nomina di un curatore speciale, ai sensi dell’art. 320 ultimo comma c. c. quando il compimento dell’atto, pur avendovi i due soggetti un interesse proprio e distinto, realizza un vantaggio comune di entrambi senza danno reciproco (nella specie, costituzione della madre, in proprio ed in rappresentanza dei figli minori, nel giudizio di risarcimento di danno extracontrattuale instaurato contro il padre poi deceduto).
Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 1992, n. 711 (Giur. It., 1993, I,1, 138, nota di SESTA)
L’azione ex art. 580 c.c. può essere esercitata anche dal figlio naturale che abbia lo stato di figlio legittimo altrui, purché il richiedente non abbia omesso consapevolmente e volontariamente di esercitare l’azione di discono¬scimento della paternità, così rendendo impossibile la proposizione dell’azione di dichiarazione giudiziale della paternità naturale.
Corte cost., 27 novembre 1991, n. 429 (Foro It., 1992, I, 2908)
In caso di azione di disconoscimento della paternità di minore infrasedicenne iniziata dal P.M., il diritto vigente fornisce strumenti sufficienti per proteggere lo stesso contro iniziative avventate e a loro volta i genitori legittimi contro azioni temerarie o ricattatorie. Quando, infatti, la domanda di nomina del curatore speciale è proposta dal pubblico ministero nel presunto interesse di un minore infrasedicenne, il giudice, a tutela dello stesso, prima di emettere il decreto motivato previsto dall’art. 737 cod. proc. civ., deve allargare il campo di acquisizione delle sommarie informazioni, includendovi tutti gli elementi necessari o utili per valutare la sussistenza del suo inte¬resse all’esperimento di un’azione che lo spoglierebbe dello stato di figlio legittimo senza garantirgli l’acquisto dello stato di filiazione nei confronti del padre naturale. All’uopo il giudice deve, tra l’altro, ordinare l’audizione dei genitori legittimi ed eventualmente anche delle persone interessate che hanno eccitato l’iniziativa del pubbli¬co ministero per accertarsi della purezza delle loro intenzioni in quanto il tramite del pubblico ministero, di per sé solo, non è sufficiente garanzia. (Non fondatezza, nei sensi di cui in motivazione, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 244, ultimo comma, cod. civ., nel testo sostituito dall’art. 81 della legge 4 maggio 1983, n. 184, “in parte qua”, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.).
È inammissibile, in quanto implicante scelte discrezionali proprie del legislatore, la questione di legittimità co¬stituzionale dell’art. 244, 4° comma, c. c., nella parte in cui, non prevede un giudizio preliminare di delibazione dell’ammissibilità dell’azione di disconoscimento di paternità promossa dal curatore speciale di soggetto infrase¬dicenne, in riferimento all’art. 3 cost.
La determinazione dei soggetti legittimati a proporre l’azione di disconoscimento della paternità è una scelta insindacabile del legislatore che ha ritenuto di riservare ai soli soggetti direttamente interessati, e cioè ai membri della famiglia legittima, il potere di decidere circa la prevalenza della verità “biologica” o della verità “legale”: una innovazione, che attribuisse direttamente la legittimazione ad agire a soggetti privati estranei alla famiglia legittima, quale è il presunto padre naturale, rappresenterebbe la scelta di un criterio diverso, legato ad una ul¬teriore evoluzione della coscienza collettiva, che solo il legislatore può compiere. Né vale opporre che l’equilibrio tra verità legale, che tutela l’unità della famiglia legittima (art. 29 Cost.) e verità biologica (art. 30 Cost.) è stato già modificato dalla legge n. 184 del 1983 con l’ammettere la promozione dell’azione di disconoscimento della paternità su iniziativa del P.M., fino a quando il figlio non abbia compiuto sedici anni, giacché la nuova norma, prevedendo che l’azione sia poi esercitata non dal pubblico ministero, ma, in nome e nell’interesse del figlio, da un curatore speciale, è rimasta formalmente nei limiti del criterio di determinazione dei soggetti titolari dell’azio¬ne assunto dalla legge n. 151 del 1975. FONTI
Corte cost., 20 luglio 1990, n. 341 (Foro It., 1992, I, 2,5 nota di FORMICA)
È illegittimo, per violazione degli art. 3 e 30 cost., l’art. 274, 1° comma, c. c., nella parte in cui non subordina l’ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, oltre che al concorso specifico di circostanze tali da farla apparire giustificata, anche alla condizione che ne sia valutata la rispondenza all’interesse del minore.
Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 1990, n. 6093 (Corriere Giur., 1990, 1026)
Il riconoscimento da parte del secondo genitore, seppure è condizionato all’interesse del minore, costituisce pur sempre un diritto soggettivo primario della personalità (art. 30 cost.) ed il sacrificio di tale diritto può avvenire solo in presenza di un fatto impeditivo di importanza proporzionata al suo valore e cioè solo nell’ipotesi in cui dallo stesso possa derivare al minore un trauma così grave da pregiudicare in modo serio il suo sviluppo psico¬fisico e non anche in considerazione dell’interesse del minore stesso a continuare la convivenza con il genitore che per primo lo ha riconosciuto.
Cass. civ. Sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La proposizione dell’azione diretta ad ottenere il risarcimento del danno subito da un minore, mirando alla rein¬tegrazione del patrimonio del minore leso dall’atto dannoso, rientra tra gli atti di ordinaria amministrazione e, pertanto, può essere effettuata dal genitore esercente la patria potestà senza autorizzazione del giudice tutelare, la quale non è necessaria neppure affinché il suddetto genitore possa transigere la relativa lite.
Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’esercizio di un’azione giudiziaria in rappresentanza di un figlio minore di età da parte del genitore esercente la patria potestà non costituisce atto eccedente l’ordinaria amministrazione quando persegua delle finalità di conservazione del patrimonio del minore e può quindi proporsi in base ai poteri di rappresentanza del genitore, senza che sia necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 c. c.
Cass. civ. Sez. III, 28 luglio 1987, n. 6542 (Giust. Civ., 1988, I, 454)
Nonostante l’espressa inclusione di tale tipo di negozio nell’elencazione fatta dall’art. 320 c. c. degli atti ecce¬denti l’ordinaria amministrazione, la concessione di mutui a minori resta esentata dalla preventiva autorizzazione del giudice tutelare qualora il prestito, per la sua incidenza economica, sia passibile di restituzione mediante impiego dei redditi del minore, senza pericolo di decurtazione dei suoi capitali o di diminuzione del valore del suo patrimonio; trattasi, peraltro, di eccezione, la cui ricorrenza richiede una specifica prova, da parte di chi resiste all’annullabilità del contratto (di mutuo) non autorizzato, onde superare la presunzione di appartenenza del tipo negoziale al novero degli atti di straordinaria amministrazione.
Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5353 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione prevista dal c. c. agli art. 320, 374 e 394 a proposito dei beni degli incapaci, non è applicabile nella stessa precisa portata al fine di determinare la sfera dei poteri attribuiti dalla legge agli amministratori delle società in genere e della società per azioni in particolare, i quali vanno stabiliti con riferimento agli atti che rientrano nell’oggetto sociale, pur se eccedono i limiti della c. d. ordinaria amministrazione, con la conseguenza che, salve le limitazioni previste nello statuto della società, devono ritenersi rientranti nella competenza degli amministratori tutti gli atti che ineriscono alla gestione della società, ed eccedenti i loro poteri (e quindi riservati all’assemblea) quelli di disposizione è di alienazione di beni strumentali o suscettibili di modificare la struttura della società.
Cass. civ. Sez. I, 13 marzo 1987, n. 2654 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché per l’art. 250 c. c. il genitore che ha per primo riconosciuto il figlio naturale non può rifiutare il consen¬so al riconoscimento dell’altro genitore ove tale riconoscimento risponda all’interesse del figlio, a rendere non conveniente il riconoscimento stesso non è decisivo che il minore si sia inserito stabilmente nella famiglia del primo, dovendo tale elemento essere valutato unitamente ad altri, con riguardo principalmente agli effetti che il riconoscimento di entrambi i genitori può produrre in termine di educazione, istruzione e mantenimento del minore e tenuto, in ogni caso, presente che l’esigenza di evitare turbamenti o conflittualità psicologiche pregiudi¬zievoli all’armonioso sviluppo della personalità dello stesso deve prevalere sul fatto oggettivo della generazione.
Corte cost., 14 luglio 1986, n. 185 (Giur. It., 1988, I,1, 1112)
Non è fondata, in riferimento agli art. 3, 1° e 2° comma, 24, 2° comma, e 30 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, 1° comma (in relazione all’art. 6, 2° comma) l. 1° dicembre 1970, n. 898 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e dell’art. 708 c. p. c. (in relazione all’art. 155 c. c.), nella parte in cui, rispettivamente nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio e nel giudizio di separazione per¬sonale dei coniugi, non prevedono la nomina di un curatore speciale che rappresenti in giudizio il minore figlio delle parti, in ordine alla pronuncia sull’affidamento e ad ogni altro provvedimento che lo riguardi; i giudizi in questione, infatti, non attengono né si riflettono sullo status dei figli, ed inoltre, essendo preordinati a scegliere la soluzione migliore per gli interessi del minore, gli interessi di quest’ultimo non rimangono senza tutela, ma sono garantiti da una serie non indifferente di misure.
