Che valore hanno gli accordi conclusi in sede di separazione in vista di un futuro ed eventuale divorzio?

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 14 aprile 2023, n. 10031; Pres. Valitutti, Rel. Cons. Conti
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
Dott. CONTI Roberto Giovanni – rel. Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
A.A. e B.B., già uniti in matrimonio, si separavano consensualmente comparendo davanti al
Presidente del Tribunale di Cosenza sulla base di un accordo trasfuso nel ricorso presentato il
14.1.2010 che prevedeva, fra l’altro, l’obbligo del A.A. di versare alla B.B. la somma mensile di Euro
2.500,00, di cui Euro 1500,00 per la moglie ed Euro 1000,00 per i figli, considerando l’obbligo
assunto dalla B.B. di trasferire alcune quote societarie della S. al marito. Formalizzato tale atto di
trasferimento di quote in data (Omissis) con atto in Notar C.C., il Tribunale cosentino omologava la
separazione consensuale. Successivamente, lo stesso Tribunale, in data 12.9.2014, con sentenza n.
1589/2014, su domanda congiunta di cessazione degli effetti civili del matrimonio, pronunziava la
cessazione degli effetti civili del matrimonio, recependo gli accordi intercorsi fra i coniugi che
confermavano l’obbligazione del A.A. di corrispondere alla B.B. la somma di Euro 2.500,00 mensili
“vita natural durante”.
Il A.A. ha quindi proposto ricorso per la modifica delle condizioni di divorzio chiedendo, per quel
che qui ancora rileva, la riduzione dell’assegno di divorzio e del contributo per il mantenimento dei
figli, in ragione delle mutate condizioni patrimoniali dell’obbligato e della beneficiaria.
Il Tribunale di Cosenza riteneva inammissibile sia la richiesta di modifica degli accordi assunti in
sede di divorzio – in quanto ritenuti non suscettibili di revisione in ragione della finalità dagli stessi
perseguita – che la domanda di nullità degli accordi, in quanto non esperibile con il rito camerale e
rigettava nel resto la domanda del ricorrente quanto al collocamento del minore con decreto del 13
marzo 2019.
Tale pronunzia veniva quindi confermata dalla Corte di appello di Catanzaro che rigettava il reclamo
proposto dal A.A. con decreto n. 501 del 2019.
Secondo la Corte di appello il provvedimento impugnato doveva ritenersi complessivamente
conforme a legge, rilevando che in sede di separazione le parti avevano concluso un accordo avente
contenuto negoziale contenente la costituzione di una rendita vitalizia a favore della B.B. e dei tre
figli, in relazione alla regolamentazione del trasferimento delle quote di pertinenza della moglie della
società S.. Srl , ciò trovando riscontro nella previsione di un’obbligazione di trasferimento di un bene
di valore determinato a fronte di un’obbligazione di mantenimento della moglie e dei figli non
correlata alla minore età della prole o all’autosufficienza economica degli stessi. L’autonomia
negoziale che aveva governato l’accordo escludeva che potesse avere rilievo un’eventuale forzatura
della causa matrimoniale sottostante agli accordi fra i coniugi o eventuali profili di annullabilità del
negozio in relazione al possibile conflitto d’interesse fra genitori e beneficiari, trovando conferma
l’estraneità dell’accordo sul versamento mensile allo schema dell’assegno di mantenimento di cui
agli artt. 155 e 156 c.c. nel contenuto delle conclusioni congiuntamente assunte dai divorziandi in
sede di scioglimento del matrimonio, ove le somme originariamente concordate a carico del A.A.
vennero espressamente indicate come dovute “vita natural durante”.
Secondo la Corte di appello non era nemmeno possibile ipotizzare la nullità della clausola contenuta
nella sentenza di divorzio, posto che l’eventuale natura implicita alla componente assistenziale
dell’assegno non intaccava la validità dell’intero schema negoziale, radicato negli accordi di
separazione omologati nè incideva sulle statuizioni contenute nella sentenza di divorzio, anche
considerando l’irrilevanza dello squilibrio tra le prestazioni in ragione dell’aleatorietà del rapporto
previsto dall’art. 1872 c.c., costituto anche per donazione, a nulla rilevando la discrasia fra l’atto di
cessione delle quote e il contenuto degli accordi trasfusi nell’omologa e confermati in sede di
scioglimento del vincolo matrimoniale.
Il A.A. ha impugnato il decreto della Corte di appello di Catanzaro indicato in epigrafe con ricorso
per cassazione, affidato a due motivi.
La B.B. non si è costituita.
La causa è stata posta in decisione all’udienza camerale del 18 novembre 2022.
Con il primo motivo il ricorrente prospetta la violazione dell’art. 160 c.c. e della L. n. 898 del 1970,
in relazione agli artt. 1362 c.c. e ss., nonchè il vizio di motivazione apparente. Secondo il ricorrente
l’interpretazione dell’accordo dallo stesso prospettata nel corso del giudizio che vi individuava una
componente assistenziale, avrebbe dovuto essere fatta propria dal giudice di merito, se questi avesse
fatto corretta applicazione dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. e ss.. La motivazione del
provvedimento impugnato sarebbe apparente laddove la Corte di appello avrebbe ritenuto che la sola
autonomia negoziale era in grado di escludere ogni profilo di illegittimità dell’accordo.
La Corte di appello, inoltre, avrebbe tralasciato di considerare l’antecedente verbale assembleare della
società S., anteriore al ricorso per separazione, nel quale la B.B., proprietaria del 50% delle quote
della S.Srl , partecipava all’aumento di capitale sociale con il conferimento della ditta individuale O.e
B.di B.B., stimata in Euro 28.991,57.
Ora, la Corte di appello avrebbe omesso di considerare l’atto prodromico alla cessione delle quote
della società S.della B.B.. Secondo il ricorrente se la Corte di appello avesse fatto corretto utilizzo
dei canoni ermeneutici, la stessa avrebbe dovuto ritenere che l’obbligazione assunta aveva una
componente di mera natura assistenziale, sempre revisionabile. In difetto di tale interpretazione,
l’obbligazione sarebbe secondo il ricorrente finalizzata e funzionale al successivo divorzio e dunque
invalida ai sensi dell’art. 160 c.c., comportando tale accordo la rinuncia all’assegno di divorzio per il
coniuge economicamente debole e la rinuncia al reciproco diritto alla revisione da parte del coniuge
obbligato. Gli accordi raggiunti fra le parti, tenendo conto dell’avvicendamento temporale degli atti
pubblici, se ritenuti non funzionali a realizzare la componente assistenziale dell’assegno di divorzio,
non potrebbero che essere affetti da nullità, in quanto finalizzati a condizionare la libertà decisionale
del A.A. in ordine allo scioglimento del vincolo coniugale, costituendo “il prezzo del consenso del
divorzio”. Nemmeno potrebbe parlarsi, secondo il ricorrente, di contratto a favore di terzo quanto al
contributo per i figli, non essendo chiare le conseguenze dell’esercizio del potere di revoca da parte
dello stipulante nonchè del rifiuto del terzo di profittarne, potendosi ipotizzare che l’obbligazione
rimanesse in favore della B.B., tanto esponendo il A.A. al pagamento di un’obbligazione di
mantenimento aggiuntiva nei confronti della prole o della stessa B.B. che avrebbe potuto ancora
reclamare un assegno di divorzio, non essendo indicato che l’importo concordato fosse sostitutivo
dell’assegno periodico di divorzio.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 160, 1382, 769 1418 e 1346 c.c.,
nonchè degli art. 111 Cost., comma 6 e art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 1362 c.c. La Corte di
appello avrebbe esaminato solo in parte l’eccezione di nullità della clausola e non avrebbe considerato
che la radice dell’accordo negoziale era rappresentata non dagli accordi omologati, ma dalla
trasformazione societaria. In più, il fallimento del matrimonio avrebbe rappresentato la causa genetica
dell’accordo societario e del suo svolgimento nelle condizioni di separazione, limitando la libertà
decisionale del A.A. e comportando la rinuncia implicita, oltre che dell’assegno di divorzio e della
possibilità di modificare l’obbligazione di mantenimento, in violazione dell’art. 160 c.c., avendo la
Corte di appello tralasciato di valutare la sproporzione evidente dell’accordo anche in relazione agli
obblighi accessori assunti dal A.A.. La motivazione della sentenza impugnata, prosegue il ricorrente,
sarebbe contraddittoria ed apparente non considerando, laddove ammette la costituzione di una
rendita vitalizia per donazione, per giustificare la sproporzione tra prestazioni, che per la donazione
è richiesta la forma scritta ad substantiam, con conseguente nullità dell’accordo rilevabile d’ufficio.
Nemmeno sarebbe comprensibile la motivazione laddove affermava che la discrasia fra oggetto degli
accordi societari – ove vi era stata la rinunzia ad ogni altro diritto – e oggetto dell’omologa era
ininfluente, risultando dal collegamento di tutti gli atti, che la relativa obbligazione avrebbe avuto
causa nel fallimento del matrimonio.
I motivi, che meritano un esame congiunto, sono in parte infondati e in parte inammissibili per le
ragioni di seguito esposte.
Giova premettere che questa Corte ha avuto modo di ribadire che gli accordi con i quali i coniugi
fissano, in sede di separazione, il regime giuridico-patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale
divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perchè stipulati in violazione del principio
fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cui all’art. 160 c.c. Ne
consegue che di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludano
il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto necessario a soddisfare
le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente tali esigenze, in quanto una preventiva
pattuizione potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione della cessazione degli effetti civili del
matrimonio (Cass., n. 11012/2012; Cass., n. 2224/2017; Cass., n. 20745/2022 e Cass., n.
28483/2022).
Si tratta di un indirizzo risalente (Cass. nn. 2955/98, 1315/96, 9416/95, v. anche Cass. n. 1801/2000)
secondo il quale “il principio dell’indisponibilità dei diritti è motivato dalla riflessione che gli accordi
preventivi possono condizionare il comportamento delle parti non solo per i profili economici
preconcordati ma – quando sono accettati in funzione di prezzo o contropartita per il consenso al
divorzio – anche per quanto attiene alla volontà stessa di divorziare, venendo così ad incidere su uno
status personale ed a limitare la libertà di difesa nel successivo giudizio di divorzio. Fino alla
pronuncia del divorzio i soggetti sono legati dal vincolo coniugale e non possono pertanto derogare
ai diritti ed ai doveri derivanti dal matrimonio”).
Un orientamento parzialmente diverso si è manifestato per effetto di altre pronunce di questa Corte
che hanno sancito l’efficacia di accordi patrimoniali futuri tra i coniugi, quali espressione della loro
autonomia contrattuale diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela ex art. 1322 c.c. (Cass., 21
dicembre 2012, n. 23713; Cass., 8 novembre 2006, n. 23801).
In questa direzione, Cass. n. 24261/2015 ha ritenuto, superando l’indirizzo tradizionale orientato a
considerare gli accordi assunti prima del matrimonio o magari in sede di separazione consensuale, in
vista del futuro divorzio, nulli per illiceità della causa, perchè in contrasto con i principi di
indisponibilità degli status e dello stesso assegno di divorzio (tra le altre, cfr. Cass. n. 6857/1992),
che “l’accordo delle parti in sede di separazione o di divorzio (e magari quale oggetto di precisazioni
comuni in un procedimento originariamente contenzioso) ha natura sicuramente negoziale, e talora
dà vita ad un vero e proprio contratto (Cass. n. 18066/2014; Cass. n. 19304/2013; Cass. n.
23713/2012).
Di recente questa Corte ha poi ritenuto che in tema di soluzione della crisi coniugale, ove in sede di
separazione i coniugi, nel definire i rapporti patrimoniali già tra di loro pendenti e le conseguenti
eventuali ragioni di debito-credito portate da ciascuno, abbiano pattuito anche la corresponsione di
un assegno dell’uno e a favore dell’altro da versarsi “vita natural durante” il giudice del divorzio,
chiamato a decidere sull’an dell’assegno divorzile, dovrà preliminarmente provvedere alla
qualificazione della natura dell’accordo inter partes, precisando se la rendita costituita (e la sua causa
aleatoria sottostante) “in occasione” della crisi familiare sia estranea alla disciplina inderogabile dei
rapporti tra coniugi in materia familiare, perchè giustificata per altra causa, e se abbia fondamento il
diritto all’assegno divorzile (che comporta necessariamente una relativa certezza causale soltanto in
ragione della crisi familiare)” – cfr. Cass., n. 11012/2021 -.
Ora, reputando il Collegio di dovere dare continuità ai principi da ultimo ricordati, nel caso di specie
assume rilievo centrale la circostanza che gli ex coniugi, nel proporre domanda congiunta di
cessazione del vincolo nascente dal matrimonio ebbero a concordare l’obbligo a carico del A.A. di
corrispondere alla B.B. la somma di Euro 2.500,00 mensili, della quale Euro 1.500,00 per la stessa
ed Euro 1000,00 per i figli, con la specifica pattuizione che “Le parti stabiliscono proprio in virtù di
quanto sopra (conferimento e cessione quote societarie) che l’importo di Euro 2.500,00 sarà
corrisposto dal sig. A.A. vita natural durate.” Tale formulazione era stata preceduta dalla esplicita
indicazione che detto contributo era corrisposto in relazione alla cessione della B.B. in favore del
A.A. delle quote della ditta O. e B.i di proprietà della B.B., confluite nella società S.di proprietà degli
ex coniugi. Tali accordi, ammessi dalla L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 16 in sede di divorzio
congiunto, costituiscono il contenuto della sentenza che pronunzia il divorzio, dopo che l’autorità
giudiziaria abbia verificato “l’esistenza dei presupposti di legge e valutata la rispondenza delle
condizioni all’interesse dei figli.” Ora, la Corte d’appello ha accertato in fatto – con motivazione
ampiamente rientrante nel minimo costituzionale (cfr. Cass., S.U. n. 8053/2014) e non passibile di
rivalutazione alcuna in sede di legittimità- che le parti, in sede di separazione, hanno convenuto la
costituzione di una rendita vitalizia stabilendo che, a fronte della cessione di quote societarie dalla
moglie al marito, costituente lo scopo reale della pattuizione della rendita, questi avrebbe corrisposto
un assegno a lei ed ai figli, anche quando costoro sarebbero divenuti maggiorenni, dunque senza
soluzione di continuità. E tale manifestazione di autonomia negoziale è stata trasfusa anche negli
accordi di divorzio congiunto, omologato dal Tribunale, nei quali si stabiliva che la corresponsione
in parola era “vita natural durante”. Ne consegue che, non trattandosi di pattuizione di un assegno
divorzile, bensì di costituzione di una rendita, il ricorso al procedimento di revisione L. n. 898 del
1970, ex art. 8 era da ritenere inammissibile come dispose il Tribunale e come in definitiva confermò
la stessa Corte di appello, rigettando il ricorso proposto dal A.A.. Tanto è sufficiente per ritenere la
correttezza della decisione impugnata, pienamente in grado di resistere alla censura proposta dal
ricorrente con il primo motivo.
Quanto invece alla censura della argomentazione svolta ad abundantiam concernente la nullità della
clausola, inserita dalla Corte territoriale nella motivazione “per completezza”, la stessa è
inammissibile alla stregua dei principi già espressi da questa Corte, alla cui stregua deve ritenersi
inammissibile, in sede di giudizio di legittimità, il motivo di ricorso che censuri un’argomentazione
della sentenza impugnata svolta “ad abundantiam”, in quanto la stessa, non costituendo una “ratio
decidendi” della decisione, non spiega alcuna influenza sul dispositivo della stessa e, pertanto,
essendo improduttiva di effetti giuridici, la sua impugnazione è priva di interesse. (Cass., n.
18429/2022; Cass., n. 8755/2018).
Il ricorso, sulla base delle superiori argomentazioni, va quindi rigettato.
Nulla sulle spese.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente,
ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre
2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari
a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre
2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello
previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a
norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

L’immobile abusivo può rientrare nell’asse ereditario?

