DICHIARAZIONE GIUDIZIALE DI PATERNITÀ E MATERNITÀ

Di Gianfranco Dosi
I Il quadro giuridico
Dei 14 titoli di cui si compone il primo libro del codice civile, l’itero titolo VII è dedicato alla filiazio¬ne ed è stato in gran parte modificato con la legge di riforma della filiazione (Legge 10 dicembre 2012 n. 219 e Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154). Il capo V del titolo sulla filiazione si occupa dell’azione dichiarativa della paternità e della maternità, cioè dei casi in cui per iniziativa dell’interessato o, se minore di età, del genitore che esercita su di lui la responsabilità genitoriale, è promossa la procedura specifica prevista per dichiarare lo status genitoriale.
Si tratta di una tipica azione di stato, di competenza del tribunale ordinario (art. 9, secondo comma c.p.c.) anche nel caso in cui l’azione sia promossa nell’interesse di un minore di età (art. 38 disp. 2 att. c.c.). Si applica il rito a cognizione ordinaria. Trattandosi di procedura in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero (art. 72 c.p.c. “Il pubblico ministero deve intervenire, a pena di nullità rilevabile d’ufficio… nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone…”) il tribunale giudica in composizione collegiale (art. 50-bis c.p.c. “Il tribunale giudica in composizione collegia¬le… nelle cause nelle quali è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero…”).
Già prima delle riforme introdotte nel 2012 e nel 2013 la materia era stata oggetto di una radicale trasformazione ad opera di Corte costituzionale 10 febbraio 2006, n. 50 che aveva dichiarato illegittimo l’art. 274 c.c. dove si prevedeva una fase preliminare di ammissibilità dell’azione che – concludendosi con un provvedimento appellabile e poi ricorribile per cassazione – costituiva una delle principali ragioni della estrema dilatazione dei tempi della causa. Nella sentenza si parla di manifesta irragionevolezza di una normativa “che si risolve in un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost., e ciò, per giunta, in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica”.
Grazie a questo importante intervento della Corte costituzionale e grazie anche ad alcune significa¬tive decisioni della giurisprudenza di cui si parlerà, il procedimento si presenta oggi più in linea con il principio costituzionale di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.). Inoltre la plausibilità scientifica dei test genetici ha reso del tutto inutili in questi procedimenti altre prove, accelerando ulteriormente i tempi delle cause che, se non fosse per i lunghi tempi della giustizia, potrebbero durare pochissimo tempo.
Le norme di riferimento del codice civile, dopo l’intervento della Corte costituzionale del 2006 e dopo le riforme del 2012 e 2013, sono pochissime.
La morma principale è l’art. 269 che indica il contenuto dell’azione.
Art. 269 (Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità)
La paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso.
La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo.
La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre.
La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità.
I principi che si ricavano da questa norma sono sostanzialmente due.
Il primo è che l’azione con la quale si chiede l’accertamento in sede giudiziale della genitorialità è ammessa in tutti i casi in cui il riconoscimento di un figlio è previsto come possibile dalla legge. Perciò anche nell’ipotesi in cui il genitore che intenda effettuarlo era al momento del concepimento unito in matrimonio con altra persona (art. 250 c.c.) ed anche nell’ipotesi in cui il figlio sia nato da relazione incestuosa (art. 251 c.c. che prevede comunque in questo caso una previa autorizzazio¬ne giudiziaria), ma non quando il genitore ha meno di sedici anni (art. 250, ultimo comma c.c.) o nel caso in cui il figlio da riconoscere abbia già uno status di figlio (nato nel matrimonio) o di figlio nato fuori dal matrimonio riconosciuto da entrambi i genitori) (art. 253 c.c.).
l secondo principio espresso nell’art. 269 c.c. – in conformità a quanto prevede l’ultimo comma dell’art. 30 della Costituzione (“La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”) – è che la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo ma che la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità.
II La legittimazione attiva
L’individuazione – operata dagli articoli 270 e 273 del codice1
1 Art. 270 (Legittimazione attiva e termine)
L’azione per ottenere che sia dichiarata giudizialmente la paternità o la maternità è imprescrittibile riguardo al figlio.
Se il figlio muore prima di avere iniziato l’azione, questa può essere promossa dai discendenti, entro due anni dalla morte.
L’azione promossa dal figlio, se egli muore, può essere proseguita dai discendenti legittimi, legittimati o naturali riconosciuti.
Si applica l’articolo 245.
Art. 273 (Azione nell’interesse del minore o dell’interdetto)
L’azione per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la paternità o la maternità può essere promossa, nell’in¬teresse del minore, dal genitore che esercita la responsabilità genitoriale prevista dall’articolo 316 o dal tutore. Il tutore però deve chiedere l’autorizzazione del giudice, il quale può anche nominare un curatore speciale.
Occorre il consenso del figlio per promuovere o per proseguire l’azione se egli ha compiuto l’età di quattordici anni.
Per l’interdetto l’azione può essere promossa dal tutore previa autorizzazione del giudice. – di chi è legittimato ad iniziare la cau¬sa di accertamento giudiziale della paternità o della paternità è tassativa. Nessun soggetto diverso da quelli indicati ha legittimazione attiva. Non ha, in particolare legittimazione attiva, il Pubblico ministero che nel sistema della filiazione acquisisce un potere (non di azione) ma di sollecitazione della nomina di un curatore speciale finalizzata all’eliminazione di status difformi dal vero (discono¬scimento e impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità) o alla prosecuzione dell’azione di riconoscimento in caso di morte del figlio e di incapacità dei discendenti.
a) Il figlio
È legittimato in primo luogo il figlio. L’azione è imprescrittibile e può quindi essere promossa dal figlio in ogni tempo.
Più volte è stata affermata in giurisprudenza la manifesta infondatezza della questione di legitti¬mità costituzionale dell’art. 270 c.c. nella parte in cui prevede l’imprescrittibilità dell’azione per il riconoscimento di paternità proposta dal figlio e nella parte perciò in cui sacrificherebbe il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo (Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960; Cass. civ. Sez. I, 29 novembre 2016, n. 24292).
Si afferma in queste decisioni che l’imprescrittibilità, nei riguardi del figlio, della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, è espressione del diritto della persona, costituzionalmente rilevante, alla propria identità, e quindi al conseguimento di uno status filiale corrispondente alla verità biologica.
b) I discendenti del figlio morto
In caso di morte del figlio l’azione può essere promossa dai suoi discendenti (figli ma anche i nipoti in quanto la legge non parla di discendenti prossimi come fa per esempio l’art. 433 c.c. che indica gli obbligati agli alimenti), anche soltanto da uno, entro il termine di decadenza di due anni dalla morte, mentre se l’azione era già stata iniziata i suoi discendenti possono sempre proseguirla.
Dal richiamo che nell’art. 270 viene fatto all’art. 245 si ricava che se i discendenti si trovano in sta¬to di incapacità, può essere nominato dal presidente del tribunale ordinario (art. 80 c.p.c. e art. 38 disp. att.c.c.) un curatore speciale (su iniziativa del genitore o del tutore o del pubblico ministero) affinché venga iniziata o proseguita l’azione.
c) Il genitore esercente la responsabilità genitoriale (o il tutore) in sostituzione del fi¬glio minore
Come previsto nell’art. 273 c.c. l’azione per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la paternità o la maternità può essere promossa, nell’interesse del minore, dal genitore che esercita la respon¬sabilità genitoriale.
Si tratta di una ipotesi di sostituzione processuale (ammessa dall’art. 101 c.p.c. 2
2 Art. 81 c.p.c. (Sostituzione processuale)
Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui. ) in quanto il genitore esercente la responsabilità genitoriale agisce in nome proprio per far valere un diritto del figlio (Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2005, n. 10131).
In passato Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786 aveva ritenuto manifestamente in¬fondata la questione di legittimità costituzionale della norma con riferimento agli art. 2 e 24 cost. nella parte in cui attribuisce al genitore la legittimazione ad agire per la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità senza prevedere la necessità della nomina di un curatore speciale per il minore e, in caso di inattività del sostituto processuale , la sospensione dei termini fino al raggiun¬gimento della maggiore età del sostituito; in quanto “l’interesse del minore risulta adeguatamente protetto, nel caso di promovimento dell’azione da parte del genitore attraverso la verifica della sua rispondenza a quell’interesse demandata al giudice (a seguito della sentenza della Corte cost. n. 341 del 1990), nel caso contrario con la possibilità per il figlio, una volta divenuto maggiorenne, di promuovere l’azione, per lui imprescrittibile ai sensi dell’art. 270 c.c”.
Se il figlio minore ha un tutore (nominato se il genitore è morto o non può esercitare la responsa¬bilità genitoriale, ovvero ai sensi dell’art. 10, comma 3, della legge 4 maggio 1983, n. 184) sarà il tutore che può iniziare l’azione, ma ha l’onere di chiedere preventivamente l’autorizzazione del presidente del tribunale ordinario (art. 80 c.p.c. e art. 38 disp. att. c.c.), il quale può anche no¬minare un curatore speciale ove ritenga che possa esserci un conflitto di interessi tra il figlio e il tutore stesso.
In passato Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341 aveva ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 273 nella parte in cui non estende al genitore la necessità dell’autorizzazio¬ne del giudice, prevista per il tutore, non potendo nei confronti del genitore la valutazione dell’in¬teresse del minore da parte del giudice essere prospettata nella forma di un atto (autorizzatorio) integrativo della legittimazione ad agire.
L’azione ha poi sempre necessità del consenso del minore quattordicenne, sia nel caso di azione che nel caso di prosecuzione (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 781 ha precisato che il raggiungimento, da parte del minore, dell’età ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio, rilevabile d’ufficio, determina il venir meno della necessità del consenso del pri¬mo genitore al riconoscimento da parte dell’altro e, in difetto, dell’intervento del giudice).
d) Il tutore in caso di interdizione dell’interessato
Anche nel caso in cui l’interessato maggiorenne sia interdetto, legittimato all’azione è il tutore sempre previa autorizzazione del tribunale.
Anche in questo caso il tutore è un sostituto processuale dell’incapace.
III La legittimazione passiva
Ai sensi del primo comma dell’art. art. 276 c.c. “la domanda per la dichiarazione di paternità o di maternità deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in sua mancanza, nei confronti dei suoi eredi. In loro mancanza, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso”.
Il testo della norma è stato riformato dalla legge 10 dicembre 2012 n. 219 e dal Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
In precedenza, sulla base del previgente testo della disposizione (“La domanda per la dichiarazione di paternità o di maternità naturale deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in mancanza di lui, nei confronti dei suoi eredi”) era stato dibattuto in giurisprudenza il problema se fosse ammissibile, in caso di mancanza di eredi, promuovere ugualmente l’azione richiedendo la nomina di un curatore speciale quale contraddittore legittimato passivo. La Corte costituzionale aveva più volte escluso l’ammissibilità della questione affermando che si trattava di un problema di spettanza del legislatore (Corte cost. 29 ottobre 2009, n. 278; Corte cost. 20 marzo 2009, n. 80; Corte cost. 20 novembre 2008, n. 379; Corte cost. 21 dicembre 2007, n. 450; Corte cost. 20 luglio 2007, n. 319).
La questione, come si è visto, è stata appunto risolta dal legislatore con il nuovo testo della di¬sposizione che, in caso di mancanza di eredi, consente ora di promuovere il giudizio nei confronti di un curatore nominato dal presidente del tribunale. Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2014, n. 19790 ha ritenuto applicabile il testo riformato dell’art. 276 applicabile anche ai giudizi pendenti all’entrata in vigore del Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
L’altro problema, pure molto dibattuto in passato, è quello di chi siano gli “eredi” legittimati pas¬sivamente. A questo problema ha dato una soluzione Cass. civ. Sez. Unite, 3 novembre 2005, n. 21287 ritenendo che la domanda per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, in caso di morte del presunto genitore, va proposta solo nei confronti dei suoi eredi diretti e immediati, quali legittimati passivi, mentre gli eredi degli eredi del presunto genitore, o altri soggetti, comunque portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, possono solo intervenire in giudizio. Il principio è stato poi ribadito successivamente (Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2014, n. 10783 dove si è fatto notare che, in ogni caso, la possibilità di promuovere oggi il giudizio nei confronti di un curatore speciale rende effettivamente la questione meno drammatica rispetto al passato quando la norma non contemplava questa possibilità).
Il capoverso dell’art. 276 prevede che “Alla domanda può contraddire chiunque vi abbia inte¬resse”. Secondo Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2007, n. 8355 questa disposizione configura una forma di intervento principale, ai sensi dell’art. 105, primo comma, c.p.c., e non un intervento meramente adesivo.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19603 la disposizione disciplina la posizione di soggetti, portatori di interessi, patrimoniali e non patrimoniali, contrari all’accertamento della filiazione, quali potrebbero essere il coniuge ed i figli (legittimi) del presunto genitore, ai quali perciò è garantita la legittimazione a contraddire alla domanda intervenendo nel processo, senza obbligo di essere citati in giudizio come contraddittori necessari.
IV Aspetti processuali
Come si è detto all’inizio, il giudizio di accertamento della paternità o della maternità costituisce una causa di stato soggetta al rito a cognizione ordinaria anche nel caso in cui sia promossa dal genitore nell’interesse del figlio minore ed è di competenza del tribunale ordinario (art. 38 disp. att. c.c.), in composizione collegiale essendo obbligatorio l’intervento del Pubblico ministero (art. 50 bis c.p.c).
La causa deve, quindi, essere introdotta, con citazione (da notificare anche al Pubblico ministe¬ro), secondo le regole ordinarie, nel luogo di residenza del convenuto (Cass. civ. Sez. Unite, 7 febbraio 1992, n. 1373; Cass. civ. Sez. I, 8 novembre 1997, n. 11021; Trib. Milano, 26 giugno 2013).
Ove la causa venisse introdotta con ricorso, e trattata con il rito camerale, la parte che fa rilevare la nullità della sentenza per tale motivo ha l’onere di dedurre lo specifico pregiudizio al diritto di difesa che le sarebbe derivato dal rito pur erroneamente seguìto (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 783).
Poiché l’intervento del Pubblico ministero è obbligatorio, la mancata trasmissione degli atti a quest’ultimo, anche in grado di appello, in modo che egli sia informato e messo in condizione di adottare le proprie determinazioni al riguardo, comporta la nullità della sentenza (Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2017, n. 14896; Cass. civ. Sez. VI – 1, 4 settembre 2015, n. 17664; Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 1997, n. 807). Tuttavia l’obbligatorietà dell’intervento del Pubbli¬co ministero non richiede la partecipazione del rappresentante di quell’ufficio alle varie udienze, essendo assicurata l’osservanza del precetto normativo ove egli sia stato ufficialmente informato dell’esistenza del procedimento, così da avere la possibilità di intervenire e di esercitare i poteri attribuitigli dalla legge, restando irrilevante che in concreto egli non partecipi alle udienze e non formuli conclusioni. Il principio è stato ribadito più volte in connessione con molte ipotesi di giudizi in cui è previsto come obbligatorio l’intervento del pubblico ministero (Cass. civ. Sez. I, 14 feb¬braio 2018, n. 3638; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2008, n. 3708; Cass. civ. Sez. Unite, 7 ottobre 2010, n. 20773; Trib. Potenza, 16 novembre 2016 in un giudizio di accertamento della paternità).
La sentenza dichiarativa della paternità (la cui natura giuridica sarà approfondita più oltre) è ap¬pellabile e la decisione di appello è ricorribile per cassazione. Avendo il Pubblico ministero solo potere di intervento e non di azione è evidente che egli non può impugnare la sentenza dichia¬rativa della paternità. Infatti secondo i primi due commi dell’art. 72 c.p.c. il Pubblico ministero, che interviene nelle cause nelle quali ha potere di azione, ha gli stessi poteri che competono alle parti e li esercita nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime (potendo anche impugnare la sentenza), mentre negli altri casi di intervento previsti nell’art. 70 (tra cui quello previsto nelle azioni di stato), può soltanto produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti.
V La valutazione dell’interesse del minore
Nel 1990 la Corte costituzionale dichiarò illegittimo l’art. 274 c.c. (che all’epoca prevedeva la fase di ammissibilità dell’azione giudiziaria della paternità) nella parte in cui non prevedeva da parte del tribunale (allora per i minorenni) una valutazione di conformità all’interesse del minore dell’a¬zione promossa dal genitore nell’interesse del figlio (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341). Nella sentenza si affermava che il tribunale per i minorenni ha la funzione istituzionale di valutazione dell’interesse del minore anche nell’ipotesi in certo senso inversa di conflitto di cui al comma quarto dell’art. 250 cod. civ. allorché cioè il genitore che ha già riconosciuto il figlio si opponga al riconoscimento dell’altro giudicandolo non conveniente all’interesse del minore e si concludeva che “è pertanto costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 3 Cost. – l’art. 274, comma primo, del codice civile stesso, nella parte in cui, ove si tratti di minore, non prevede che l’azione di accertamento della paternità promossa dal genitore esercente la potestà sia ammessa solo ove ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore”.
L’art. 274 c.c. prevedeva tra l’altro che “il tribunale, anche prima di ammettere l’azione, può, se trattasi di minore… nominare un curatore speciale che lo rappresenti in giudizio” con ciò lasciando intendere che la decisione del genitore di promuovere l’azione non necessariamente comportava la coincidenza tra tale decisione e l’interesse del minore, potendo il tribunale ritenere sussistente un conflitto di interessi e, appunto, nominare un curatore speciale al minore. Proprio in ragione di tale valutazione dell’interesse del minore nella fase di ammissibilità, attribuita al tribunale per i minorenni, la giurisprudenza ritenne anche non necessaria nella causa la nomina al minore di un curatore speciale (Cass. Civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786).
Successivamente la Corte costituzionale dichiarò illegittima la fase preliminare di ammissibilità dell’azione (Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50) nella quale doveva essere valutato l’interesse del minore ma la questione della valutazione di tale interesse non restò ridimensionata. Infatti In questa sentenza la Corte precisava che “in presenza di una incostituzionalità che coinvolge il procedimento nella sua struttura e funzione, la circostanza che lo stesso abbia anche lo scopo di accertare l’interesse del minore non fa venire meno l’incostituzionalità stessa, né giustifica la per¬manenza nell’ordinamento del giudizio di ammissibilità con questo solo scopo. L’esigenza, infatti, che l’azione di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale risponda all’interesse del minore non viene certamente meno con la soppressione del giudizio di cui all’art. 274 del codice civile, ma potrà essere eventualmente delibata prima dell’accertamento della fondatezza dell’azione di merito”.
Con la riforma poi della filiazione (Legge 10 dicembre 2012 n. 219 e Decreto legislativo 28 dicem¬bre 2013, n. 154) tutte le azioni relative allo status filiationis, ivi compresa quella di accertamento giudiziale della paternità e della maternità, furono attribuite anche in caso di minore età dell’in¬teressato, alla competenza del tribunale ordinario e sembrò, quindi, oggettivamente appannato il riferimento all’interesse del minore (la cui valutazione era un compito precipuo del tribunale per i minorenni), anche in considerazione della sostanziale centralità che il nuovo sistema attribuiva al favor veritatis al quale appariva estranea ogni considerazione sull’interesse del minore.
Tuttavia la giurisprudenza nel suo complesso ha continuato a riferirsi alla valutazione dell’interesse del minore nelle azioni di status filiationis (relative non solo al disconoscimento e all’impugnazione di riconoscimento ma anche alle cause di accertamento giudiziale della paternità, sia pure riferi¬bili ratione temporis a vicende disciplinate dalla normativa precedente all’abolizione della fase di ammissibilità: per esempio Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3935 (L’interesse umano e af¬fettivo del minore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità non va più valutato dal Tri¬bunale qualora il minore abbia raggiunto i sedici anni, essendo in tale caso la valutazione di detto interesse rimessa allo stesso minore, attraverso la diretta manifestazione di consenso all’azione); Cass. civ. Sez. I, 19 aprile 2010, n. 9300 (La contrarietà all’interesse del minore può sussistere solo in caso di concreto accertamento di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale).
Con riguardo alle azioni che eliminano lo status legale difforme da quello biologico si è così affer¬mato che “anche il quadro Europeo ed internazionale di tutela dei diritti dei minori evidenzia la centralità della valutazione dell’interesse del minore nell’adozione delle scelte che lo riguardano. Tale principio ha trovato la sua solenne affermazione dapprima nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con Legge 27 maggio 1991, n. 176, in forza della quale “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione premi¬nente” (art. 3, paragrafo 1). Nella stessa direzione si pongono la Convenzione Europea sull’eser¬cizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con L. 20 marzo 2003, n. 77, e le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate il 17 novembre 2010, nella 1098ª riunione dei delegati dei ministri. Infine, l’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, sancisce il principio per il quale “in tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente” (Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 che, con sentenza interpretativa di rigetto, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale delle norme sull’impugnazione del riconosci¬mento per difetto di veridicità nella parte in cui non consentirebbero la valutazione dell’interesse del minore alla caducazione dello status non corrispondete alla verità biologica.
Le stesse argomentazioni sono sostanzialmente riprese in Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2017, n. 8617; Cass. civ. Sez. I, 15 febbraio 2017, n. 4020; Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5653, tutte anch’esse riferibili a casi di disconoscimento in cui si afferma che pur dovendosi rico¬noscere un accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della pro¬creazione, va escluso che quello dell’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamen¬to, concludendosi che in tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore è resa trasparente dall’evoluzione ordinamentale intervenuta e si proietta anche sull’inter¬pretazione delle disposizioni da applicare.
Come si comprende queste decisioni pongono il problema della valutazione dell’interesse del mi¬nore nelle azioni con cui si elimina uno status difforme dal vero e non nelle cause con le quali si accerta e si dichiara uno status.
Ciononostante si deve concludere che nell’azione giudiziale della paternità o della maternità natu¬rale non può non farsi applicazione dei principi generali desumibili anche dalle richiamate norme convenzionali e sovranazionali che prevedono la necessaria valutazione dell’interesse del minore in tutti i giudizi che lo coinvolgono.
A tale proposito non può che richiamarsi quanto affermato in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2012, n. 15158; Cass. civ. Sez. I, 19 aprile 2010, n. 9300; Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15101; Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 2002, n. 11041) secondo cui può ravvisarsi la contrarietà all’interesse del minore solo nell’ipotesi di concreto accertamento di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla responsabilità genitoriale, ovvero di una prova della sussistenza di gravi rischi per l’equilibrio affettivo e psicolo¬gico del minore e per la sua collocazione sociale; rischi che devono emergere da fatti obiettivi, desunti dalla pregressa condotta di vita del preteso padre. Di talché, in assenza di essi, l’interesse del minore va, di norma, considerato sussistente, a prescindere dai rapporti di affetto che possano concretamente instaurarsi con il presunto genitore e dalla disponibilità di quest’ultimo ad instau¬rarli, avendo riguardo al miglioramento obiettivo della sua situazione in relazione agli obblighi giuridici che ne derivano per il presunto padre.
VI La prova della paternità e della maternità
a) La consulenza tecnica genetica
Le prove genetiche sono state negli ultimi decenni largamente utilizzate nelle azioni di accerta¬mento e disconoscimento della paternità. La loro affidabilità scientifica ha cominciato ad essere recepita in giurisprudenza fin dagli anni ottanta anche se alcune decisioni della giurisprudenza di legittimità sono state – soprattutto in passato – inclini ad attribuire alle prove genetiche non un protagonismo decisionale in sé, ma soprattutto un valore confermativo delle prove raccolte in modo tradizionale3
3 Per un approfondimento ampio si rinvia alla voce PROVE GENETICHE . Fondamentale è stato il contributo della Corte costituzionale che, soprattutto con l’importante decisione Corte cost. 14 maggio 1999, n. 170 richiamava autorevolmente le “avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e l’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini”.