Cass. civ., 4 dicembre 1985, n. 6063 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di separazione personale dei coniugi, l’affidamento dei figli minori è rimesso alla decisione del giudice e non è configurabile né un diritto dei genitori all’affidamento stesso né un diritto dei figli alla scelta del genitore (nella specie, la corte ha escluso, sulla scorta di detto principio, che i minori fossero titolari di un interesse ad agire in giudizio e conseguentemente la necessità della nomina di un curatore speciale al fine della loro costituzione nel processo quali litisconsorti necessari).
Cass. civ. Sez. Unite,16 ottobre 1985, n. 5073 (Foro It., 1985, I, 2550, nota di COSTANTINO)
Nel caso di conflitto di interessi tra genitori e figli, i poteri di rappresentanza del curatore speciale, nominato per il compimento di un atto sostanziale, pur nei limiti del provvedimento di nomina, si estendono ai giudizi che sorgono in relazione a quell’atto, avendo funzione e contenuto identici a quelli del genitore sostituito.
Cass. civ., 17 maggio 1985, n. 3020 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il conflitto d’interessi tra rappresentante e rappresentato non si configura quando, pur avendo tali soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, questo corrisponde al vantaggio comune di entrambi, con la conseguenza che i due interessi, secondo l’apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, siano tra loro compatibili.
Cass. civ., 18 febbraio 1985, n. 1357 (Giust. Civ., 1985, I, 2579)
Nel caso di conflitto di interessi tra genitori e figli, la rappresentanza del minore affidata al curatore speciale per il compimento di un atto si estende anche al giudizio sorto a seguito e in relazione a quell’atto (nella specie: la corte ha rigettato il ricorso avverso la decisione di merito che, sulla base del provvedimento di nomina del curatore speciale, nominato per il compimento di un atto, ne aveva ritenuto sussistente anche la rappresentanza processuale).
Nella controversia promossa nei confronti del curatore speciale del minore, nominato ai sensi dell’art. 320 ultimo comma c. c., con riguardo a contratto che il primo abbia stipulato in nome e per conto del secondo, l’eventuale invalidità dell’autorizzazione richiesta per detta stipulazione (nella specie: sotto il profilo che competeva al tri¬bunale e non al giudice tutelare, trattandosi di negozio di straordinaria amministrazione) può essere fatta valere come ragione di annullabilità (relativa) dell’atto, ai sensi e nei limiti di cui agli art. 322 e 377 c. c., ma non incide sulla rappresentanza processuale del curatore medesimo, e, pertanto, non è invocabile come causa di nullità del giudizio.
Cass. civ., 15 maggio 1984, n. 2936 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’autorizzazione alla continuazione dell’impresa nell’interesse del minore richiesta dall’art. 320, comma 5, c.c., perché questi possa acquistare la qualità di imprenditore, attesa la funzione dell’intera disciplina contenuta nella norma anzidetta, diretta a garantire la conservazione ed un’oculata gestione dei beni costituenti il patrimonio del minore, presuppone che l’azienda cui si riferisce l’impresa da continuare faccia già parte del patrimonio dell’in¬capace, e quindi, ove si tratti di azienda devoluta al minore per successione ereditaria, che l’eredità sia stata accettata dal rappresentante legale con beneficio di inventario; sicché, ove il tribunale autorizzi la continuazione di un’impresa relativa ai beni aziendali che non sono di proprietà del minore perché fanno parte di una succes¬sione rispetto alla quale non è intervenuta l’accettazione beneficiata, il provvedimento autorizzativo, riguardando in sostanza non la mera continuazione di un’impresa preesistente ma l’esercizio di una nuova impresa, è invalido per effetto dell’accennato presupposto essenziale, e quindi, in sede di opposizione alla dichiarazione di fallimento del minore in cui si contesti che quest’ultimo abbia acquistato la qualità di imprenditore, deve essere disapplicata dal giudice la circostanza che il rappresentante legale del minore abbia svolto nel suo nome ed interessi atti di gestione dell’impresa in pendenza di procedura di accettazione dell’eredità, perché il chiamato, o il suo rappre¬sentante legale, può compiere soltanto atti con finalità puramente conservative del patrimonio ereditario previa autorizzazione del giudice tutelare: atti che, quindi, non possono anticipare l’effetto di fare acquistare al minore la qualità di imprenditore, giuridicamente possibile solo quando la fattispecie da cui dipende sia perfezionata.
