Condannato l’insegnante che adesca un suo alunno minorenne mediante la chat di un social

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 22 marzo 2022, n. 9735
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LAPALORCIA Grazia – Presidente –
Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere –
Dott. MACRI’ Ubalda – Consigliere –
Dott. ANDRONIO A. M. – rel. Consigliere –
Dott. AMOROSO Maria Cristina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
P.A., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 12/01/2021 della Corte d’appello di Catania;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ANDRONIO Alessandro Maria;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale MANUALI Valentina, che
ha concluso chiedendo il ricorso sia rigettato;
udito il difensore, avv. G. B. C.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 12 gennaio 2021, la Corte d’appello di Catania ha confermato – revocando la
disposta misura di sicurezza – la sentenza del Tribunale di Catania del 9 luglio 2019, con la quale –
per quanto qui rileva – l’imputato era stato condannato alla pena di un anno e sei mesi di reclusione,
con il beneficio della sospensione condizionale, oltre pene accessorie, per il reato di cui all’art. 609-
undecies c.p., a lui contestato per avere adescato un minore di anni 16, alunno nell’istituto scolastico
nel quale egli era insegnante e vicario del preside, mediante l’utilizzo della chat di un social, con
espressioni lusinghiere volte a capirne la fiducia, domande volte a comprenderne l’orientamento
sessuale, terminologie e frasi a riferimento sessuale.
2. Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione,
chiedendone l’annullamento.
2.1. In primo luogo, la difesa premette che vi sono dubbi di legittimità costituzionale della
disposizione incriminatrice, che possono ritenersi superati solo se si valorizzano il carattere vincolato
della condotta incriminata e il fine specifico, che non si può ridurre ad un’analisi introspettiva
dell’animus del soggetto agente, ma esige una verifica oggettiva della sussistenza del dolo, sulla base
del tenore delle conversazioni o comunicazioni intercorse. Su questa premessa, il ricorrente denuncia
vizi della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo
del reato, laddove la Corte d’appello ha valorizzato la conversazione tenuta sul social, nella quale
l’imputato domandava la “fattibilità” di incontri a scopo sessuale. Per la difesa, invece, i dialoghi
intercorsi fra le parti sarebbero privi di significatività, in quanto la richiesta di fattibilità sarebbe
riferita ad incontri a carattere religioso, non essendovi nel contesto chiari riferimenti a sfondo
sessuale, perchè tale non potrebbe essere ritenuto l’uso del termine “pisellino”, di carattere
vezzeggiativo e da intendere, perciò, come sinonimo di “ragazzo”.
Si contesta, inoltre, il fatto che i giudici di merito abbiano desunto il carattere sessuale della
conversazione instaurata dall’imputato dalla mancata esplicitazione del suo reale argomento, nonchè
dall’utilizzazione di un tono incalzante. Non si sarebbe considerato che il proposito del ricorrente era
quello di educare il ragazzo e avvicinarlo alla Chiesa e non sarebbero probanti in senso contrario il
tono utilizzato e lo stacco temporale tra il momento in cui il minore aveva respinto il presunto
tentativo di approccio e quello nel quale l’imputato aveva cercato di dare un senso a tale approccio
riconducendolo ad un invito a partecipare alla comunità religiosa. L’errore dei giudici di merito
sarebbe stato – ancora una volta – quello di desumere elementi contro l’imputato dall’ambiguità e dalla
scarsa chiarezza del tenore delle conversazioni instaurate.
Mancherebbe, in ogni caso, l’accertamento della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato-scopo
di atti sessuali con minorenni, trattandosi di un minore di età compresa tra i 14 e i 16 anni di età e
mancando il rapporto di affidamento richiesto dall’art. 609-quater c.p.
Secondo la Corte d’appello, tale rapporto di affidamento deriverebbe dal ruolo di vicario del preside
assunto dall’imputato, insegnante nell’istituto scolastico frequentato dal minore, ma mancherebbe una
motivazione circa la relazione tra l’affidamento e la consumazione del reato al di fuori della scuola,
posto che le conversazioni oggetto di contestazione erano avvenute in ambito extrascolastico, senza
che la persona offesa potesse sentirsi limitata nella sua autodeterminazione, a maggior ragione
considerando il mezzo informatico utilizzato. Per la difesa, la Corte d’appello avrebbe confuso l’abuso
di autorità al momento dell’adescamento con l’abuso di autorità costituente lo strumento attraverso il
quale si potrebbe realizzare quello che la stessa difesa qualifica come “reato di violenza sessuale ex
art. 609-quater c.p. L’abuso di autorità avrebbe dovuto essere, invece, oggetto di volizione e
rappresentazione fin dal momento dell’adescamento. Non si sarebbe considerato che: l’imputato non
era mai stato insegnante della persona offesa, neppure temporaneamente, cosicchè non vi era alcun
rapporto di affidamento; la posizione dell’imputato non era stata utilizzata per conseguire l’ipotetico
intento del compimento di atti sessuali; lo stesso imputato aveva escluso tutto ciò, laddove aveva
detto al minore che avrebbe voluto prendere una pizza insieme a lui quando avesse compiuto 18 anni.