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 17 aprile 2023, n. 16141; Pres. Andreazza, Rel. Cons. Semeraro
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ANDREAZZA Gastone – Presidente –
Dott. PAZIENZA Vittorio – Consigliere –
Dott. SEMERARO Luca – rel. Consigliere –
Dott. REYNAUD Gianni F. – Consigliere –
Dott. CORBO Antonio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. Con l’ordinanza del 10 ottobre 2022 il Tribunale di Foggia ha rigettato l’istanza presentata da A.A.
e B.B. di estromissione dal procedimento sorto a seguito del provvedimento della Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Foggia del 7 giugno 2021 di esecuzione dell’ordine di demolizione
contenuto nella sentenza della Pretura di Lucera del 23 maggio 1997, irrevocabile il 17 giugno 1997,
di applicazione della pena nei confronti di C.C. e D.D., per i reati ex artt. 20, lett. c), L. n. 47 del
1985, 1-sexies L. n. 431 del 1985, 734 c.p., perchè, in qualità di proprietari, realizzarono, in assenza
di concessione edilizia e di ogni autorizzazione, in area sottoposta a vincolo ambientale, un immobile
di un piano di 91 mq., 4 verande di varie dimensioni, una scala ed una recinzione.
2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di A.A. e B.B., eredi dei
condannati, deducendo con l’unico motivo il vizio di motivazione.
Il Tribunale di Foggia avrebbe errato nel ritenere che i ricorrenti abbiano acquistato l’immobile mortis
causa.
La zona su cui insiste l’immobile abusivo sarebbe stata interessata da occupazioni abusive del terreno,
di proprietà di terzi, in seguito oggetto di più edificazioni. I soggetti occupanti sarebbero stati
condannati per i reati edilizi commessi, con il relativo ordine di ripristino.
Per effetto dell’occupazione abusiva, l’unico diritto esercitato sugli immobili sarebbe il possesso: o
perchè mantenuto nel tempo o perchè acquistato attraverso atti in forma di scrittura privata.
L’immobile de quo, come gli altri, sarebbe “sconosciuto ai pubblici registri immobiliari”; nel caso
esaminato, la successione dei genitori non avrebbe avuto alcun bene da trasferire; non vi sarebbe stato
un testamento che abbia disposto sull’immobile abusivo nè i ricorrenti avrebbero ereditato o acquisito
il possesso dell’immobile. Per l’assenza di beni, non avrebbero potuto neanche rinunciare all’eredità.
Dunque, contrariamente a quanto sostenuto dall’ordinanza, non vi sarebbe stato alcun acquisto iure
hereditatis dell’immobile abusivo, non avendo ereditato alcunchè.
La giurisprudenza richiamata dall’ordinanza in tema di demolizione di opere abusive ereditate sarebbe
inconferente, perchè l’immobile sarebbe un “bene fantasma, non censito, non ereditabile”, non oggetto
di possesso da parte dei ricorrenti. L’autorità avrebbe dovuto accertare l’effettivo proprietario del bene.
L’ordinanza avrebbe ritenuto irrilevante la questione relativa alla presenza di ulteriori eredi della
sig.ra E.E. omettendo di considerare che nella fattispecie de qua sarebbe coinvolto un minore che, per
il solo fatto di essere orfano della madre, sarebbe obbligato a partecipare alle spese di abbattimento
di un immobile, pur non avendone il possesso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso infondato.
1.1. I ricorrenti deducono il vizio di motivazione rispetto ad una questione di diritto relativa al se
l’immobile costruito in assenza di permesso di costruire (o di concessione edilizia) ed autorizzazione
paesistica faccia parte dell’asse ereditario, ed è pertanto inammissibile ex art. 606, comma 3, c.p.p.;
il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è soltanto quello attinente alle questioni
di fatto, non anche a quelle di diritto (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 – 01).
1.2. In ogni caso, è infondata la tesi in diritto proposta con il ricorso.
Risulta anche dall’istanza di incidente di esecuzione (p. 2) che i ricorrenti sono gli eredi di C.C. e
D.D., che erano i loro genitori, e nei confronti dei quali fu emessa dal Pretore di Lucera il 23 maggio
1997, irrevocabile il 17 giugno 1997 la sentenza ex art. 444 c.p.p. contenente l’ordine di demolizione
dell’immobile abusivo. E’, dunque, incontestata la qualità di eredi dei ricorrenti, come indicato
nell’ordinanza impugnata.
1.3. I ricorrenti affermano erroneamente che l’immobile abusivo non possa rientrare nell’asse
ereditario e che non si trasmetta iure hereditatis, in base alla argomentazione per cui l’immobile,
essendo abusivo, sarebbe “sconosciuto” ai registri immobiliari ed inidoneo a far parte dell’asse
ereditario.
1.4. Dalla sentenza definitiva risulta che i condannati erano i proprietari dell’immobile abusivo, che
ha una sua chiara consistenza, secondo quanto emerge dal titolo esecutivo, come prima indicato.
Dunque, non è un “immobile fantasma”, ma una cosa già oggetto di diritto di proprietà con le
dimensioni ben descritte nell’imputazione della sentenza.
1.5. Come affermato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite Civili (cfr. Sez. U Civili, n. 25021 del
16/04/2019, in motivazione), l’immobile abusivo oggetto di demolizione è parte dell’asse ereditario,
si trasmette agli eredi e su di esso si forma la comunione ereditaria, salvo il caso della rinuncia, che
nel caso in esame non risulta effettuata.
1.5.1. Secondo le Sezioni Unite Civili, la comunione ereditaria “… ha ad oggetto i beni che
componevano il patrimonio del de cuius e si costituisce ipso iure tra gli eredi quando, a seguito
dell’apertura di una successione mortis causa, vi siano una pluralità di chiamati all’eredità ed una
pluralità di accettazioni (espresse o tacite). La comunione ereditaria è, perciò, indipendente dalla
volontà dei chiamati alla eredità (non è una comunione “volontaria”, mancando un atto negoziale
diretto a costituirla) e va annoverata tra le comunioni “incidentali” (“communio incidens”), in quanto
sorge per il verificarsi del mero “fatto giuridico” della pluralità di acquisti della medesima eredità…”.
1.5.2. Secondo la giurisprudenza, la nullità ex art. 46 D.P.R. n. 380 del 2001 è, infatti, relativa ai soli
atti tra vivi, restando esclusi gli acquisti di beni immobili abusivi mortis causa.
Tale norma prevede che “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto
trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro
parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati
ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del
permesso in sanatoria…”.
Cfr. Sez. U Civili, n. 8230 del 22/03/2019, Rv. 653283, che hanno affermato il principio per cui “la
nullità comminata dall’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della L n. 47 del 1985
va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art. 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione,
e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione
al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati
nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del
titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile,
proprio, a quell’immobile”.
Nello stesso senso, la sentenza citata n. 25021 del 16/04/2019, per cui “restano fuori dal campo di
applicazione dell’art. 40, comma 2, della L. n. 47 del 1985, così come – d’altra parte – dal campo di
applicazione dell’art. 46, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 (e prima dell’art. 17, comma 1, della L.
n. 47 del 1985), gli atti mortis causa e, tra quelli inter vivos, gli atti privi di efficacia traslativa reale
(ossia quelli ad effetti meramente obbligatori), gli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali
di garanzia o di servitù (espressamente esclusi dalle richiamate disposizioni) e – come si vedrà nel
prosieguo – gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali (artt. 46,
comma 5, del D.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della L. n. 47 del 1985)”.
1.6. L’ordinanza impugnata, che ha confermato l’ingiunzione a demolire nei confronti degli eredi dei
soggetti condannati per i reati edilizi, ha correttamente ritenuto che l’immobile sia parte del
patrimonio ereditario di cui sono titolari i ricorrenti.
1.7. Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, l’ordine di demolizione delle opere abusive
emesso dal giudice penale ha carattere reale ed ha natura di sanzione amministrativa a contenuto
ripristinatorio e deve, pertanto, essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto
col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti
estranei alla commissione del reato (Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403; Sez. 3,
n. 37120 del 11/05/2005, Morelli, Rv. 232175).
1.8. Pertanto, l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, anche nell’ipotesi di acquisto
dell’immobile per successione a causa di morte, conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede del
condannato, stante la preminenza dell’interesse paesaggistico e urbanistico, alla cui tutela è
preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico,
alla conservazione del manufatto, dell’avente causa del condannato.
1.9. Generico ed irrilevante appare il riferimento ad eventuali eredi minori della sig.ra E.E., terza
figlia di C.C. e D.D., deceduta il giorno (Omissis), prima che la sentenza di condanna diventasse
irrevocabile. Come correttamente rilevato dall’ordinanza, l’eventuale notifica dell’ingiunzione di
demolizione agli eredi di E.E. non incide in alcun modo sulla decisione nei confronti dei ricorrenti.
2. Pertanto, i ricorsi devono essere rigettati. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. si condannano i ricorrenti al
pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2023.
Depositato in Cancelleria il 17 aprile 2023

Sì all’assegno divorzile se l’attività casalinga è stata svolta in base a una scelta condivisa con l’ex marito

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 22 marzo 2023, n. 8162; Pre. Acierno, Rel. Cons. Falabella
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACIERNO Maria – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
1. – Con sentenza del 5 novembre 2020 la Corte di appello di L’Aquila ha respinto il gravame proposto
da A.A. avverso la pronuncia con cui il Tribunale del capoluogo abruzzese aveva: dichiarato la
cessazione degli effetti civili del matrimonio tra lo stesso A.A. e B.B.; affidato la figlia minore della
coppia ad entrambi i genitori con collocazione presso la madre; disposto che il padre contribuisse al
mantenimento della figlia minore con un assegno di Euro 415,00 mensili, oltre che partecipando alla
metà delle spese straordinarie; dichiarato spettare alla moglie un assegno divorzile di Euro 400,00
mensili.
2. – Con tre motivi di impugnazione ricorre per cassazione, contro detta sentenza, A.A.. Resiste con
controricorso B.B.. Vi sono memorie.
Motivi della decisione
1. – Deve darsi atto, preliminarmente, dell’inammissibilità del controricorso, il quale è stato proposto
da difensore munito di procura non avente carattere di specialità, in quanto “rilasciata nell’ambito del
giudizio di primo grado” (cfr. epigrafe dell’atto). E’ appena il caso di ricordare che la procura per il
ricorso per cassazione ha carattere speciale ed è valida solo se rilasciata in data successiva alla
sentenza impugnata, attesa l’esigenza di assicurare, in modo giuridicamente certo, la riferibilità
dell’attività svolta dal difensore al titolare della posizione sostanziale controversa (per tutte: Cass. 27
agosto 2020, n. 17901; Cass. 7 gennaio 2016, n. 58); il detto principio opera anche per il controricorso,
in forza del richiamo contenuto nell’art. 370, comma 2, c.p.c. (Cass. 7 marzo 2003, n. 3410, in
fattispecie in cui la procura di assumeva conferita a margine dell’atto introduttivo della precedente
fase di giudizio in data perciò anteriore alla pubblicazione del provvedimento impugnato).
2. – Il primo mezzo denuncia “nullità della sentenza per violazione dell’art. 112. c.p.c. in relazione
alla l n. 898/1970, art. 5, comma 6, ed all’art. 156 c.c., per avere la Corte di appello di L’Aquila accolto
la domanda di assegno divorzile, mai chiesta dalla coniuge, che ha sempre espressamente richiesto
l’assegno di mantenimento”. Secondo il ricorrente la pronuncia impugnata non avrebbe rilevato il
vizio di ultrapetizione presente nella sentenza del Tribunale; questa aveva riconosciuto l’assegno ex l.
n. 898/1970, art. 5, comma 6, a B.B., la quale si era però limitata a domandare giudizialmente
l’aumento dell’assegno di mantenimento disposto in sede di separazione. Il ricorrente sottolinea, al
riguardo, la diversità esistente tra le due forme di contribuzione, rimarcando sia i presupposti cui deve
essere ancorato il riconoscimento dell’assegno divorzile, sia i parametri valutativi normativamente
prefissati ai fini della concreta determinazione dell’assegno di divorzio.
Il motivo è infondato.
Ha osservato la Corte di appello che il Tribunale aveva correttamente qualificato la domanda di B.B.
quanto all’aumento a Euro 500,00 dell’assegno di mantenimento previsto in sede di separazione quale
domanda di riconoscimento dell’assegno dovuto ex art. 5, comma 6, cit., attribuendo rilievo
all’oggetto sostanziale della richiesta volta al riconoscimento di un assegno assistenziale; il Giudice
del gravame ha inoltre rimarcato che il Tribunale, nel riconoscere l’assegno divorzile, aveva verificato
la sussistenza dei presupposti richiesti per la concessione di un assegno di tale natura.
In tal modo, la Corte distrettuale risulta essersi conformata al principio di diritto per cui il giudice di
merito, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, non è condizionato
dalle espressioni adoperate dalla parte ma deve accertare e valutare il contenuto sostanziale della
pretesa, quale desumibile non esclusivamente dal tenore letterale degli atti ma anche dalla natura delle
vicende rappresentate dalla medesima parte e dalle precisazioni da essa fornite nel corso del giudizio,
nonchè dal provvedimento concreto richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e
pronunciato e del divieto di sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella proposta (Cass. 21 maggio
2019, n. 13602; Cass. 29 aprile 2004, n. 8225). Queste ultime evenienze non ricorrono, essendo
manifesto che i Giudici del merito abbiano valutato la portata concreta della domanda proposta, la
quale, del resto, proprio in quanto spiegata all’interno del giudizio di divorzio, non poteva che essere
diretta al riconoscimento dell’assegno di cui alla l. n. 898/1970, art. 5, comma 6: assegno le cui
condizione di erogazione sono state poi coerentemente scrutinate avendo riguardo alla fattispecie
dedotta in giudizio.
3. – Il secondo motivo è rubricato opponendo “nullità della sentenza per violazione o falsa
applicazione della l. n. 898/1970, art. 5, comma 6, per avere la Corte di Appello di L’Aquila
riconosciuto l’assegno divorzile alla coniuge che non ha mai cercato lavoro, nè in costanza di
matrimonio nè dopo, e per avere lasciato dopo tre mesi l’unico lavoro reperito”. Si lamenta che la
Corte di merito abbia riconosciuto la spettanza dell’assegno di divorzio nonostante la controparte non
abbia mai indicato di aver tentato di reperire un’occupazione lavorativa, nè chiesto di provare in via
testimoniale una tale evenienza. Sottolinea l’istante che aveva trovato smentita, nel corso del giudizio
di merito, il fatto che il rifiuto di lavorare della controparte, in costanza di matrimonio, derivasse da
un accordo coniugale.
Il motivo è inammissibile.
Per quanto qui rileva è osservato, nella sentenza impugnata: che risultava accertato lo squilibrio nella
situazione economica delle parti a seguito dello scioglimento del vincolo matrimoniale; che l’odierna
controricorrente versava in situazione di insufficienza economica; che, come considerato dal
Tribunale, l’età di B.B. non consentiva alla medesima un proficuo inserimento nel mondo del lavoro
– essendo ella oltretutto priva di esperienze lavorative, avendo svolto per soli tre mesi l’attività di
operatrice telefonica – e di percepire redditi tali da renderla autonoma dal punto di vista economico,
“tenuto anche conto del contributo economico dovuto al mantenimento della figlia e dell’obbligo di
pagamento delle spese straordinarie a questa relative”; che andava tenuto conto della funzione
riequilibratice che l’assegno divorzile era chiamato a svolgere; che, a tale riguardo, risultava pacifico
che nel corso della vita coniugale la controricorrente aveva fornito attraverso il lavoro domestico ed
occupandosi della cura ed educazione della figlia minore, un concreto apporto alla conduzione
familiare e alla formazione del profilo economico e professionale dell’ex coniuge; che tanto doveva
ritenersi essere il frutto di una scelta condivisa tra i coniugi almeno fino al dicembre 2012, epoca
pressochè coincidente con la fine della vita coniugale.
Come chiarito dalle Sezioni Unite, all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi
natura assistenziale e natura perequativo-compensativa: quest’ultima discende direttamente dalla
declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo
volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla
base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al
contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle
aspettative professionali sacrificate. In tal senso, il riconoscimento del detto assegno richiede
l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli
per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della l. n.
898/1970, art. 5, comma 6, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia
sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in
particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle
parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed
alla formazione del patrimonio comune, nonchè di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in
relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto (Cass. Sez. U. 11 luglio 2018, n.
18287). Il principio secondo il quale, sciolto il vincolo coniugale, ciascun ex coniuge deve provvedere
al proprio mantenimento, è quindi derogato nell’ipotesi di non autosufficienza di uno degli ex coniugi
e anche nel caso in cui il matrimonio sia stato causa di uno spostamento patrimoniale dall’uno all’altro
coniuge, ex post divenuto ingiustificato, che deve perciò essere corretto attraverso l’attribuzione di un
assegno, in funzione compensativo-perequativa, adeguato a compensare il coniuge economicamente
più debole del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali
(Cass. 28 luglio 2022, n. 23583; Cass. 8 settembre 2021, n. 24250).
Ciò posto, l’accertamento della mancata autosufficienza economica contenuto nella decisione
impugnata integra un accertamento di fatto che sfugge, in sè, al sindacato di legittimità: nè il ricorrente
ha sviluppato, sul punto, una censura motivazionale; nella rubrica del motivo è evocato, bensì, l’art.
360 c.p.c., n. 5, ma l’impugnativa non risulta articolata avendo riguardo a doglianze di omesso esame
di fatto decisivo (doglianze che, come è noto, implicano che chi ricorre indichi il “fatto storico”, il
cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e
il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”
(Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054).
L’istante mostra, del resto, di non cogliere appieno la ratio decidendi dell’impugnata pronuncia avendo
riguardo al tema che qui interessa. Infatti, come si è visto, la Corte di appello ha evidenziato che B.B.
aveva un’età che non le consentiva un inserimento nel mondo del lavoro, tale da ottenere redditi che
la potessero rendere autosufficiente economicamente (tenuto anche conto del concorso della
medesima al mantenimento della figlia); ebbene, la parte istante non si misura con tale rilievo,
limitandosi a questionare della mancata allegazione e della mancata prova della ricerca di un impiego
da parte dell’odierna controricorrente.
Il motivo appare non aderente alle ragioni del decidere anche in quanto trascura di prendere in
considerazione quanto osservato dalla Corte di merito in ordine alla funzione perequativa e
compensativa dell’assegno: il mezzo di censura non considera, cioè, i rilievi del Giudice di appello in
ordine all’attività casalinga ed educativa svolta, in base a un scelta condivisa col marito, da B.B. e al
contributo dalla stessa complessivamente fornito alla conduzione familiare e all’affermazione
economica e professionale dell’ex marito. Tali considerazioni della Corte del gravame appaiono
pienamente pertinenti in diritto, in quanto, come si è detto, l’assegno di divorzio va riconosciuto anche
laddove, a prescindere dall’esistenza di una autosufficienza economica, si tratti di compensare il
coniuge economicamente svantaggiato delle rinunce operate nel quadro delle scelte della coppia
relative alla conduzione familiare.
4. – Col terzo motivo il ricorrente lamenta “nullità della sentenza per violazione dell’art. 112,
c.p.c. sotto altro profilo, per avere la Corte di appello di L’Aquila erroneamente pronunziato sulla
domanda di modifica delle condizioni di incontro padre – figlia”. Spiega chi impugna che la sentenza
di appello avrebbe ritenuto che nelle cause di divorzio, ove non ricorra l’accordo tra i genitori sulle
modalità di incontro tra genitori e figli, sarebbe corretto non decidere nulla per non modificare lo
status quo, chè, diversamente, “se ne avrebbe un turbamento dei figli la cui importanza prevale alla
corretta instaurazione dei rapporti genitoriali”.
Il motivo è palesemente infondato.
Il ricorrente formula la censura avendo riguardo alla domanda, da lui riproposta in appello, quanto
alla regolamentazione dei tempi di incontro tra di lui e la figlia C.C..
Ha ritenuto, sul punto la Corte di appello che la regolamentazione dei modi e dei termini del diritto
di visita, stabilite con la sentenza di separazione, avesse tenuto adeguatamente conto delle esigenze
del minore e del genitore non collocatario e avesse consentito un rapporto sereno ed equilibrato tra la
figlia e A.A., onde, a proprio avviso, il Tribunale aveva correttamente ritenuto di dare continuità alle
prescrizioni già adottate.
Ora, poichè il vizio di omessa pronuncia si concreta nel difetto del momento decisorio, per integrare
detto vizio occorre che sia stato completamente omesso il provvedimento indispensabile per la
soluzione del caso concreto (Cass. 3 marzo 2020, n. 5730; Cass. 18 febbraio 2005, n. 3388): tale
evenienza nella fattispecie in esame per certo qui non ricorre.
5. – L’impugnazione è respinta.
6. – Nulla è da statuire in punto si spese, stante l’inammissibilità del controricorso.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla l. n. 228
del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se
dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione Civile, il 1 febbraio 2023.
Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2023