La giurisprudenza ha preso così sempre più consapevolezza dell’affidabilità delle prove genetiche che possono “fornire elementi di valutazione non solo per escludere, ma anche per affermare il rapporto biologico di paternità, anche quando le risultanze delle indagini consentono una valuta¬zione meramente probabilistica, attesa la natura probabilistica di tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche” (Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13665).
Il giudizio di massima affidabilità viene ribadito costantemente anche dalla giurisprudenza di me¬rito (Trib. Roma Sez. I, 21 febbraio 2014) ed è stato affermato anche in sede penale con l’at¬tribuzione ai riscontri genetici del valore di prova e non solamente indiziario (Cass. pen. Sez. II, 5 febbraio 2013, n. 8434).
Si è così giunti gradualmente ad un cambio di prospettiva consistente nel considerare le prove scientifiche decisamente come prevalenti sulle altre.
La nuova impostazione si deve a Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266 che – richiamandosi ai “progressi della scienza biomedica che, ormai, attraverso le prove genetiche od ematologiche, consentono di accertare la esistenza o la non esistenza del rapporto di filiazione” – dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 235, comma 2, codice civile, nella parte in cui subordinava l’accesso alle prove ematologiche alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie. Non è più necessaria, quindi, la prova dell’adulterio (secondo quanto prescriveva la norma del codice civile) per richiedere l’espletamento della CTU ematologica e genetica.
Questo lento cammino verso la piena fiducia probatoria delle prove scientifiche nell’accertamento e nel disconoscimento della paternità ha fatto emergere anche più chiaramente in giurisprudenza la consapevolezza circa la prevalenza, nel sistema della filiazione, del favor veritatis. Si può cer¬tamente ritenere che l’orientamento sulla piena fiducia probatoria delle prove scientifiche non sia altro che la conseguenza processuale della raggiunta consapevolezza sulla prevalenza del favor veritatis (Corte cost. 1 aprile 1982, n. 64 dove già si riconosceva espressamente che “la riforma del diritto di famiglia ha indubbiamente spostato l’accento dal favor legitimitatis al favor veritatis”; Corte cost. 6 maggio 1985, n. 134 dove si precisava che “negli ultimi decenni la coscienza collettiva si è ulteriormente evoluta nel senso di accordare maggiore rilevanza al rapporto effettivo di procreazione rispetto alla qualificazione giuridica della filiazione”; Corte cost. 22 aprile 1997, n. 112 dove si afferma, in riferimento all’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, che l’autenticità (cioè la verità) del rapporto di filiazione costituisce l’essenza stessa dell’interesse del minore; Corte cost. 14 maggio 1999, n. 170 che, in relazione al termine dell’azione di disconoscimento ancorato alla conoscenza dei presupposti indicati nel codice civile, ha affermato che il legislatore della riforma del diritto di famiglia ha superato, attraverso la equiparazione della filiazione naturale a quella legittima, l’impostazione tradizionale che attribuiva preminenza al favor legitimitatis).
Proprio riallacciandosi al significato di queste pronunce sulla prevalenza del favor veritatis e sulla piena affidabilità scientifica degli esami genetici, la riforma della filiazione (legge 10 dicembre 2012, n. 219 e decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) ha eliminato nelle azioni di accertamento e disconoscimento della paternità ogni impedimento all’accesso immediato alle prove ematologiche e genetiche e ogni tipizzazione delle ipotesi per intraprendere l’azione. Il nuovo art. 243-bis del codice civile (disconoscimento di paternità) afferma al secondo comma che “chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre”. Il secon¬do comma dell’art. 269 (“dichiarazione giudiziale di paternità e maternità”) conferma sul versante della filiazione fuori dal matrimonio che “la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo”. Affermazione legislativa – che la legge 219/2012 non ha modificato e che quindi già era molto chiara anche prima della riforma – che sconfessa quell’orientamento di una certa giurisprudenza, citato all’inizio, che è incline ad attribuire alle prove genetiche un valore non tanto in sé quanto confermativo delle prove raccolte in modo tradizionale. Orientamento sintomatico di una cultura scettica verso le prove genetiche che altro non sono se non prove come tutte le altre.
Nella direzione, quindi, della piena utilizzabilità della consulenza genetica, si afferma oggi in Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23290 che la consulenza in questione è uno strumento istruttorio officioso rivolto verso l’unica indagine decisiva in ordine all’accertamento della verità del rapporto di filiazione e, pertanto, la sua richiesta, da un lato, non può essere ritenuta esplorativa, intendendosi come tale l’istanza rivolta a supplire le deficienze allegative ed istruttorie di parte, così da aggirare il regime dell’onere della prova sul piano sostanziale o i tempi di formulazione delle richieste istruttorie sul piano processuale. La natura decisiva della consulenza genetica è espressa anche in Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2017, n. 15201.
Fondamentale resta l’impostazione richiamata da Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 2016, n. 3479 e da Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 783 (confermativa della sentenza di merito che aveva accertato la paternità alla stregua dei risultati univoci della consulenza tecnica d’ufficio, senza am¬mettere, in quanto superflua, la prova per testi richiesta dalle altre parti) secondo le quali in sede di dichiarazione giudiziale di paternità, l’ammissione degli accertamenti genetici od immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, in forza del principio della libertà della prova, alla stregua del quale da un lato tutti i mezzi di prova hanno pari valore, dall’altro la loro scelta e valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito.
In Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 2017, n. 13880 si precisa che nei giudizi promossi per la dichia¬razione giudiziale di paternità naturale l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica cosiddetta percepiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti ma di accertare i fatti stessi. È necessario e sufficiente, in tal caso, che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche, perché la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova. Analoghi principi sono ribaditi spesso anche nella giurisprudenza di merito. Per esempio in Trib. Perugia, 11 gennaio 2016 si afferma che le prove genetiche sono prove in senso proprio, giacché l’attuale livello della ricerca ed esperienza scientifica consente di esprimere, grazie ad esse, sufficienti garanzie nel ritenere decisivo il loro contributo nell’attribuzione della paternità o maternità di un soggetto, conseguendo risultati dotati di un alto grado di probabilità prossimo alla certezza. In Trib. Messina Sez. I, 17 maggio 2017 si afferma che in tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è su¬bordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269, comma 2, c.c., non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo “status”.
La maternità – come prescrive il terzo comma dell’art. 269 c.c. – è dimostrata provando la identi¬tà di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre.
Ricorda Trib. Messina Sez. I, 20 marzo 2017 che si ritiene comunemente che tale prova possa essere fornita per presunzioni, essendo in pratica quasi impossibile fornire la diretta dimostrazione di un fatto intimo e riservato come il concepimento ad opera del preteso padre o della pretesa madre.
b) Il rifiuto di sottoporsi alla consulenza genetica
Essendo la prova genetica la prova principale per l’accertamento o il disconoscimento della filia¬zione biologica (ed anzi l’unica) in ragione dei risultati decisivi a cui può portare, non può destare meraviglia il comportamento di chi – interessato a contrastare l’azione – si rifiuta di sottoporvisi.
Il problema del rifiuto di sottoporsi alla prova genetica è stato uno dei primi a porsi in giurispru¬denza come dimostrano le numerose sentenze fin dagli anni Ottanta.
Il test genetico è un trattamento che nessuno può essere obbligato a subire, salvo quanto si dirà in ambito penale dove a seguito della legge 30 giugno 2009, n. 85 nel codice di procedura penale sono state inserite disposizioni ad hoc per l’adempimento coattivo peritale del test genetico e per il prelievo coattivo del DNA. In sede civile il rifiuto pertanto è pienamente legittimo.
Un primo, molto vasto, fronte di decisioni riguarda il rifiuto di sottoporsi all’esame genetico nelle cause di accertamento della paternità.
In passato Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 1985, n. 2739; Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 1985, n. 6015; Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2007, n. 16752 avevano già riconosciuto la facoltà della parte di sottrarsi ai prelievi necessari ma avevano ritenuto che il rifiuto può sempre essere valutato dal giudice del merito quale elemento di convincimento, ai sensi degli articoli 1164
4 Art. 116. (Valutazione delle prove)
Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti.
Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo. o 1185
5 Art. 118. (Ordine d’ispezione di persone e di cose)
Il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti della causa, purché ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo, e senza costringerli a violare uno dei segreti previsti negli articoli 351 e 352 del Codice di procedura penale.
Se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza giusto motivo, il giudice può da questo rifiuto desumere argo¬menti di prova a norma dell’articolo 116 secondo comma.
Se rifiuta il terzo, il giudice lo condanna a una pena pecuniaria da euro 250 ad euro 1.500. , del codice di procedura civile i quali in sostanza prevedono che il giudice può desumere argomenti di prova dal contegno processuale delle parti.
Espressamente ed in senso analogo, sul presupposto che la dimostrazione della paternità naturale può essere fornita, a mente dell’art. 269 c.c. con ogni mezzo, Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 1998, n. 2944; Cass. civ. Sez. I, 25 febbraio 2002, n. 2749; Cass. civ. Sez. I, 23 aprile 2010, n. 9727 affermano che il giudice di merito può legittimamente fondare il proprio convincimento in ordine alla effettiva esistenza di un rapporto di filiazione anche su risultanze probatorie dotate di valore puramente indiziario e, in particolare, sul pretestuoso ed immotivato rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche.
Addirittura Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2006, n. 6694 ritiene che il giudice possa persino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre. Analogamente ha deciso Cass. civ. Sez. I, 9 aprile 2009, n. 8733 secondo cui il comportamento processuale della parte può costituire anche unica e sufficiente fonte di prova e di convincimento del giudice e non solo elemento di valutazione delle prove già acquisite al processo.
Più di recente i principi sono stati ribaditi da Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7958 dove si afferma che la prova della fondatezza della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità fuori dal matrimonio, non sussistendo un ordine gerarchico, può trarsi anche dal comportamento delle parti, e in particolare dal rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi alle prove genetiche, da valutarsi anche tenuto conto del contesto sociale e, globalmente, di tutte le circostanze del caso; da Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 novembre 2017, n. 26914 Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2017, n. 18626 e Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25675; Trib. Padova Sez. I, 6 marzo 2017; App. Messina Sez. I, 19 gennaio 2016 dove si legge in sostanza che nell’ambito del giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici può essere liberamente valutato dal giudice, secondo quanto disposto dall’art. 116, comma 2, c.p.c., anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra le parti, non derivando da ciò né una restrizione della liberà personale del preteso padre, che conserva piena facoltà di determinazione in ordine all’assoggettamento o meno ai prelievi, né una viola¬zione del diritto alla riservatezza, atteso che l’uso dei dati è rivolto solo a fini di giustizia, mentre il sanitario, chiamato a compiere l’accertamento, è tenuto al segreto professionale ed al rispetto della disciplina in materia di protezione dei dati personali; da Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23296 secondo cui l’accoglimento della domanda di dichiarazione della paternità può fondarsi, in fatto, anche soltanto sul rifiuto del presunto padre di sottoporsi alle indagini ematiche volte ad accertare le sue caratteristiche genetiche e la loro relazione con quelle del presunto fi¬glio; da Cass. civ. Sez. I, 1 dicembre 2015, n. 24444 in base alla quale il rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame del dna ai fini dell’accertamento della paternità non può essere qualificato come una presunzione desunta da una circostanza di fatto avente valore presuntivo, ma come uno elemento fattuale incidente sulla decisione finale, al pari di altre circostanze.
È stata ritenuta ammissibile da Trib. Milano 31 maggio 2016 l’azione cautelare, promossa dalla madre del concepito, per accedere a materiale biologico del convivente defunto, al fine di conser¬vare elementi di prova da spendere nel futuro giudizio di accertamento della paternità ex art. 269 cod. civ. L’azione può in particolare essere promossa dove, come nel caso di specie, il corpo del presunto padre non possa essere oggetto di esumazione, attesa la intervenuta cremazione.
c) La consulenza genetica sul defunto
Allorché il genitore legale o il preteso genitore naturale sia deceduto l’espletamento della prova genetica richiede l’esumazione della salma in modo da operare il prelievo del materiale necessario alla consulenza genetica (a meno che non siano reperibili campioni genetici già estratti in vita sul defunto). Quello della prova genetica sul defunto è un problema ancora poco esplorato.
Il tema in dottrina è stato trattato da molti, osservandosi che nell’ordinamento italiano fa difetto una norma legislativa al riguardo.
Si ritiene in giurisprudenza (e nella prassi assolutamente corrente) che un’interpretazione della normativa sulla filiazione impone di riconoscere che in caso di morte dell’interessato il prelievo del DNA sul defunto sia pienamente ammissibile (Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 1983, n. 2736 che non aveva ammesso la prova su cadavere, sul presupposto però che l’incertezza del suo esito costituisse motivo per escludere un esame che, nelle intenzioni dell’istante, era volto a contrastare un abbondante materiale istruttorio che già comprovava la sussistenza del rapporto di filiazione).
L’affermazione sul fatto che l’evoluzione degli strumenti di indagine sul DNA consente di effettuare accertamenti anche sul cadavere del presunto padre è stata fatta in una vicenda trattata da Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 1997, n. 807 secondo cui l›evoluzione degli strumenti di indagine sul DNA consente pacificamente di effettuare accertamenti anche sul cadavere del presunto padre.
Afferma l’ammissibilità della prova genetica sul defunto nelle azioni di stato Cass. civ. Sez. I, 16 aprile 2008, n. 10007 in cui si sostiene il principio secondo il quale il provvedimento che disponga, o meno, la consulenza tecnica, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, e va contemperato con quello secondo il quale il giudice stesso deve sempre motivare adeguatamente la decisione adottata, non potendo detto giudice rifiutare sic et simpliciter o con argomentazioni di stile e prive di reale consistenza il ricorso ad essa; ne discende che, nel giudizio per l›accertamento della paternità naturale ex art. 269 cod. civ., la mancata ammissione di consulenza tecnica genetica, che non tenga conto dei progressi della scienza biomedica e argomenti sic et simpliciter sull›avvenuto decesso del presunto padre già da moltissimi anni e sulla dispendiosità e difficoltà del relativo accertamento tecnico, rigettando la domanda non già per totale mancanza di prove, bensì per non univocità e discordanza degli elementi acquisiti attraverso le prove storiche, costituisce vizio di motivazione sindacabile in sede di legittimità.
Dal quadro legislativo vigente non risulta un diritto del coniuge o del convivente o dei parenti – anche nella loro posizione ereditaria – ad opporsi all’esame genetico sul defunto6
6 Per un approfondimento di questi aspetti cfr la voce PROVE GENETICHE . Un potere di opposizione ai prelievi finalizzati all’esame genetico non sussiste neanche dal punto di vista della normativa sulla protezione dei dati personali. Il decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 all’art. 90 consente il trattamento dei dati genetici nei soli casi previsti da apposita autorizzazione rilascia¬ta dal Garante per la protezione dei dati personali il quale nelle autorizzazioni generali finora rila¬sciate ha disposto che il trattamento dei dati genetici possa essere svolto per far valere o difendere un diritto in giudizio, purché di rango pari a quello dell’interessato (e tale è certamente il diritto relativo all’accertamento sulla filiazione) anche senza il consenso dell’interessato stesso, salvo che il trattamento presupponga lo svolgimento di test genetici, che in ogni caso non riguardano il trattamento effettuato per ragioni di giustizia ex art. 47, quale è il trattamento svolto in giudizio dal CTU. Perciò il trattamento dei dati genetici da parte del CTU cui è affidata la perizia genetica non soggiace – in forza della disciplina derogatoria dettata dallo stesso art. 47 – né ad obbligo di informativa e di consenso dell’interessato, né alla necessità di autorizzazione del Garante, né a notificazione a quest’ultimo, mentre soggiace ai principi generali di necessità, di pertinenza e non eccedenza, di correttezza e liceità, nonché agli altri principi di cui all’art. 11.
Correttamente quindi in giurisprudenza si è negato che il provvedimento giudiziale che, in sede di azione per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, dispone la CTU genetica su cadavere sia subordinato al consenso dei congiunti eredi del defunto (App. Catania, 21 luglio 2009).
Nel caso in cui all’opposizione degli eredi del convenuto (alla riesumazione finalizzata al test gene¬tico sul defunto stesso o, s’intende, al prelievo su di essi in caso di impossibilità di riesumazione, per esempio per cremazione del defunto) si dovesse attribuire qualche rilievo, il rifiuto ingiustifica¬to all’ordine del test consentirebbe sempre al giudice di valutare tale comportamento in conformità al principio generale di cui all’art. 116, comma 2°, c.p.c. e trarre un argomento di prova contro di essi ai sensi dell’art. 118 c.p.c.
d) Le dichiarazioni della madre
Come si è visto l’ultimo comma dell’art. 269 prevede che “La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costitui¬scono prova della paternità”.
Il che però non vuol dire che le dichiarazioni della madre unite ad altri elementi non possano con¬tribuire a fondare il convincimento del giudice.
In passato Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2006, n. 6694 aveva ritenuto che il giudice può certamente trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre
Più di recente secondo Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11874 nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, la prova della fondatezza della domanda può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti, da valutarsi globalmente, tenendo conto delle dichiarazioni della madre naturale e della portata delle difese del convenuto. Ugual¬mente secondo Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2012, n. 12198 dove si ricorda da un lato ricorda che la madre può sempre intervenire nel processo instaurato dal figlio maggiorenne, e dall’altro che le dichiarazioni della madre naturale assumono un rilievo probatorio integrativo ex art. 116 cod. proc. civ., quale elemento di fatto di cui non si può omettere l’apprezzamento ai fini della decisio¬ne, indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale posizione di terzietà della dichiarante, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 246 cod. proc. civ. secondo cui “non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio”.
VII Natura ed effetti della sentenza di accertamento della paternità
a) Natura dichiarativa ed effetti costitutivi della sentenza
Secondo quanto dispone il primo comma dell’art. 277 c.c. (Effetti della sentenza) “La sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento” 7
7 Art. 277 (Effetti della sentenza)
La sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento.
Il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per l’affidamento, il mantenimento, l’istruzione e l’edu¬cazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui. .
Proprio per questo motivo la giurisprudenza riconosce la natura dichiarativa della sentenza (che è, quindi, sentenza di accertamento) e quindi la decorrenza retroattiva degli effetti al momento della nascita (ex tunc). Si tratta degli stessi effetti retroattivi riconosciuti alla sentenza che dichiara per esempio la nullità. Viceversa se fosse attribuita alla sentenza natura costitutiva gli effetti decorre¬rebbero dalla data della sentenza (ex nunc). Il principio è stato sempre pacificamente riconosciuto (per citare solo le ultime Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960; Cass. civ. Sez. VI, 14 luglio 2016, n. 14417; Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. civ. Sez. I, 4 no¬vembre 2010, n. 22506; Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630; Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575; Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24409; Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100; Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196 (e molte altre in precedenza). Tutte le decisioni in questione affermano in sostanza che l’obbligo del genitore di concorrere al mantenimento del figlio sorge con la nascita dello stesso, anche nell’ipotesi in cui la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza. La sentenza dichiarativa della filiazione produce perciò gli effetti del riconoscimento e, pertanto, implica per il genitore tutti i doveri tipici della procreazione, incluso quello del man¬tenimento, ricollegandosi tale obbligazione allo status genitoriale ed assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva. Anche la giurisprudenza di merito non si è mai discostata da questi principi (da ultimo Trib. Treviso Sez. I, 10 marzo 2017; Trib. Cassino, 15 giugno 2016; Trib. Napoli Sez. I, 18 settembre 2012; App. Bologna Sez. minori, 5 dicembre 2011; Trib. Trani, 27 settembre 2007; Trib. L’Aquila, 6 giugno 2007). La sentenza che dichiara la paternità, pur avendo natura dichiarativa, produce effetti solo dal giu¬dicato. Si parla a tale proposito di effetti costitutivi, nel senso che prima del giudicato non possono realizzarsi gli effetti collegati alla pronuncia sullo status.
La sentenza di accertamento della filiazione potrà quindi essere trascritta nei registri di stato civile solo dopo il suo passaggio in giudicato. Il terzo comma dell’art. 48 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Ordinamento di stato civile) prescrive, infatti, che “La dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, dopo il passaggio in giudicato, è comunicata, a cura del procuratore della Repubblica, o è notificata dagli interessati, all’ufficiale dello stato civile che ne fa annotazione nell’atto di nascita”).
b) I provvedimenti conseguenziali connessi all’affidamento e al mantenimento
Alla dichiarazione della paternità conseguono evidentemente effetti in senso ampio connessi al rapporto genitori-figli nel campo personale, alimentare, economico, patrimoniale, successorio. Ef¬fetti che possono realizzarsi su richiesta dell’altro genitore (che abbia agito ex art. 273 c.c. in so¬stituzione e nell’interesse del figlio minore o dello stesso figlio maggiorenne (che abbia egli stesso agito in giudizio per la dichiarazione di paternità), in entrambi i casi anche nell’ipotesi in cui – es¬sendo defunto il presunto padre – siano stati convenuti in giudizio gli eredi di lui (art.276 c.c.)8
8 Per una panoramica approfondita degli effetti di natura patrimoniale e delle molteplici implicazioni processuali cfr la voce SENTENZA DICHIARATIVA DELLA PATERNITA’ .
Il secondo comma dell’art. 277 c.c. prescrive che “Il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per l’affidamento, il mantenimento, l’istruzione e l’educazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui”. Questa norma consente quindi che domande di natura economi¬ca possano essere proposte e prese in considerazione insieme alle domande sullo status.
Per quanto concerne i possibili provvedimenti sull’affidamento (evidentemente del figlio minore di età), si tratta di una novità introdotta dall’art. 34, comma 1, lett. b, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
Per quanto concerne, invece, l’eventuale mantenimento, si tratta di due tipi di provvedimenti:
a) i provvedimenti relativi al mantenimento futuro del figlio (in genere, ma non necessariamente, minore) da parte del genitore dichiarato tale dalla sentenza;
b) i provvedimenti relativi alla richiesta del genitore che ha agito in giudizio (in proprio) di rimborso pro quota delle spese di mantenimento sostenute per il figlio in passato.
Il diritto al rimborso (in sede di accertamento della paternità) delle spese sostenute dalla nascita dall’altro genitore dipende strettamente dalla circostanza – alla quale si riferiscono tutte le senten¬ze sopra richiamate – che gli effetti del riconoscimento, come si è detto, retroagiscono alla nascita. Secondo alcune decisioni si tratterebbe di un diritto di natura indennitaria da determinare anche in via equitativa (Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2004, n. 11351).
Le differenti caratteristiche procedurali tra i due tipi di provvedimenti sono riconducibili alla cir¬costanza che mentre per l’affidamento e il mantenimento futuro il giudice ha un potere di ufficio, potendolo esercitare indipendentemente dalla domanda dell’altro genitore (Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2004, n. 13296), per i provvedimenti di rimborso pro quota delle spese sostenute in pas¬sato, è necessaria la domanda di parte (Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 2014, n. 11211).
Benché non indicato espressamente nell’art. 277 c.c. è considerata ammissibile anche la domanda di risarcimento dei danni in relazione a quell’orientamento che ammette tale risarcimento in caso di mancato riconoscimento alla nascita (Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205; Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 3079)9
9 cfr la voce RISARCIMENTO DEI DANNI PER OMESSO RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO. .
c) La prescrizione dei diritti relativi al mantenimento e al rimborso delle spese pregresse sostenute da un genitore
Il diritto al mantenimento del figlio minore è un diritto indisponibile e quindi imprescrittibile (art. 2943, co. 2, c.c.) per tutto il corso della minore età. In caso pertanto di riconoscimento o di sen¬tenza dichiarativa della filiazione nel corso della minore età, la prescrizione (decennale, ex art. 2946 c.c.) comincia a decorrere dal compimento della maggiore età.