Cass. civ., 15 settembre 1983, n. 5582 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rappresentanza processuale, il conflitto d’interessi tra il figlio minore ed il genitore che su di lui eser¬cita la potestà, tale da rendere necessaria la nomina di un curatore speciale, si ricollega alla titolarità, in capo al genitore, di una situazione giuridica idonea a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia in contrasto con l’interesse del minore e, pertanto, presuppone che il genitore sia interessato ad un esito della lite diverso da quello che avvantaggi il rappresentato; un conflitto di tale natura, che è rilevante anche quando sia soltanto potenziale, non è configurabile in relazione al genitore che (nella qualità) avendo promosso il giudizio per il risarcimento del danno subito dal figlio resista, in appello, all’impugnazione del terzo ritenuto responsabile, ancorché il giudice di primo grado abbia affermato un concorso di colpa di esso genitore.
Cass. civ., 9 giugno 1983, n. 3977 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare perché il genitore possa agire in giudizio per ottenere il ristoro dei danni subiti dal figlio minore.
Cass. civ., 10 agosto 1982, n. 4491 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di conflitto di interessi fra un minore ed il genitore esercente la potestà, insorto in relazione ad un giu¬dizio pendente, la nomina del curatore speciale del minore compete, a norma dell’art. 320 ultimo comma c. c., unicamente al giudice tutelare, in quanto la norma di cui all’art. 78 ultimo comma c. p. c. ha carattere sussidiario e non è quindi applicabile al conflitto di interessi fra il genitore ed il minore, che è espressamente contemplato dal cit. art. 320; pertanto, la nomina del curatore speciale da parte del presidente dell’ufficio giudiziario dinanzi a cui pende la causa, invece che da parte del giudice tutelare, comporta un vizio del procedimento che determina la nullità della sentenza, la quale può essere dedotta da qualsiasi parte, attenendo alla regolarità del contraddit¬torio sulla quale il giudice deve, a norma dell’art. 182 c. p. c., indagare anche d’ufficio.
Cass. civ., 30 gennaio 1982, n. 599 (Giust. Civ., 1982, I, 2147)
L’azione diretta a fare rientrare nella disponibilità del minore un cespite immobiliare locato a terzi non è soggetta alla preventiva autorizzazione del giudice tutelare.
Cass. civ., 16 dicembre 1981, n. 6660 (Giust. Civ., 1982, I, 626)
Nel giudizio diretto ad ottenere, in caso di rifiuto del consenso da parte del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento, al riconoscimento ad opera dell’altro genitore, una sentenza che tenga luogo del consenso mancante, sono parti necessarie il genitore che si oppone ed il p. m., ma non anche il minore infrasedicenne del cui riconoscimento si tratta e che deve essere solamente sentito.
Nel procedimento previsto dall’art. 250 4° comma c. c., in tema di riconoscimento del figlio minore, per con¬seguire dal tribunale una pronuncia che tenga luogo del mancato consenso al riconoscimento stesso da parte del genitore che abbia già riconosciuto il minore, quest’ultimo non assume la qualità di parte, ma deve essere soltanto sentito per ragioni istruttorie, sempreché ciò sia necessario e possibile, anche in relazione alla sua età; in tale procedimento, pertanto, non insorge l’esigenza della nomina di un curatore speciale del minore.
Cass. civ., 26 ottobre 1981, n. 5591(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il conflitto d’interessi tra padre e figlio minore che legittima la nomina di un curatore speciale sussiste soltanto quando i due soggetti si trovino o possano in seguito trovarsi in posizione di contrasto, nel senso che l’interesse proprio del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, mal si concili con quello del rappresentato; pertan¬to, il conflitto in questione non si configura quando, pur avendo tali soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, questo corrisponda al vantaggio comune di entrambi, per cui i due interessi, secondo l’apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato, siano tra loro concorrenti e compatibili; (nella specie: in cui il genitore resisteva in giudizio nell’interesse proprio di erede e nell’interesse dei figli minori, legatari, il supremo collegio, enunciando il surriportato principio, ha ritenuto correttamente escluso dai giudici del merito il conflitto di interessi tra il primo ed i secondi).
Cass. civ., 19 gennaio 1981, n. 439 (Dir. Famiglia, 1981, 471)
Competente per la nomina del curatore speciale per l’accettazione della donazione fatta da uno o entrambi i genitori ai figli minori è il giudice tutelare (nella specie: la donazione era stata fatta da entrambi i genitori).
Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 1981, n. 294 (Foro It., 1981, I, 1325)
Il ricorso per cassazione, proposto dal genitore in un giudizio relativo al risarcimento del danno subìto dal patri¬monio del minore, non costituisce atto eccedente l’ordinaria amministrazione.
Cass. civ., 15 dicembre 1980, n. 6503 (Giur. It., 1981, I,1, 1453)
L’azione di risarcimento del danno subìto da un minore rientra negli atti di ordinaria amministrazione che non richiedono l’autorizzazione del giudice tutelare.