2.2. Con una seconda doglianza, si lamentano, ancora, vizi della motivazione in relazione all’elemento
soggettivo del reato, ripercorrendo il quadro probatorio e riportando stralci delle conversazioni
intercorse, dalle quali non emergerebbero espedienti menzogneri nè minacce di alcun genere,
considerata anche l’età del minorenne. Dalle dichiarazioni testimoniali assunte, sarebbe emerso che
l’imputato era solito comportarsi in modo affettuoso anche con altri e l’interpretazione delle
espressioni usate nelle conversazioni avrebbe dovuto tenere conto anche di tale aspetto.
2.3. Con una terza censura, si deducono vizi della motivazione in relazione alla mancata
considerazione della ricostruzione dei fatti fornita dalla difesa. I giudici di merito avrebbero
indebitamente svalutato il carattere ribelle e poco propenso al rispetto delle regole manifestato dal
minore, a fronte del quale trovava giustificazione l’invito dell’imputato a partecipare alla comunità
religiosa. La fondatezza di tale ricostruzione troverebbe conferma nelle testimonianze richiamate alle
pagg. 18 e seguenti del ricorso, circa il carattere ribelle del minorenne e la diffusione da parte sua, tra
i coetanei, della prassi di tagliuzzarsi le vene.
Motivi della decisione
1. Il ricorso – i cui motivi possono essere trattati congiuntamente perchè attengono a pretesi vizi della
motivazione del provvedimento impugnato in relazione alla responsabilità penale – è inammissibile,
perchè diretto ad ottenere una rivalutazione di elementi già presi adeguatamente in considerazione
dai giudici di merito, riducendosi ad una mera contestazione delle risultanze emerse dalla
motivazione, senza la prospettazione di elementi puntuali, precisi e di immediata valenza esplicativa
tali da dimostrare un’effettiva carenza motivazionale su punti decisivi del gravame (ex plurimis, Sez.
5, n. 34149 del 11/06/2019, Rv. 276566; Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rv. 276970). A fronte della
ricostruzione e della valutazione della Corte d’appello, il ricorrente non offre la compiuta
rappresentazione e dimostrazione, di alcuna evidenza (pretermessa ovvero infedelmente
rappresentata dal giudicante) di per sè dotata di univoca, oggettiva e immediata valenza esplicativa,
tale, cioè, da disarticolare, a prescindere da ogni soggettiva valutazione, il costrutto argomentativo
della decisione impugnata, per l’intrinseca incompatibilità degli enunciati.
1.1. In punto di diritto, la difesa prende le mosse dall’affermazione giurisprudenziale relativa alla
natura e all’ambito di applicazione del reato di cui all’art. 609-undecies c.p., secondo cui la fattispecie
non pone problemi di legittimità costituzionale, perchè, integrando un reato di pericolo concreto,
volto a neutralizzare il rischio di commissione dei più gravi reati a sfondo sessuale lesivi del corretto
sviluppo psicofisico del minore e della sua autodeterminazione, non contrasta con il principio di
offensività; necessitando, ai fini della verifica del dolo specifico, del ricorso a parametri oggettivi,
dai quali possa dedursi il movente sessuale della condotta, non viola il principio di determinatezza
della fattispecie penale; punendo, con una cornice edittale equa proporzionatamente inferiore rispetto
a quella prevista per i reati fine, comportamenti idonei a mettere, in pericolo un bene giuridico
primario, meritevole di intensa tutela, è compatibile con il principio della rieducazione della pena
(Sez. 3, n. 32170 del 15/03/2018, Rv. 273815). La stessa difesa evidenzia, inoltre, che l’oggetto del
dolo specifico previsto dalla disposizione incriminatrice deve riguardare anche gli atti sessuali che
l’agente intende compiere carpendo la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce e,
cioè, per mezzo dell’attività di adescamento descritta dalla fattispecie (ex multis, Sez. 3, n. 17373 del
31/01/2019, Rv. 275946).
1.2. Nella vicenda in esame, come ampiamente evidenziato dai giudici di primo e secondo grado, con
conforme argomentata valutazione, il quadro probatorio fa emergere con chiarezza la responsabilità
penale, proprio sulla base dei criteri interpretativi sopra delineati, sussistendo dati oggettivi dai quali
appare dimostrato, ogni oltre ogni ragionevole dubbio, il movente sessuale della condotta, che investe
anche gli atti sessuali che l’imputato intendeva compiere attraverso l’adescamento. Del tutto
correttamente la Corte d’appello ha valorizzato in senso negativo la conversazione tenuta sul social,
nella quale l’imputato domandava la “fattibilità” di incontri a scopo sessuale, non essendo plausibile
la ricostruzione difensiva secondo cui tale richiesta era riferita ad incontri a carattere religioso. Del
tutto artificiosa risulta, infatti, la ricostruzione difensiva secondo cui l’imputato aveva un (generico)
intento di educare il ragazzo e avvicinarlo alla Chiesa, deponendo in senso contrario il tono e la
terminologia utilizzati – ivi compreso il termine “pisellino”, a chiaro sfondo sessuale nel complessivo
contesto di riferimento – e lo stacco temporale tra il momento in cui il minore aveva respinto il
presunto tentativo di approccio e quello nel quale l’imputato aveva cercato, maldestramente, di dare
un senso a tale approccio riconducendolo ad un invito a partecipare – in una maniera non meglio
precisata perchè mai oggetto di precedenti approfondimenti nel corso delle conversazioni – alla
comunità religiosa cristiana.