Il tenore di vita matrimoniale è ancora rilevante ai fini del contributo di mantenimento

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 22 marzo 2023, n. 8254; Pres. Genovese, Rel. Cons. Casadonte
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
1.- Con sentenza n. 3076-2018, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha pronunciato la
separazione giudiziale tra la sig.ra A.A. e il sig. B.B., coniugati dal (Omissis).
2. – Per quel che qui ancora rileva, l’adito tribunale ha posto a carico del marito l’obbligo di contribuire
al mantenimento della figlia C.C. (nata il (Omissis)) nella misura di Euro 800,00 al mese, con
rivalutazione ISTAT e rimborso del 50% delle spese straordinarie, mentre ha rigettato la domanda
della moglie volta ad ottenere un contributo di mantenimento per sè.
3. – Con sentenza n. 2395/2020, pubblicata in data 29 giugno 2020, la Corte d’appello di Napoli,
decidendo sull’appello spiegato dalla sig.ra A.A., ha parzialmente accolto il gravame, rideterminando
l’assegno di mantenimento in favore della figlia C.C. in Euro 1.150,00 mensili, con decorrenza dalla
domanda.
3.1.- Più specificamente, la Corte di merito ha ritenuto infondata la censura relativa al mancato
riconoscimento dell’assegno di mantenimento in favore dell’appellante, in quanto, pur potendosi
presumere che la cessazione di ogni attività lavorativa nel 1999 fosse stata concordata con il marito
per una migliore gestione della famiglia, non risultava tuttavia specificamente allegata nè, tantomeno,
documentata alcuna iniziativa concreta volta alla ricerca di un’attività lavorativa, nonostante la
comprovata pregressa e multiforme esperienza lavorativa della sig.ra A.A..
3. 2. – Era invece meritevole di accoglimento il secondo motivo d’appello, teso a censurare la
riduzione dell’assegno di mantenimento per la figlia C.C. in Euro 800,00 mensili, a fronte del
contributo pari a Euro 1.150,00 inizialmente disposto con ordinanza presidenziale, motivata sul
rilievo che la sig.ra A.A. non aveva fornito prova della riduzione del reddito del marito. Invero – ha
osservato la corte distrettuale – incombeva sul sig. B.B., e non sulla moglie, l’onere di documentare il
proprio decremento reddituale mediante produzione delle dichiarazioni fiscali annuali. Sicchè, non
potendo ritenersi tale onus probandi assolto dalle generiche dichiarazioni rese dai testimoni escussi,
la corte d’appello riportava l’assegno di mantenimento per la figlia C.C. all’importo di Euro 1.150,00
mensili, come originariamente stabilito nell’ordinanza presidenziale.
4. – La sig.ra A.A. ha proposto ricorso per la cassazione della predetta decisione, con atto notificato
in data 28 settembre 2020, sulla base di due motivi. Il sig. B.B. è rimasto intimato.
Motivi della decisione
5. – Il primo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 156 c.c. e 116 c.p.c. ed omesso esame
di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art.
360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5) censura la decisione impugnata per non aver riconosciuto alla
ricorrente il diritto all’assegno di mantenimento, a carico del sig. B.B..
5. 1. – A giudizio della ricorrente, la corte d’appello partenopea, con motivazione illogica ed
apparente, avrebbe omesso di considerare circostanze decisive per il giudizio, quali l’elevatissimo
tenore di vita garantito dal sig. B.B. anche dopo la fine della convivenza, a seguito cioè della
separazione di fatto intervenuta nel 2006, allorchè la ricorrente si era trasferita da (Omissis) a
(Omissis) con le figlie ricevendo fino al 2015 la somma di Euro 2.000,00 per le esigenze quotidiane,
di Euro 700,00 per l’affitto e altrettanto per la “governante”. Inoltre, non era stata considerata la
richiesta fatta dal B.B. alla moglie di rinunciare al lavoro per dedicarsi alla famiglia, i gravi problemi
di salute di C.C., affetta da anoressia, la durata del matrimonio (dal 1993), l’età della ricorrente al
momento dell’instaurazione del giudizio di separazione (46 anni), la criticità occupazionale che
affligge la Regione Campania.
6. – Il secondo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 337 ter c.c. ed omesso esame di un
fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360
c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5) lamenta l’erroneità della rideterminazione dell’assegno di mantenimento
in favore della figlia C.C. effettuata dalla corte d’appello, essendosi la stessa limitata a confermare
quanto statuito nell’ordinanza presidenziale senza tenere conto delle accresciute esigenze economiche
della figlia nei quattro anni decorsi dall’instaurazione del giudizio di separazione.
7. – Tanto premesso il primo motivo è fondato e va accolto.
7.1. – Costituisce principio interpretativo ormai acquisito che la separazione personale, a differenza
dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del
vincolo coniugale, sicchè i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di
mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli
necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il
dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione
temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà,
convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale,
presupposto dell’assegno di divorzio (cfr. Cass. 12196/2017; id. 16809/2019; id. 5605/2020;
id.4327/2022).
7.2. – Ciò posto è stato altresì precisato, in relazione allo stato di bisogno che giustifica il contributo
e rispetto al quale rilevano sia i redditi percepiti dal coniuge richiedente che la sua capacità lavorativa,
che l’attitudine al lavoro proficuo valutabile ai fini della determinazione della misura dell’assegno di
mantenimento da parte del giudice, è costituita dalla effettiva possibilità di svolgimento di un’attività
lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, senza
limitare l’accertamento al solo mancato svolgimento di un ‘attività lavorativa e con esclusione di mere
valutazioni astratte e ipotetiche (Cass.24049/2021).
7.3. – Ebbene, nel caso di specie la corte territoriale non si è attenuta a questi principi là dove ha
respinto la domanda di mantenimento della sig.ra A.A. senza alcuna considerazione, da un canto del
tenore di vita matrimoniale, ed ancora rilevante ai fini del contributo di mantenimento, e dall’altro,
all’effettiva possibilità di reperire un lavoro adeguato nella zona di trasferimento ((Omissis) prima e
(Omissis) dopo).
7.4.- Infatti, per quanto riguarda il tenore di vita non è contestato che la famiglia abbia potuto
beneficiare di una buona disponibilità finanziaria assicurata dal lavoro del sig. B.B. – conduttore
radiofonico e disc-jochey, noto con lo pseudonimo di D.D. – e che ciò sia proseguito anche dopo il
trasferimento in Campania della sig.ra A.A. con la figlia mediante il versamento da parte del marito
della somma mensile di circa Euro 3.400,00 (Euro 2000,00 oltre Euro 700,00 per affitto ed oltre Euro
700,00 per la governante).
7.5.- Tale disponibilità non è stata considerata dalla corte territoriale mentre è in realtà rilevante ai
fine di ricostruire l’effettivo livello di vita matrimoniale e il contributo dalla stessa fornito.
7.6.- Inoltre, la corte d’appello non ha considerato l’effettiva possibilità per la sig.ra A.A. di reperire
un’adeguata attività lavorativa, in una regione che conosce notoriamente tali problemi, ma anche in
ragione delle caratteristiche specifiche delle esigenze di cura della figlia e delle difficoltà, pure
riconosciute, quali l’indisponibilità di un mezzo di trasporto personale.
7.7. – A questo riguardo, infatti, la corte territoriale ha motivato erroneamente il rigetto con la “poco
incisiva” ricerca di un posto di lavoro allegata dall’appellante e con il mancato riferimento
all’eventuale richiesta del reddito di cittadinanza, in una prospettiva astratta che non può
automaticamente condurre ad escludere l’osservanza dell’obbligo, ancora normativamente esistente
in sede separativa, di assistenza materiale a favore del coniuge che non disponga di propri mezzi
adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale.
8. – Il secondo motivo è assorbito dall’accoglimento del primo, dovendosi procedere al suo esame
solo alla luce della comparazione complessiva delle capacità reddituali e patrimoniali dei due coniugi
separati, se non altro per regolare la contribuzione e la determinazione delle spese straordinarie che –
in siffatto contesto caratterizzato da una evidente disparità redditual-patrimoniale – non può essere
determinata senza misurare la effettiva capacità di ciascun genitore di garantire alla minore il tenore
di vita quo ante.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in
relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese di questa fase, alla Corte d’appello di
Napoli, diversamente composta.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi,
a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003 art. 52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile, il 20 febbraio 2023.
Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2023

L’avarizia ossessiva e il regime pervasivo di risparmio domestico integrano il reato di maltrattamenti