Il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne, in caso di riconoscimento o di sentenza dichia¬rativa della filiazione di figlio maggiore di età, si prescrive nel termine ordinario di dieci anni (art. 2946 c.c.) oppure di cinque anni se connesso ad una decisione che ne ha già riconosciuto la spet¬tanza periodica (art. 2948, n. 4, c.c.).
Il diritto al rimborso delle spese pregresse sostenute dall’altro genitore ha natura di diritto dispo¬nibile e pertanto sui prescrive nel termine ordinario di prescrizione di dieci anni (art. 2946 c.c.).
In caso di accertamento giudiziario della filiazione i termini di prescrizione dei diritti relativi al man-tenimento, decorrono dalla data della dichiarazione giudiziale, e perciò dal passaggio in giudicato della sentenza sullo status, trovandosi il figlio, precedentemente, nell’impossibilità giuridica di far valere i diritti dipendenti dallo status non ancora accertato; e questo in applicazione della regola generale contenuta nell’art. 2934 c.c. secondo cui “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. Lo hanno affermato Cass. civ. Sez. I, 7 aprile 2017, n. 9059; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124, precisando che in materia di mantenimen¬to del figlio (naturale), il diritto al rimborso pro quota delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che se ne è occupato in via esclusiva, sarebbe azionabile dal momento della sentenza di accertamento della paternità, che conseguentemente costituisce il dies a quo della decorrenza della ordinaria prescrizione decennale.
Questa conclusione viene espressamente riferita nelle sentenze sopra indicate alle (sole) domande di rimborso delle spese pregresse, ancorché anche i provvedimenti sull’affidamento e sul mante¬nimento futuro nel loro complesso possano considerarsi richiamate nel secondo comma dell’art. 277 c.c.
Dovendo necessariamente individuarsi un termine di decorrenza della prescrizione, questo orien¬tamento può dirsi giustificato, non essendoci altrimenti alcun termine iniziale certo di decorrenza del termine prescrizionale. Tuttavia questo non comporta – secondo quanto si dirà in materia di provvisoria esecuzione dei capi di condanna delle sentenze costitutive e dichiarative – che gli interessati non possano utilmente azionare anche prima del giudicato sullo status, le pretese con¬seguenziali di natura economica.
d) Il rapporto tra il giudizio sull’accertamento della paternità e quello sulle domande conseguenziali
Le domande conseguenziali relative all’affidamento e al mantenimento sono in genere proposte (dall’interessato o dal genitore che agisce in sostituzione del figlio minore) nella stessa causa di accertamento della paternità, sebbene, naturalmente, possano senz’altro essere proposte anche separatamente.
Nello specifico l’azione per l’accertamento della paternità naturale può comprendere insieme alla domanda principale sullo status anche le domande conseguenziali di natura economica. Anche le domande di rimborso delle spese pregresse sostenute da un genitore in via esclusiva o le domande di risarcimento del danno possono essere proposte insieme alla domanda principale sull’accerta¬mento della paternità, ma – con riguardo agli effetti necessariamente costitutivi delle sentenze attributive di uno status – potranno trovare esecuzione, come si dirà, solo se lo status è passato in giudicato. La contestualità può anche sussistere tra domanda di accertamento della paternità promossa nei confronti degli eredi di un defunto e domande di natura ereditaria collegate all’ac¬certamento dello status, ma anche in questo caso per l’attuazione delle domande ereditarie sarà necessario il previo passaggio in giudicato sull’accertamento della paternità.
Sia nel caso di contestualità tra domande sullo status e domande conseguenziali, sia nel caso in cui le domande conseguenziali siano separatamente azionate prima del formarsi del giudicato sull’ac-certamento della paternità, si pone il problema del rapporto tra il giudizio sull’accertamento della paternità e le domande conseguenziali.
In particolare si pone il problema della eventuale sospensione del procedimento sulle domande economiche in attesa della definitività della domanda sullo status proposta in sede di accertamento giudiziale della paternità.
L’art. 295 (sospensione necessaria) prescrive che “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”. L’art. 337 (sospensione dell’esecuzione e dei processi) nell’am¬bito delle norme sull’impugnazione, dopo aver precisato al primo comma che “l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione…”, al secondo comma prevede che “quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se la sen¬tenza è impugnata”.
Sennonché la sospensione del processo viene oggi considerata come avente senz’altro natura eccezionale, in virtù di quanto indicato nel secondo comma dell’art. 111 della Costituzione (in¬serito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2) dove il disfavore verso ogni ipotesi di sospensione è espresso dalla previsione che la legge non deve tollerare una irragionevole durata del processo. L’esigenza di una maggiore celerità del processo era stata anche perseguita dalla riforma del 1990 del processo civile (legge 26 novembre 1990, n. 353) che aveva eliminato la so¬spensione ex lege dell’efficacia della sentenza di primo grado, salva la richiesta di provvisoria ese¬cuzione: il testo vigente dell’art. 282 (riformato appunto nel 1990) dichiara la sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva salvo richiesta di sospensione al giudice di appello (art. 283). Analogamente è avvenuto più di recente per i provvedimenti camerali in materia di famiglia (art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile a seguito delle modifiche apportate dall’art 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219) che “sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente”.
Costituisce orientamento pacifico della giurisprudenza di legittimità (a partire da Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027) che l’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due diversi giudici del giudizio sul “se dovuto” e di quello sul “quanto dovuto” non comporta che il secondo debba rimanere sospeso in attesa della decisione del primo e che, per converso, quante volte nel primo sia pronunciata sentenza che afferma esistente il diritto, il giudice del secondo giudizio pos¬sa porre a base della propria decisione ciò che è stato già deciso, ancorché la sentenza sia stata impugnata, l’unica alternativa essendo per contro quella di sospendere il giudizio di liquidazione del dovuto (come affermato a suo tempo da Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060 che aveva fatto proprie in larga misura le argomentazioni svolte in precedenza da Cass. civ. Sez. la¬voro, 25 maggio 1996 n. 4844 incentrate su una lettura restrittiva dell’istituto della sospensione necessaria, appunto ripudiata dalle Sezioni Unite nel 2012).
Il principio affermato da Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 è stato poi ribadito successivamente da Cass. civ. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 6207 e da Cass. civ. Sez. VI, 20 gennaio 2015, n. 798.
Determinante, ai fini di tale conclusione, è la considerazione che l’art. 295 c.p.c. potrebbe “deter¬minare l’arresto del processo dipendente per un tempo indeterminato e certamente non breve, poiché la paralisi del processo sarebbe destinata a protrarsi fino al passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudiziale (art. 297 c.p.c., comma 1), onde evitare il rischio di conflitto tra giudicati. In tal modo, in funzione della realizzazione del valore processuale dell’armonia dei giudicati, viene sacrificato il valore processuale della sollecita definizione dei giudizi”.
Naturalmente tutto ciò non significa che l’art. 295 c.p.c. sia da considerare abrogato, ed anzi sopravvive in tutti i casi in cui la sospensione appare da un punto della pregiudizialità in termini tecnico giuridici plausibile (Cass. civ. Sez. lavoro, 24 giugno 2014, n. 14274) in quanto l’art. 295 c.p.c. fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giu¬dice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico – giuridico e non già in senso meramente logico.
Tale tipo di legame tecnico-giuridico è stato ritenuto sussistente da Cass. civ. Sez. VI, 9 dicem¬bre 2014, n. 25861 in caso di pendenza di una lite sulla validità dell’accordo giustificativo della separazione consensuale tra coniugi che pregiudica, in senso tecnico giuridico, l’esito del giudizio, contemporaneamente pendente, di cessazione degli effetti civili del loro matrimonio, e ne com¬porta la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. perché l’eventuale annullamento di quell’accordo determinerebbe il venir meno, con effetto “ex tunc”, di un presupposto indispensabile della pro¬nuncia di divorzio.
e) Accertamento della paternità e domande ereditarie
Tra le numerose questioni che si sono finora presentate in ambito civilistico in tema di rapporti tra più cause tra loro collegate da un rapporto di pregiudizialità (e che pongono quindi un problema di sospensione della causa pregiudicata), quello del tema dei rapporti tra domanda (e processo) di accertamento della paternità e domande (e processo) di natura ereditaria connesse allo status (divisione ereditaria o petizione ereditaria), è uno dei più affrontati in giurisprudenza.
Ebbene, le domande di natura ereditaria possono essere esaminate prima che si sia formato il giudicato sullo status? O il relativo giudizio deve essere sospeso?
A queste domande ha dato risposta molto chiara, escludendo la sospensione necessaria di cui all’art, 295 e ridimensionando quella ex art. 337, la sopra citata Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 occupandosi proprio del rapporto tra due cause pendenti in appello una sullo status di filiazione e l’altra sulle conseguenti domande ereditarie.
La sentenza fa proprio l’orientamento già espresso in passato perentoriamente – ma in ambiti diversi da quello del rapporto tra accertamento sulla filiazione e causa di natura ereditaria – da Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 (rapporto tra un giudizio di responsabilità pro¬fessionale intentato contro un notaio e una causa tributaria azionata dal notaio stesso) e da Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 (domanda di diniego di rinnovazione di un contratto di locazione e processo in appello relativo al riscatto della proprietà sull’immobile) le quali entram¬be avevano precisato che “Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pre¬giudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ. e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qual¬siasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità).
Ad invocare l’intervento delle Sezioni Unite era stata la sesta sezione della Corte di cassazione di fronte alla quale si discuteva di un ricorso contro un provvedimento di sospensione del processo, concesso dalla corte d’appello di Torino in una causa di petizione ereditaria in relazione alla pen¬denza sempre in appello di una causa di riconoscimento di paternità.
Si tratta quindi di stabilire, afferma Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027, allorché pendono in grado di appello insieme il giudizio in cui è stata pronunciata sentenza di accertamento della paternità e il giudizio che su tale base ha accolto la domanda di petizione di eredità, ed impu¬gnate dai convenuti entrambe le sentenze – se il secondo giudizio debba essere sospeso in attesa che nel primo si formi il giudicato sulla dichiarazione di paternità o invece possa proseguire ovvero non debba essere sospeso necessariamente, ma solo possa esserlo, se il giudice del secondo giu¬dizio non intenda riconoscere l’autorità dell’altra decisione”.
La sentenza in questione si occupa quindi, dell’interpretazione sia dell’art. 295 c.p.c. che dell’art. 337 c.p.c. e proprio per tale ragione costituisce, relativamente a queste due norme, un approfon¬dimento di decisiva e straordinaria importanza.
Affermato il principio generale che spetta solo al giudice il compito di valutare se l’efficacia della sentenza pronunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 cod. proc. civ.) o se la sua autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337 c.p.c., comma 2) la sentenza del¬le Sezioni Unite applica questo principio al rapporto tra domanda di accertamento della filiazione naturale ed azione di petizione di eredità, affermando che salvi soltanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che deb¬ba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato (come, esemplificando, nel caso previsto dall’art. 75 c.p.c., comma 3), “pare alla Corte che nell’interpre¬tazione sistematica della disciplina del processo sia da riconoscere un ruolo decisivo alla disposi¬zione che, a seguito della legge 26 novembre 1990, n. 353, si trova ora ad essere dettata dall’art. 282 del codice di rito. Col riconoscere provvisoria esecutività tra le parti alla sentenza di primo grado il legislatore ha determinato una cesura tra la posizione delle parti in controversia tra loro nel giudizio di primo grado – che è tendenzialmente paritaria e solo provvisoriamente alterabile da misure anticipatorie o cautelari – e la situazione in cui le stesse parti vengono poste dalla decisio¬ne del giudice di primo grado, che conosciuta la controversia, dichiara lo stato del diritto tra loro. L’ordinamento, anche allo scopo di scoraggiare il protrarsi della lite, che al contrario risulterebbe favorito, se all’impugnazione si attribuisse l’effetto d’un ripristino delle posizioni di partenza, pro¬clama il valore del modo di composizione della controversia, che è dichiarato conforme a diritto dal giudice, terzo ed imparziale (art. 111 Cost., comma 2). Il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originano di lite e giu¬stifica sia l’esecuzione provvisoria, quando a quel diritto si tratti di adeguare la realtà materiale, sia l’autorità della sentenza di primo grado nell’ambito della relazione tra lite sulla causa pregiudiziale e lite sulla causa pregiudicata”.
L’idoneità della decisione sulla causa pregiudicante a condizionare quella della causa pregiuicata dovrebbe giustificare che questa causa resti sospesa a prescindere dal segno che potrà avere la decisione sull’altra. Lo impone prima di tutto l’esigenza che il sistema giudiziario non sia gravato dalla duplicazione dell’attività di cognizione nei due processi pendenti. Ma quando nel processo sulla causa pregiudicante la decisione è sopravvenuta, quello sulla causa pregiudicata è in grado di riprendere il suo corso, perché ormai il sistema giudiziario è in grado di pervenire al giudizio sulla causa pregiudicata fondandolo sull’accertamento che sulla questione comune alle due cause si è potuto raggiungere nell’altro processo tra le stesse parti, attraverso l’esercizio della giurisdizione. Non dipende più da esigenze di ordine logico che il processo sulla causa dipendente resti sospeso.
Salvo, quindi, che l’ordinamento non esprima in casi specifici una valutazione diversa, imponendo che la composizione della lite pregiudicata debba attendere il giudicato sull’elemento di connessio¬ne tra le situazioni giuridiche collegate e controverse, è da ritenere che spetta al giudice il compito di valutare se l’efficacia della sentenza pronunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 cod. proc. civ.) o se la sua autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337 c.p.c., comma 2) in questo caso attribuendo al giudice del giudizio sulla lite pregiudicata il potere di sospenderlo.
Secondo l’impostazione delle Sezioni Unite, quindi, venuta meno la possibilità di sospensione ex art. 295 c.p.c. che determinerebbe una paralisi inammissibile della cognizione, il processo civile cosiddetto pregiudicato potrebbe essere astrattamente sospeso soltanto ex art, 337 c.p.c. ove la sentenza del procedimento pregiudicante sia stata impugnata. Si ricorda che secondo l’art. 337 c.p.c. “l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione…”, al secondo com¬ma prevede che “quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se la sentenza è impugnata”.
A tale proposito le già richiamate Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 e Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 avevano entrambe precisato che “Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passa¬ta in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimen¬to è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità”.
Trattandosi di una sospensione facoltativa (art. 337 c.p.c.:“…può essere sospeso se la sentenza è impugnata”) si deve verificare in che cosa si sostanzia questo potere facoltativo (di sospendere il processo in cui è invocata la sentenza impugnata), per evitare che il potere di sospensione diventi un arbitrio.
Ed allora ci si accorge che l’astratta possibilità di sospensione ex art. 337 c.p.c. viene ad essere in concreto quasi annullata, dal momento che la giurisprudenza richiede che il giudice debba ve¬rificare “l’efficacia persuasiva della sentenza” (come molto bene ha affermato per esempio Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111). L’interpretazione quindi che i giudici della Cassazione hanno dato a partire dalle tre sentenze sopra richiamate (Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924; Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111; Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435) è che quando tra due giudizi esiste rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non ancora passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c. e non ex art. 295 c.p.c. ma è compito del giudice valutare la forza della sentenza di primo grado per verificare con adeguata motivazione se sia plausibile che il giudizio pregiudicato venga sospeso. In definitiva tanto più alta è la forza (cioè la validità, la plausibilità) della sentenza di primo grado non ancora passata in giudicato, tanto più il giudice dovrà negare la sospensione.
L’ordinamento rimette quindi al giudice – secondo queste sentenze – il compito di valutare, tenuto conto degli elementi in base ai quali la controversia è riaperta con l’impugnazione, quale sia la forza e l’efficacia della sentenza emessa nel giudizio pregiudicante (causa di paternità naturale) attribuendo al giudice della causa pregiudicata (causa ereditaria) il potere di sospenderla.
Quando la sentenza (appellata), asseritamente pregiudicante, è una sentenza dichiarativa della paternità, essa si fonda sul dato acquisito in genere con CTU genetica (di fatto incontrovertibile). E si tratta quindi di una sentenza dotata di così significativa efficacia persuasiva da non consentire una motivazione plausibile circa la sua sospensione.
Tutti questi principi sono stati più recentemente ribaditi e rafforzati da Cass. civ. Sez. VI, 12 no¬vembre 2014, n. 24046 in cui si legge che “l’ordinanza con la quale viene disposta la sospensio¬ne discrezionale del processo ai sensi dell’art. 337, cpv., c.p.c. deve indicare le ragioni per le quali il giudice non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già è intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condivide il merito e le ragioni giustificatrici.
Perciò, ai fini del legittimo esercizio del potere di sospensione discrezionale del processo, previ¬sto dall’art. 337, secondo comma, c.p.c. è indispensabile un’espressa valutazione di plausibile controvertibilità della decisione di cui venga invocata l’autorità in quel processo, sulla base di un confronto tra la decisione stessa e i motivi di impugnazione. Ne consegue che la sospensione di¬screzionale in parola è ammessa ove il giudice del secondo giudizio motivi esplicitamente le ragioni per le quali non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante.
f) Il controverso problema della provvisoria esecuzione delle condanne accessorie
È opportuno precisare subito che il tema della provvisoria esecuzione delle decisioni di condanna (art, 282 c.p.c.: “La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti”) si presenta in modo del tutto peculiare in caso di sentenze costitutive (o dichiarative con effetti costitutivi, come quella di accertamento della paternità).
È possibile considerare provvisoriamente esecutiva una condanna o un capo di condanna che è contenuto in una decisione costitutiva? Se la decisione diventa eseguibile soltanto dopo il giudicato (come avviene nelle decisioni costitutive) come è possibile anticiparne gli effetti mettendole tutta o in parte in esecuzione prima del giudicato?
Non è pertanto utilizzabile il principio della provvisoria esecutività di tutti i provvedimenti nelle procedure di conflitto genitoriale che concernono l’affidamento e il mantenimento dei figli minori (nati nel matrimonio o fuori dal matrimonio già riconosciuti) affermata dalla riformulazione dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile riformato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 come modificato dall’art. 96 lett. c del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (“…Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile… il tribunale compe¬tente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente…”). Sulla base di questa riformulazione l’art. 38 disp. att. c.c. contiene ora un principio generale di immediata esecutività di tutti i provvedimenti che concernono l’affidamento e il mantenimento di minori, che sarebbe del tutto irragionevole non applicare anche ai provvedimenti conseguenziali alla sentenza di accertamento della paternità.
Come affrontare e risolvere il problema della provvisoria esecuzione (art. 282 c.p.c.) dei capi della sentenza concernenti le domande accessorie in una causa di status?
La giurisprudenza di legittimità aveva sostenuto, negli anni Novanta, la tesi secondo cui tutte le pronunce di condanna ancorché accessorie e consequenziali, compresa quella relativa alla re¬golamentazione delle spese processuali (Cass. civ. Sez. III, 24 maggio 1993, n. 5837 sono inidonee a costituire titolo esecutivo fino a quando non diventi efficace la pronuncia principale di accertamento o costitutiva. Non si potrebbe pertanto procedere all’esecuzione forzata sul capo di condanna consequenziale in difetto dell’efficacia del capo che ne costituisce il presupposto. Non potrebbe, pertanto, essere data rilevanza autonoma a tali statuizioni accessorie, il cui regime deve adeguarsi a quello della statuizione principale di natura costitutiva.
A partire dal 2005 una parte della giurisprudenza di legittimità ha cambiato orientamento, arrivan¬do a sostenere la provvisoria esecuzione di tutte le sentenze di primo grado, ivi comprese quelle dichiarative e quelle costitutive (Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 2005, n. 1619; Cass. civ. Sez. III, 3 settembre 2007, n. 18512).
Questi principi non trovarono, però, conferma nella giurisprudenza di legittimità successiva, la quale preferì propendere per la soluzione negativa in ordine soprattutto all’ammissibilità della provvisoria esecutività delle sentenze costitutive ex art. 2932 c.c. In particolare, con la pronun¬cia Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 2009, n. 8250 – nettamente contrapposta alla n. 18512/2007 – la Corte confermava che la sentenza che dispone l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce i propri effetti solo dal momento del passaggio in giudicato; ne consegue che, quando detta sentenza abbia subordinato l’effetto traslativo al pagamento del residuo prezzo, l’obbligo di pagamento in capo al promissario acquirente non diventa attuale prima dell’irretrattabilità della pronuncia giudiziale, essendo tale pagamento la prestazione corrispettiva destinata ad attuare il sinallagma contrattuale.
Le Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059), intervenute per dirimere il contrasto, ritennero di disattendere l’orientamento radicale di cui alla sentenza 18512/2007 e di dare, invece, continuità all’orientamento seguito dalla sentenza 8250/2009 dichiarando di condividere gli argomenti sviluppati dalla dottrina maggioritaria a sostegno della tesi secondo cui, nel caso di preliminare di compravendita e di pronuncia ex art. 2932 c.c. l’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretroattività della sentenza che determina l’effetto sostitutivo del contratto definitivo. La sentenza di primo grado di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. non può pertanto produrre, prima del passaggio in giudicato, gli effetti del contratto definitivo con la conseguente impossibilità di scissione, nelle sentenze ex art. 2932 c.c. in tema di contratto preliminare di compravendita, tra capi costitutivi principali e capi di condanna conse¬quenziali, con riferimento specifico a quelli cosiddetti sinallagmatici le cui relative statuizioni fanno parte integrante della pronuncia costitutiva nel suo complesso. Affermano in sostanza le Sezioni Unite che l’esecutività provvisoria ai sensi dell’art. 282 c.p.c. della sentenza di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c. dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita è limitata ai capi della decisione compatibili con la produzione dell’ef¬fetto traslativo del bene in un momento successivo e non si estende ai capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta interdipendenza con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale.
Si legge nella sentenza: va precisato che la possibilità di anticipare l’esecuzione delle statuizioni condannatorie contenute nella sentenza costitutiva va riconosciuta in concreto, volta a volta, a seconda del tipo di rapporto tra l’effetto condannatorio da anticipare e l’effetto costitutivo produ¬cibile solo con il giudicato. A tal fine occorre differenziare le statuizioni condannatorie meramente dipendenti dal detto effetto costitutivo, dalle statuizioni che invece sono a tale effetto legate da un vero e proprio nesso sinallagmatico ponendosi come parte – talvolta “corrispettiva” – del nuovo rapporto oggetto della domanda costitutiva.
Così, ad esempio, nel caso di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo del¬la vendita, non è possibile riconoscere effetti esecutivi a tale condanna altrimenti si verrebbe a spezzare il nesso tra il trasferimento della proprietà derivante in virtù della pronuncia costitutiva ed il pagamento del prezzo della vendita. L’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretrattabilità della sentenza per cui è da escludere che prima del passaggio in giudicato della sentenza sia configurabile un’efficacia anticipata dell’obbligo di pagare il prezzo: si verifiche¬rebbe un’alterazione del sinallagma. Ritenere diversamente consentirebbe alla parte promittente venditrice – ancora titolare del diritto di proprietà del bene oggetto del preliminare – di incassare il prezzo prima ancora del verificarsi dell’effetto, verificabile solo con il giudicato, del trasferimento di proprietà.
Possono quindi ritenersi anticipabili i soli effetti esecutivi dei capi che sono compatibili con la pro¬duzione dell’effetto costitutivo in un momento temporale successivo, ossia all’atto del passaggio in giudicato del capo di sentenza propriamente costitutivo. Così la condanna al pagamento delle spese processuali contenuta nella sentenza che accoglie la domanda. La provvisoria esecutività non può invece riguardare quei capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta sinal¬lagmaticità con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale.