Cass. Pen., Sez. VI, sent., 17 febbraio 2023, n. 6937 – Pres. Di Stefano, Cons. Rel. Giordano
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI STEFANO Pierluigi – Presidente –
Dott. RICCIARELLI Massimo – Consigliere –
Dott. GIORDANO Emilia A. – rel. Consigliere –
Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere –
Dott. D’ARCANGELO Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.A., nato a (Omissis);
avverso la sentenza del 30/11/2021 della Corte di appello di Bologna;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Emilia Anna Giordano;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Giuseppe
Riccardi che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito l’avvocato Stefano Delsignore, per la parte civile B.B., che ha depositato conclusioni scritte e
nota spese;
uditi per il ricorrente i difensori avvocato…, che hanno insistito per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Bologna ha confermato la condanna di A.A. alla pena di anni uno e mesi
cinque di reclusione per i reati di cui agli artt. 572 c.p. e alcuni episodi di lesioni (artt. 582, 585 in
relazione all’art. 576 n. 1, 61 n. 2 c.p.) commessi il 21 novembre 2015, il 13 giugno 2016 e il 22 giugno
2016 in danno della moglie convivente, B.B., anche nel periodo di separazione di fatto. La sentenza
ha confermato le statuizioni civili che prevedono la liquidazione del danno rimessa al giudice civile.
2. Con i motivi di ricorso, di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p. nei limiti
strettamente indispensabili ai fini della motivazione, il ricorrente denuncia:
2.1. violazione di legge processuale, in relazione all’art. 192 cod. proc. pen., e penale, ai fini della
configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, e cumulativi vizi di motivazione in relazione
alla necessaria verifica del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa,
costituita parte civile. Osserva il ricorrente che la motivazione della sentenza impugnata, che si
adagia su quella di primo grado, non compie un vaglio di attendibilità, alla luce dei criteri di maggior
rigore previsti dalla giurisprudenza, della persona offesa dal reato e non esamina adeguatamente i
rilievi difensivi che si fondano sulle risultanze della consulenza tecnica di ufficio eseguita nella causa
civile per l’affidamento della figlia minore della coppia e “dirompenti” in punto di attendibilità
intrinseca della B.B. sottolineandone l’atteggiamento difensivo (nel corso dell’esame) ai limiti della
simulazione nonchè sul giudizio espresso dai consulenti “sull’impossibilità di escludere
psicopatologie di personalità” e sulla sussistenza di indici che generalmente ravvisabili in soggetti
che “possono manifestare risposte aggressive esagerate senza provocazione esplicita” e, infine, dubbi
sull’attendibilità che possono riguardare un soggetto nei confronti del quale si è ravvisata “una
struttura personologica di tipo isterico o bipolare”. Vieppiù, il giudizio di attendibilità della
dichiarante era da valutare alla luce delle denunce, per il reato di sottrazione di minore, proposte
dall’odierno imputato e pervenuto, a seguito di avocazione delle indagini da parte della Procura
generale, alla emissione di avviso di conclusione delle indagini nonchè delle risultanze della
consulenza sulla “incompatibilità” delle lesioni con le vicende descritte dalla persona offesa. Gli
elementi di riscontro, valorizzati nella sentenza impugnata, sono inidonei ad assolvere tale funzione
sia perchè autoreferenziali sia perchè la persona offesa aveva avvicinato le amiche testi indirette-
anche prima della loro escussione sia perchè, infine, il padre della persona offesa, in merito ad uno
degli episodi di lesioni, aveva riferito che le lesioni le erano state cagionate dalla figlia minore. Infine
la sentenza impugnata ha obliterato la portata dell’apporto dichiarativo dei testi della difesa;
2.2. erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione, per illogicità o manifesta
contraddittorietà, in relazione a due vicende, narrate dal padre della persona offesa (si tratta di un
episodio durante il quale il dichiarante, attraverso il telefono messo in viva voce, aveva potuto udire
le offese verso la figlia) e l’episodio del 22 giugno 2015 (in realtà 22 giugno 2016) in occasione del
tentativo dell’imputato di entrare nell’abitazione della persona offesa per prendere la figlia. Nella
ricostruzione della B.B. non vi è un riferimento alla lesione, della quale si sarebbe avveduta dopo
alcune ore, circostanza che non è verosimile, viste le qualità personali della B.B. e del padre e perchè
non venne prestata alcuna cura, circostanze che, invece, confermano la ricostruzione del consulente
dell’imputato sulla incompatibilità di tale lesione con la dinamica descritta dalla persona offesa. In
una situazione conflittuale quale quella che si era venuta a determinare fra i coniugi sono inidonei a
configurare il delitto di maltrattamenti sia l’episodio delle contumelie che le condizioni di “ri Spa
rmio domestico” che non attingono a rilievo penale e l’erronea attribuzione all’imputato di frasi
proferite dal padre. Difetta, infine, il requisito dell’abitualità;
2.3. violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al giudizio di responsabilità in
relazione ai reati di lesione sub capi b), c) e d), per questo, fermo quanto innanzi rilevato, sulla
inattendibilità della ricostruzione dell’episodio, oltre che in frontale contrasto con i rilievi del
consulente di parte. In ogni caso tali episodi si collocano in un contesto complesso, quale quello della
separazione e delle concitate fasi di consegna della minore e sono, dunque, privi del connotato di
volontarietà.
Motivi della decisione
1.II ricorso deve essere rigettato perchè proposto per motivi infondati, ai limiti della manifesta
evidenza.
2.Sono generici e manifestamente infondati i rilievi della difesa che denunciano cumulativi vizi di
motivazione, dalla carenza di motivazione sul giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla
persona offesa a quelle che ne denunciano la contraddittorietà, a quelle, che infine, ne asseriscono la
illogicità in relazione alla valorizzazione, quale elemento di riscontro, dei certificati medici attestanti
le lesioni e delle dichiarazioni rese da persone vicine alla persona (il padre e alcune amiche).
Le censure della difesa, in particolare, riproducono (anche graficamente) argomentazioni sviluppate
con i motivi di appello che hanno trovato adeguata risposta nella motivazione della sentenza
impugnata che risulta completa ed articolata e che si è confrontata criticamente con le problematiche
poste dalla difesa in merito al giudizio di attendibilità delle dichiarazioni accusatorie in linea con
l’ampia motivazione della sentenza di primo grado che, a propria volta, aveva compiuto un’accurata
disamina delle dichiarazioni rese dalla persona offesa descrivendo il clima di sopraffazione e i
comportamenti vessatori, che già la sentenza di primo grado descrive come “peculiari”, ai quali la
persona offesa era stata sottoposta. Tale riferimento, e il punto sarà oggetto di ulteriore esame, è da
intendersi riconducibile al regime di ri Spa rmio domestico imposto alla persona offesa, e
inizialmente condiviso o, comunque, tollerato dalla donna, ma poi divenuto a questa del tutto
insopportabile, anche se non è questo solo, l’unico aspetto del sistema di vita imposto alla B.B..
2.1. A conforto del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla B.B., che costituiscono la
struttura portante delle contestazioni e del giudizio di responsabilità ai fini della ricostruzione del
clima di vessazioni e delle sopraffazioni subite, dalla persona offesa, la Corte di richiamato il
contenuto delle dichiarazioni rese dalle amiche e dal padre della donna.
Quanto alle prime, pur non essendo state le dichiaranti partecipi dirette delle dinamiche familiari,
la Corte di merito rileva che queste avevano illustrato, “il clima di ossessivo controllo ed isolamento
in cui l’imputato aveva costretto la persona offesa, fin dall’inizio della loro convivenza e
progressivamente aggravatosi dopo il matrimonio” e che hanno confermato le angherie, i soprusi e
le violenze poste in essere dall’imputato nei confronti della moglie e dalla donna confidate alle
amiche, che del resto potevano verificare, in occasione degli incontri con la B.B., il “terrore” della
donna alle continue telefonate di controllo del marito, da loro direttamente percepito (cfr. pag. 8
della sentenza impugnata). Si tratta di elementi del narrato delle dichiaranti che riferiscono fatti
anche risalenti nel tempo a comprova della abitualità dei comportamenti dell’imputato e che
costituiscono il risultato non solo di confidenze ricevute dalla persona offesa ma anche di
comportamenti da loro stesse rilevati (le continue telefonate; il terrore della B.B.) e che travalicano
le possibili suggestioni alle quali le stesse potrebbero essere state esposte per effetto
dell’avvicinamento prima della loro escussione.
2.2. Molto controversa nei motivi, ma parimenti esaminata nella sentenza impugnata (ivi, pag. 8), è
la valutazione del riscontro costituito dalle dichiarazioni rese dal padre della persona offesa che è
stato teste diretto sia del sistema di risparmio domestico cui l’imputato aveva costretto la persona
offesa che della presenza di lividi sulle braccia della figlia. Il teste ha anche precisato che, in qualche
occasione, egli aveva udito investire la donna di epiteti ingiuriosi attraverso il telefono posizionato
in via voce; che aveva, inoltre, ricevuto le confidenze delle figlia su due episodi in cui il marito le
aveva procurato lesioni, una volta perchè il marito l’aveva scossa violentemente, mentre usciva dalla
doccia facendola cadere a terra, tra il lavandino e la doccia; un’altra volta perchè le aveva messo lo
sgambetto, facendola rovinare a terra e, infine quando (e a tale episodio aveva direttamente assistito
nel mese di giugno 2016, si tratta dell’episodio contestato al capo d), spingendo violentemente la
porta blindata contro il piede della B.B. che si opponeva al suo ingresso in casa, l’imputato le aveva
cagionato delle contusioni, oggetto di contestazione al capo d).
Il ricorrente deduce che il teste stesso aveva riferito, in dibattimento, che la persona offesa gli aveva
detto che tali lividi le venivano procurati dalla figlia e che solo successivamente la B.B. gli aveva,
invece, riferito che erano esiti delle violenze del marito e la inattendibilità del racconto della persona
offesa, non superabile neppure dai riscontri, alla luce della consulenza tecnica svolta nell’interesse
dell’imputato.
La sentenza impugnata, in linea con quella di primo grado, ha ritenuto attendibili le dichiarazioni
del padre della persona offesa sia per la parte delle confidenze ricevute, sia in relazione agli episodi
di lesione, in particolare quelle relative ai capi c) e d) che avevano trovato ulteriore conferma nel
contenuto dei referti medici e, per quello sub capo d), anche nelle fotografie in atti. Correttamente la
Corte non ha ritenuto condivisibile la tesi sul giudizio di inattendibilità del padre della persona
offesa, proposta già con l’appello, evidenziando come la persona offesa aveva solo con il tempo
trovato la forza di riferire il suo vissuto familiare, taciuto anche al padre che, dunque, ha riferito con
precisione e completezza quanto da lui appreso dalla figlia in distinti momenti.
Il giudice di appello ha dato atto della particolare valenza del contenuto dei referti: quello del 14
giugno 2016 (in relazione al reato sub capo c) evidenziava che la persona offesa era “provata e
sofferente” ed aveva attribuito le lesioni riscontrate a “diversi diverbi avuti con il marito”; anche il
referto sub capo d) indica l’anamnesi della paziente che coincide perfettamente, ed è pertanto stata
posta a conforto del giudizio di attendibilità della dichiarante, con il racconto dell’episodio fatto
dalla vittima e dal padre.
La sentenza impugnata ha esaminato criticamente le diverse conclusioni alle quali era pervenuto,
con riguardo alla eziologia delle lesioni, il consulente di parte dell’imputato sulla scorta di
argomentazioni in fatto del tutto logiche e coerenti e non suscettibili, pertanto, di revisione in questa
sede. La sentenza evidenzia come le modalità della presa dell’aggressore; la durata della pressione
esercitata, quanto alle lesioni del 13 giugno 2016; la tipologia delle calzature indossate dalla vittima
e la modalità di opposizione alle spinte della porta, giustificano il giudizio di inattendibilità delle
conclusioni del consulente di parte che risultano “frutto di speculazione teorica sulle possibili cause
della lesione” quanto al fatto reato sub capo c), inconferenti e non convincenti, con riguardo al reato
di lesioni sub capo d).
Le dichiarazioni rese nella immediatezza delle visita al pronto soccorso – come detto univoche nella
indicazione della causa delle lesioni refertate, quanto al primo episodio; il convergente racconto
della B.B. e del padre, oltre alla documentazione fotografica, con riferimento alle seconde
corroborano il giudizio di attendibilità della dichiarante, giudizio affatto incrinato dal rilievo che
costei (medico come il padre) non se ne sarebbe avveduta nella immediatezza quando è, invece, del
tutto naturale che la contusione (rispetto all’abrasione di immediata percezione) si riveli anche a
distanza di ore dall’evento traumatico che l’ha cagionata e che, nel momento in cui è stata constatata,
ha determinato l’accesso al pronto soccorso per la refertazione.
Sulla base del giudizio di attendibilità della persona offesa deve confermarsi anche la conclusione
della “volontarietà” delle lesioni cagionate che, pur inserendosi in un contesto di concitazione, sono
riconducibili, per le modalità esecutive, ad una vera e propria aggressione e non frutto del caso o di
movimenti bruschi.
Gli elementi acquisiti, sulla scorta di un compendio probatorio multiforme, non sono suscettibili di
ridimensionamento neppure attraverso le dichiarazioni dei congiunti dell’imputato che, viceversa,
denotano un atteggiamento di condivisione dei valori sui quali l’imputato aveva costruito il rapporto
con la B.B.. Anche per tale aspetto, dunque, il denunciato vizio di motivazione non appare
ravvisabile.
3.Non è revocabile in dubbio che l’elemento in apparenza dotato di maggior efficacia dimostrativa
sul punto della “inattendibilità” della persona offesa è costituito dalle risultanze della consulenza
tecnica di ufficio disposta nel giudizio di separazione per l’affidamento della figlia minore della
coppia e che ha determinato l’affidamento della minore ai servizi sociali. Il ricorrente ha richiamato
espressamente (e sono riportati nel Ritenuto in fatto) le conclusioni dei consulenti sulla personalità
della donna replicando gli argomenti che già con i motivi di appello (cfr. in particolare pag. 5 della
sentenza impugnata per l’analitica disamina) erano stai allegati a comprova della complessa e
travagliata sequenza della separazione iniziando dalla finalità della donna di “eliminare” la figura
paterna dal rapporto della figlia passando attraverso comportamenti diretti a trasmettere alla
minore ansie e sentimenti di contrarietà verso il padre; al ritardo della denuncia di maltrattamenti,
taciuti in sede di domanda di separazione, ed emersi solo in un momento successivo. Il panorama si
completa, nella prospettazione difensiva, con il riferimento alla denuncia della persona offesa verso
l’educatrice che seguiva gli incontri padre-figlia e con la pendenza di un procedimento a carico
dell’odierna persona offesa per le ostilità poste in essere nel corso degli incontri della minore con
l’imputato.
Ritiene il Collegio che correttamente la Corte di appello (pag. 10 della sentenza impugnato) non ha
condiviso il giudizio negativo sui connotati di personalità della persona offesa sconfessati dagli
elementi di prova acquisiti e dal giudizio di attendibilità intrinseca della dichiarante, fondato sugli
elementi evincibili direttamente dall’attività istruttoria svolta nel dibattimento penale, e che il
giudice di primo grado – all’esito di un procedimento di acquisizione della prova fondato sul
contraddittorio – aveva formulato sulla teste evidenziandone, oltre agli elementi di credibilità
estrinseca innanzi illustrati, anche i tratti di attendibilità intrinseci che attengono alla chiarezza,
dettaglio, costanza nel tempo della narrazione risultata conforme a quella resa in fase di indagini
(non essendo emerse discrepanze in assenza di contestazioni di rilievo); alla genuinità delle
dichiarazioni, attestata dalla chiara sofferenza manifestata dalla teste nel corso dell’esame, dai
sentimenti di vergogna e paura raccontati che le avevano impedito, per lungo tempo, di allontanarsi
dal marito.
Premesso che la consulenza di parte richiamata dalla difesa è culminata nel giudizio di inaffidabilità
di entrambi i genitori (quindi anche dell’imputato) con l’affidamento della minore ai servizi sociali
e collocazione presso la madre, rileva il Collegio che la Corte di merito ha anche richiamato, a
giustificazione dell’atteggiamento difensivo verso i consulenti e protettivo verso la figlia tenuti dalla
persona offesa, le risultanze della consulenza di parte della parte civile che ne ha evidenziato la
veridicità del racconto comprovata dalle modalità espressive attraverso cui il soggetto narrante
recupera tracce mnestiche estremamente dolorose e ha un corrispondente stato emotivo di grave
turbamento psichico. Spiega, il consulente della parte civile, come la B.B. da donna solare, in salute
e aperta al futuro, in esito alla convivenza con il marito, sia divenuta persona isolata, abbia perso le
autonomie personali riducendosi progressivamente a persona affetta da disturbo post traumatico
da stress, con momenti di aperta angoscia e idee suicidali. Una situazione psicologia, causata,
conclude il giudice di appello, evidentemente dai maltrattamenti subiti dal marito che costituisce la
ragione degli atteggiamenti difensivi tenuti dalla donna verso l’imputato dopo la separazione e nel
corso dell’azione civile.
4.Tale conclusione, oggetto, come anticipato, di analitico esame e giustificazione logica completa e
asseverata dal richiamo a composite fonti di conoscenza, riporta al centro dell’attenzione i rilievi
della difesa sulla ritenuta configurabilità del reato di maltrattamenti che, in particolare nel corso
dell’odierna udienza, i difensori del ricorrente hanno messo in dubbio sia con riferimento alla durata
dei comportamenti maltrattanti sia per la configurabilità della stessa condotta tipica. L’attenzione
delle difese si è concentrata, in particolare, sull’aspetto dell’atteggiamento di “ri Spa rmio domestico”
in cui sarebbe consistita la condotta maltrattante.
E’ indubitale, a fronte della genericità della fattispecie incriminatrice, la necessità di leggere la
condotta di maltrattamenti in termini di tipicità e tassatività poichè è compito del giudice ordinario
evitare che – a fronte della descrizione, per certi versi, non particolarmente tipizzata del fatto
represso – la norma incriminatrice possa colpire anche fatti che luoghi comuni riconducono alla
nozione di maltrattamenti ricomprendendo in tale nozione comportamenti concretamente privi di
ogni connotato di pericolosità e di idoneità all’offesa del bene giuridico.
Le osservazioni della difesa non sono, tuttavia, condivisibili.
Non occorrono molte parole per evidenziare che il rapporto matrimoniale impegna ciascuno dei
coniugi ad un progetto di vita che riguarda anche le spese e il ri Spa rmio.
L’art. 143 c.c. afferma che con il matrimonio i coniugi, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e
alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, si impegnano a contribuire ai bisogni della
famiglia dopo la precisazione che con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti
e assumono i medesimi doveri.
E’ prevedibile e ragionevole che con il matrimonio i coniugi stabiliscano anche uno stile di vita,
magari improntato al ri Spa rmio, anche rigoroso e non necessitato, ma è indiscutibile che tale stile
di vita debba essere condiviso e non possa essere imposto, men che mai in quelle che sono le
minimali e quotidiane esigenze di vita in casa e accudimento personale.
Il tema che viene in rilievo non è, dunque, il ri Spa rmio domestico, ma la condivisione o imposizione
di tale stile di vita.
La persona offesa, invece, ha riferito vere e propri modalità di imposizione e coartazione del “ri Spa
rmio domestico” che non solo le state conculcate dall’imputato ma che sono state accompagnate da
modalità di controllo del marito sulla moglie che, anche per la loro pervasività, sono sconfinate in
un vero e proprio regime e assillo, tale da cagionare alla persona offesa uno stato di ansia e
frustrazione.
La sentenza di primo grado e quella di appello contengono un campionario di comportamenti
davvero singolare sulle modalità di ri Spa rmio domestico alle quali, peraltro in mancanza di
necessità impellenti poichè entrambi i coniugi avevano un lavoro e uno stipendio, l’imputato
intendeva sottomettere la persona offesa, come la scelta dei negozi in cui fare la spesa (che potevano
essere solo quelli notoriamente a costo contenuto); le caratteristiche dei prodotti (che non potevano
essere di marca e dovevano essere prodotti in offerta) sia per la casa che per l’abbigliamento,
comportamenti accompagnati da modalità di controllo particolarmente occhiute e afflittive, tanto
che la B.B. era costretta a buttare via gli scontrini; a nascondere gli acquisti; a lasciare la spesa a casa
dei genitori; a chiedere alle amiche di dire che le avevano regalato qualcosa che aveva acquistato.
Analoghe modalità impositive e costrittive connotavano anche la vita domestica della B.B. e le più
intime e personali cure per la sua persona e la gestione del rapporto con la figlia (la persona offesa
ha riferito che era costretta ad utilizzare solo due strappi di carta igienica; a recuperare, per il
successivo reimpiego, in una bacinella l’acqua utilizzata per lavarsi il viso o per fare la doccia, che
poteva fare solo una volta a settimana; ad utilizzare solo una posata e un piatto per pasto).
I rilievi del marito, poi, non si esaurivano nella mera critica di suoi comportamenti diversi da quelli
impostile perchè i rilievi alla contravvenzioni delle regole erano accompagnati da espressioni
ingiuriose e offensive che erano ben presto trasmodate dalla critica per la mancata attenzione alle
spese (l’epiteto sprecona) a giudizi totalizzanti sulla persona per la sua inettitudine che le veniva
continuamente rinfacciata (…tu sei nessuna…tu sei un’insicura…il tuo lavoro lo sanno fare tutti),
culminati, a fronte delle difficoltà avute durante il parto, nelle affermazioni “taci, le donne che
partoriscono perdono la testa, è un dato di fatto, lo dicono le statistiche e lo dice la storia die popoli,
e accompagnati da aggressioni fisiche fra le quali, oltre a spinte e strattonamenti, quella di “tirarle la
faccia”, prendendola per le guance e urlandole contro.
Emblematica (vedi sul punto la sentenza di primo grado, a pag. 5) della vera e propria condizione
di sudditanza imposta alla coniuge la circostanza in cui, avendo la persona offesa gettato un
tovagliolino di carta, l’imputato l’aveva presa, portata davanti all’immondizia e prelevato il
tovagliolino stringendola le aveva detto “questo, vedi, si può utilizzare ancora” e ciò detto lo aveva
aperto e aggiunto “questo si può tagliare addirittura in dieci pezzi”, ingiuriandola. O, ancora, la
circostanza, verificatasi nel mese di settembre 2015, quando aveva tentato di costringerla a mangiare
gli avanzi di pappa della bambina dicendole che avrebbe dovuto inginocchiarsi e mangiare la pappa
avanzata, il tutto accompagnato da ingiurie.
Risulta evidente, dall’univoco quadro descritto nelle sentenze di merito che la persona offesa era
stata sottoposta ad un risalente (la coppia si era conosciuta nel 2008; i due avevano iniziato a
convivere nei primi mesi del 2009 e si erano poi sposati nel 2013 e solo nel mese di settembre 2015 la
B.B. aveva presentato istanza di separazione) ed ingravescente sistema di vita contraddistinto da
condotte di denigrazione, mortificazioni, ingiurie – oltre al clima di isolamento sociale alla quale
l’aveva progressivamente ridotta -, sistema di vita che il ricorso, appiattito sulle condizioni di ri Spa
rmio domestico, non ha neppure preso in considerazione omettendo qualsiasi confronto con le
modalità esecutive e con il regime di controlli che l’imputato aveva attuato nel corso degli anni per
“conformare” ai propri desiderata i comportamenti della moglie.
Lineare e logica è, dunque, la motivazione con la quale i giudici di appello hanno confermato la
solidità del quadro probatorio asseverante l’abitualità delle condotte maltrattanti dell’imputato che
si è risolta in comportamenti impositivi e inutilmente vessatori e mortificanti, protrattisi per anni e
funzionali alla costruzione di un sistema di vita domestico, inizialmente tollerato dalla persona
offesa – che ha precisato di avere già scoperto tali atteggiamenti durante la convivenza ma che aveva
ritenuto potessero attenuarsi nel tempo – e che, invece, con il matrimonio e la nascita della bambina
si erano aggravati tanto che avevano finito, e questo le aveva dato la spinta per la separazione, con
il riguardare anche il rapporto della B.B. con la figlia che, secondo il ricorrente, non doveva mostrare
verso la bambina comportamenti e parole troppo dolci e affettuosi (non poteva, ad es. chiamarla
amore) che l’avrebbero resa insicura chiamandola invece, cozza o vongola.
Nel caso in esame, correttamente i comportamenti dell’imputato, riguardati sia sotto l’aspetto
oggettivo che soggettivo, sono stati sussunti nel reato di maltrattamenti perchè le condotte seriali
tenute denotano a chiare lettere sia l’abitualità che un comportamento impositivo del proprio volere
realizzato sia con atti o parole che offendono il decoro e la dignità della persona (le descritte ingiurie
e contumelie rivolte alla persona offesa ma anche i commenti tesi a sminuirla come donna, come
madre e come medico), aggressivi (si pensi allo scuotimento, allo strattonamento, al tirarle le guance
urlando), e attraverso un sistema di vere e proprie proibizioni capaci di produrre sensazioni
dolorose ancorchè tali da non lasciare traccia e che si sono risolte in un sistema di sofferenze lesivo
del patrimonio morale del soggetto passivo e che hanno reso abitualmente dolorose le relazioni
familiari determinando uno stato di avvilimento e frustrazione.
5.Segue al rigetto del ricorso la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali e alla
rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel presente giudizio che si liquidano, in linea con
le previsioni di cui al D.M. n. 55 DEL 2014 come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre,
l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla
parte civile B.B. che liquida in complessivi Euro 3510, oltre accessori di leg

L’assegno di divorzio ha efficacia costitutiva decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza

Cass. Civ., Sez. III, ord., 14 febbraio 2023, n. 4450 – Pres. De Stefano, Cons. Rel. Giaime Guizzi
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –
Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – rel. Consigliere –
Dott. SPAZIANI Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso …-2020 proposto da:
A.A., domiciliato ex lege in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione,
rappresentato e difeso dall’Avvocato…;
– ricorrente –
contro
B.B., nella qualità di amministratore di sostegno di C.C., domiciliata ex lege in Roma, Piazza Cavour,
presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avvocato…;
– controricorrente –
Avverso la sentenza n. 597/2019 del TRIBUNALE di ENNA, depositata il 19/11/2019;
udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 22/11/2022 dal Consigliere Dott.
Stefano Giaime GUIZZI.
Svolgimento del processo
1. A.A. ricorre, sulla base di quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 597/19, del 19
novembre 2019, del Tribunale di Enna, che – accogliendo il gravame esperito da B.B., nella qualità di
amministratore di sostegno di C.C., contro la sentenza n. …/16, del 6 giugno 2016, del Giudice di
pace di (Omissis) – ha rigettato l’opposizione dallo stesso proposta avverso il precetto con cui la B.B.
gli aveva intimato il pagamento della somma di Euro 3.019,00, in forza di titolo esecutivo costituito
dall’ordinanza presidenziale emessa, il 4 dicembre 2014, nell’ambito del giudizio di divorzio
pendente tra il A.A. e la C.C..
2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente che, adottato dal Presidente del Tribunale di Enna
il provvedimento ex art. 708 c.p.c. sopra meglio individuato (che prevedeva la corresponsione, in
favore della C.C., di un assegno mensile di Euro 150,00), esso A.A. tentava più volte, sempre senza
successo, di provvedere alla corresponsione del dovuto. Il medesimo, infatti, sollecitava
ripetutamente la comunicazione del codice IBAN del conto corrente postale ove procedere
all’accredito delle somme dovute, cercando pure di effettuare il pagamento – anche in questi casi,
infruttuosamente – attraverso vaglia postali ed assegni bancari. Per tale ragione, dunque, egli
accoglieva con sorpresa l’avvenuta notificazione – in data 16 settembre 2015 dell’atto di precetto,
oltretutto per un importo non corrispondente al dovuto, pari, a suo dire, alla minor somma di E
2.700,00 (ovvero, Euro 150,00, per quindici mensilità).
Su tali basi, dunque, il A.A. proponeva opposizione, contestando, in primo luogo, la pretesa della
creditrice – alla base dell’intimazione notificatagli di pagare il maggior importo di Euro 3.019,00,
quale sorta capitale – di far decorrere l’obbligo di pagamento dal momento della domanda giudiziale,
e non dall’adozione del provvedimento presidenziale. In secondo luogo, egli contestava – in
relazione alle somme maturate dopo la pronuncia dell’ordinanza del 4 dicembre 2014 – l’imputabilità
del ritardo, essendosi, a più riprese, adoperato per procedere al pagamento.
Accolta l’opposizione dal primo giudice, la decisione eia però riformata da quello di appello, su
gravame della creditrice opposta.
3. Avverso la sentenza del Tribunale ennese ha proposto ricorso per cassazione il A.A., sulla base –
come detto – di quattro motivi.
3.1. Con il primo motivo è denunciata – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa
applicazione della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 4 e dell’art. 708 c.p.c. Si censura la sentenza
impugnata per aver ritenuto che l’obbligo di pagamento dovesse decorrere, non dalla data di
adozione del provvedimento presidenziale, bensì dalla domanda giudiziale, esito motivato sul
rilievo che il diritto del coniuge divorziando a conseguire l’assegno di mantenimento non tragga
“origine da una pronuncia costituiva”, ma sia “connesso ad uno status del quale la parte è già
titolare”.
Siffatta conclusione, assume il ricorrente, non sarebbe in linea con la giurisprudenza, di merito e di
legittimità, secondo cui, al contrario, i provvedimenti temporanei e urgenti nella fase presidenziale
e istruttoria, sono destinati a sovrapporsi a (o assorbire) quelli adottati in sede di separazione, solo
dal momento in cui sono adottati o ne è disposta la decorrenza.
3.2. Il secondo motivo denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – nullità della sentenza per assenza
di motivazione, in violazione dell’art. 132 c.p.c. e della Cost., art. 111.
Si censura la sentenza impugnata per aver affermato, in relazione alla dedotta non imputabilità al
A.A. del ritardato pagamento, per avere egli a più riprese tentato la corresponsione del dovuto, che
“giammai potrebbe ravvisarsi in tale circostanza un’ipotesi di impossibilità della prestazione con
conseguente effetto liberatorio per il debitore”, con ciò, dunque, secondo il ricorrente, “senza nulla
motivare e chiarire”.
3.3. Il terzo motivo denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – omesso esame di un fatto decisivo
per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero la corrispondenza, intercorsa tra
le parti, attestante il tentativo di esso A.A. di provvedere al pagamento a far data dall’adozione del
provvedimento presidenziale.
Orbene, secondo il ricorrente, l’esame puntuale e completo di tale corrispondenza avrebbe
certamente comportato il rigetto dell’appello proposto, giacchè non avrebbe condotto ad affermare
che esso A.A. “non ha provato – e neanche allegato – di aver effettuato il versamento delle somme
dovute”.
3.4. Infine, il quarto motivo denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa
applicazione dell’art. 91 c.p.c..
Si duole il ricorrente, in primo luogo, della condanna al pagamento delle spese dei due gradi di
giudizio, in difetto di soccombenza totale, avendo la sentenza impugnata riconosciuto valido il
precetto – in ragione dell’avvenuto pagamento “medio tempore”, da parte del debitore esecutato,
della somma di C 2.800,00 – per il minore importo di C 219,00.
In secondo luogo, si lamenta il fatto che, essendo stata la B.B. ammessa già dal primo grado al
gratuito patrocinio, la condanna alle spese, a favore dello Stato, sia stata disposta solo per il grado
di appello.
4. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, la B.B., nella già ricordata qualità,
chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.
Motivi della decisione
5. Il ricorso va accolto, nei limiti di seguito precisati. 5.1. Il primo motivo è fondato.
5.1.1. Invero, risulta contraria alla consolidata giurisprudenza di questa Corte l’affermazione,
contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui l’adozione – nel giudizio divorzile – dei
provvedimenti presidenziali in ordine al trattamento economico del divorziando, essendo connessi
allo “status” di parte di quel processo, farebbe, per ciò solo, decorrere gli effetti del disposto
trattamento dal momento della domanda.
Per contro, ancora nella più recente giurisprudenza di questa Corte, si trova enunciato un principio
opposto, ovvero quello secondo cui la regola generale – proprio perchè “l’assegno di divorzio,
traendo la sua fonte nel nuovo “status” delle parti, ha efficacia costitutiva decorrente dal passaggio
in giudicato della statuizione di risoluzione del vincolo coniugale” – comporta che siano i
provvedimenti emessi nel giudizio di separazione quelli che “continuano a regolare i rapporti
economici tra i coniugi fino al passaggio in giudicato della statuizione di risoluzione del vincolo
coniugale”, salvo, però “il temperamento”, previsto dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 4, comma
13, che consente al giudice del processo divorzile di sostituirli con quelli presidenziali o istruttori e
di “anticiparne la decorrenza”, purchè “con adeguata motivazione e in relazione alle circostanze del
caso concreto” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, ord. 15 febbraio 2021, n. 3852, Rv. 660723-01; nel
medesimo senso già Cass. Sez. 1, sent. 27 marzo 2020, n. 7547, secondo cui “i provvedimenti
temporanei e urgenti nella fase presidenziale o istruttoria” sono “destinati a sovrapporsi”, e “ad
assorbire”, quelli adottati in sede di separazione “solo dal momento in cui sono adottati o ne è
disposta la decorrenza”, ciò che conferma, dunque, che una diversa decorrenza, rispetto al momento
dell’adozione, richiede una specifica statuizione).
5.2. I motivi secondo e terzo – da scrutinare congiuntamente, data la loro connessione – non sono,
invece, fondati.
Sebbene in termini sintetici, il giudice di appello ha motivato – ciò che esclude, in particolare, la
fondatezza del secondo motivo di ricorso – le ragioni per cui ha escluso la rilevanza dei tentativi,
compiuti dal A.A., di effettuare i pagamenti dovuti in esecuzione dell’ordinanza del 4 dicembre 2014,
affermando che “giammai potrebbe ravvisarsi in tale circostanza un’ipotesi di impossibilità della
prestazione con conseguente effetto liberatorio per il debitore”.
Affermazione, peraltro, del tutto corretta, se è vero che – a norma dell’art. 1209 c.c. – “la mera offerta
della prestazione” produce “solo l’effetto di mettere in mora il creditore senza liberare il debitore
dall’obbligazione” (Cass. Sez. 3, sent. 17 maggio 1994, n. 4818, Rv. 486645-01; in senso conforme Cass.
Sez. 3, sent. 28 giugno 2010, n. 15395, Rv. 613858-01), sicchè “il creditore è legittimato all’esercizio
dell’azione esecutiva anche se destinatario di atto di costituzione in mora “credendi”, in quanto esso,
e la conseguente offerta di restituzione, vale unicamente a stabilire il momento di decorrenza degli
effetti della mora, specificamente indicati dall’art. 1207 c.c., ma non anche a determinare la
liberazione del debitore, che resta subordinata, dalla legge, all’esecuzione del deposito accettato dal
creditore o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato” (Cass. Sez. 3, sent. 29 aprile 2015, n.
8711, Rv. 635204-C)1).
Ne consegue, dunque, che l’omesso esame – denunciato con il terzo motivo di ricorso – della
documentazione, volta a comprovare il tentativo del A.A. di pagare, è privo di conseguenze rispetto
all’esito del presente giudizio, donde l’infondatezza della censura formulata ai sensi del n. 5) del
comma 1 dell’art. 360 c.p.c..
La norma “de qua” attribuisce rilievo, infatti, solo all’omesso esame di un fatto che risulti “decisivo”,
nel senso che la sua disamina “avrebbe determinato un esito diverso della controversia” (cfr., tra le
molte, Cass. Sez. 2, ord. 29 ottobre 2018, n. 27415, Rv. 651028-01), ciò che accade quando il fatto
commesso sia tale “da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia
delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudic:e di merito, di
modo che la “ratio decidendi” risulti priva di fondamento” (così Cass. Sez. 3, ord. 20 giugno 2018, n.
16812, Rv. 649421-01).
5.3. Il quarto motivo di ricorso, sulle spese di lite, resta assorbito dall’accoglimento del primo motivo,
trovando applicazione il principio secondo cui la cassazione della sentenza travolge la pronuncia
sulle spese, “perchè in tal senso espressamente disposto dall’art. 336, comma 1, c.p.c., sicchè il giudice
del rinvio ha il potere di rinnovare totalmente la relativa regolamentazione alla stregua dell’esito
finale della lite” (Cass. Sez. 3, sent. 14 marzo 2016, n. 4887, Rv. 639295-01).
6. In conclusione, il ricorso va accolto quanto al suo primo motivo e, per l’effetto, la sentenza va
cassata in relazione, con rinvio al Tribunale di Enna, in persona di diverso magistrato, per la
decisione nel merito e sulle spese processuali, ivi comprese quelle del presente giudizio di
legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo e il terzo e dichiara assorbito il quarto,
cassando in relazione la sentenza impugnata, con rinvio al Tribunale di Enna, in persona di diverso
magistrato, per la decisione nel merito e sulle spese processuali, ivi comprese quelle del presente
giudizio di legittimità.
Conclusione
Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di
Cassazione, il 22 novembre 2022

Come si prova un danno psicologico personale?