Le indicazioni delle Sezioni Unite hanno trovato applicazione esplicita nelle decisioni successive della giurisprudenza di legittimità.
Così per esempio Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 ha affermato che l’anticipazione in via provvisoria , ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive, non è consentita, essendo necessario il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso); è invece consentita quando la statuizione condannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipa¬zione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento temporale successivo del passaggio in giudicato (come nel caso di specie riguardante la condanna di un istituto di credito alla restituzione delle somme di denaro ricevute da un istituto di credito a seguito di atti solutori dichiarati inefficaci ai sensi dell’art. 67 legge fall.).
Nella giurisprudenza di merito analogamente si è espresso Trib. Pordenone, 9 febbraio 2017.
Le sentenze dichiarative come quelle sull’accertamento della paternità condividono con quelle costitutive la natura costituiva degli effetti: prima del giudicato non è possibile l’attribuzione di effetti alla relativa pronuncia che potrà essere trascritta nei registri di stato civile soltanto dopo il passaggio in giudicato.
Pertanto l’esecutività provvisoria ai sensi dell’art. 282 c.p.c. della sentenza costitutiva (nel caso di obbligo specifico di concludere un contratto) non è affatto impedita, ma è limitata ai capi della decisione compatibili con la produzione dell’effetto traslativo del bene in un momento successivo e non si estende ai capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta interdipendenza (sinallagmaticità) con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale (Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059). Il principio indicato, elaborato dalle Sezioni Unite, è stato ribadito poi anche da Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 che ha affermato che l’anticipazione in via provvisoria, ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni di con¬danna contenute in sentenze costitutive non è consentita soltanto nei casi in cui la condanna è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso).
Il sinallagma è un elemento costitutivo implicito del contratto a obbligazioni corrispettive. È il rapporto di interdipendenza contrattuale tra una prestazione ed una controprestazione. In tanto una parte diventa proprietaria in quanto paga il prezzo del bene. Non si può essere condannati a pagare il prezzo di un bene se non si diventa contestualmente proprietari di quel bene.
In tutti i casi in cui la statuizione di condanna, invece, non ha questo collegamento sinallagmatico con la pronuncia principale, è consentito attribuire alla condanna l’effetto esecutivo provvisorio (così per esempio in caso di condanna al pagamento delle spese di giudizio, come è pacifico in giu¬risprudenza, per esempio Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 2011, n. 27090; Tribunale, Reggio Emilia, 6 settembre 2012).
Facendo applicazione di questi principi si può affermare quanto segue:
1) Attesa la natura dichiarativa con effetti costitutivi della pronuncia che accerta la filiazione, la condanna al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al ge¬nitore che se ne è occupato in via esclusiva, non sarebbe eseguibile se non successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione. Il principio è affermato in modo consolidato (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328, Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 le quali tutte hanno fatto affer¬mazione di questo orientamento per farne conseguire, tra l’altro, il principio che il giudicato sullo status costituisce il dies a quo ultimo della decorrenza della prescrizione). Il principio è indicato anche nella giurisprudenza di merito (Trib. Sulmona, 26 novembre 2012)
Pertanto secondo questa impostazione non sarebbe eseguibile una condanna di rimborso delle spese pregresse se non dopo il giudicato sull’accertamento della paternità.
2) Queste conclusioni – espressamente riferite alle sole domande di rimborso per le spese pregres¬se sostenute da un genitore dalla nascita del figlio – possono considerarsi applicabili anche alle do¬mande di risarcimento del danno la cui eventuale condanna, perciò, in applicazione dei medesimi principi, non potrebbe essere messa in esecuzione prima del giudicato sullo status.
3) L’esecuzione delle decisioni ereditarie non potrà ugualmente che avvenire dopo il giudicato sullo status.
4) Nella prassi dei tribunali italiani si ammette pacificamente la contestuale proposizione delle domande di accertamento della paternità con quelle sul mantenimento futuro (esattamente come sono considerate proponibili insieme alla domanda principale sullo status le domande relative al rimborso delle spese di mantenimento pregresse sostenute da un genitore, delle domande risarci¬torie e di quelle di natura ereditaria). Questa prassi è ampiamente riconosciuta e richiamata nella più volte citata Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 che proprio sul rapporto tra le due domande (quella sullo status e quella sulle questioni economiche) fonda il suo ragionamento contrario alla sospensione del processo concernente le questioni economiche.
Ebbene in caso di sentenze dichiarative di accertamento della paternità si dubita se sia possibile parlare di sinallagmaticità tra accertamento della paternità e condanna al mantenimento.
A mio avviso il concetto di sinallagmaticità ha natura contrattuale e non logica e pertanto non essendoci alcun rapporto contrattuale tra figlio e genitore dichiarato tale (con sentenza appellata) non vi sono ostacoli a considerare possibile l’esecuzione provvisoria delle statuizioni di condanna, non solo per il capo della sentenza sulle spese processuali ma anche per gli altri capi contenenti una condanna. Sarebbe strano il contrario, cioè che la regolamentazione del mantenimento per esempio del figlio minore venisse posticipata ad un tempo successivo al giudicato che potrebbe sopraggiungere solo dopo molti anni con evidenti ripercussioni negative sul diritto del figlio ad essere salvaguardato nelle sue esigenze primarie (contra Trib. Roma, 28 febbraio 2018, che ha accolto un’opposizione a precetto relativa all’esecuzione provvisoria del capo di condanna al mantenimento futuro del figlio minore sulla base della teoria della sinallagmaticità).
5) Del tutto nuovo è il tema della provvisoria esecuzione delle questioni connesse all’affidamento. Nonostante gli effetti costituivi della sentenza di accertamento non dovrebbero, però, esserci pro¬blemi a considerare provvisoriamente esecutiva questa parte della decisione nell’interesse esclusi¬vo della salvaguardia del rapporto tra genitore di cui è accertata la paternità e figlio.
VIII Il cognome
L’attuale articolo 262 del codice civile – nel testo introdotto dall’art. 27 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 – è il seguente:
Art. 262. Cognome del figlio nato fuori del matrimonio
Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre.
Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al ricono¬scimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, ante¬ponendolo o sostituendolo a quello della madre.
Se la filiazione nei confronti del genitore è stata accertata o riconosciuta successivamente all’attri¬buzione del cognome da parte dell’ufficiale dello stato civile, si applica il primo comma del presente articolo; il figlio può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o sostituen¬dolo al cognome del primo genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome del padre in caso di riconoscimento contemporaneo da parte di entrambi i genitori. Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del genitore, pre¬vio ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”.
Il nuovo testo contiene alcune novità rispetto al testo precedente alla riforma. Per quanto qui inte¬ressa la principale di queste novità sta nel fatto che in caso di “riconoscimento paterno” successivo a quello materno (anche a seguito di dichiarazione di paternità) “il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”. La motivazione di questa ampia opportunità di scelta sta nel fatto che il riconoscimento paterno tardivo può avvenire anche a distanza di molti anni. La legge, perciò, si preoccupa di garantire la possibilità che il co¬gnome materno possa mantenere una sua visibilità ove sia diventato un segno di identità del figlio. La precedente versione dell’articolo 262 prevedeva solo la possibilità di aggiunta o di sostituzione. La riforma del 2012/2013 ha inserito, quindi, la possibilità di anteposizione a quello materno del cognome tardivo paterno.
La seconda novità è contenuta nel nuovo terzo comma che riguarda i figli (di ignoti) ai quali il co¬gnome è stato attribuito dall’ufficiale di stato civile. Anche in questa evenienza troverà applicazio¬ne, in caso di riconoscimento successivo da parte di uno o di entrambi i genitori, la normativa per i figli nati fuori del matrimonio (cognome del genitore che riconosce il figlio o cognome paterno in caso di riconoscimento congiunto da parte di entrambi i genitori) ma il figlio tardivamente ricono¬sciuto – ove il cognome attribuitogli dall’ufficiale di stato civile sia divenuto segno autonomo della sua identità personale – può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli “aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo” al nuovo cognome.
La terza novità in tema di cognome nella filiazione fuori del matrimonio riguarda il cognome del figlio minore di età. In questo caso la decisione sul cognome in caso di riconoscimento tardivo non è dell’interessato (come avviene quando è maggiorenne) ma spetta, sia pure su indicazione dei genitori, al tribunale (ordinario secondo la riforma e non più il tribunale per i minorenni: cfr nuovo articolo 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile nel testo introdotto dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e poi ancora modificato dall’art. 96 lett. c) del D. Lgs. di attuazione 28 dicembre 2013, n. 154). I genitori si dovranno rivolgere al tribunale. Il giudice, pri¬ma di decidere, dovrà obbligatoriamente ascoltare il minore dodicenne o anche di età inferiore se capace di discernimento. Potrebbe avvenire che tra i due genitori vi sia contrasto sulla scelta del cognome: benché nessuna norma prescriva l’audizione dei genitori sarà evidentemente necessario che il tribunale proceda alla loro convocazione essendo diritto di ciascuno di essi esprimere una autonoma valutazione in ordine alla scelta del cognome (il padre potrebbe desiderare l’attribuzione del suo cognome mentre la madre potrebbe voler mantenere anche il proprio). Il procedimento – diversamente da quanto avviene quando sulla scelta non vi sia contrasto tra i genitori – diventa per ciò stesso un procedimento con due parti. Con la conseguenza che il decreto del tribunale sarà reclamabile in Corte d’appello entro dieci giorni non dalla comunicazione ma dalla notifica a cura della parte più diligente (articolo articolo 739, secondo comma, codice di procedura civile). La Cassazione ha ritenuto il Procuratore generale presso la Corte d’appello legittimato a proporre ri¬corso per cassazione avverso la decisione della Corte d’appello in materia di cognome (Cass. sez. VI, 27 giugno 2013, n. 16271).
L’articolo 262 del codice civile trova applicazione, come è evidente, anche in caso di dichiarazione giudiziale di paternità (sia relativamente a figli minori che in caso di figli maggiorenni) in quanto la legge non prevede che la decisione sul cognome sia effettuata con la sentenza che accerta la paternità. L’art. 277 c.c. a tale proposito si limita a dire che “la sentenza che dichiara la filiazione [meglio dovrebbe dirsi “la paternità”] produce gli stessi effetti del riconoscimento”. Sarà pertanto l’interessato maggiorenne a scegliere o i genitori del minore a promuovere il procedimento di cui all’articolo 262 indicando al tribunale la propria preferenza per l’attribuzione al figlio del cognome.
Le disposizioni sul cognome nell’Ordinamento di stato civile non sono appaganti. Salvo quanto si dirà sulle modifiche possibili del cognome (materia toccata da una riforma operata con DPR 13 marzo 2012, n. 54) a questa materia fa riferimento sostanzialmente l’art. 49 del Regolamento di stato civile approvato con DPR 2 novembre 2000, n. 396, che prevede l’annotazione nell’atto di nascita (già formato in occasione della nascita) del riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimo¬nio o delle sentenze che dichiarano la filiazione e l’art. 33 in cui si afferma che il figlio maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva, nonché il figlio nato da ignoti riconosciuto, dopo il raggiungimento della maggiore età, da uno dei genitori o contemporaneamente da entram¬bi, ha diritto di chiedere all’ufficiale di stato civile, entro un anno dalla conoscenza di tali eventi, di mantenere il cognome originario.
L’art. 33 in questione non prevede quindi che il figlio maggiorenne possa sempre mantenere il cognome originario ma attribuisce questo diritto soltanto al figlio maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva oppure al figlio non riconosciuto alla nascita e registrato direttamente dall’ufficiale di stato civile. Per questo motivo, come si vedrà più oltre, la Corte costituzionale ha ampliato questo diritto riconoscendo sempre e in ogni caso al figlio maggiorenne il diritto di poter mantenere il cognome originario materno in caso di successivo riconoscimento paterno (Corte cost. 3 febbraio 1994, n. 13).
Tuttavia, mentre in caso di riconoscimento di un figlio maggiorenne nato fuori da matrimonio (possibile solo con il consenso del figlio ex art. 250 c.c. che prevede sempre l’obbligatorietà del consenso del figlio che ha un’età superiore ai quattordici anni) è il figlio stesso che ai sensi dell’art. 262 c.c. esprime personalmente la scelta di “assumere il cognome del padre aggiungen¬dolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”, salvo sempre il diritto di mantenere il solo cognome originario, per il figlio minore di età (ancorché ultraquattordicenne) la decisione sul cognome è attribuita al tribunale. Come si è visto infatti l’art. 262 al quarto comma dispone che “Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”.
Occupandosi del cognome dei figli minori si è detto che la legge appare perentoria nel prescrivere “il giudice decide circa l’assunzione del cognome”, con ciò lasciando intendere che il tribunale sa¬rebbe obbligato a disporre il cambiamento (anteposizione, aggiunta o sostituzione) del cognome.
In realtà la giurisprudenza non ritiene che questo cambiamento sia necessitato. Il Tribunale potreb¬be lasciare anche quindi il cognome originario della sola madre al figlio riconosciuto dal padre. La giurisprudenza ha infatti precisato che non vi è un vero e proprio obbligo di cambiare il cognome originario e che questo effetto non è quindi automatico (Cass. civ. Sez. I, 2 ottobre 2015, n. 19734 per il figlio maggiorenne, e Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2014, n. 26062 per il figlio minore). Quest’ultima sentenza ha stabilito che l’attribuzione del cognome del genitore che effettua il secondo riconoscimento, anche in aggiunta al cognome del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento del figlio, costituisce facoltà e non anche necessità. In ipotesi siffatte l’esigenza preminente è quella di garantire l’interesse del figlio a conservare il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale in una determinata comunità. L’organo giurisdizionale, pertanto, deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto sino al momento del riconoscimento del secondo genitore (specificamente il padre), ed è chiamato ad emettere un provvedimento contrassegnato da ampio margine di discrezionalità e frutto di libero e prudente apprezzamento, nell’ambito del quale assume rilievo centrale l’interesse del minore ad essere identificato nel contesto delle relazioni so¬ciali in cui si trova inserito. Tale statuizione, proprio in quanto connotata da ampia discrezionalità, è incensurabile in Cassazione se adeguatamente motivata (come nella specie).
IX L’accertamento della paternità o della maternità in caso di figlio nato da relazione incestuosa
Secondo quanto dispone l’art. 278 c.c. (Autorizzazione all’azione) “Nei casi di figlio nato da per¬sone, tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta, l’azione per ottenere che sia giudizial¬mente dichiarata la paternità o la maternità non può essere promossa senza previa autorizzazione ai sensi dell’articolo 251”.
A sua volta l’art. 251 c.c. (che concerne il riconoscimento del figlio nato da relazione incestuosa prevedendo anche in questo caso l’autorizzazione del giudice) dispone che l’autorizzazione è concessa “avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio”.
In origine, l’art. 251 c.c. ammetteva il riconoscimento solo dei “figli incestuosi” nati da relazione in buona fede. E’ stata Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494 a dichiarare incostituzionale l’art. 278, 1° comma, c.c., nella parte in cui escludeva la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251, 1° comma, c.c., è vietato il riconoscimento dei figli incestuosi.
In conseguenza di ciò la riforma del 2012 e 2013 in materia di filiazione ha riformulato sia l’art. 251 (che riguarda il riconoscimento del figlio nato da relazione incestuosa) che l’art. 278 (che riguarda la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità nel caso di figlio nato da relazione incestuosa) ammettendo in entrambi i casi l’acquisizione dello status del figlio, sia pure subordina¬tamente ad una autorizzazione del giudice.
Il giudice è il tribunale ordinario in caso di figlio maggiorenne. Viceversa in caso di figlio minore di età, l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile10
10 La parte conclusiva del primo comma dell’art. 38 disp. att. c.c. – come modificato dall’art. 96, comma 1, lett. c), D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 – dispone “Sono, altresì, di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 251 e 317-bis del codice civile”. attribuisce al tribunale per i minorenni la competenza all’autorizzazione (sia nel caso di riconoscimento che nel caso di dichia-razione giudiziale).
L’indagine del giudice è limitata alla valutazione sull’interesse del figlio e sulla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio.
X Se la madre ha partorito nell’anonimato è ammissibile l’accertamento della maternità?
Il D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordi¬namento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) prevede all’art. 30 che 30 (Dichiarazione di nascita), primo comma, che “La dichiarazione di na¬scita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata” Per un approfondimento della problematica cfr la voce PARTO ANONIMO e la voce DIRITTO A CONOSCERE LE PROPRIE ORIGINI .
Pertanto la madre, nel nostro sistema giuridico, ha il diritto di chiedere di partorire nell’anonima¬to, sia in caso di figlio nato nel matrimonio (impedendo che si realizzi la presunzione di paternità prevista nell’art. 231 c.c.) che in caso di figlio nato fuori dal matrimonio (rendendo del tutto am¬missibile in tal modo il non riconoscimento).
È evidente che in quest’ultimo caso non sarà ammissibile la dichiarazione giudiziale di maternità, come ha avuto peraltro modo di precisare Trib. Milano Sez. I, 14 ottobre 2015 affermando che non è ammissibile la dichiarazione giudiziale di maternità nei confronti di una donna che al mo¬mento del parto ha dichiarato di non voler essere nominata, poiché altrimenti verrebbe frustrata la ratio della intera disciplina, ravvisabile non solo nell’esigenza di salvaguardare la famiglia legittima e l’onore della madre, ma anche di impedire che onde evitare nascite indesiderate, si faccia ricorso ad alterazioni di stato o a soluzioni ben più gravi quali aborti o infanticidi.
Il diritto della madre a non essere nominata dopo il parto si rinviene anche in altre due disposizio¬ni normative: per esempio nell’art. 93, comma secondo, del d.lgs. n. 196/2003 (Codice in materia di dati personali) che subordina l’accessibilità al certificato di assistenza al parto o alla cartella clinica, che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, al decorso di anni 100 dalla formazione del documento, così tutelando la scelta dell’anonimato della madre per tutta la vita della stessa e presumibilmente anche per l’intera durata della vita del figlio. Inoltre l’art. 28 della legge n. 184/1983 (Diritto del minore ad una famiglia) che, discipli¬nando l’ipotesi di accesso alle informazioni che riguardino l’origine e l’identità dei genitori biologici di soggetti adottati, prevede espressamente – al comma settimo – che l’accesso a tali informa¬zioni “non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396”.
Il fondamento costituzionale di tali disposizioni, come chiarito dalla Corte Costituzionale, riposa sull’esigenza di tutelare la gestante che versi in situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale ed abbia deciso di non tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata e di mantenere al contempo l’ano¬nimato nella conseguente dichiarazione di nascita. In tal modo si intende, da un lato, assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali sia per la madre che per il figlio, dall’altro, distogliere la donna da “decisioni irreparabili” per quest’ultimo ben più gravi (Corte cost., 25 novembre 2005, n. 425).
Il parto anonimo, che resta tale per cento anni, costituisce quindi un’alternativa offerta alla donna rispetto all’interruzione di gravidanza, lecita ma pur sempre traumatica, ovvero, nelle ipotesi peg¬giori, a comportamenti criminali quali l’infanticidio o l’abbandono di neonato. Il diritto della madre che la legge intende tutelare, per le ragioni sopra esposte, risulterebbe affievolito se la decisione della donna non fosse assistita dalla garanzia della sua perdurante validità per l’intero corso della vita, e se non fosse escluso il rischio per la stessa, in un imprecisato futuro e su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto, di essere disvelata o di essere soggetta agli obblighi genitoriali ai quali aveva inteso sottrarsi manifestando la facoltà, espressamente riconosciuta dalla legge, di rimanere anonima.
Il quadro normativo sopra citato osta alla proposizione e all’accoglimento della domanda di di¬chiarazione giudiziale di maternità ai sensi dell’art. 269 c.c., che avrebbe l’effetto di costituire lo status giuridico di genitorialità e di determinare l’insorgenza delle relative responsabilità, a fronte della perdurante volontà della madre di non essere nominata e di mantenere il proprio segreto nei confronti del figlio dato alla luce.
Recentemente Trib. Roma, 12 maggio 2017 ha precisato che gli eredi di una donna che dichiarò di voler rimanere anonima al momento del parto possono esprimere una determinazione diversa in caso in cui la medesima non lasciò nulla di dichiarato a questo proposito per il tempo successivo alla sua morte. In questo caso, – conclude la decisione – sarebbe ammissibile l’azione di dichiara¬zione giudiziale di maternità nonostante l’opzione per il parto anonimo al momento della nascita del ricorrente.
La decisione si fonda sul fatto che la Corte costituzionale nel caso di parto anonimo, ha riconosciu¬to il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all’identità personale della stessa, “non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, previsto dall’art. 93, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, che determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto (Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278) e l’affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta” (Cass. civ. Sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024; Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838).
In conclusione l’azione per l’accertamento giudiziale della maternità resta impedita dalla dichiara¬zione della madre di voler partorire nell’anonimato ma non nel caso in cui l’azione venga proposta in seguito alla morte della madre se i suoi eredi esprimono una determinazione diversa e la madre non lasciò nulla di dichiarato per il tempo successivo alla sua morte.
XI Accertamento giudiziale della paternità e revocazione della donazione e del testamento per sopravvenienza dei figli
L’art. 80312
12 Art. 803 (Revocazione per sopravvenienza di figli)
Le donazioni fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti al tempo della donazione, possono essere revocate per la sopravvenienza o l’esistenza di un figlio o discendente del donante. Possono inoltre es¬sere revocate per il riconoscimento di un figlio, salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio.
La revocazione può essere domandata anche se il figlio del donante era già concepito al tempo della donazione. e l’art. 687 c.c.13
13 Art. 687 (Revocazione per sopravvenienza di figli)
Le disposizioni a titolo universale o particolare, fatte da chi al tempo del testamento non aveva o ignorava di aver figli o discendenti, sono revocate di diritto per l’esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente del testatore, benché postumo, anche adottivo, ovvero per il riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio.
La revocazione ha luogo anche se il figlio è stato concepito al tempo del testamento.
La revocazione non ha invece luogo qualora il testatore abbia provveduto al caso che esistessero o sopravvenis¬sero figli o discendenti da essi.
Se i figli o discendenti non vengono alla successione e non si fa luogo a rappresentazione, la disposizione ha il suo effetto. prevedono che le donazioni e le disposizioni testamentaria fatte da chi al tempo della donazione o del testamento non aveva o ignorava di aver figli o discendenti, sono revocate di diritto per l’esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente del testatore.
In entrambi i casi alla nascita di un figlio è equiparato il riconoscimento di un figlio non solo spon¬taneo ma anche a seguito di accertamento giudiziale.
Il principio è stato precisato in materia di revocazione del testamento da Cass. civ. Sez. II, 5 gennaio 2018, n. 169, che, annullando una sentenza della Corte d’appello di Roma, ha affermato che va considerato revocato di diritto, ai sensi dell’art. 687 c.c., il testamento nell’ipotesi in cui, a seguito di una dichiarazione giudiziale di paternità intervenuta dopo la morte del testatore, risulti che il testatore aveva generato un figlio (non riconosciuto), il quale non risulti contemplato nel testamento stesso. La norma dell’art. 687 c.c. va cioè interpretata in senso oggettivo, e la sua ratio è ravvisata nella tutela di un interesse familiare a fronte del mutamento della composizione della famiglia, e precisamente nella tutela degli interessi dei più stretti familiari del de cuius, e cioè dei figli, lì dove ignorati o sopravvenuti.
La revocazione avviene, secondo questa sentenza, a prescindere dal fatto che il de cuius fosse o meno a conoscenza dell’esistenza del figlio. Infatti l’assenza di una previsione analoga a quella contenuta nell’art. 803 c.c. 14
14 Art. 803 (Revocazione per sopravvenienza di figli)
Le donazioni fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti al tempo della donazione, possono essere revocate per la sopravvenienza o l’esistenza di un figlio o discendente del donante. Possono inoltre es¬sere revocate per il riconoscimento di un figlio, salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio.
La revocazione può essere domandata anche se il figlio del donante era già concepito al tempo della donazione. (…salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio…”) nella norma di cui all’art. 687 c.c., in tema di testamento, fa propendere per la soluzione secondo cui la sola conoscenza del rapporto di filiazione, in assenza dell’acquisizione dello stato giuridico di figlio non preclude la revocazione del testamento.
XII Il riconoscimento incidenter tantum ai fini del solo mantenimento
Nel nostro sistema giuridico non è possibile scindere gli effetti dell’accertamento giudiziale della paternità o della maternità. La sentenza che accerta la genitorialità (art. 277 c.c.) attribuisce i doveri e i diritti che il genitore ha nei confronti dei figli (art. 261 c.c.).
In un caso, tuttavia, si producono soltanto i doveri di mantenimento ed a questo caso fa riferimen¬to l’art. 279 c.c. (Responsabilità per il mantenimento e l’educazione).
Art. 279 (Responsabilità per il mantenimento e l’educazione)
In ogni caso in cui non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paterni¬tà o di maternità, il figlio nato fuori del matrimonio può agire per ottenere il manteni¬mento, l’istruzione e l’educazione. Il figlio nato fuori del matrimonio se maggiorenne e in stato di bisogno può agire per ottenere gli alimenti a condizione che il diritto al mantenimento di cui all’articolo 315-bis, sia venuto meno.
L’azione è ammessa previa autorizzazione del giudice ai sensi dell’articolo 251.
L’azione può essere promossa nell’interesse del figlio minore da un curatore speciale nominato dal giudice su richiesta del pubblico ministero o del genitore che esercita la responsabilità genitoriale.
Se il genitore biologico è deceduto nessun diritto al mantenimento o di natura ali¬mentare è azionabile essendo i relativi doveri di natura personalissima e quindi non trasmissibili agli eredi.
Tuttavia il codice, volendo venire incontro alle necessità del figlio che si trova nelle condizioni di cui all’art. 279 c.c., prevede anche una tutela di tipo “ereditario” (con la precisazione che questa aggettivazione è impropria dal momento che il figlio che agisce non può essere qualificato erede del presunto genitore biologico defunto). La tutela del figlio in questo caso è la seguente. Nell’i¬potesi di successione ab intestato il figlio può pretendere un assegno vitalizio a carico dell’eredità “pari all’ammontare della rendita della quota di eredità alla quale avrebbe diritto, se la filiazione fosse stata dichiarata o accertata” (art. 580 c.c.), mentre in caso di successione testamentaria o in presenza di donazioni effettuate in vita dal de cuius e sempre che il genitore non abbia disposto in suo favore, il figlio può pretendere un assegno vitalizio a carico degli eredi, dei legatari e dei donatari (art. 594 c.c.).
Nel caso in cui il genitore biologico sia in vita l’azione è strutturata come azione di mantenimento o di natura alimentare, con la previsione di una fase preliminare di autorizzazione analoga alla fase di ammissibilità dell’accertamento giudiziale di paternità o maternità naturale che era prevista nell’art. 274 c.c. prima che la Corte costituzionale ne dichiarasse l’illegittimità costituzionale. Se invece il genitore biologico è deceduto l’azione è strutturata come azione di tipo “ereditario” e non dovrebbe essere preceduta da alcuna autorizzazione (secondo l’interpretazione che qui si proporrà contrastante con l’opinione della giurisprudenza).
Nei procedimenti azionati sulla base dell’art. 279 c.c. l’accertamento del rapporto biologico, ai fini dell’attribuzione delle obbligazioni economiche genitoriali, è fatto incidenter tantum – cioè ai soli fini dell’attribuzione dei doveri di mantenimento o alimentari – e senza dichiarazione formale dello status. Troveranno, ciononostante, applicazione ai fini dell’accertamento della compatibilità gene¬tica tra genitore e figlio gli stessi principi che regolamentano nelle azioni di status l’accertamento della paternità o della maternità biologica e quindi le regole che presiedono alla prova in questo settore, ivi compresi i principi che la giurisprudenza ha via affermato in tema di rifiuto di sottoporsi alle prove genetiche. Vale in particolare il principio generale di libertà di prova indicato nel secondo comma dell’art. 269 c.c. in base al quale “la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo”.
In entrambi i casi (azione di mantenimento/alimentare e azione di tipo “ereditario”) il presupposto è costituito dalla circostanza che “non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di pater¬nità o di maternità” (art. 279 c.c. richiamato anche negli articoli 580 e 594 c.c.).
I problemi, quindi, che la disposizione pone – anche a seguito dei ritocchi subìti ad opera dell’art. 36 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 – sono numerosi15
15 Per i molteplici problemi che l’art. 279 c.c. pone cfr diffusamente la voce RESPONSABILITA’ PER IL MANTENI¬MENTO .
Lo spettro applicativo della norma è piuttosto vasto (può agire previa autorizzazione del tribunale ordinario direttamente l’interessato o il genitore che esercita la responsabilità genitoriale sul figlio minore, ovvero un curatore speciale nominato su richiesta del pubblico ministero) ma il presuppo¬sto è soltanto uno e cioè il non potersi proporre l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità.
A dire il vero questa impossibilità è piuttosto ristretta nel nuovo sistema della filiazione, in quanto l’azione è imprescrittibile nei confronti del figlio e quindi sempre proponibile.
Poiché “la paternità o la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il ri-conoscimento è ammesso” (art. 269, primo comma,c.c.) l’azione di mantenimento e alimentare prevista nell’art. 279 c.c. è stata storicamente l’azione a disposizione dei figli per i quali non era ammesso il riconoscimento, cioè dei figli irriconoscibili, in particolare di quelli nati da relazione con¬sapevolmente incestuosa per i quali l’art. 251 della formulazione originaria del codice escludeva del tutto la possibilità di riconoscimento e quindi della corrispondente dichiarazione giudiziale. E’ stata la Corte costituzionale a modificare questo quadro di riferimento allorché dichiarò incosti¬tuzionale l’art. 278 c.c. (divieto di indagini sulla paternità e sulla maternità nei casi di nascita da relazione incestuosa) nella parte in cui non consentiva in tali casi l’azione per la dichiarazione della paternità e della maternità naturale (Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494) aprendo la strada alle norme sulla riconoscibilità, sia pure condizionata ad una autorizzazione giudiziaria, dei figli nati da relazione incestuosa introdotte con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154.
Con queste premesse si possono quindi indicare le situazioni in cui oggi è ammissibile e concreta¬mente praticabile l’azione ex art. 279 c.c.
1) Figli nati da relazione incestuosa per i quali l’autorità giudiziaria non concede l’autorizzazione per il riconoscimento o per l’accertamento giudiziale della paternità o della maternità.
L’attuale quadro normativo relativo ai figli nati da relazione incestuosa – cioè nati da persone “tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all’infinito [nonni, genitori, figli, nipoti] o in linea collaterale nel secondo grado [fratelli, sorelle], ovvero un vincolo di affinità in linea retta [suoceri,nuore, generi]” (art. 251 c.c.) – prevede la possibilità sia del riconoscimento che del promovimen¬to dell’azione per la dichiarazione giudiziale, ma in entrambi i casi subordinata alla autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria “avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio” (art. 251 c.c. anche richiamato dall’art. 278 c.c.).
Pertanto se l’autorità giudiziaria non concede l’autorizzazione si verifica un caso in cui “non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale” con la conse¬guenza che il figlio ai sensi dell’art. 279 c.c. può proporre l’azione di mantenimento o l’azione alimentare.
2) Il figlio nato da persona infrasedicenne
Secondo l’ultimo comma dell’art. 250 c.c. per poter riconoscere un figlio nato fuori del matrimonio è necessario aver compiuto i 16 anni. Sotto questa età per riconoscere un figlio occorre l’autoriz¬zazione del tribunale (ordinario ex art. 38 disp. att. c.c. come modificato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e dall’art. 96 lett. c del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154). Di conseguenza non è ipotizzabile nemmeno da parte del nato l’azione dichiarativa per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità (art. 269, primo comma c.c. . “la paternità o la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso”). Pertanto il genitore biolo¬gico che non ha compiuto 16 anni o che non chiede o non ottiene l’autorizzazione per riconoscere il figlio, potrebbe essere convenuto in un giudizio di mantenimento (da un curatore speciale nomi¬nato dal giudice su richiesta del pubblico ministero o dell’altro genitore che eventualmente abbia riconosciuto il figlio e che esercita la responsabilità genitoriale). Naturalmente al compimento del sedicesimo anno di età del genitore biologico (cioè in età in cui è possibile riconoscere un figlio) sarà possibile nei suoi confronti l’azione di paternità o di maternità con la conseguenza che viene meno la legittimazione ad agire del figlio ex art. 279 c.c. Si comprende perciò come questa ipotesi di azione ex art. 279 c.c. sia sostanzialmente un caso di scuola essendo del tutto ragionevole ipo¬tizzare che l’avente diritto possa attendere il poco tempo che lo separa dalla nascita al compimento del sedicesimo anno di età del genitore biologico per agire con l’azione di status nei confronti del genitore biologico stesso.
3) Figlio minore per il quale l’autorità giudiziaria ritiene contrastante con il suo interesse la dichia¬razione della paternità o maternità naturale o l’autorizzazione al riconoscimento tardivo.
L’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità naturale (art. 269 c.c.) era caratterizzata – nell’impianto originario del codice civile – dalla previsione di una fase di ammissi¬bilità (art. 274 c.c.) nella quale il giudice aveva il compito di accertare il fumus della pretesa. Nel caso di minore età del figlio l’azione era esercitata dal genitore esercente la potestà (art. 273 c.c.) e in questa fase compito del giudice era valutare anche l’interesse del minore (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341). Successivamente, come si è già detto, la Corte costituzionale ha cancellato la fase di ammissibilità ritenendola un inutile elemento di disturbo per la dilatazione dei tempi che deter¬minava e quindi contrastante con il diritto di azione garantito dall’art, 24 della costituzione (Corte cost., 10 febbraio 2006, n. 50). In questa sentenza la Corte precisava che “in presenza di una incostituzionalità che coinvolge il procedimento nella sua struttura e funzione, la circostanza che lo stesso abbia anche lo scopo di accertare l’interesse del minore non fa venire meno l’incostituzio¬nalità stessa, né giustifica la permanenza nell’ordinamento del giudizio di ammissibilità con questo solo scopo. L’esigenza, infatti, che l’azione di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale risponda all’interesse del minore non viene certamente meno con la soppressione del giudizio di cui all’art. 274 del codice civile, ma potrà essere eventualmente delibata prima dell’ac¬certamento della fondatezza dell’azione di merito”. Si è sopra visto come l’interesse del minore costituisca tuttora un elemento di valutazione in tutte le cause sullo status filiationis.
Quanto alla individuazione del giudice competente a trattare la causa e a concedere l’autorizzazio¬ne è necessario rilevare che il secondo comma dell’art. 279 c.c. nel testo vigente fa riferimento all’art. 251 c.c. (“L’azione è ammessa previa autorizzazione del giudice ai sensi dell’articolo 251”) il quale a sua volta prevede (per il riconoscimento del figlio nato da relazione incestuosa e per il promovimento, sempre in caso di nascita da relazione incestuosa, dell’azione dichiarativa della paternità o della maternità naturale) la previa autorizzazione da parte del giudice “avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio”. La competenza a concedere queste autorizzazioni è del tribunale per i minorenni secondo il testo dell’art. 38 disp. att. c.c. come modificato dall’art. 3 legge 219/2012 e dall’art. 96 lett. c del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154). Deriva da quanto detto che competente ad autorizzare la domanda di mantenimento ex art. 279 c.c. promossa dal curatore speciale nell’interesse del soggetto minore di età sarà il tribunale per i minorenni il quale sarà anche competente per la fase di merito essen¬do assolutamente inconcepibile che le due fasi di un unico giudizio possano essere attribuite alla cognizione di giudici diversi.
In conclusione la competenza sulla domanda di mantenimento ex art. 279 c.c. promossa dal figlio minore continua ad appartenere per entrambe le fasi (sia la fase di autorizzazione che per quella di merito) alla competenza del tribunale per i minorenni.
Se l’interessato è maggiorenne la competenza ad autorizzare l’azione e a trattare la causa è del tribunale ordinario.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 3638 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata partecipazione del Pubblico Ministero non comporta una lesione del contraddittorio rilevabile in ogni stato e grado del giudizio e tale da giustificare la rimessione degli atti al primo giudice, ai sensi dell’art. 354 cod. proc. civ., ma, essendo l’intervento prescritto pur sempre a pena di nullità, rilevabile anche d’ufficio ai sensi dell’art. 70 cod. proc. civ., la mancata effettuazione degli adempimenti necessari per portare la pendenza del giudizio a sua conoscenza si traduce in un vizio che, convertendosi in motivo di gravame, ai sensi dell’art. 161 cod. proc. civ., può essere fatto valere attraverso l’impugnazione della sentenza.
Cass. civ. Sez. II, 5 gennaio 2018, n. 169 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È revocato di diritto, ai sensi dell’art. 687 c.c., il testamento nell’ipotesi in cui, a seguito di una dichiarazione giudiziale di paternità intervenuta dopo la morte del testatore, risulti che il testatore aveva generato un figlio (non riconosciuto), il quale non risulti contemplato nel testamento stesso. La norma dell’art. 687 c.c. va cioè interpretata in senso oggettivo, e la sua ratio è ravvisata nella tutela di un interesse familiare a fronte del mu¬tamento della composizione della famiglia, e precisamente nella tutela degli interessi dei più stretti familiari del de cuius, e cioè dei figli, lì dove ignorati o sopravvenuti. La revocazione avviene a prescindere dal fatto che il de cuius fosse o meno a conoscenza dell’esistenza del figlio. Infatti l’assenza di una previsione analoga a quella contenuta nell’art. 803 c.c. nella norma di cui all’art. 687 c.c., in tema di testamento, fa propendere per la solu¬zione secondo cui la sola conoscenza del rapporto di filiazione, in assenza dell’acquisizione dello stato giuridico di figlio non preclude la revocazione del testamento.
va individuato in un’esigenza di carattere oggettivo rappresentata dalla tutela dei figli in conseguenza di una mo¬dificazione della situazione familiare, in relazione alla quale il testatore aveva disposto. Tenuto conto che ciò che rileva ai fini della caducazione del testamento è la sopravvenienza o la scoperta dell’esistenza di una filiazione in senso giuridico, e non anche in senso meramente naturalistico, ne segue che la sola conoscenza del rapporto di filiazione non preclude la revocazione del testamento, anche nel caso in cui la dichiarazione giudiziale di paternità intervenga dopo la morte del testatore.
Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il favor veritatis non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che l’art. 30 Cost. non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale. Nel disporre, al quarto comma, che “la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità “, l’art. 30 Cost. ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del figlio.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 novembre 2017, n. 26914 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche – nella specie opposto da tutti gli eredi legittimi del preteso padre – costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2017, n. 18626 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche – nella specie opposto da tutti gli eredi legittimi del preteso padre – costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2017, n. 15201 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità, è correttamente motivata la decisione di merito che ha accer¬tato il legame genitoriale sulla base sia della prova testimoniale, relativa alla relazione tra i pretesi genitori, sia di una consulenza tecnica d’ufficio genetica, oggetto di censure generiche, o prive di specifico riscontro scientifico, o comunque di merito (nella specie, il preteso padre si era limitato a illazioni sulle generalità del vero genitore e a segnalare che la stessa c.t.u. aveva evidenziato l’esistenza di due marcatori incompatibili tra lui e il minore, senza però nemmeno prospettare che da ciò sarebbe derivata l’erroneità delle conclusioni cui è giunta la relazio¬ne, che ha comunque stimato una compatibilità genetica, tra lui e il minore, del 99,98 per cento).
Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2017, n. 14896 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Posto che nelle cause relative allo stato delle persone (nella specie, accertamento giudiziale della paternità) l’intervento del pubblico ministero è obbligatorio, la mancata trasmissione degli atti a quest’ultimo, anche in grado di appello, in modo che egli sia informato e messo in condizione di adottare le proprie determinazioni al riguardo, comporta la nullità della sentenza (nella specie, la Suprema corte ha cassato quest’ultima con rinvio, una volta accertato che non vi era la prova della comunicazione della pendenza della causa al procuratore gene¬rale, affinché, integrato il contraddittorio, si proceda nuovamente al giudizio).
Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 2017, n. 13880 (Giur. It., 2017, 8-9, 1841 nota di FIORE)
Nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica c.d. percepiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l’inca¬rico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti ma di accertare i fatti stessi. È necessario e sufficiente, in tal caso, che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamen¬to richieda specifiche cognizioni tecniche, perché la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova.
Trib. Messina Sez. I, 17 maggio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269, comma 2, c.c., non tollera sur¬rettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa dispo¬sizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo “status”.
Trib. Roma, 12 maggio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli eredi di una donna che dichiarò di voler rimanere anonima al momento del parto possono esprimere una determinazione diversa in caso in cui la medesima non lasciò nulla di dichiarato a questo proposito per il tempo successivo alla sua morte. In questo caso, è ammissibile l’azione di dichiarazione giudiziale di maternità nono¬stante l’opzione per il parto anonimo al momento della nascita del ricorrente.
Cass. civ. Sez. I, 7 aprile 2017, n. 9059 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La prescrizione del diritto del genitore ad ottenere dall’altro genitore il rimborso pro quota delle spese anticipate per il mantenimento del figlio nato fuori dal matrimonio decorre dal riconoscimento del figlio da parte dell’altro genitore o dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2017, n. 8617 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il favor veritatis non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che l’art. 30 Cost., non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale, ma, nel disporre al comma 4, che “la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità “, ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituziona¬le, la paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del figlio.
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 c.c., e, quindi, giusta l’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 c.c.. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale ed assume, di conseguenza, pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frat¬tempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 c.c.), ha diritto di regresso per la corrispon¬dente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 c.c. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, la condanna al rimborso di detta quota per il periodo precedente la proposizione dell’azione non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronuncia alla definizione dei rapporti pregressi tra debi¬tori solidali, ossia a diritti disponibili, e, quindi, non incidendo sull’interesse superiore del minore, che soltanto legittima l’esercizio dei poteri officiosi attribuiti al giudice dall’art. 277, comma 2, c.c. La necessità di analoga domanda non ricorre riguardo ai provvedimenti da adottare in relazione al periodo successivo alla proposizione dell’azione, atteso che, durante la pendenza del giudizio, resta fermo il potere del giudice adito, in forza della norma suindicata, di adottare di ufficio i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore. (In applicazione di detti principi, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata per aver trascurato sia la circostanza che le parti avevano compiutamente delimitato, in termini temporali, l’ambito delle rispettive pretese, sia che, al momento dell’introduzione dell’azione, la figlia non era minorenne, con la conseguenza che non residuava alcuno spazio per l’esercizio di poteri officiosi da parte del giudice.
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell›art. 270 c.c. nella parte in cui prevede l›imprescrittibilità dell›azione per il riconoscimento di paternità naturale proposta dal figlio, con l›effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo, atteso che la mancata previsione di un termine, soprattutto alla luce della previgente norma che lo prevedeva, non significa che un bilanciamento con la contrapposta tutela del figlio sia mancato, ma solo che esso è stato operato rendendo recessiva l’aspettativa del padre rispetto alle esigenze di vita e di riconoscimento dell’identità perso¬nale del figlio.
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7958 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La prova della fondatezza della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità fuori dal matrimonio, non sussistendo un ordine gerarchico, può trarsi anche dal comportamento delle parti, e in particolare dal rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi alle prove genetiche, da valutarsi anche tenuto conto del contesto sociale e, globalmente, di tutte le circostanze del caso (la Suprema corte ha confermato la sentenza di merito, che ha accolto la domanda, tenuto conto, tra l’altro, della mancata disponibilità in concreto del padre al prelievo per l’esame genetico, in quanto egli si era limitato a far pervenire la copia di una analisi genetica effettuata all’estero, su un campione asseritamente da lui prelevato alla presenza di un notaio e di due testimoni, analisi non utilizzata sia per la mancanza di adeguate garanzie sulla sua corretta esecuzione, sia sulla coincidenza di quel campione con quello concretamente esaminato dal laboratorio).
Trib. Messina Sez. I, 20 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 269 c.c., la maternità è dimostrata provando l’identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre e si ritiene comunemente che tale prova possa essere fornita per presunzioni, essendo in pratica quasi impossibile fornire la diretta dimostrazione di un fatto intimo e riservato come il concepimento ad opera del preteso padre o della pretesa madre.
Trib. Treviso Sez. I, 10 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa del rapporto di filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento (tardivo) e quin¬di, a norma dell’art. 261 c.c., comporta da parte del genitore tutti i doveri e tutti i diritti propri della procreazione legittima.
Trib. Padova Sez. I, 6 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio promosso ai fini dell’accertamento della paternità naturale, il rifiuto del preteso padre di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, comma 2, c.p.c., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 15 febbraio 2017, n. 4020 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il principio del favor veritatis – che riconosce la prevalenza della verità biologica, su quella legale – è alla base della responsabilità genitoriale e della ricerca della paternità, previste dall’art. 30, commi 1 e 4, Cost., e dell’im¬portanza della discendenza biologica e della connessa identità personale, diritti fondamentali della persona rico¬nosciuti dalla Costituzione ed anche dalla normativa internazionale. Al legislatore ordinario resta la scelta discre¬zionale delle modalità procedurali ed attuative, che consente ai soggetti interessati di ottenere l’accertamento della verità biologica, com’è quella del curatore speciale nominato dal giudice (art. 244, ultimo comma, c.c.) su richiesta del minore che ha superato i 14 o anche su istanza del padre biologico – come nel caso di specie – ma non anche il potere di precludere tali accertamenti in base a valutazioni di opportunità preventive ed astratte.
Trib. Pordenone, 9 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’anticipazione in via provvisoria, ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie conte¬nute in sentenze costitutive, non è consentita, occorrendo il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico; è invece consentita quando la statuizione condannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento temporale successivo del pas¬saggio in giudicato.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 783 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità , l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, in forza del principio della libertà della prova, alla stregua del quale da un lato tutti i mezzi di prova hanno pari valore, dall’altro la loro scelta e valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito (nella specie, la Suprema corte ha confermato la sentenza di merito che aveva accertato la paternità alla stregua dei risultati univoci della consulenza tecnica d’ufficio, sicché non aveva ammesso, in quanto superflua, la prova per testi richiesta dalle altre parti).