Cass. Civ., Sez. VI – 3, Ord., 17 febbraio 2023, n. 5083; Pres. Scrima, Rel. Cons. Cricenti
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCRIMA Antonietta – Presidente –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
A.A., con ricorso ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c., ha proposto accertamento tecnico preventivo, ai fini
conciliativi, per determinare la natura e l’entità delle lesioni conseguenti ad un intervento di chirurgico
di mastectomia per carcinoma mammario, seguito da ricostruzione plastica con protesi e successivo
intervento di rimozione chirurgica della protesi infetta.
In pratica, secondo la A.A., l’intervento al seno è stato eseguito male o non correttamente trattato in
seguito: ciò ha comportato una infezione, e la conseguente necessità dell’asportazione di uno dei due
seni.
Tuttavia, a seguito della valutazione peritale in accertamento tecnico preventivo, l’Istituto E. di O. di
M. non formalizzava alcuna proposta transattiva.
A.A., quindi, ha convenuto innanzi al Tribunale di Milano l’Istituto E. di O. di M. (d’ora in poi IEO)
per ottenere il risarcimento dei danni da responsabilità medica, da tradursi in danno biologico, morale,
da invalidità temporanea, oltre al rimborso delle spese mediche e di cura.
Si è costituito in giudizio lo IEO, ed ha contestato il nesso causale fra il comportamento dei sanitari
e il danno patito, nonchè la valenza probatoria della consulenza tecnica espletata in sede di ATP, ed
infine il quantum del risarcimento.
Il Tribunale di Milano ha accolto parzialmente il ricorso, riconoscendo la responsabilità della struttura
ed ha condannato IEO alla somma complessiva di 45.718,75 Euro di risarcimento oltre agli interessi
e le spese legali.
Il Tribunale ha risarcito il danno non patrimoniale sofferto dalla paziente determinando il danno
liquidabile in 35.000,00 oltre a 10.718,75 quale risarcimento del danno per invalidità temporanea.
Quanto alla c.d. personalizzazione, non ha proceduto alla liquidazione di ulteriore somma, in assenza
di prova, nemmeno presuntiva, dell’ulteriore grado di afflittività.
La Sig. A.A. ha interposto appello al fine di contestare il quantum del risarcimento.
Lo IEO si è costituito e, a sua volta, ha proposto appello incidentale contestando, in particolare, che
dalla CTU in primo grado fosse emerso che i danni patiti dalla paziente fossero con una probabilità
superiore al 50 % ascrivibili al personale sanitario.
La Corte d’Appello di Milano ha accolto l’appello principale e riconosciuto un maggior risarcimento
alla A.A. di complessivi 47.830,75 Euro, rigettando l’incidentale.
Quanto al danno non patrimoniale, in particolare alla c.d. personalizzazione, i giudici di secondo
grado hanno confermato la sentenza di primo grado in assenza di elementi concreti fondanti la
richiesta di riconoscimento di un incremento a tale titolo.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per tassazione A.A. affidandosi ad un unico motivo ed
ulteriore memoria.
La parte intimata non si è costituita.
Motivi della decisione
Con il primo ed unico motivo di ricorso si prospetta la violazione o la falsa applicazione degli artt.
1226-2056-2059-2697-2729 c.c. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in tema di
personalizzazione del danno, poichè la Corte avrebbe errato, da una parte, a disattendere la pretesa
risarcitoria a titolo di personalizzazione del danno, sebbene fosse stata allegata prova sufficiente del
pregiudizio, e dall’altra, a ritenere che la maggior incidenza del danno, rispetto ad una donna che
abbia subito la medesima lesione, non potesse essere dedotta in via presuntiva.
Secondo la ricorrente, invece, nel caso di specie, il maggior danno è facilmente presumibile, anche in
base al fatto notorio secondo cui la profonda mutilazione di un seno abbondante causa nella
danneggiata uno stato di maggiore disagio per la difficoltà di nascondere la mutilazione, rispetto ad
una donna che, pur soggetta ad una mastectomia, con seno più piccolo, è in grado di contenere e
mascherare il pregiudizio in ragione delle ridotte dimensioni anatomiche della regione mammaria-
pettorale.
In sostanza, sostiene la ricorrente che per lei che ha un senato di dimensioni superiori alla media ed
anzi particolarmente abbondanti, la asimmetria causa maggiori disagi, ossia l’asportazione di uno dei
due seni, per fatto notorio, determina un maggiore pregiudizio.
Il motivo è infondato.
La corte di merito ha ritenuto non provato un danno maggiore di quello normalmente registrabile in
casi simili. Ossia, ha ritenuto che non vi fossero prove del fatto che per la ricorrente l’asportazione di
uno dei due seni ha costituito un pregiudizio maggiore, tale da comportare personalizzazione del
risarcimento, rispetto al pregiudizio normalmente patito da una donna in questi casi.
Secondo la ricorrente quel maggior pregiudizio deriva da un fatto notorio: che per chi ha un seno di
grosse dimensioni, l’asportazione di uno dei due determina una asimmetria maggiore e dunque un
maggiore disagio psicologico o un maggiore imbarazzo.
La ricorrente dunque invoca, quale maggiore e personale pregiudizio, una ripercussione psicologica:
il disagio derivante dal non poter nascondere l’assenza di una parte, essendo quella rimasta di grosse
dimensioni, e dunque la difficoltà di nascondere questa asimmetria, rispetto invece a chi ha un seno
più piccolo e più facilmente mascherabile.
Un danno psicologico personale si prova con consulenze o anche con prove dirette (testimonianze di
parenti, amici, ecc.) e non con fatti notori.
Ad ogni modo, il fatto notorio può costituire prova, o fonte di convinzione, solo se è un fatto acquisito
alla collettività, con importante grado di certezza, proprio perchè importa una deroga al principio
dispositivo, con la conseguenza che ci si può dolere della inesatta applicazione della regola del fatto
notorio, ossia di un errore del giudice nel ritenere come notorio ciò che non lo è o viceversa, ma non
ci si può dolere se il giudice non vi abbia fatto ricorso (Cass. 4428/ 2020; Cass. 7726/ 2019; Cass.
13715/ 2019).
Ma, anche ammesso che possa censurarsi il mancato ricorso ad un fatto notorio, deve dimostrarsi che
è acquisito alla collettività, ossia che è un dato di comune esperienza che le donne con seno grande
subiscono un pregiudizio maggiore, in caso di asportazione di uno dei due seni, rispetto a quelle con
un seno di dimensioni inferiori. Il fatto notorio va cioè allegato e non solo richiamato.
Non va forse trascurato, infine, che il ricorso al fatto notorio, è in contrasto stesso con le esigenze
della personalizzazione: il fatto notorio è un dato di comune esperienza, ossia indica che,
normalmente, nella collettività, è percepito che chi ha seno grosso ha maggiore disagio quando
subisce asportazione, e dunque indica una condizione di tutte le donne che hanno quel tipo di seno,
non della ricorrente in particolare: la personalizzazione presuppone che il maggiore pregiudizio sia
individuale, ossia riguardi quel danneggiato a differenza di ogni altro che si troverebbe in quelle
condizioni, a differenza cioè della media dei danneggiati di quel tipo. Invece qui, invocare il fatto
notorio significa proprio porre nella media (delle donne con seni grandi) la danneggiata.
Va poi ricordato che la personalizzazione in aumento del danno non patrimoniale presuppone che il
danneggiato abbia subito conseguenze anomale e del tutto peculiari (Cass. 5865/ 2021), ossia non
ipotizzabili per una categoria intera di persone: mentre, nel caso presente, si adduce un pregiudizio
che potrebbe, in ipotesi, affliggere chiunque abbia quella situazione anatomica.
Il ricorso va rigettato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla spese.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto che il tenore del
dispositivo è tale da giustificare il pagamento, se dovuto e nella misura dovuta, da parte ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, il 12 ottobre 2022.
Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2023