L’azione di dichiarazione giudiziale di paternità, ove non riguardi un minore, deve essere introdotta, davanti al tribunale, con il rito ordinario; nondimeno, allorché sia stata introdotta con ricorso, e trattata con il rito camerale, la parte che fa rilevare la nullità della sentenza per tale motivo ha l’onere di dedurre lo specifico pregiudizio al diritto di difesa che le sarebbe derivato dal rito pur erroneamente seguìto.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 781 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, l’art. 250 c.c. (come modificato dall’art. 1, comma 2, lett. b, della l. n. 219 del 2012) subordina, nell’ipotesi di minore infraquattordicenne, la possibilità del secondo riconoscimen¬to al consenso del genitore che detto riconoscimento ha già effettuato e dispone, altresì, che, al compimento del quattordicesimo anno, il minore (anche se nato o concepito prima dell’entrata in vigore della l. n. 219 del 2012cit.) divenga titolare di un autonomo potere di incidere sul diritto del genitore al riconoscimento, confi¬gurando il suo assenso quale elemento costitutivo dell’efficacia della domanda stessa di riconoscimento. Ne consegue che il raggiungimento, da parte del minore, della “maggiore età” ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio, rilevabile d’ufficio, determina il venir meno della necessità del consenso del pri¬mo genitore al riconoscimento da parte dell’altro e, in difetto, dell’intervento del giudice. (Nella specie, la S.C., preso atto che il minore aveva compiuto quattordici anni nel corso del processo ed aveva rifiutato il suo assenso al riconoscimento, ha dichiarato, su ricorso della madre, cessata la materia del contendere, cassando senza rinvio la sentenza di riconoscimento della paternità).
Cass. civ. Sez. I, 29 novembre 2016, n. 24292 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c. nella parte in cui, affer¬mandosi l’imprescrittibilità dell’azione per il riconoscimento di paternità naturale proposta dal figlio, non sarebbe previsto un termine decadenziale per l’ipotesi in cui l’azione sia esercitata con notevole ritardo, con l’effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo. Infatti, da un lato, il diritto al riconoscimento di uno “status” filiale corrispondente alla verità biologica costituisce una componente essenziale del diritto all’identità personale, riconducibile all’art. 2 Cost. ed all’art. 8 CEDU, che accompagna la vita individuale e relazionale e l’incertezza su tale “status” può determinare una condizione di disagio ed un “vulnus” allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità; e, dall’altro, l’eventuale ac¬coglimento della questione sarebbe impedito dal rilievo secondo cui solo il legislatore potrebbe stabilire la durata del termine da sostituire all’imprescrittibilità.
Cass. civ. Sez. VI, 14 luglio 2016, n. 14417 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento da cui conseguono tutti i doveri propri della procreazione legittima tra i quali l’obbligo di mantenimento. La relativa obbligazione si collega allo status genitoriale e assume decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che l’altro genitore, il quale nel frattempo ha sostenuto l’onere di mantenimento anche per la porzione di pertinenza del figlio dichia¬rato giudizialmente, ha diritto di regresso per la corrispondente quota.
Trib. Milano, 14 ottobre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non può essere accolta la domanda di riconoscimento della maternità naturale, ai sensi dell’art. 269 c.c., nell’ipo¬tesi in cui la madre al momento del parto abbia espressamente dichiarato di non voler essere nominata e risulti la sua perdurante volontà di esercitare il suo diritto all’ anonimato.
Trib. Potenza, 16 novembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, che è un ordinario giudizio di cognizione al quale va applicata la normativa generale di cui agli artt. 70 e 72 c.p.c., l’obbligatorietà dell’in¬tervento del P.M. non richiede la partecipazione del rappresentante di quell’ufficio alle varie udienze, essendo assicurata l’osservanza del precetto normativo ove egli sia stato ufficialmente informato dell’esistenza del pro¬cedimento, così da avere la possibilità di intervenire e di esercitare i poteri attribuitigli dalla legge, restando irrilevante che in concreto egli non partecipi alle udienze e non formuli conclusioni.
Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838 (Famiglia e Diritto, 2017, 1, 19 nota di ANDREOLA)
Il diritto dell’adottato, nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ex art. 30, comma 1, D.P.R. n. 396 del 2000, ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l’identità della madre biologica, sussiste e può essere concretamente esercitato anche se la stessa sia morta e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando, nella fatti¬specie, il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto, o della cartella clinica, di cui all’art. 93, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 196 del 2003, salvo il trattamento lecito e non lesivo dei diritti di terzi dei dati personali conosciuti.
Cass. civ. Sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024 (Nuova Giur. Civ., 2017, 3, 319 nota di STANZIONE)
Il diritto all’anonimato è tutelato dall’art. 93, comma 2, D.Lgs. n. 196/2003, che consente il rilascio dei docu-menti idonei ad identificare la madre solo dopo che siano decorsi cento anni dalla loro formazione. Tuttavia, sulla scorta della giurisprudenza della Corte Costituzionale, si può affermare che l’istituto in questione è legittimo a condizione della sempre attuale reversibilità del segreto. Da ciò discende che il termine previsto dal citato art. 93, comma 2, D.Lgs. n. 196/2003 non può ritenersi operativo oltre il limite di vita della madre, perché la conseguenza della morte della madre che ha partorito in anonimo sarebbe quella di reintrodurre quella cristal¬lizzazione della scelta per l’anonimato che la Corte Costituzionale ha ritenuto lesiva degli artt. 2 e 3 della Carta fondamentale.
Trib. Cassino, 15 giugno 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio nasce al momento della sua nascita, anche se la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza. La sentenza dichiarativa della filiazione naturale, invero, produce gli effetti del riconoscimento comportando per il genitore, ai sensi dell’art. 261 c.c., tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ai sensi dell’art. 148 c.c. Conseguentemente, anche nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, per ciò stesso non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale. Su tale base, la violazione dei relativi doveri non trova la sua sanzione, necessariamente e soltanto, nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, in quanto la natura giuridica di tali obblighi implica che la relativa violazione, nell’ipotesi in cui provochi la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. (Nel caso di specie, Il Tribunale ha condannato il padre naturale di una ragazzina di tredici anni a risarcirle i danni non patrimoniali conseguiti al totale disinteresse dimostrato nei suoi confronti, tale da avere determinato una vera e propria lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione, i quali trovano negli artt. 2 e 30 della carta costituzionale, oltre che in normative internazionali recepite nel nostro ordinamen¬to, un elevato grado di riconoscimento e tutela. Di conseguenza, considerata anche la giovane età della figlia, il giudice di merito ha condannato il padre a versare, a titolo di danno non patrimoniale per abbandono morale della minore, la somma di 52.000 euro, liquidata in via equitativa).
Trib. Milano, 31 maggio 2016 (Nuova Giur. Civ., 2016, 11, 1473 nota di Siclari)
È ammissibile l›azione cautelare, promossa dalla madre del concepito, per accedere a materiale biologico del convivente defunto, al fine di conservare elementi di prova da spendere nel futuro giudizio di accertamento della paternità ex art. 269 cod. civ. L’azione può in particolare essere promossa dove, come nel caso di specie, il corpo del presunto padre non possa essere oggetto di esumazione, attesa la intervenuta cremazione.
Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 2016, n. 3479 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269, comma 2, c.c., non tollera sur¬rettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa dispo¬sizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo “status”.
App. Messina Sez. I, 19 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di filiazione naturale, la prova della fondatezza della domanda di accertamento della paternità naturale può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti da valutarsi globalmente, tenendo conto delle dichiarazioni della madre e della portata delle difese del convenuto. In tale ottica, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce un comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116, comma 2 c.p.c..
Trib. Perugia, 11 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le prove emato-genetiche sono prove in senso proprio, giacché l’attuale livello della ricerca ed esperienza scien¬tifica consente di esprimere, grazie ad esse, sufficienti garanzie nel ritenere decisivo il loro contributo nell’attri¬buzione della paternità o maternità di un soggetto, conseguendo risultati dotati di un alto grado di probabilità prossimo alla certezza.
Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25675 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito del giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi agli esami ematologici può essere liberamente valutato dal giudice, secondo quanto disposto dall’art. 116, comma 2, c.p.c., anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra le parti, non derivando da ciò né una restrizione della liberà personale del preteso padre, che conserva piena facoltà di determinazione in ordine all’assoggettamento o meno ai prelievi, né una violazione del diritto alla riservatezza, atteso che l’uso dei dati è rivolto solo a fini di giustizia, mentre il sanitario, chiamato a compiere l’accertamento, è tenuto al segreto professionale ed al rispetto della disciplina in materia di protezione dei dati personali.
Cass. civ. Sez. I, 1 dicembre 2015, n. 24444 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame del dna ai fini dell’accertamento della paternità non può essere qualificato come una presunzione desunta da una circostanza di fatto avente valore presuntivo, ma come uno elemento fattuale incidente sulla decisione finale, al pari di altre circostanze (quali, nella fattispecie, la crema¬zione del presunto padre, la sussistenza di una relazione sentimentale e sessuale compatibile con l’epoca del concepimento e della cura della minore da parte del defunto ecc.). Del resto, la valutazione di tali elementi effettuata dal giudice di merito risulta insindacabile da parte del giudice di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23296 (Giur. It., 2016, 5, 1117 nota di RONCO)
Nell’ambito del giudizio per la dichiarazione della paternità, l’accoglimento della domanda può fondarsi, in fatto, anche soltanto sul rifiuto del presunto padre di sottoporsi alle indagini ematiche volte ad accertare le sue carat¬teristiche genetiche e la loro relazione con quelle del presunto figlio.
Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23290 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, la consulenza tecnica ematologica è uno strumento istruttorio officioso rivolto verso l’unica indagine decisiva in ordine all’accertamento della verità del rapporto di filiazione e, pertanto, la sua richiesta, da un lato, non può essere ritenuta esplorativa, intendendosi come tale l’istanza rivolta a supplire le deficienze allegative ed istruttorie di parte, così da aggirare il regime dell’onere della prova sul piano sostanziale o i tempi di formulazione delle richieste istruttorie sul piano processuale, e, dall’altro, non essendo soggetta al regime processuale delle istanze di parte, non può essere oggetto di rinuncia, anche implicita.
Cass. civ. Sez. I, 2 ottobre 2015, n. 19734 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 262, comma 2, c.c., prospettando in termini di mera eventualità l’assunzione del cognome paterno in caso di riconoscimento o accertamento della filiazione nei confronti del padre successivamente al riconoscimento da parte della madre, esclude la configurabilità di tale vicenda come effetto automatico del riconoscimento o della dichiarazione giudiziale di paternità, riconoscendo al figlio nato fuori del matrimonio una facoltà discrezionale, cui corrisponde una situazione di soggezione al genitore.
In caso di dichiarazione giudiziale di paternità, l’assunzione del cognome paterno da parte del figlio maggiorenne non è configurabile quale pronuncia accessoria da rendere d’ufficio ma, in quanto espressione di un diritto po¬testativo del figlio, richiede una apposita domanda da formularsi nell’atto di citazione o comunque nel termine ultimo di cui all’art. 183, comma 5, c.p.c. (nel testo applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modifiche intro¬dotte con il d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. dalla l. n. 80 del 2005).
Cass. civ. Sez. VI – 1, 4 settembre 2015, n. 17664 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nelle cause relative allo stato delle persone (nella specie, accertamento giudiziale della paternità), la mancata trasmissione degli atti al P.M., il cui intervento è obbligatorio ai sensi dell’art. 70, n. 3, c.p.c., dà luogo a nullità della sentenza che, se resa nel giudizio di appello, va cassata con rinvio alla corte d’appello affinché, previo coinvolgimento del P.G., proceda alla trattazione e decisione della causa.
Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2015, n. 12312 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dichiarazione giudiziale di paternità naturale non può trovare esclusivo fondamento probatorio sull’ingiusti¬ficato rifiuto del presunto genitore di sottoporsi al prelievo biologico necessario all’espletamento del disposto esame ematologico, qualora, prima della pronuncia della sentenza recante il predetto accertamento, gli eredi del presunto genitore, deceduto nelle more del giudizio, abbiano manifestato la loro disponibilità a sottoporsi agli esami, genetici ed ematologici, necessari all’accertamento della dedotta paternità ed abbiano, altresì, dichiarato la loro non opposizione allo svolgimento di esami anche attraverso prelievo di materiale generico dal corpo del loro ascendente deceduto. La valorizzazione del rifiuto a sottoporsi ad un accertamento peritale di così pene¬trante rilevanza presuppone, invero, che il rifiuto sia effettivo e persistente al momento della decisione da parte del giudice di merito e che una revoca di tale rifiuto non possa essere soggetta a preclusioni che attengono alla deduzione ed all’acquisizione dei mezzi di prova; la valorizzazione del predetto rifiuto, pertanto, non è giustifi¬cata nell’ipotesi in cui gli eredi del presunto genitore abbiano manifestato la loro disponibilità nei termini di cui innanzi, non essendo ad essi opponibile un comportamento processuale pregresso che trova le sue ragioni in motivazioni strettamente personali e, come tali, non estensibili all’erede.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11874 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, la prova della fondatezza della doman¬da può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti, da valutarsi globalmente, tenendo conto delle dichiarazioni della madre naturale e della portata delle difese del convenuto.
Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 3079 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 della Costituzione – oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento – un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.
Cass. civ. Sez. VI, 20 gennaio 2015, n. 798 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato la sospensione del giudizio pregiudicato può essere disposto soltanto ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., sicché ove il giudice abbia provveduto ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., il relativo provvedimento, a prescindere da ogni accertamento circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità, è illegittimo e va annullato, ferma restando la possibilità, da parte del giudice di merito dinanzi al quale il giudizio andrà riassunto, di un nuovo e motivato provvedimento di sospensione ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ. (In applicazione del detto principio, la S.C. ha accolto il ricorso proposto avverso l’ordinanza di sospensione, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., del giudizio introdotto dall’INAIL in surroga, nei confronti dei responsabili dell’infortunio sul lavoro occorso al lavoratore, pendendo in appello il giudizio tra i danneggiati e i responsabili del sinistro stradale.
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2014, n. 26062 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di filiazione naturale, l’attribuzione del cognome del genitore che effettua il secondo riconoscimento, anche in aggiunta al cognome del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento del figlio, costituisce facoltà e non anche necessità. In ipotesi siffatte l’esigenza preminente è quella di garantire l’interesse del figlio a conservare il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale in una determinata comunità. L’organo giurisdizionale, pertanto, deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto sino al momento del riconoscimento del secondo genitore (specificamente il padre), ed è chiamato ad emettere un provvedimento contrassegnato da ampio mar¬gine di discrezionalità e frutto di libero e prudente apprezzamento, nell’ambito del quale assume rilievo centrale l’interesse del minore ad essere identificato nel contesto delle relazioni sociali in cui si trova inserito. Tale sta¬tuizione, proprio in quanto connotata da ampia discrezionalità, è incensurabile in Cassazione se adeguatamente motivata (come nella specie).
Cass. civ. Sez. VI, 9 dicembre 2014, n. 25861 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pendenza di una lite sulla validità dell’accordo giustificativo della separazione consensuale tra coniugi pregiu¬dica, in senso tecnico giuridico, l’esito del giudizio, contemporaneamente pendente, di cessazione degli effetti civili del loro matrimonio, e ne comporta la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ., perché l’eventuale annul¬lamento di quell’accordo determinerebbe il venir meno, con effetto “ex tunc”, di un presupposto indispensabile della pronuncia di divorzio.
È configurabile la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. del giudizio di cessazione degli effetti civili del ma-trimonio che penda contemporaneamente a quello riguardante l’annullamento della separazione consensuale omologata tra gli stessi coniugi.
Cass. civ. Sez. VI, 12 novembre 2014, n. 24046 (Giur. It., 2015, 6, 1395 nota di BERTILLO)
L’ordinanza con la quale viene disposta la sospensione discrezionale del processo ai sensi dell’art. 337, cpv., c.p.c. deve anche indicare le ragioni per le quali il giudice non intenda riconoscere l’autoritaè della prima sen¬tenza, giaè intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condivide il merito e le ragioni giustificatrici.
Ai fini del legittimo esercizio del potere di sospensione discrezionale del processo, previsto dall’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., è indispensabile un’espressa valutazione di plausibile controvertibilità della decisione di cui venga invocata l’autorità in quel processo, sulla base di un confronto tra la decisione stessa e la critica che ne è stata fatta. Ne consegue che la sospensione discrezionale in parola è ammessa ove il giudice del secondo giudizio motivi esplicitamente le ragioni per le quali non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condivide il merito o le ragioni giustificatrici.
Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2014, n. 19790 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità, l’art. 276 c.c., come novellato dall’art. 1, 5° comma, L. 10 dicembre 2012, n. 219, che prevede, qualora sia deceduto il preteso genitore e manchino, o siano a loro volta deceduti i suoi eredi, la legittimazione passiva di un curatore speciale, si applica anche ai giudizi pendenti alla sua entrata in vigore (nella specie, la Suprema corte ha cassato la sentenza di merito che, in applicazione del testo originario dell’art. 276 c.c., mancando legittimati passivi, aveva disatteso la domanda, benché gli attori avessero tempestivamente ma inutilmente chiesto la nomina di un curatore speciale, e ha pertanto dichiarato nullo il procedimento, rimettendo la causa al giudice di primo grado per la nomina di tale curatore, fermo il diritto di intervento degli eredi degli eredi del preteso genitore).
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di filiazione naturale, il diritto al rimborso delle spese a favore del genitore che ha provveduto al man¬tenimento del figlio fin dalla nascita, ancorché trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all’altro genitore, ha natura in senso lato indennitaria, in quanto diretto ad indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, degli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole. Ne consegue che il giudice di merito, ove l’importo non sia altrimenti quantificabile nel suo preciso ammontare, legittimamente provvede, per le somme dovute dalla nascita fino alla pronuncia, secondo equità trattandosi di criterio di valutazione del pregiudizio di portata generale, fermo restando che, essendo la richiesta di indennizzo assimilabile ad un’azione di ripetizione dell’indebito, gli interessi, in assenza di un precedente atto stragiudiziale di costituzione in mora, decorrono dalla data della domanda giudiziale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 24 giugno 2014, n. 14274 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 295 c.p.c., la cui ragione fondante è quella di evitare il rischio di un conflitto tra giudicati, fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico – giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione neces¬saria del processo non è configurabile nell’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello sul “quantum”, fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico, essendo in tal caso applicabile l’art. 337, secondo comma, c.p.c., il quale, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa di tale processo.
Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 2014, n. 11211 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di accertamento della paternità naturale, mentre la condanna al rimborso della quota del genitore che, prima della pronuncia, abbia provveduto integralmente al mantenimento della prole, presuppone la domanda di parte, non è necessaria alcuna specifica richiesta in ordine ai provvedimenti relativi al mantenimento del minore per il periodo successivo alla proposizione dell’azione, in relazione ai quali il giudice è dotato di poteri ufficiosi.
Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2014, n. 10783 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di morte del preteso genitore, legittimati passivi all’azione di dichiarazione giudiziale di paternità sono esclusivamente i suoi eredi, e non anche gli eredi degli eredi, ai quali, in quanto portatori di un interesse con¬trario all’accoglimento della domanda, è riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio. Tale soluzione risponde ad una interpretazione, letterale e sistematica, dell’art. 276 cod. civ., che, nel prevedere che l’azione “deve” essere proposta nei confronti degli eredi diretti ed immediati del preteso genitore defunto, ne esclude, implicitamente, la possibilità di altri (ai quali, diversamente, resterebbe preclusa la possibilità di intervenire) e trova conferma nella nuova formulazione della norma, che contempla, in mancanza di eredi, la possibilità di agire nei confronti di un curatore nominato dal giudice.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di mantenimento del figlio naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente azionabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, che conseguentemente costituisce il “dies a quo” della decor¬renza della ordinaria prescrizione decennale.
Cass. civ. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 6207 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato – salvo nel caso in cui la sospensio¬ne sia imposta da una disposizione specifica fino al passaggio in giudicato – soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., come si trae dall’interpretazione sistematica della disciplina del processo, in cui un ruolo decisivo rive¬ste l’art. 282 cod. proc. civ. e il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, giustificando sia l’esecuzione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado. (Nella specie, la S.C. ha cassato l’ordinanza di sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. emesso dal tribunale affermando che la pendenza in appello di un giudizio in cui era stata accolta, in primo gra¬do, la domanda di una società volta all’accertamento della validità dell’acquisto di un complesso immobiliare non era necessariamente pregiudiziale al procedimento introdotto in primo grado dalla medesima società e volto a far valere l’acquisto immobiliare per usucapione abbreviata per effetto dell’immissione in possesso conseguente all’aggiudicazione, potendo tale secondo procedimento essere sospeso solo ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., ove il giudice avesse inteso riconoscere l’autorità della prima decisione).
Trib. Roma Sez. I, 21 febbraio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di disconoscimento della paternità, le prove genetiche sono prove in senso proprio, in considerazione del fatto che l’attuale livello della ricerca e della esperienza scientifica consente di esprimere, grazie ad esse, suf¬ficienti garanzie circa il decisivo contributo di esse nell’attribuzione della paternità di un soggetto, conseguendo risultati dotati di un alto grado di probabilità prossimo alla certezza.
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli (artt. 147 e 148 cod. civ.) è eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così de¬terminandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presupposto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consa¬pevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento.
Cass. civ. Sez. VI, 27 giugno 2013, n. 16271 (Pluris,Wolters Kluwer Italia)
La scelta del Giudice nell’attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, non può essere condizionata né dal favor per il patronimico, né dalla esigenza di equiparare il risul¬tato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate nell’articolo 262 del co¬dice civile, che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio legittimo, poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongo¬no in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello è legittimato a proporre impugnazione, ex art. 95 del DPR n. 396 del 2000, avverso il decreto, emesso dai medesimi Giudici, di annullamento del provvedimento per mezzo del quale sia stata disposta l’aggiunta, al cognome materno, di quello del padre del minore che abbia successi¬vamente effettuato il riconoscimento dello stesso, versandosi in materia di rettificazione di atti dello Stato Civile.
Trib. Milano, 26 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di azione ex art. 269 c.c., la competenza si radica nel luogo di residenza del convenuto (Cass. Civ. 1373/1992, Sez. Un.; Cass. Civ., 11021/1997: precedenti che si richiamano ex art. 118 disp. att. c.p.c.), non rintracciandosi, peraltro, nel codice di rito, un foro del “concepimento” e nemmeno potendosi ritenere preva¬lente la tutela del minore, in quanto la causa ha ad oggetto la paternità biologica che, se accertata, legittima le domande nell’ interesse della prole, per le quali, sì, opera il foro di residenza del minore (es. 317-bis c.c., 38 disp.att.c.p.c.).
Cass. pen. Sez. II, 5 febbraio 2013, n. 8434 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche con¬fermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen.; pe¬raltro, nei casi in cui l’indagine genetica non dia risultati assolutamente certi, ai suoi esiti può essere attribuita valenza indiziaria.
Trib. Sulmona, 26 novembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le domande a contenuto economico correlate alla domanda di dichiarazione giudiziale di paternità naturale pos¬sono essere svolte e decise in un unico processo, fermo restando che il credito derivante dall’accoglimento delle prime potrebbe essere azionato soltanto all’esito del passaggio in giudicato del capo relativo all’accertamento dello status di figlio.
Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2012, n. 15158 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito alla dichiarazione giudiziale di paternità, può ravvisarsi la contrarietà all’interesse del minore solo nell’ipotesi di concreto accertamento di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale, ovvero di una prova della sussistenza di gravi rischi per l’equilibrio affet¬tivo e psicologico del minore e per la sua collocazione sociale. Orbene, siffatti rischi devono emergere da fatti obiettivi, desunti dalla pregressa condotta di vita del preteso padre. Di talché, in assenza di essi, l’interesse del minore va, di norma, considerato sussistente, a prescindere dai rapporti di affetto che possano concretamente instaurarsi con il presunto genitore e dalla disponibilità di quest’ultimo ad instauraarli, avendo riguardo al miglio¬ramento obiettivo della sua situazione in relazione agli obblighi giuridici che ne derivano per il presunto padre.
Tribunale, Reggio Emilia, 6 settembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza con natura dichiarativa oppure costitutiva (e non di condanna) è provvisoriamente esecutiva sola¬mente con riferimento al capo che concerne le spese di lite.
Gli effetti dichiarativi e costitutivi, invece, diventano esecutivi (solamente) con il passaggio in giudicato della stessa sentenza.
Trib. Napoli Sez. I, 18 settembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio riconosciuto da entrambi i genitori, per effetto della sentenza dichia¬rativa della filiazione naturale, collegandosi allo status genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che il genitore, che nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del mi¬nore anche per la quota di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla base delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 c.c., da interpretarsi tuttavia alla luce del regime delle obbligazioni solidali sancito dall’art. 1229 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2012, n. 12198 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, nell’ipotesi di maggior età di colui che richiede l’ac¬certamento non può configurarsi un interesse principale ad agire della madre naturale ai sensi dell’art. 276, ulti¬mo comma, cod. civ., non essendo in tale evenienza ravvisabile un obbligo legale di assistenza o mantenimento nei confronti del figlio, potendo peraltro essa svolgere un intervento adesivo dipendente, allorchè sia ravvisabile un suo interesse di fatto tutelabile in giudizio. In ogni caso, alla stregua della disciplina normativa della legit¬timazione ad agire in tale giudizio, contenuta nell’art. 276 cod. civ., correlata all’interpretazione dell’art. 269, secondo e quarto comma, cod. civ., le dichiarazioni della madre naturale assumono un rilievo probatorio integra¬tivo ex art. 116 cod. proc. civ., quale elemento di fatto di cui non si può omettere l’apprezzamento ai fini della decisione, indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale posizione di terzietà della dichiarante, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 246 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 (Famiglia e Diritto, 2013, 5, 450 nota di VANZ)
Salvi soltanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato, quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., come si trae dall’interpretazione sistematica della disciplina del processo, in cui un ruolo decisivo riveste l’art. 282 cod. proc. civ.: il diritto pronunciato dal giudice di primo grado, invero, qualifica la posi¬zione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, giustificando sia l’esecuzione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado. Pertanto, allorché penda, in grado di appello, sia il giudizio in cui è stata pronunciata una sentenza su causa di riconoscimento di paternità naturale e che l’abbia dichiarata, sia il giudizio che su tale base abbia accolto la domanda di petizione di eredità, ed entrambe le sentenze siano state impugnate, il secondo giudizio non deve di necessità essere sospeso, in attesa che nel primo si formi la cosa giu¬dicata sulla dichiarazione di paternità naturale, ma può esserlo, ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., se il giudice del secondo giudizio non intenda riconoscere l’autorità dell’altra decisione. Non ostano, a tale conclusione, le disposizioni degli artt. 573 e 715 cod. civ., non essendo in questione il momento dal quale si producono gli effetti della dichiarazione di filiazione naturale, ma il potere del giudice, cui la seconda domanda sia proposta, di co¬noscerne sulla base della filiazione naturale già riconosciuta con sentenza, pur non ancora passata in giudicato.
Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5653 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 2 e 29 Cost., – dell’art. 244 c.c. nella parte in cui prevede un termine decadenziale per la proposizione dell’azione di discono¬scimento della paternità, in quanto è del tutto coerente con i principi costituzionali la possibilità che il legislatore ordinario preveda limitazioni nei confronti di detta azione, con riferimento sia ai casi in cui l’azione può essere esercitata, sia ai tempi della medesima. Il termine annuale decorre dalla data di acquisizione della conoscenza dell’adulterio della moglie, e non già da quella di raggiunta certezza negativa della paternità biologica, giacché la diversa tesi che differisce a tempo indeterminato l’azione di disconoscimento, facendone decorrere il termine di proponibilità dall’esito dei risultati di un’indagine (stragiudiziale) cui non è dato a priori sapere se e quando i genitori possano addivenire, sacrifica in misura irragionevole i valori di certezza e stabilità degli status e dei rapporti familiari, a garanzia dei quali la norma è viceversa predisposta. Stante la natura decadenziale del ter¬mine in argomento, afferendo esso a materia sottratta alla disponibilità delle parti, a norma dell’art. 2969 c.c. il giudice deve accertarne ex officio il rispetto, dovendo l’attore fornire la prova che l’azione sia stata proposta entro il termine previsto, sia in relazione al significato del termine “scoperta” dell’adulterio, che va inteso nel senso dell’acquisizione certa della conoscenza, e non come mero sospetto di un fatto (non potendo pertanto al riguardo valorizzarsi la mera infatuazione o la mera relazione sentimentale o la mera frequentazione della mo¬glie con un altro uomo) rappresentato o da una vera e propria relazione, o da un incontro, comunque sessuale, idoneo a determinare il concepimento del figlio che si vuole disconoscere.
Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, anche nell’ipotesi in cui la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza. Ciò in virtù del fatto che la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento e, quindi, in base all’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri tipici della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento di cui all’art. 148 c.c., ricollegandosi tale obbligazioni allo status genitoriale ed assumendo, di conseguenza, effi¬cacia retroattiva. Al riguardo, si precisa come l’obbligo di mantenimento dei figli sussiste per il solo fatto di averli generati, prescindendo da qualsiasi domanda in tal senso, con la conseguenza che, laddove al momento della nascita il figlio sia stato riconosciuto da uno solo dei genitori, l’altro è comunque obbligato al mantenimento per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale.
Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3935 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ interesse umano e affettivo del minore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità non va più valu¬tato dal Tribunale qualora il minore abbia raggiunto i sedici anni, essendo in tale caso la valutazione di detto interesse rimessa allo stesso minore, attraverso la diretta manifestazione di consenso all’azione. A maggior ragione, nel caso in cui l’interessato abbia raggiunto la maggior età nel corso del giudizio e intervenga personal¬mente nel processo, deve ritenersi superata la necessità del consenso.
Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 2011, n. 27090 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ancorché la pronuncia non contenga una condanna nel merito della domanda la statuizione in materia di con¬danna alle spese fruisce dell’efficacia esecutiva di cui al codice di rito.
App. Bologna Sez. minori, 5 dicembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio, per effetto della sentenza dichiarativa della filiazione naturale, colle¬gandosi allo status genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio. Ne consegue che il genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del minore anche per la porzione di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 c.c. da interpretarsi alla luce del regime delle obbligazioni solidali stabilito nell’art. 1229 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19603 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A norma del primo comma dell’art. 276 cod. civ., legittimato passivo nel giudizio per l’accertamento della pa¬ternità naturale è il presunto genitore, ovvero, in caso di mancanza di questo, i suoi eredi. Da ciò consegue che la posizione di altri soggetti, portatori di interessi, patrimoniali e non patrimoniali, contrari all’accertamento della filiazione, quali il coniuge ed i figli legittimi del presunto genitore, resta regolata dal secondo comma del richiamato art. 276 cod. civ., che attribuisce loro la legittimazione a contraddire alla domanda intervenendo nel processo, ma non anche quella ad essere citati in giudizio come contraddittori necessari, senza che ciò comporti contrasto con i precetti di cui agli artt. 3, 29 e 30 Cost..
Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’anticipazione in via provvisoria , ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenu¬te in sentenze costitutive, non è consentita, essendo necessario il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso); è invece consentita quando la statuizione condannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento tem¬porale successivo del passaggio in giudicato (come nel caso di specie riguardante la condanna di un istituto di credito alla restituzione delle somme di denaro ricevute da un istituto di credito a seguito di atti solutori dichiarati inefficaci ai sensi dell’art. 67 legge fall.).
Cass. civ. Sez. I, 23 aprile 2010, n. 9727 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 269 codice civile nella sua attuale formulazione, non pone alcun limite in ordine ai mezzi attraverso i quali può essere dimostrata la paternità naturale. Sicché il giudice di merito, dotato di ampio potere discrezionale al riguardo, può legittimamente fondare il proprio convincimento sulla effettiva sussistenza di un rapporto di filiazione anche su risultanze istruttorie dotate di valore puramente indiziario, quale il rifiuto ingiustificato di sot¬toporsi ad indagini ematologiche, che costituisce comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116 2° co., c.p.c., anche in assenza di prova specifica di rapporti sessuali tra le parti.
Corte cost. 29 ottobre 2009, n. 278 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 276, primo comma, c.c., cen¬surato, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede, nel caso di morte sia del genitore sia degli eredi diretti di questi, la possibilità, per colui che voglia far accertare la propria paternità o maternità naturale, di agire nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice oppure nei confronti degli eredi degli eredi del presunto genitore. Invero, da un lato, la pronuncia additiva richiesta non è costituzionalmente obbliga¬ta, rientrando nella discrezionalità del legislatore ordinario la scelta tra l’una o l’altra delle soluzioni prospettate dal giudice a quo; dall’altro, la questione è formulata in forma ancipite.
Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2010, n. 22506 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio riconosciuto da entrambi i genitori, per effetto della sentenza dichiara¬tiva della filiazione naturale, collegandosi allo “status” genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che il genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del minore anche per la porzione di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 del cod. civ. da interpretarsi però alla luce del regime delle obbligazioni solidali stabilito nell’art. 1299 cod. civ. Pertanto, il “quantum” dovuto in restituzione nel periodo di mantenimento esclusivo non può essere determinato sulla base dell’importo stabilito per il futuro nella pronuncia relativa al riconoscimento del figlio naturale, via via devalutato, in quanto l’ammontare dovuto trova limite negli esborsi presumibilmente sostenuti in concreto dal genitore che ha per intero sostenuto la spesa senza però pre¬scindere né dalla considerazione del complesso delle specifiche e molteplici esigenze effettivamente soddisfatte o notoriamente da soddisfare nel periodo in considerazione né dalla valorizzazione delle sostanze e dei redditi di cia¬scun genitore quali all’epoca goduti ed evidenziati, eventualmente in via presuntiva, dalle risultanze processuali, né infine dalla correlazione con il tenore di vita di cui il figlio ha diritto di fruire, da rapportare a quello dei suoi genitori.
Cass. civ. Sez. Unite, 7 ottobre 2010, n. 20773 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento disciplinare a carico degli avvocati, quanto all’aspetto procedurale, è disciplinato dalle norme dettate in materia dalla legge professionale in relazione ad ogni singolo istituto, nonché, in mancanza dalle nor¬me del codice di procedura civile. Le norme processuali penali, al contrario, possono trovare applicazione nelle sole ipotesi in cui la legge professionale ad esse faccia espresso rinvio, ovvero si renda necessario procedere all’applicazione di istituti che ivi trovano esclusiva regolamentazione. Ciò rilevato, quanto alla necessarietà o meno della partecipazione del Pubblico Ministero al menzionato procedimento disciplinare, non ravvisandosi nella normativa speciale alcuna espressa indicazione di segno diverso, deve concludersi per l’applicabilità della disciplina dettata dalle norme processuali civili, secondo cui la regolarità del procedimento è assicurata dal mero fatto che il Pubblico Ministero sia stato posto in condizioni di parteciparvi, seppur abbia concretamente scelto, come nella fattispecie concreta, di rimanere assente.
Cass. civ. Sez. I, 19 aprile 2010, n. 9300 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità, la contrarietà all’interesse del minore può sussistere solo in caso di concreto accertamento di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale, ovvero di prova dell’esistenza di gravi rischi per l’equilibrio affettivo e psicologico del minore e per la sua collocazione sociale. Tali rischi devono risultare da fatti obbiettivi, emergenti dalla pregressa condotta di vita del preteso padre, ed in mancanza di essi l’ interesse del minore va ritenuto di regola sussi¬stente, a prescindere dai rapporti di affetto che possano in concreto instaurarsi con il presunto genitore e dalla disponibilità di questo ad instaurarli, avendo riguardo al miglioramento obiettivo della sua situazione in relazione agli obblighi giuridici che ne derivano per il preteso padre; nè l’ interesse del minore può, di regola, essere escluso dalle normali difficoltà di adattamento psicologico al nuovo “status”, essendo queste normalmente con¬nesse al riconoscimento da parte del genitore naturale, ovvero alla dichiarazione di paternità naturale, quando intervengano a distanza di tempo dalla nascita del minore . E nemmeno detto interesse è escluso dall’assenza di “affectio” da parte del presunto padre nè dalla dichiarazione di costui, convenuto con l’azione di dichiarazione giudiziale ex art. 269 c.c., di non voler comunque adempiere i doveri morali inerenti alla potestà genitoriale.
Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di preliminare di compravendita e di pronuncia ex art. 2932 c.c. l’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretroattività della sentenza che determina l’effetto sostitutivo del contratto definitivo. La sentenza di primo grado di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. non può pertanto produrre, prima del passaggio in giudicato, gli effetti del contratto definitivo con la conseguente impossibilità di scissione, nelle sentenze ex art. 2932 c.c. in tema di contratto preliminare di compravendita, tra capi costitutivi principali e capi di condanna consequenziali, con riferimento specifico a quelli cosiddetti sinallagmatici le cui relative statuizioni fanno parte.
Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, com¬ma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità).
Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella determinazione del contributo previsto dall’art. 277, secondo comma, cod. civ. per il mantenimento del figlio minore nato fuori del matrimonio, a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il giudice, ai sensi dell’art. 155 cod. civ., applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati in virtù del rinvio contenuto nell’art. 4 della legge n. 54 del 2006, deve tener conto non solo delle esigenze attuali del figlio, ma anche del tenore di vita goduto dallo stesso nel corso della convivenza con entrambi i genitori, nonché delle risorse economiche di questi, in modo da realizzare il principio generale di cui all’art. 148 cod. civ., secondo cui i genitori devono concorrere al mantenimento dei figli in proporzione delle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.
Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 2009, n. 8250 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza che dispone l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce i propri effetti solo dal momento del passaggio in giudicato; ne consegue che, quando detta sentenza abbia subordinato l’effetto traslativo al pagamento del residuo prezzo, l’obbligo di pagamento in capo al promissario acquirente non diventa attuale prima dell’irretrattabilità della pronuncia giudiziale, essendo tale pagamento la prestazione corrispettiva destinata ad attuare il sinallagma contrattuale.
Corte cost. 20 marzo 2009, n. 80 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell›art. 276, primo comma, c.c., censurato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 30 Cost., nella parte in cui non prevede, nel caso di morte sia del genitore sia degli eredi di questo, la possibilità, per colui che voglia far accertare la propria paternità o maternità naturale, di agire comunque nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice oppure nei confronti degli eredi degli eredi del presunto genitore. Invero, da un lato, la pronuncia richiesta non è costituzionalmente obbligata, ma rientra nella discrezionalità del legislatore ordinario, dall›altro, la questione è formulata in forma ancipite.
Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, com¬ma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità).
Corte cost. 20 novembre 2008, n. 379 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
questione di legittimità costituzionale dell’art. 276, comma 1, c.c., nella parte in cui non prevede, nel caso di morte del genitore e degli eredi diretti di questo, la possibilità, per colui che voglia far accertare la propria pa¬ternità o maternità naturale, di agire comunque nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost..
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2008, n. 3708 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di interdizione o di inabilitazione, la mancata partecipazione del pubblico ministero all’esame perso¬nale dell’interdicendo o dell’inabilitando non determina la nullità della sentenza, una volta che siano state osser¬vate le norme volte a consentire la sua partecipazione al processo (norme che lasciano al pubblico ministero di modulare discrezionalmente il proprio intervento).
Corte cost. 21 dicembre 2007, n. 450 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 276 c.c., censurato, in riferi¬mento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede la possibilità della nomina di un curatore speciale nei cui confronti promuovere l’azione di riconoscimento di paternità o maternità naturale in caso di premorienza sia del presunto genitore sia dei suoi eredi, dal momento che il giudice rimettente omette di descrivere la fatti¬specie sottoposta al suo esame, venendo così meno all’obbligo di rendere esplicite le ragioni che lo inducono a sollevare la questione di costituzionalità con una motivazione autosufficiente, tale da permettere la verifica della valutazione sulla rilevanza nel giudizio a quo.
Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 563 nota di RUSSO)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale dichiara ed attribuisce uno status che conferisce al figlio naturale i diritti che competono al figlio legittimo con efficacia retroattiva, sin dal momento della nascita, con la conseguenza che dalla stessa data decorre anche l’obbligo di rimborsare pro quota l’altro genitore che abbia inte¬gralmente provveduto al mantenimento del figlio; peraltro, la condanna al rimborso di detta quota, per il periodo precedente la proposizione dell’azione, non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronunzia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali in relazione a diritti disponibili.
Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24409 (Famiglia e Diritto, 2008, 12, 1133 nota di MISEFARI)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento ai sensi dell’art. 277 c.c. e quindi implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento.
Trib. Trani, 27 settembre 2007 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 564 nota di RUSSO)
La domanda di risarcimento del danno esistenziale conseguente al mancato riconoscimento del figlio naturale va rigettata ove sfornita di prova, in quanto, premesso che la legge non prevede l’obbligatorietà del riconoscimento del figlio naturale, il figlio ha l’onere di provare che, benché alla soddisfazione dei suoi bisogni avesse provve¬duto la sola madre, quest’ultima non è riuscita a garantirgli un diverso tenore di vita, che altrimenti sarebbe stato raggiunto attraverso la regolare corresponsione dell’assegno di mantenimento da parte del padre. D’altra parte – anche in considerazione dell’elevato lasso di tempo fatto decorrere dal diretto interessato per la richiesta di risarcimento del danno derivante dal mancato riconoscimento e mantenimento (ventiquattro anni) – non può affatto presumersi che la prova del danno esistenziale sia “in re ipsa”, ovvero che derivi, automaticamente, dal solo mancato riconoscimento. Infatti, non può essere risarcito un danno che prescinda completamente dalla prospettazione e dimostrazione di una qualche conseguenza negativa in capo alla vittima, in quanto disancorare il risarcimento del danno dall’accertamento dell’esistenza di un qualche riflesso negativo, di carattere personale e patrimoniale nella sfera del soggetto leso, significa costruire una categoria di danno “automatico”, direttamen¬te innescato da un fatto illecito senza che vi sia dimostrazione alcuna della modificazione, “in peius”, della vita della vittima.
Cass. civ. Sez. III, 3 settembre 2007, n. 18512 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 282 c.p.c., nel conferire la provvisoria esecutorietà alla sentenza di primo grado, si riferisce alle statuizioni condannatorie della sentenza, sia che essa abbia a presupposto un’azione di condanna, sia che essa abbia a presupposto un’azione costitutiva, sicché la sentenza di primo grado può comunque venire utilizzata come titolo esecutivo.
Nel caso di pronuncia della sentenza costitutiva ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., le statuizioni di condanna con¬sequenziali, dispositive dell’adempimento delle prestazioni a carico delle parti fra le quali la sentenza determina la conclusione del contratto, sono da ritenere immediatamente esecutive ai sensi dell’art. 282 cod. proc. civ., di modo che, qualora l’azione ai sensi dell’art. 2932 c.c. sia stata proposta dal promittente venditore, la statuizione di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo è da considerare immediatamente esecutiva.
Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2007, n. 16752 (Famiglia e Diritto, 2008, 3, 251 nota di VALENTE)
Nel giudizio diretto ad ottenere la dichiarazione giudiziale della paternità naturale, una volta che il giudice del merito abbia deciso di fare ricorso a prove ematologiche o genetiche, per confermare gli elementi acquisiti attra¬verso l’ordinario sistema probatorio, l’ingiustificato rifiuto del preteso padre a sottoporsi alla prova biologica può valutarsi come elemento di convincimento in ordine alla richiesta di dichiarare che lo stesso è padre del minore.
Corte cost. 20 luglio 2007, n. 319 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 276, primo comma, c.c., nella parte in cui non prevede la possibilità della nomina di un curatore speciale nei cui confronti promuovere l’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità naturale in caso di premorienza sia dei presunti padre o madre sia degli eredi, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., in presenza di una sentenza, emes¬sa fra le stesse parti e passata in giudicato, che ha già dichiarato l’inammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità per carenza di legittimazione passiva dei soggetti convenuti, e ha individuato i legittimati passivi dell’azione di cui all’art. 269 c.c. nel presunto genitore o, in mancanza di lui, nei suoi eredi diretti, poi¬ché, non avendo il giudice rimettente motivato in ordine alla persistenza del proprio potere decisorio, né circa l’applicabilità alla fattispecie dell’eventuale auspicata pronuncia di incostituzionalità, tali omissioni si risolvono in carenza di motivazione sulla rilevanza.
Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando la legge prevede un potere del giudice, il cui esercizio si deve concretare nell’adozione di un provvedi¬mento avente la forma dell’ordinanza ed un determinato contenuto, l’adozione del provvedimento con quel con¬tenuto e con l’espressa indicazione della sua pronuncia, ai sensi della norma che prevede il potere di emissione del provvedimento, comporta che, nel giudizio di impugnazione che sia previsto in ordine al provvedimento, il giudice dell’impugnazione debba scrutinare il provvedimento considerandolo pronunciato in forza dell’esercizio del potere previsto dalla norma indicata nel provvedimento, restando preclusa la possibilità di qualificarlo come provvedimento che avrebbe potuto o dovuto essere pronunciato ai sensi di altra norma, che pure preveda un potere di emissione di un provvedimento di analogo contenuto, ma basato su presupposti e ragioni diverse, salvo il caso in cui proprio queste ultime siano espressamente esplicitate nel provvedimento sì da indurre a far ritenere che, al di là della formale invocazione di una norma, in realtà il giudice abbia in concreto esercitato il potere previsto dall’altra (Principio enunciato dalla S.C. in sede di regolamento di competenza avverso pronuncia di sospensione del processo adottata ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., che il ricorrente pretendeva fosse consi¬derata adottata ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ.).
Trib. L’Aquila, 6 giugno 2007 (Famiglia e Diritto, 2007, 10, 950)
La dichiarazione giudiziale di paternità produce gli effetti del riconoscimento e ciò determina, a carico del ge¬nitore, tutti i doveri derivanti dalla procreazione legittima, incluso quello del mantenimento del figlio, gravante in solido su entrambi i genitori a decorrere dal momento della nascita; di conseguenza, in base alla disciplina dell’obbligazione solidale, il genitore che abbia sostenuto il mantenimento del figlio fino alla dichiarazione di paternità ha diritto di regresso nei confronti dell’altro.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2007, n. 8355 (Famiglia e Diritto, 2007, 8-9, 959 nota di FRASSINETTI)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale, l’ultimo comma dell’art. 276 c.c., in base al quale alla domanda può contraddire “chiunque vi abbia interesse”, configura una forma di intervento principa¬le, ai sensi dell’art. 105, primo comma, c.p.c., e non meramente adesivo.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006 n. 23596 (Famiglia e Diritto, 2007, 11, 1007 nota di ORTORE)
Nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a prov¬vedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori. Da ciò consegue, per un verso, che il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla obbliga¬zione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita, e, per altro verso, che il genitore il quale ha provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio ha azione nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita. Tale azione non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale (atteso che soltanto per effetto della pronuncia si costituisce lo “status” di figlio naturale, sia pure con effetti retroagenti alla data della nascita), con la conseguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 cod. civ.. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispon¬dente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, in considerazione dello stato di incertezza che precede la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la con-seguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266 (Fam. Pers. Succ., 2007, 7, 628 nota di BEMBO)
È illegittimo l’art. 235, comma 2, codice civile, nella parte in cui subordina l’accesso alle prove ematologiche alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie.
Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2006, n. 6694 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio diretto ad ottenere una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giu¬dice ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., anche in assenza di prova di rapporti sessuali tra le parti, in quanto proprio la mancanza di prove oggettive assolutamente certe e ben difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti tra le stesse parti intercorsi e circa l’effettivo concepimento ad opera del preteso genitore naturale, se non consente di fondare la dichiarazione di paternità sulla sola dichiarazione della madre e sull’e¬sistenza di rapporti con il presunto padre all’epoca del concepimento (secondo l’espresso disposto dell’ultimo comma dell’art. 269 cod. civ.), non esclude che il giudice possa desumere, appunto, argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti, ed in particolare dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi agli accertamenti biologici, e possa persino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre.
Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50 (Fam. Pers. Succ. 2006, 5, 403)
L’intrinseca, manifesta irragionevolezza della norma (art. 3 Cost.) fa sì che il giudizio di ammissibilità ex art. 274 c.c. si risolva in un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost., e ciò, per giunta, in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica; da tale manifesta irragionevolezza discende anche la violazione del precetto (art. 111, 2° co., Cost.) sulla ragionevole durata del processo, gravato di un’autonoma fase, articolata in più gradi di giudizio, prodromica al giudizio di merito, e tuttavia priva di qualsiasi funzione. Nè può tacersi come l’evoluzione della tecnica consenta, ormai, di pervenire alla decisione di merito, in termini di pressoché assoluta certezza, in tempi estremamente concentrati. Da quanto precede deriva l’incostituzionalità dell’art. 274 c.c., relativamente ad ogni ipotesi di delibazione di ammissibilità dell’azione, per violazione degli artt. 3, 2° co., 24, e 111 Cost.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 (Famiglia e Diritto, 2006, 5, 504 nota di FIGONE)
Il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante a genitore naturale che ha allevato il figlio, può essere esercitato solo al momento della emissione della sentenza che accerta il vincolo di filiazione con l’altro genitore, con la conseguenza che tale momento segna il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Corte cost. 25 novembre 2005, n. 425 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell›articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983 n. 184 («Diritto del minore ad una famiglia»), nel testo modificato dall›articolo 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196 («Codice in materia di protezione di dati personali»), sollevata con riferimento agli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare l›adottato all›accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non essere nominata da parte della madre biologica.04, 1, 1053
Cass. civ. Sez. Unite, 3 novembre 2005, n. 21287 (Giur. It., 2007, 3, 622 nota di ANTONICA)
La domanda per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, in caso di morte del presunto genitore, va proposta solo nei confronti dei suoi eredi, quali legittimati passivi, mentre gli eredi degli eredi del presunto ge¬nitore, o altri soggetti, comunque portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, possono solo intervenire in giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100 (Foro It., 2006, 2, 1, 476)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 cod. civ.. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Peraltro, la condanna al rimborso di detta quota per il periodo precedente la proposizione dell’azione non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronunzia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali, ossia a diritti disponibili, e quindi non incidendo sull’interesse superiore del mino¬re, che soltanto legittima l’esercizio dei poteri officiosi attribuiti al giudice dall’art. 277, comma secondo, cod. civ. La necessità di analoga domanda non ricorre riguardo ai provvedimenti da adottare in relazione al periodo successivo alla proposizione dell’azione, atteso che, durante la pendenza del giudizio, resta fermo il potere del giudice adito, in forza della norma suindicata, di adottare di ufficio i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore. (In applicazione di detti principi, la S.C. ha confermato la decisione di merito la qua¬le aveva escluso, rigettando la contraria pretesa, che nell’esercizio dei poteri officiosi conferitigli dall’art. 277, comma secondo, cod. civ., il giudice potesse disporre per il periodo antecedente la proposizione del giudizio, in assenza di domanda dell’altro genitore, peraltro nella specie non proponibile non avendo la ricorrente agito in proprio, ma solo in nome e per conto del figlio minorenne).
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2005, n. 10131 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturale, il consenso del figlio che ha com¬piuto l’età di sedici anni, necessario (“ex” art. 273 c.c.) per promuovere o proseguire validamente l’azione, è configurabile come un requisito del diritto di azione, integratore della legittimazione ad agire del genitore, sosti¬tuto processuale del figlio minorenne. Detto consenso può sopravvenire in qualsiasi momento ed è necessario e sufficiente che sussista al momento della decisione; in mancanza, il giudice deve dichiarare, anche d’ufficio, l’improseguibilità del giudizio e non può pronunciare nel merito. Alla necessaria prestazione del consenso – che non può ritenersi validamente prestato dal sedicenne fuori dal processo, né può essere desunto da fatti e comportamenti estranei ad esso, come, ad esempio, dal mero fatto di “portare” il cognome del presunto padre naturale – non osta la circostanza che il figlio abbia raggiunto, nel corso del processo, la maggiore età, sempre che detto compimento non abbia prodotto l’interruzione del processo ai sensi dell’art. 300 c.p.c., rendendo così necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’”ex” minorenne.
Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 2005, n. 1619 (Corriere Giur., 2005, 9, 1229 nota di PETRILLO)
Non solo le sentenze di condanna ma anche quelle costitutive possono essere provvisoriamente esecutive in¬dipendentemente da una esplicita statuizione in tal senso del giudice se contengono una condanna implicita, desumibile anche dalla sola motivazione o dalla funzione stessa che il titolo è destinato a svolgere.
Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché l’articolo 295 del c.p.c., la cui ragione fondante è quella di evitare il rischio di un conflitto di giudicati, fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione necessaria del processo non può essere disposta nell’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello sul quantum, fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico, essendo in tal caso applicabile l’articolo 337, comma 2, del c.p.c., il quale, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa di tale processo, e che, a norma dell’articolo 336, comma 2, del c.p.c., la riforma o la cassazione della sentenza sull’”an debeatur” determina l’automatica caducazione della sentenza sul quantum anche se su quest’ultima si sia formato un giudicato apparente, con conseguente esclusione del conflitto di giudicati.
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13665 (Foro It., 2005, 1, 432)
In materia di accertamento giudiziale della paternità e della maternità, le indagini ematologiche e immunogene¬tiche, in quanto ormai affidabili, possono fornire elementi di valutazione sia per escludere che per affermare il rapporto biologico di paternità, non rilevando il carattere probabilistico delle risultanze di tali indagini, comune a tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche, cui è sempre immanente la possibilità di errore.
Le indagini ematologiche e immunogenetiche possono fornire elementi di valutazione non solo per escludere, ma anche per affermare il rapporto biologico di paternità, anche quando le risultanze delle indagini consentono una valutazione meramente probabilistica, attesa la natura probabilistica di tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche.
Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2004, n. 13296 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di azione di accertamento della paternità naturale e di conseguente determinazione del contributo al mantenimento del minore figlio naturale per il periodo successivo alla proposizione dell’azione stessa, ove la parte attrice, nell’atto introduttivo del giudizio, dopo aver indicato quale “petitum” un certo importo di tale con¬tributo, abbia usato l’espressione “ovvero la minore o maggiore somma dovuta” o altra espressione equivalente, il giudice di merito che liquidi un importo maggiore di quello richiesto non viola il principio di cui all’art. 112 c.p.c., sia perchè deve ritenersi che la parte attrice, con l’uso dell’espressione predetta, non abbia posto un limite preciso all’ammontare della somma richiesta, ma si sia rimessa agli elementi probatori da acquisire nel corso del giudizio ed alla loro valutazione ad opera del giudice, sia perchè, in ordine alla condanna del padre naturale al pagamento del contributo, il giudice che ha accertato il rapporto di paternità non è vincolato alla domanda della parte, in quanto l’art. 277, comma 2, c.c. conferisce a detto giudice il potere di adottare di ufficio, in ragione dell’interesse superiore del minore, i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore stesso.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2004, n. 11351 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale, il rimborso delle spese spettanti al geni¬tore che ha provveduto al mantenimento del figlio fin dalla nascita, ancorché trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all’altro genitore, ha natura in senso lato indennitaria, essendo diretta ad indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, a causa degli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole; poiché è principio generale (desumibile da varie norme, quali ad esempio gli articoli 379, secondo comma, 2054, 2047 cod. civ.) che l’equità costituisca criterio di valutazione del pregiudizio non solo in ipotesi di responsabilità extracontrattuale ma anche quando la legge si riferisca in genere ad indennizzi o indennità, il giudice di merito può utilizzare il criterio equitativo per determinare le somme dovute a titolo di rimborso.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante al genitore che ha allevato il figlio nei confronti del genitore che procede al riconoscimento, non è utilmente esercibile se non dal giorno del riconoscimento stesso (soltanto il riconoscimento comportando, ex art. 261 c.c., gli effetti tipici connessi dalla legge allo status giuridico di figlio naturale), con la conseguenza che detto giorno segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale pone a carico del genitore tutti i doveri propri della procre¬azione legittima, compreso quello del mantenimento; tale obbligazione decorre dalla data della nascita, e non da quella della relativa domanda
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale, in quanto ha natura dichiarativa dello stato biologico di procreazione, fa sorgere a carico del genitore tutti i doveri di cui all’art. 147 c.c. propri della procreazione legitti¬ma, compreso quello di mantenimento che, unitamente ai doveri di educare ed istruire i figli, obbliga i genitori ex art. 148 c.c. a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale. A tal fine, il criterio di quantificazione dell’assegno può essere adottato dal giudice di merito anche in termini complessivi ed unitari (anziché in termini di ripetibilità separata della quota delle spese straordinarie), nell’esercizio di una valutazione discrezionale insindacabile in sede di legittimità, ove logicamente e correttamente motivata.
Corte cost., 28 novembre 2002, n. 494 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È incostituzionale l’art. 278, 1° comma, c.c., nella parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251, 1° comma, c.c., è vietato il riconoscimento dei figli incestuosi.
Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 2002, n. 11041 (Giur. It., 2003, 1138 nota di BELLOMA)
La contrarietà dell’accertamento della paternità all’interesse del minore può sussistere solo in caso di concreta verifica di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà ge¬nitoriale, ovvero di prova dell’esistenza di gravi rischi per l’equilibrio affettivo e psicologico del minore e per la sua collocazione sociale, mentre del tutto irrilevanti debbono ritenersi i suoi atteggiamenti psicologi di rifiuto di rapporti nei confronti della madre, nonché di indifferenza nei confronti della pretesa paternità.
Cass. civ. Sez. I, 25 febbraio 2002, n. 2749 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale, il ricorso alle prove ematologiche, anche se richiesto dal preteso padre, è rimesso alla valutazione del giudice di merito, il quale può ritenerle superflue ove abbia già acquisito elementi sufficienti a fondare il suo convincimento. La relativa decisione è, peraltro, incensu¬rabile in sede di legittimità nei limiti in cui sia adeguatamente motivata.
La dimostrazione della paternità naturale può essere fornita, a mente dell’art. 269 c.c. con ogni mezzo, ed il rifiuto di sottoporsi alla prova ematologica costituisce argomento di prova ulteriore.
Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 273 c.c. con riferimento agli art. 2 e 24 cost. nella parte in cui, in ipotesi di figlio minorenne, attribuisce al genitore la legittimazione ad agire per la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità naturale senza prevedere la necessità della nomina di un curatore speciale per il minore e, in caso di inattività del sostituto processuale , la sospensione dei termini fino al raggiungimento della maggiore età del sostituito; infatti, l’interesse del minore risulta adeguatamente protetto, nel caso di promovimento dell’a¬zione da parte del genitore attraverso la verifica della sua rispondenza a quell’interesse demandata al tribunale per i minorenni (a seguito della sentenza della Corte cost. n. 341 del 1990), nel caso contrario con la possibilità per il figlio, una volta divenuto maggiorenne, di promuovere l’azione, per lui imprescrittibile ai sensi dell’art. 270 c.c.; nella prima ipotesi, inoltre, la scelta di non affiancare obbligatoriamente il rappresentante del minore con un curatore speciale, che ne controlli le iniziative processuali, è ragionevole e coerente con la qualità soggetti¬va del rappresentante e la sua natura di sostituto processuale, mentre la previsione di una sospensione dei termini o di una rimessione in termini a favore del minore, divenuto maggiorenne, per esercitare le attività (in particolare le impugnazioni) da cui il genitore è decaduto, contrasterebbe con le esigenze di certezza del diritto e costituirebbe violazione del diritto di difesa della controparte, soggetta ad unilaterale possibilità di riesame di una sentenza passata in giudicato.
Corte cost. 14 maggio 1999, n. 170 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., l’art. 244, comma 2, cod. civ., nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza solo di generare, contemplata dal n. 2) dell’art. 235 cod. civ., decorra per il marito dal giorno in cui esso sia venuto a conoscenza della propria impotenza di generare, in quanto – posto che l’impotenza di generare rappresenta, diversamente dalla “impotenza coeundi”, uno stato fisico che può rimanere per lungo tempo ignoto, poiché in una elevata percentuale di casi consiste in un’affezione, che può essere priva di sintomatologia e di manifestazioni esteriori e che è diagnosticabile solo attraverso esami clinici cui non si ricorre usualmente; e che il legislatore della riforma del diritto di famiglia ha superato la impostazione tradizionale che attribuiva preminenza al “favor legitimitatis” attraverso la equiparazione della filiazione naturale a quella legittima ed ha di conseguenza reso omogenee le situazioni che discendono dalla conservazione dello stato ancorato alla certezza formale rispetto a quelle che si acquisiscono con l’affermazione della verità naturale, la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini – la disposizione impugnata (art. 244 cod. civ., commi 1 e 2), rispetto alla impotenza di generare, appare irragionevole nella misura in cui preclude l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità, decorso l’anno dalla nascita del figlio, se il marito non sia stato a conoscenza di un elemento costitutivo dell’azione medesima, e precisamente della propria incapacità di generare; nonché lesiva del diritto di azione, nella misura in cui consente che il termine per il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi del diritto stesso (e ciò, soprattutto in ipotesi, quale quella di specie, in cui è dato di comune esperienza che l’elemento costitutivo dell’azione, rappresentato dall’impotenza di generare, può rimanere a lungo e a volte anche indefinitamente ignoto).
Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 1998, n. 2944 (Famiglia e Diritto, 1999, 1, 40 nota di FRASSINETTI)
La dimostrazione della paternità naturale può essere fornita, a mente dell’art. 269 c.c. con ogni mezzo e, per¬tanto, il giudice di merito può legittimamente fondare il proprio convincimento in ordine alla effettiva esistenza di un rapporto di filiazione anche su risultanze probatorie dotate di valore puramente indiziario ed è corretta¬mente motivata la pronuncia del giudice di merito che ha fondato la propria pronuncia affermativa della pater¬nità naturale su una motivazione – logicamente corretta – con cui è posta in evidenza, da un canto, l’univocità e convergenza degli elementi indiziari acquisiti al processo, come la lunga relazione intercorsa tra la madre ed il padre naturale, i comportamenti tenuti da quest’ultimo alla notizia della gravidanza della donna, la condotta processuale del medesimo – e, in particolare, il pretestuoso ed immotivato rifiuto di sottoporsi ad indagini ema¬tologiche – dall’altro, la attendibilità dei testi indicati dalla madre del riconoscendo).
Cass. civ. Sez. I, 8 novembre 1997, n. 11021 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza per territorio nel procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale e in quello preliminare per l’ammissibilità della relativa azione, deve essere determinata secondo i principi generali sul foro del convenuto, ai sensi dell’art. 18 c.p.c., anche quando la controversia riguardi un figlio minore.
Corte cost. 22 aprile 1997, n. 112 (Foro It., 1999, I, 1764)
È infondata la q.l.c. dell’art. 263 c.c., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore, in riferimento agli art. 2, 3, 30 e 31 cost.
Non è fondata, con riferimento agli art. 2, 3, 30 e 31 cost., la q.l.c. dell’art. 263 c.c. – nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minorenne per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore stesso – in quanto (…) non vi può essere conflitto tra “favor veritatis e favor minoris”, ove si consideri che l’autenticità del rapporto di filiazione costituisce l’essenza stessa dell’interesse del minore, quale inviolabile diritto alla sua identità, e che ad eventuali pregiudizi per il minore, conseguenti all’accertamento della falsità del riconoscimento, può porsi rimedio con il ricorso ad altri strumenti, predisposti proprio a tutela del minore, quali l’adozione in casi particolari di cui all’art. 44 comma 1 lett. c) l. n. 184 del 1983.
Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 1997, n. 807 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora nel giudizio di primo grado sia mancata la partecipazione del pubblico ministero in causa nella quale ne è obbligatorio l’intervento ai sensi dei numeri 2, 3 e 5 dell’art. 70 c.p.c., (quale nella specie un’azione di dichiarazione giudiziale di paternità) il giudice d’appello, rilevata la nullità della sentenza, non può rimettere la causa al primo giudice, ma deve trattenerla presso di se e deciderla nel merito, dovendo escludersi che nelle menzionate ipotesi di cui al cit. art. 70 (diversamente da quella di cui al numero 1 dello stesso articolo) la man¬cata partecipazione del P.M. comporti un difetto di integrale contraddittorio e consenta pertanto l’applicazione dell’art. 354 stesso codice.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 maggio 1996 n. 4844 (Foro It., 1997, I, 1109 nota di TRISORIO LIUZZI)
Poiché l’art. 295 c.p.c., la cui “ratio” è quella di evitare il rischio di un conflitto tra giudicati, fa esclusivo riferi¬mento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione necessaria del processo non può essere disposta nell’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello “sul quantum” (fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico); ne consegue che deve essere cassata l’ordinanza con cui il pretore ha disposto la sospensione necessaria del processo “sul quantum” in attesa della definizione del processo sull’”an debeatur”.
Cass. civ. Sez. III, 24 maggio 1993, n. 5837 (Giust. Civ., 1994, I, 3248 r. It., 1998)
Per aversi titolo esecutivo, costituito da una sentenza di I grado contenente condanna alle spese del giudizio, è necessario che questa parte della sentenza sia accessoria ad una pronuncia di condanna, dichiarata provvisoria¬mente esecutiva ai sensi dell’art. 282 c.p.c. oppure esecutiva per legge.
Cass. civ. Sez. Unite, 7 febbraio 1992, n. 1373 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza per territorio, nel procedimento per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale ed in quel¬lo, preliminare, per l’ammissibilità dell’azione, va determinata, anche quando si tratti di figlio naturale minore,
secondo i princìpi generali sul foro del convenuto, ai sensi dell’art. 18 c.p.c., e non in base alla residenza del minore, considerato che i princìpi predetti non sono derogati, né esplicitamente, né implicitamente, dalla nuova normativa circa la competenza, per materia, del Tribunale minorile di cui all’art. 68 della legge n. 184/1983.
Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In base alla regola generale dell’art. 374 cod. civ., n. 5, – secondo cui il tutore non può promuovere giudizi senza l’autorizzazione del giudice, tranne quelli espressamente indicati, mentre il genitore è in generale legittimato ad agire senza bisogno di detto atto, ad eccezione di giudizi relativi a negozi per il cui compimento è richiesta l’autorizzazione dall’art. 320, terzo comma, cod. civ. – si giustifica che il tutore soltanto, e non pure il genitore, debba chiedere al giudice di essere autorizzato ad esercitare l’azione di dichiarazione della paternità o maternità naturale, non potendo nei confronti del genitore la valutazione dell’interesse del minore da parte del giudice essere prospettata nella forma di un atto (autorizzatorio) integrativo della legittimazione ad agire. (Non fonda¬tezza della questione di legittimità costituzionale – in riferimento all’art. 3 Cost. – dell’art. 273, primo comma,
Non è più giustificabile – alla stregua del principio di pari trattamento di casi simili – una volta trasferita (art. 38 disp. att. c.c., modificato dall’art. 68 della legge 4 maggio 1983, n. 184) al tribunale per i minorenni la compe¬tenza a giudicare dell’azione di reclamo della paternità o maternità naturale proposta nell’interesse dei minori di età, la preclusione a questo giudice, specializzato per la tutela dei minori, della possibilità di esplicare anche in questa ipotesi la sua funzione istituzionale valutando, ove sia in causa un minore infrasedicenne, se l’azione intentata dal genitore che per primo lo ha riconosciuto, al fine di imporre all’altro una paternità o una maternità che quegli rifiuta di riconoscere, sia effettivamente rispondente all’interesse del figlio, quando analogo controllo è invece previsto nell’ipotesi in certo senso inversa di conflitto di cui al comma quarto dell’art. 250 cod. civ., allorché cioè il genitore che ha già riconosciuto il figlio si opponga al riconoscimento dell’altro giudicandolo non conveniente all’interesse del minore. È pertanto costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 3 Cost. (nonché con il principio di razionalità, essendo incoerente col rilievo sistematico centrale che nell’ordinamento dei rapporti di filiazione, fondato sull’art. 30 Cost., assume l’esigenza di protezione dell’interesse dei minori) – l’art. 274, comma primo, del codice civile stesso, nella parte in cui, ove si tratti di minore infrasedicenne, non prevede che la detta azione di reclamo promossa dal genitore esercente la potestà sia ammessa solo ove ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore.
Cass. civ.Sez. I, 2 dicembre 1985, n. 6015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine della declaratoria giudiziale della paternità naturale, la dichiarazione della madre e l’esistenza di rapporti carnali fra questa ed il preteso pa¬dre, pur non costituendo di per sé prove di detta paternità, possono concor¬rere alla formazione del convincimento del giudice del merito, ove siano suffragate da altre circostanze, anche presuntive, ivi incluso quindi il comportamento processuale del convenuto, consistente nella ingiustificata man¬cata presentazione davanti al consulente incaricato delle indagini ematologiche e genetiche.
Corte cost. 6 maggio 1985, n. 134 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Negli ultimi decenni la coscienza collettiva si è ulteriormente evoluta nel senso di accordare maggiore rilevanza al rapporto effettivo di procreazione rispetto alla qualificazione giuridica della filiazione. Di conseguenza, il legi¬slatore del 1975 – spostando l’accento dal “favor legitimitatis” al “favor veritatis”, nel modificare gli artt. 235 e 244 cod. civ., ed allargando la possibilità di far valere la verità sull’apparenza, anche in relazione alla sicurezza della prova negativa della paternità assicurata dal progresso scientifico – e quello del 1983 – accordando l’azione di disconoscimento nell’interesse del minore infrasedicenne al P.M., nell’intento di favorire ancora di più il per¬seguimento del valore verità – non hanno fatto che seguire la evoluzione della coscienza collettiva sempre più sensibile a quel valore.
Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 1985, n. 2739 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, e per il caso in cui sia stata disposta la cosiddetta prova ematologica, la facoltà della parte di sottrarsi ai prelievi che si rendano necessari per la suddetta prova non esclude che il relativo rifiuto, alla stregua delle motivazioni addotte, possa essere valutato dal giudice del merito quale elemento di convincimento, ai sensi dell’art. 116, 2° comma c. p. c.
Corte cost. 1 aprile 1982, n. 64 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riforma del diritto di famiglia ha indubbiamente spostato l’accento dal favor legitimitatis al favor veritatis, ma lasciando ancorato il termine di de¬cadenza dell’azione di disconoscimento del padre, pur elevato ad un anno, alla conoscenza della nascita (e non dei fatti rilevanti per la proposizione dell’azione), cioè ad un evento di meno aleatoria prova, il legislatore ha posto un limite al favor veritatis giustificato dai pericoli ed inconvenienti di uno sconvolgimento dei rapporti familiari protrattisi per lungo tempo. La denunciata disparità di trattamento tra pa¬dre e figlio è giustificata, d’al¬tronde, dalla diversità delle situazioni poste a raffronto: l’adulterio, infatti, si verifi¬ca al tempo del concepimento e di esso il figlio non può venire a conoscenza se non in tempo assai posteriore alla nascita, per cui collegare anche per lui il termine alla nascita avrebbe significato negargli per sempre l’esercizio dell’azione. Né è violato il diritto di difesa, essendo tale censura strettamente collegata, nella prospettazione dei giudici a quibus, a quella relativa al principio di eguaglianza.