La S.C. in tema di mantenimento del figlio maggiorenne

Cass. Civ., Sez. VI – 1, Ord., 25 gennaio 2023, n. 2344; Pres. Bisogni, Rel. Cons. Iofrida
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Perugia, con ordinanza depositata il 7/10/21, ha respinto il reclamo avverso
ordinanza del Tribunale di Perugia, che, in accoglimento del ricorso proposto da B.B., nei confronti
di C.C., volto ad ottenere la revoca dell’assegnazione della casa coniugale di proprietà del B.B. alla
moglie, con condanna alla restituzione in favore del B.B., a ulteriore modifica, L. n. 898 del 1970, ex
art. 9, delle condizioni di divorzio tra le parti, aveva revocato l’assegnazione della casa coniugale alla
C.C. e respinto le domande avanzate dalle figlie D.D. e A.A., intervenute a sostegno della posizione
della madre, rimasta contumace, di ripristino dell’assegno di mantenimento, originariamente posto a
carico del padre e già revocato con pronunce del (Omissis) e del (Omissis), in altro giudizio promosso
dal B.B. sempre per la modifica delle condizioni di divorzio. Il B.B., in sede di ricorso nel proc.to n.
379/2021, aveva sostenuto che, essendo già stato revocato il contributo al mantenimento delle figlie
D.D. e A.A., maggiorenni ed autosufficienti economicamente, non vi era più titolo per il
mantenimento dell’assegnazione della casa coniugale a favore della moglie del medesimo.
La Corte d’appello, sul reclamo proposto dalla figlia A.A., ha confermato la decisione di primo grado
sia non riconoscendo la legittimazione della stessa a reclamare la statuizione sulla domanda di revoca
dell’assegnazione della casa coniugale all’ex coniuge, trattandosi di diritto personale di godimento in
favore del solo coniuge assegnatario (che non aveva proposto impugnazione), sia pure posto
nell’interesse della prole, sia in punto di rigetto della domanda relativa al ripristino dell’assegno di
mantenimento in proprio favore, revocato già nel (Omissis), in considerazione dell’età ormai matura
della stessa, essendo nata nel (Omissis), e del fatto che le condizioni di salute determinanti inabilità
lavorativa avrebbero semmai comportato il diritto di godere delle tutele pubbliche, non potendo in
ogni caso ciò comportare il risorgere del diritto al mantenimento da parte del genitore ma di un mero
diritto alimentare.
Avverso la suddetta pronuncia notificata l’8/10/21, A.A. propone ricorso per cassazione, notificato il
7/12/21, affidato a tre motivi, nei confronti di B.B. (che resiste con controricorso).
E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i
relativi presupposti. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. La ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c.,
n. 3, dell’art. 337 septies c.p.c., disposizione questa che dispone che ai figli maggiorenni portatori di
handicap si applichino integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori, denunciando
che la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto della documentazione medica prodotta, dalla quale
risultava una grave patologia epatica di base comportante ripercussioni invalidanti anche in ambito
lavorativo; b) con il secondo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art.
337 sexies c.c. e art. 105 c.p.c., in relazione alla ritenuta insussistenza della legittimazione ad agire
del figlio maggiorenne quanto alla domanda di revoca dell’assegnazione della casa coniugale alla
madre, considerato che la domanda di essa interveniente era volta a far valere il proprio diritto al
mantenimento ex art. 337 septies c.c., ed essa era connessa all’oggetto della revisione delle condizioni
di divorzio, anche in punto di assegnazione della casa coniugale, stante la convivenza della stessa con
la propria madre C.C. assegnataria; c) con il terzo motivo, l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di
fatto decisivo, in relazione all’art. 116 c.p.c., sempre in relazione alla documentazione medica del
2021 attestante gravissime patologie indice di un’autosufficienza economica mai raggiunta e del
diritto al proprio mantenimento ex art. 337 septies c.c..
2. Il controricorrente ha eccepito l’inammissibilità del riferimento giuridico all’art. 337 septies c.c., in
relazione alla situazione personale di handicap grave, dedotta per la prima volta in questa sede di
legittimità.
3. Occorre preliminarmente chiarire che la A.A. (la sorella D.D. non è parte di questo giudizio di
cassazione) ha spiegato, in primo grado, nel giudizio di ulteriore revisione delle condizioni di
divorzio, instaurato dal marito nei confronti dell’ex coniuge, intervento adesivo ed autonomo, sia
opponendosi alla revoca dell’assegnazione della casa coniugale, di proprietà del B.B., alla C.C. sia
chiedendo il ripristino dell’assegno di mantenimento originariamente posto a carico del padre e già
revocato con pronuncia resa in precedente giudizio.
Il diritto che, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., comma 1, il terzo può far valere in giudizio pendente tra
altre parti, deve essere relativo all’oggetto sostanziale dell’originaria controversia, da individuarsi con
riferimento al “petitum” ed alla “causa petendi”, ovvero dipendente dal titolo dedotto nel processo
medesimo a fondamento della domanda giudiziale. L’art. 105 c.p.c., comma 2, contempla poi il diritto
di ciascuno che abbia interesse di intervenire a sostegno delle ragioni di una delle parti.
Nella specie, la Corte d’appello ha inteso dire che la A.A. era, riguardo alla domanda di revoca
dell’assegnazione della casa coniugale alla madre, mera interveniente adesiva dipendente, cosicchè la
stessa non poteva spiegare autonomo reclamo in luogo della assegnataria, rimasta contumace in primo
grado e silente nella fase di reclamo. La Corte d’appello si è poi pronuncia sul merito della domanda
autonoma spiegata dall’interveniente figlia, volta ad ottenere il ripristino dell’assegno di
mantenimento in proprio favore, in quanto si deduceva una situazione personale di dipendenza
economica per ragioni correlate allo stato di salute.
La stessa ricorrente deduce di avere introdotto solo in fase di reclamo documentazione medica circa
le gravi patologie epatiche di cui era affetta, a sostegno della domanda al mantenimento.
4. Tanto premesso, la prima censura, attinente propriamente al diritto di mantenimento azionato con
intervento autonomo, è inammissibile.
La Corte d’appello ha rilevato che l’assegno di mantenimento in favore della A.A. era stato già
revocato con provvedimento del 2017, stante l’evidente accertamento della raggiunta indipendenza
economica o comunque dell’insussistenza dei presupposti per un giustificato permanere dell’obbligo
di mantenimento da parte del genitore in considerazione dell’ampio superamento della maggiore età
da parte del figlio, e che nell’ipotesi in cui il figlio, che abbia già perso il diritto al mantenimento,
perda successivamente la raggiunta autosufficienza economica “non si assiste ad un risorgere del
diritto stesso bensì ove ne sussistano le diverse condizioni al sorgere del diritto all’assegno
alimentare”.
Il principio è stato già affermato da questa Corte: a) (Cass. 7195/1997): “Il diritto del coniuge
divorziato di ottenere dall’altro coniuge un assegno per il mantenimento del figlio maggiorenne
convivente è da escludere quando quest’ultimo, ancorchè allo stato non autosufficiente
economicamente, abbia in passato espletato attività lavorativa, così dimostrando il raggiungimento di
un’adeguata capacità e determinando la cessazione del corrispondente obbligo di mantenimento da
parte del genitore, atteso che non può avere rilievo il successivo abbandono dell’attività lavorativa da
parte del figlio, trattandosi di una scelta che, se determina l’effetto di renderlo privo di sostentamento
economico, non può far risorgere un obbligo di mantenimento i cui presupposti erano già venuti
meno, ferma restando, ovviamente, l’obbligazione alimentare, fondata su presupposti affatto diversi
e azionabile direttamente dal figlio e non dal genitore convivente”; b) (Cass. 12477/2004): “Il
mantenimento del figlio maggiorenne convivente è da escludere quando quest’ultimo, ancorchè allo
stato non autosufficiente economicamente, abbia in passato espletato attività lavorativa, così
dimostrando il raggiungimento di un’adeguata capacità e determinando la cessazione del
corrispondente obbligo di mantenimento da parte del genitore, atteso che non può avere rilievo il
successivo abbandono dell’attività lavorativa da parte del figlio, trattandosi di una scelta che, se
determina l’effetto di renderlo privo di sostentamento economico, non può far risorgere un obbligo di
mantenimento i cui presupposti erano già venuti meno, ferma restando invece l’obbligazione
alimentare, fondata su presupposti affatto diversi e azionabile direttamente dal figlio e non già dal
genitore convivente”; c) Cass. 26259/2005: “Il diritto del coniuge separato di ottenere dall’altro
coniuge un assegno per il mantenimento del figlio maggiorenne convivente è da escludere quando
quest’ultimo, ancorchè allo stato non autosufficiente economicamente, abbia in passato iniziato ad
espletare un’attività lavorativa, così dimostrando il raggiungimento di una adeguata capacità e
determinando la cessazione del corrispondente obbligo di mantenimento ad opera del genitore. Nè
assume rilievo il sopravvenire di circostanze ulteriori (come, ad esempio, la negatività dell’andamento
dell’attività commerciale dal medesimo espletata), le quali, se pur determinano l’effetto di renderlo
privo di sostentamento economico, non possono far risorgere un obbligo di mantenimento i cui
presupposti siano già venuti meno”.
La deduzione in ordine alla sussistenza dei presupposti per un assegno di mantenimento, ai sensi
dell’art. 337 septies, in quanto portatore di handicap grave è in ogni caso nuova e quindi
inammissibile.
5. La seconda censura, attinente alla questione della negata legittimazione della figlia a reclamare la
statuizione di primo grado sulla revoca dell’assegnazione della casa coniugale alla madre, è infondata.
Costituisce principio consolidato di questo giudice di legittimità quello secondo cui “l’intervento
adesivo dipendente, previsto dall’art. 105 c.p.c., comma 2, dà luogo ad un giudizio unico con pluralità
di parti, nel quale i poteri dell’intervenuto sono limitati all’espletamento di un’attività’ accessoria e
subordinata a quella svolta dalla parte adiuvata, potendo egli sviluppare le proprie deduzioni ed
eccezioni unicamente nell’ambito delle domande ed eccezioni proposte da detta parte; ne consegue
che, in caso di acquiescenza alla sentenza della parte adiuvata, l’interventore non può proporre alcuna
autonoma impugnazione, nè in via principale nè in via incidentale” (Cass. 24370/2006; Cass.
3734/2009; Cass. SU 5992/2012: “L’interventore adesivo non ha un’autonoma legittimazione ad
impugnare (salvo che l’impugnazione sia limitata alle questioni specificamente attinenti la
qualificazione dell’intervento o la condanna alle spese imposte a suo carico), sicchè la sua
impugnazione è inammissibile, laddove la parte adiuvata non abbia esercitato il proprio diritto di
proporre impugnazione ovvero abbia fatto acquiescenza alla decisione ad essa sfavorevole; inoltre,
esso non vanta un interesse concreto ed attuale all’impugnazione di affermazioni pregiudizievoli
contenute nella sentenza favorevole, qualora svolte in via incidentale e sprovviste della forza
vincolante del giudicato”; Cass. 2818/2018).
Ora, l’assegnazione della casa familiare, in caso di divorzio o separazione, è prevista a tutela
dell’interesse prioritario dei figli minorenni e dei figli maggiorenni non economicamente
autosufficienti, e conviventi con uno dei genitori, a permanere nell’ambiente domestico in cui sono
cresciuti, in modo tale da garantire la conservazione delle loro abitudini di vita e delle relazioni sociali
radicatesi in tale ambiente (cfr. Cass., n. 25604/2018; Cass., n. 3015/2018); la revoca
dell’assegnazione della casa coniugale ha come presupposto esclusivamente l’accertamento del venir
meno dell’interesse dei figli alla conservazione dell’habitat domestico, in conseguenza del
raggiungimento della maggiore età e dell’autosufficienza economica da parte degli stessi o della
cessazione del rapporto di convivenza con il genitore assegnatario (Cass. 20452/22).
Nel giudizio di revisione delle condizioni di divorzio, L. n. 898 del 1970, ex art. 9, intrapreso da uno
degli ex coniugi nei confronti dell’altro, il figlio maggiorenne, che assuma di non essere
autosufficiente economicamente, ha indubbiamente un interesse, quanto all’assegnazione della casa
coniugale, a sostenere le ragioni del genitore assegnatario della casa coniugale ma in posizione
adesiva dipendente non autonoma. Il diritto proprio vantato, in via autonoma, è invece quello al
mantenimento (Cass. 4296/2012: “Nel giudizio di separazione o di divorzio, in cui il genitore
convivente con il figlio maggiorenne agisca per ottenere il rimborso di quanto versato per il
mantenimento di questi ovvero la determinazione del contributo per il futuro, è ammissibile
l’intervento anche del predetto figlio, per far valere un diritto relativo all’oggetto della controversia o
eventualmente in via adesiva, trattandosi di posizioni giuridiche meritevoli di tutela ed intimamente
connesse, che comportano la legittimazione ad agire, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente
alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione, prescindendo dalla effettiva titolarità
del rapporto dedotto in causa; inoltre, detto intervento assolve, altresì, ad un’opportuna funzione di
ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità del
versamento, anche in forma ripartita, del contributo al mantenimento”; Cass. 21819/21).
6. Il terzo motivo è in ogni caso inammissibile in quanto non pertinente al decisum.
7. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo,
seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso; condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente
giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 3.000,00, a titolo di compensi, oltre Euro 200,00
per esborsi, nonchè al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori
di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti
processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato,
pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati
identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 dicembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2023

Violenza domestica e obbligo di allontanamento: la nozione di convivenza non coincide con quella di coabitazione

Cass. Pen., Sez. V, Sent., 02 febbraio 2023, n. 4572; Pres. Zaza, Rel. Cons. Pilla
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZAZA Carlo – Presidente –
Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SESSA Renata – Consigliere –
Dott. PILLA Egle – rel. Consigliere –
Dott. CIRILLO Pierangelo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. Con ordinanza del 5 settembre 2022, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Perugia
ha rigettato la convalida del provvedimento disposto di urgenza dai Carabinieri della medesima città,
previa autorizzazione del Pubblico ministero, del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla
persona offesa ai sensi dell’art. 384 bis c.p.p., applicando successivamente la misura cautelare
corrispondente per il reato di cui all’art. 612-bis c.p.
La contestazione cautelare ha ad oggetto le condotte persecutorie poste in essere dall’indagato A.A.
nei confronti di B.B. consistite nell’accedere presso la abitazione della donna o ponendo in essere
attività a ciò finalizzate al fine di volere riallacciare la relazione affettiva; attendendola lungo la strada
sempre nei pressi dell’abitazione e inviandole numerosi messaggi sempre con la medesima finalità,
determinando nella donna uno stato di ansia e di paura tale da costringerla a rivolgersi in più occasioni
agli organi di Polizia.
Il Giudice della impugnata ordinanza non ha convalidato il provvedimento precautelare adottato di
urgenza del divieto di avvicinamento dai luoghi frequentati dalla persona offesa in quanto non
conforme al modello legale che presuppone la “convivenza”, motivo per cui non può parlarsi di “casa
familiare”.
Il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa disposto in via di urgenza
isolatamente considerato non è previsto quale misura precautelare, ma diventa una conseguenza
dell’allontanamento dalla casa familiare.
2. Avverso la mancata convalida ha proposto ricorso il Pubblico ministero deducendo violazione di
legge avuto riguardo all’art. 384- bis c.p.p..
Erroneamente il Giudice delle indagini preliminari, lamenta il ricorrente, non ha convalidato il
provvedimento precautelare sul presupposto dell’assenza della convivenza tra l’indagato e la persona
offesa, ritenendo che il provvedimento di urgenza possa essere adottato solo nel caso in cui il
destinatario dello stesso coabiti con la persona offesa giustificandosi così l’espressa dizione “obbligo
di allontanamento” e solo conseguentemente “divieto di avvicinamento”.
Il Pubblico ministero ricorrente evidenzia che la motivazione adottata dal giudice, seppure
formalmente aderente alla normativa, nella sostanza ne pregiudica la compiuta attuazione poichè
nonostante sussistano i presupposti per l’intervento di urgenza, si impedisce il raggiungimento del
fine per il quale la misura precautelare è stata prevista.
L’obbligo di allontanamento è strettamente correlato al divieto di avvicinamento e la persona non
convivente sarebbe discriminata, rispetto a quella già convivente, in maniera irrazionale e solo in
conseguenza di un presupposto che, venuto meno al momento, pone i soggetti su piani identici.
Se è vero che la norma è insuscettibile di interpretazione analogica o estensiva, tuttavia, deve potersi
applicare a quei casi, quali l’odierno, perfettamente sovrapponibili in parte alla fattispecie disciplinata
in un momento conseguente al venire meno della coabitazione, con persistenza del divieto di
avvicinamento.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato per le ragioni e nei termini di cui in seguito.
L’art. 384-bis c.p.p. recita: “Gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria hanno facoltà di disporre,
previa autorizzazione del pubblico ministero, scritta, oppure resa oralmente e confermata per iscritto,
o per via telematica, l’allontanamento di urgenza dalla casa familiare con il divieto di avvicinarsi ai
luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa nei confronti di chi è colto in flagranza dei delitti
di cui all’art. 282-bis, comma 6, ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose
possano essere reiterate ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della
persona offesa (…)”.
Il contrasto interpretativo tra il Pubblico ministero ricorrente ed il Giudice delle indagini preliminari
del Tribunale di Perugia è relativo alla condizione di “convivenza” presso la “casa familiare”: secondo
il giudice il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, adottato
quale misura precautelare di urgenza, si lega indissolubilmente allo stato di convivenza in atto nella
casa familiare tra agente e soggetto passivo, che ne costituisce indefettibile presupposto.
1.1.Con specifico riferimento alla misura precautelare in esame questa Corte ha chiarito che in tema
di convalida dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare, il giudice deve controllare la
sussistenza dei presupposti legittimanti l’eseguito allontanamento, valutando la legittimità
dell’operato della polizia in relazione allo stato di flagranza e all’ipotizzabilità di uno dei reati
richiamati dall’art. 282-bis c.p.p., comma 6, (Sez. 6, n. 17680 del 27/05/2020, Rv. 278965).
In particolare, il giudice della convalida deve valutare la sussistenza del “fumus commissi delicti”
secondo una verifica “ex ante”, tenendo conto della situazione conosciuta dalla polizia giudiziaria al
momento dell’esecuzione del provvedimento.
Analogamente a quanto avviene per le altre misure precautelari e in particolare in sede di convalida
dell’arresto, il giudice, oltre all’osservanza dei termini, deve controllare la sussistenza dei presupposti
legittimanti l’eseguito allontanamento, ossia valutare la legittimità dell’operato della polizia sulla base
di un controllo di ragionevolezza, in relazione allo stato di flagranza ed all’ipotizzabilità di uno dei
delitti di cui all’art. 282-bis c.p.p., comma 6, in una chiave di lettura che non deve riguardare nè la
gravità indiziaria e le esigenze cautelari (valutazione questa riservata all’applicabilità delle misure
cautelari coercitive), nè l’apprezzamento sulla responsabilità, riservato alla fase di cognizione del
giudizio di merito.
Nel caso in esame non è emersa alcuna criticità nella valutazione effettuata dal giudice della convalida
quanto al rispetto dei termini, nè all’astratta configurabilità di una delle ipotesi di reato di cui all’art.
282-bis c.p.p., comma 6.
La criticità è, quindi, ravvisabile nell’ulteriore presupposto legittimante l’eseguito allontanamento,
ossia, secondo il provvedimento impugnato, la condizione di convivenza nella casa familiare.
In realtà, la norma che scaturisce dalla necessaria correlazione tra l’art. 384-bis e la portata dell’art.
282-bis, comma 6, espressamente richiamato dalla prima previsione, non richiede, già per ragioni
letterali, che l’autore del delitto abiti attualmente presso l’immobile dal quale deve essere allontanato
per ragioni di tutela della persona offesa.
Quanto precede non pone in discussione la premessa che, per effetto dell’indicato richiamo normativo,
le fattispecie delittuose ivi indicate – tra le quali la fattispecie di cui all’art. 612-bis c.p. (ivi inserita
dal D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, art. 16, comma 1 convertito con modificazioni nella L. 1 dicembre
2018, n. 132) – sono quelle commesse in danno dei prossimi congiunti o del convivente, ma pone
piuttosto il problema di delineare la nozione di convivenza rilevante, che va calibrata in termini attenti
e rispettosi della lettera della legge, ma tenendo conto anche delle finalità di protezione, perseguite
attraverso la misura precautelare, di scongiurare il grave e attuale pericolo per la vita e l’integrità
fisica della persona offesa.
1.2. Occorre, quindi, in relazione allo specifico caso in esame e nel pieno rispetto del divieto di
applicazioni analogiche della norma in ragione del contenuto della stessa relativo alla limitazione
della libertà personale, verificare il contenuto della nozione di convivenza e di casa familiare.
Attraverso l’esame della giurisprudenza civile di questa Corte, emerge una nozione di convivenza non
coincidente con la semplice coabitazione (Sez. 3 civ., ord. n. 9178 del 13/04/2018, Rv. 648590; Sez.
3 civ., n. 7128 del 21/03/2013, Rv.625496).
In particolare, il rapporto di convivenza, da intendere quale stabile legame tra due persone connotato
da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, è ravvisabile anche quando non sia
contraddistinto da coabitazione.
La giurisprudenza richiamata, nell’interpretazione adeguatrice delle norme, evidenzia che è
necessario prendere atto del mutato assetto della società, collegato alle conseguenze di una prolungata
crisi economica, ma non originato soltanto da queste, dal quale emerge che ai fini della configurabilità
di una convivenza di fatto, il fattore coabitazione è destinato ad assumere ormai un rilievo recessivo
rispetto al passato.
Il cambiamento sociale che è ormai verificato nella società comporta che si instaurino e si mantengano
rapporti affettivi stabili a distanza con frequenza molto maggiore che in passato e devono indurre a
ripensare al concetto stesso di convivenza, la cui essenza non può risolversi nella coabitazione.
Il dato della coabitazione, all’interno dell’elemento oggettivo della convivenza è quindi attualmente
un dato recessivo.
La nozione di convivenza di fatto peraltro trova ora il suo supporto normativo nella L. n. 76 del 2016,
che all’art. 1, definisce i conviventi di fatto come “due persone maggiorenni unite stabilmente da
legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di
parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”, individuando sempre l’elemento
spirituale, il legame affettivo, e quello materiale o di stabilità, la reciproca assistenza morale e
materiale, fondata in questo caso non sul vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne
scaturiscono, ma sull’assunzione volontaria di un impegno reciproco.
1.3. Lo stesso dicasi avuto riguardo alla nozione di vita familiare rilevante a norma dell’art. 8 CEDU,
per la quale è necessario un legame affettivo qualificato da un progetto di vita in comune (Sez. 1,
Ordinanza n. 7427 del 18/03/2020, Rv. 657489).
1.4. Tali premesse dimostrano che, all’interno del nostro ordinamento, la nozione di convivenza non
coincide con quella di coabitazione.
Le specifiche esigenze di protezione delle previsioni penalistiche – oltre che di raccordo tra le varie
fattispecie incriminatrici (e, si veda, al riguardo, lo sforzo ricostruttivo di Sez. 6, n. 15883 del
16/03/2022, D., Rv. 283436 – 01, all’indomani di Corte Cost., sent. n. 98 del 2021) – impongono, in
armonia con le superiori indicazioni, di ritenere che la convivenza, pur quando non si accompagni
alla coabitazione continuativa, permanga anche nelle fasi di crisi del rapporto quando quest’ultima
non sia divenuta ormai irreversibile.
2. Alla luce delle considerazioni espresse, può dunque ritenersi che allorquando la convivenza, intesa
come coabitazione già esistita, non sia più in atto, ma sussistono degli elementi in concreto che
depongono per una perdurante frequentazione del soggetto di quel domicilio domestico anche in
maniera occasionale (nel caso di specie risulta dall’ordinanza cautelare che la sera del 27 agosto 2022
l’indagato aveva dormito a casa della donna) o che consistono nel violento ripristino da parte
dell’agente della situazione di condivisione del domicilio (nel caso di specie l’indagato era più volte
entrato nella casa della persona offesa anche quando la stessa si era recata in Questura per denunciare
l’accaduto), appare corretto ravvisare anche l’ulteriore presupposto che legittima l’allontanamento da
una casa che l’indagato continua a frequentare, anche contro la volontà della donna con cui ha
intrattenuto la relazione.
2.1. A ciò si aggiunga che l’allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinarsi alla stessa
hanno un identico contenuto prescrittivo: l’art. 282-bis c.p.p., quando descrive la condotta che deve
osservare il destinatario della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare utilizza due
espressioni: “lasciare immediatamente la casa” ovvero “non farvi rientro” e, dunque, non avvicinarsi.
2.2. Non senza considerare, inoltre, che una lettura di segno contrario susciterebbe più di un dubbio
di frizione costituzionale della norma e dell’intero assetto sistematico della tutela, risultando
manifestamente irragionevole che, proprio laddove l’esigenza di tutela si connota per intensità
massima (come nei confronti di chi, nelle fasi di cessazione della relazione affettiva, intenda
riaffermare autoritativamente e prepotentemente, nonostante la contraria volontà della persona offesa,
la coabitazione intesa come condivisione fisica del domicilio, assieme alla vittima che abbia
continuato a dimorarvi), essa risulti irrealizzabile.
Può dunque ritenersi che l’operato della polizia giudiziaria sia stato legittimo e coerente con i
presupposti applicativi dell’art. 384 bis c.p.p..
3. L’ordinanza impugnata di diniego di convalida ai sensi dell’art. 384 bis c.p.p., appare illegittima e
deve essere annullata.
L’annullamento che ne consegue deve tuttavia essere pronunciato con la formula “senza rinvio perchè
l’allontanamento è stato effettuato legittimamente”, in quanto trattasi di situazione nella quale appare
superfluo lo svolgimento di un giudizio rescissorio con riferimento ad una fase ormai esauritasi, e
nella quale il giudice di merito dovrebbe limitarsi a statuire formalmente sulla correttezza della
iniziativa a suo tempo assunta dalla polizia giudiziaria (Sez.5, n. 30114 del 06/02/2018, Rv.273279).
La natura del reato per cui si procede e il legame sussistente tra le parti comportano l’oscuramento
dei dati identificativi ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata per essere stata legittimamente applicata la misura
cautelare dell’allontanamento dall’abitazione, e dispone trasmettersi gli atti al Tribunale di Perugia,
Ufficio del Giudice per le indagini preliminari.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a
norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2023.
Depositato in Cancelleria il 2 febbrai o 2023

Per i figli dichiarati tali dopo la morte dei genitori da quando decorre il termine per accettare l’eredità?

Cass. Civ., Sez. II, Ord., 30 gennaio 2023, n. 2725; Pres. Lombardo, Rel. Cons. Criscuolo
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
Dott. CAPONI Remo – Consigliere –
Dott. POLETTI Dianora – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. G.G. conveniva in giudizio i figli e la moglie di H.H., al fine di ottenere l’esecuzione in forma
specifica dell’obbligo di trasferire la proprietà di un immobile, giusto contratto preliminare del 30
maggio 1986 rimasto inadempiuto.
Avendo i convenuti dichiarato che non intendevano accettare l’eredità del promittente venditore, il
Tribunale di Roma disponeva la prosecuzione del giudizio nei confronti del curatore dell’eredità
giacente e, con sentenza n. 13542/1998, disponeva il trasferimento in favore del I.I. “previo
pagamento del residuo prezzo di Lire 27.000.000”.
Nelle more F.F., avendo conseguito il riconoscimento giudiziale della paternità nei confronti di H.H.,
accettava l’eredità del genitore con atto del 24 gennaio 2000 ed inviava a far data dal 2001 una serie
di richieste al I.I. di pagamento del corrispettivo ancora dovuto per effetto della menzionata sentenza.
Quindi, poneva in esecuzione la sentenza, procedendo al pignoramento dell’immobile appartenuto al
promissario acquirente e poi passato agli eredi, E.E., B.B., C.C. e D.D. nonchè A.A., stante il decesso
del loro dante causa.
Gli esecutati promuovevano opposizione ex art. 615 c.p.c., ed il Tribunale di Roma la rigettava con
sentenza n. 7558/2015.
A seguito di appello degli eredi I.I., la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 6254 del 27
settembre 2021 ha rigettato il gravame, ritenendo che il Tribunale avesse in realtà deciso
sull’eccezione di difetto di legittimazione attiva della L.L., giusta il richiamo alla documentazione
versata in atti.
Osservava, altresì, che la procedura di curatela dell’eredità giacente del L.L. si era chiusa a seguito
dell’accettazione dell’eredità da parte dell’appellata, occorrendo altresì rilevare che la stessa aveva
interrotto la prescrizione con raccomandata contenente atto di costituzione in mora del 4/5/2001,
rinnovando l’interruzione con successivo atto del 2008, sicchè alla data della notificazione del titolo
esecutivo e del precetto (avvenute, la prima, il 3 agosto 2010 e, la seconda, il 13/8/2011), non era
maturata alcuna prescrizione. Peraltro, esisteva una missiva sottoscritta dal difensore di G.G., nella
quale si disconosceva l’esistenza del credito vantato dall’opposta.
Infine, rigettato anche il terzo motivo, condannava gli appellanti al rimborso delle spese del grado.
Per la cassazione di tale sentenza propongono ricorso E.E., C.C., D.D., B.B. e A.A. sulla base di due
motivi, illustrati da memorie.
L’intimata resiste con controricorso.
2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè
degli artt. 475 e 480 c.c.
Si deduce che è stata disattesa l’eccezione di difetto di legittimazione attiva all’esecuzione in capo alla
L.L., con una motivazione solo apparente, il che determina la violazione della previsione di cui all’art.
112 c.p.c.
Si aggiunge, poi, che l’intimata ha in realtà accettato l’eredità del padre solo in data 24 gennaio 2000,
e cioè ben oltre il decennio dalla data di apertura della successione, verificatasi il 19 marzo 1987. In
tal modo si è tenuto conto, ai fini di ritenere che vi fosse stata valida accettazione dell’eredità, di un
atto intervenuto allorchè il decennio di cui all’art. 480 c.c. era abbondantemente decorso.
Tale considerazione rende quindi tardive e prive di efficacia le successive messe in mora della
controparte, trattandosi di atti posti in essere da un soggetto che non aveva ritualmente acquisito la
qualità di erede.
Il mancato acquisto della qualità di erede le precludeva, quindi, la possibilità di avvalersi della
sentenza che aveva previsto il pagamento del residuo corrispettivo, atteso che trattasi di sentenza
emessa nei confronti del curatore dell’eredità giacente.
Il motivo è manifestamente infondato.
Risulta, infatti, che successivamente al decesso del L.L., la madre della controricorrente intraprese un
giudizio per il riconoscimento giudiziale della paternità della figlia F.F., giudizio concluso con la
sentenza di accoglimento n. 19/89 del 24 giugno 1989.
Tale sentenza è poi passata in cosa giudicata solo in data 8 settembre 1990, per mancata
impugnazione, stante il decorso del termine lungo di cui all’art. 327 c.c., all’epoca ancora pari ad un
anno.
La successiva accettazione dell’eredità paterna è avvenuta da parte della controricorrente in data 24
gennaio 2000, e cioè entro il termine di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza di
riconoscimento della paternità, all’epoca definita naturale, oggi avvenuta al di fuori del matrimonio.
Ancora in data 6 maggio 2000, il Tribunale di Roma, prendendo atto dell’intervenuta accettazione
dell’eredità, ha disposto la chiusura della procedura di eredità giacente ai sensi dell’art. 532 c.c.
Così ricostruite le vicende in fatto, deve sicuramente escludersi che ricorra la violazione dell’art. 112
c.p.c., avendo la Corte distrettuale espressamente deciso sull’eccezione di difetto di legittimazione
attiva in capo all’appellata, per l’asserita carenza della qualità di erede, facendo riferimento alla
documentazione dalla medesima prodotta, e ritenuta già dal Tribunale idonea a comprovare la qualità
di erede.
Una volta, quindi, esclusa la dedotta violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e
pronunciato, la tesi di parte ricorrente, per negare alla controparte la qualità di erede del promittente
venditore, appare evidentemente destituita di fondamento, in quanto è ancorata al presupposto,
erroneo in punto di diritto, secondo cui anche per il figlio di cui, alla data di apertura della successione,
non sia stato accertato lo status di filiazione naturale, il termine per accettare l’eredità decorra dalla
data di apertura della successione, Trattasi però di assunto che è chiaramente contraddetto dalla
costante giurisprudenza di legittimità che, a far data dalla riforma del 1975 del diritto di famiglia, ha
affermato che per i figli dichiarati tali dopo la morte del genitore, il termine di cui all’art. 480 c.c.,
decorre dal giorno del passaggio in giudicato della relativa sentenza.
Trattasi di soluzione che si impone in ragione del fatto che, anteriormente all’intervento del giudice,
i figli non rivestono la qualità di vocati alla successione e, quindi, non possono compiere atti di
accettazione, essendo per gli stessi giuridicamente impossibile accettare l’eredità (Cass. n. 2326/1990;
Cass. n. 5076/1987; Cass. n. 10333/1993).
Tale interpretazione ha poi ricevuto l’autorevole avallo anche della Corte Costituzionale che, nella
sentenza n. 191/1983, pur disattendendo la questione di legittimità costituzionale dell’art. 480
c.c. nella parte in cui non prevedeva che il termine di prescrizione per l’accettazione dell’eredità
decorresse solo dall’accertamento giudiziale della paternità, ha però reputato che i dubbi avanzati
dovessero essere superati proprio alla luce dell’esegesi delle norme compiuta dal giudice di
legittimità, che aveva appunto individuato nel passaggio in giudicato della sentenza sullo stato di
filiazione il dies a quo della prescrizione del diritto di accettazione dell’eredità.
In applicazione di tali principi, emerge, quindi, che la L.L. ha provveduto ad accettare l’eredità paterna
nel termine di cui all’art. 480 c.c., decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza a sè
favorevole, e che alla data delle prime messe in mora (27/4/2001), non era ancora maturata la
prescrizione dell’actio iuidcati, decorrente dalla sentenza che aveva disposto il trasferimento della
proprietà in favore del dante causa dei ricorrenti (sentenza appunto emessa nel 1998).
Quanto poi all’espressa previsione oggi contenuta nell’art. 480 c.c. a seguito della novella di cui del
D.Lgs. n. 154 del 2013, art. 69, che ricalca il principio di diritto sopra esposto, deve reputarsi che la
norma abbia carattere meramente confermativo dell’indirizzo già affermatosi in giurisprudenza,
avendo il legislatore in occasione della riforma della filiazione ritenuto opportuno tradurlo in norma
di legge, ma senza che possa annettersi a tale scelta una portata innovativa rispetto al quadro
interpretativo previgente.
Ne consegue che l’opposta ha validamente compiuto un atto di accettazione dell’eredità nel termine
decennale, per lei decorrente dall’accertamento dello status filiationis, il che denota l’assoluta
infondatezza della tesi di parte ricorrente, a detta della quale l’accettazione sarebbe intervenuta
allorchè era ormai decorso il termine di dieci anni dall’apertura della successione, di fatto rendendo
prive di rilievo anche le successive lettere di costituzione in mora ed i successivi atti interruttivi della
prescrizione del diritto di credito azionato in via esecutiva.
3. Le suesposte considerazioni danno altresì contezza dell’infondatezza del secondo motivo di ricorso,
con il quale si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c., artt. 2909 e 2942 c.c.
Assumono nel motivo i ricorrenti che, pur dovendosi annettere efficacia di giudicato alla sentenza del
Tribunale di Roma n. 13542/1998, con la quale è stato disposto ex art. 2932 c.c., il trasferimento della
proprietà immobiliare in favore del loro dante causa, la medesima è stata emessa nei confronti
dell’eredità giacente del L.L., avendo la stessa sentenza accertato che quelli che erano i suoi potenziali
eredi legittimi non avevano accettato l’eredità del promittente venditore.
La sentenza impugnata ha, invece, riconosciuto la possibilità per la controparte di avvalersi della detta
sentenza in via esecutiva, negando in tal modo l’accertamento nella stessa contenuto circa l’assenza
di eredi che avessero accettato nel termine di legge.
Giova a tal fine rilevare che se accertamento vi è stato in merito alla mancata accettazione dell’eredità,
lo stesso ha riguardato solo i soggetti che si palesavano come legittimi chiamati alla data di apertura
della successione, ma non anche nei confronti di chi, come l’odierna controricorrente ancora non
aveva acquisito, in ragione della necessità del riconoscimento giudiziale della paternità, la qualità di
chiamata.
In assenza di una valida accettazione dell’eredità, è stata quindi disposta l’apertura della curatela
dell’eredità giacente, dovendosi quindi ritenere che la sentenza emessa nei confronti del curatore
faccia stato ed abbia efficacia di giudicato anche nei confronti di coloro che abbiano poi ad acquistare
la qualità di eredi con l’accettazione (situazione questa, come detto, idonea a determinare la
cessazione della curatela).
Il tempestivo acquisto della qualità di erede da parte della L.L., in data successiva alla pronuncia della
sentenza azionata in via esecutiva, consente alla stessa di potersene avvalere, appunto, quale erede
del soggetto titolare del credito riconosciuto in sentenza, e ciò proprio in applicazione della regola
secondo cui il giudicato produce i suoi effetti nei confronti degli eredi ed aventi causa delle parti
originarie, ovvero di chi subentra nella titolarità dei beni affidati, in assenza di un’iniziale
accettazione, alla gestione ed alla cura del curatore dell’eredità giacente.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
4. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
5. Poichè il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012,
art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato –
Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater, – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte
dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa
impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese che liquida
in complessivi Euro 4.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui
compensi, ed accessori di legge;
ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1,
comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore
importo a titolo di contributo unificato per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se
dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 gennaio 2023.
Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2023