E pienamente corretta sul piano logico giuridico è anche la considerazione relativa alla sussistenza
dell’elemento soggettivo del reato-scopo di atti sessuali con minorenni, trattandosi di un minore di età
compresa tra i 14 e i 16 anni di età nei confronti del quale vi era un chiaro rapporto di affidamento.
Tale rapporto derivava sia dal ruolo di vicario del preside assunto dall’imputato, insegnante
nell’istituto scolastico frequentato dal minore, sia dalla funzione che in concreto l’insegnante
svolgeva, secondo la stessa prospettazione difensiva, per cui egli si occupava di aiutare la persona
offesa a superare i problemi disciplinari che aveva, ben delineati anche dalle testimonianze richiamate
dalla stessa difesa. Ed è evidente che nel caso concreto l’imputato abbia agito nella piena
consapevolezza della propria posizione di autorità nei confronti del minore a lui affidato per ragioni
di educazione, rilevante ai fini dell’art. 609-quater c.p., comma 1, n. 2). Nè può ritenersi che tale
rapporto venga meno in presenza di un reato consumato al di fuori della scuola, posto che le
conversazioni oggetto di contestazione sono avvenute in ambito extrascolastico, perchè la persona
offesa era in ogni caso limitata nella sua autodeterminazione, pur utilizzando il mezzo informatico
per i colloqui, mentre l’imputato si era rappresentato ed aveva voluto fin dall’inizio il compimento di
atti sessuali nell’ambito di detto rapporto di affidamento. Anzi, dal tenore delle conversazioni riportate
dalla stessa difesa emerge come l’imputato facesse ambiguamente leva sul suo ruolo di educatore, che
aveva richiamato ad esempio al fine di tentare di fornire l’implausibile spiegazione della
finalizzazione a non meglio precisati scopi religiosi dell’incontro che aveva richiesto al minore. E, in
punto di diritto, si è precisato che la condizione di affidamento per ragioni di istruzione, di vigilanza
o di custodia prevista per il reato di atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p., comma 1, n. 2),
può avere carattere temporaneo o occasionale, potendo configurarsi anche quando il soggetto attivo
non sia l’insegnante diretto del minore, ma appartenga comunque alla stessa struttura scolastica,
all’interno della quale venga a diretto contatto con la vittima in ragione dell’incarico di svolgere lezioni
o sostituzioni nelle varie classi (ex multis, Sez. 3, n. 27282 del 14/03/2012, Rv. 253053). Si è altresì
più volte affermato che il rapporto di affidamento per ragioni di educazione, di istruzione, di vigilanza
o di custodia, che assume rilievo in tema di reati sessuali relativi a minorenni, attiene a qualunque
rapporto fiduciario, anche temporaneo od occasionale, che si instaura tra affidante e affidatario
mediante una relazione biunivoca e che comprende sia l’ipotesi in cui sia il minore a fidarsi dell’adulto,
sia quella in cui il minore sia affidato all’adulto da un altro adulto per specifiche ragioni (ex plurimis,
Sez. 3, n. 43705 del 24/09/2019, Rv. 278088). Ne consegue che il rapporto di affidamento esistente
tra insegnante ed alunno non può essere ritenuto escluso per il fatto che gli atti illeciti oggetto
dell’imputazione si svolgano fuori dall’ambiente e dall’orario scolastico, perchè ciò che conta è la
relazione che sussiste fra i due soggetti, evidentemente non circoscrivibile al solo contesto in cui
nasce e si manifesta principalmente. E ciò vale anche nel caso in cui il reato di atti sessuali con
minorenne rilevi come reato-scopo ai fini della configurabilità di quello di adescamento.
Tale essendo il quadro istruttorio, adeguatamente delineato e preso in considerazione dai giudici di
merito, la ricostruzione difensiva si risolve in un mero tentativo di proporre in sede di legittimità
un’interpretazione alternativa dei fatti, per di più ancorata su elementi palesemente irrilevanti, quale
il fatto che l’imputato avrebbe voluto prendere una pizza con la persona offesa al compimento della
sua maggiore età, o palesemente smentiti dagli atti, quale la circostanza che l’imputato non avesse
utilizzato il suo ruolo di insegnante a fini di adescamento. Parimenti irrilevanti risultano le
considerazioni difensive riferite all’attitudine affettuosa che l’imputato aveva in generale verso i
ragazzi, nonchè al carattere ribelle della persona offesa, confermato dalle testimonianze richiamate
in ricorsi, perchè proprio su tale carattere l’imputato aveva fatto leva per la commissione del reato,
instaurando una relazione che, nelle sue intenzioni, sarebbe dovuta andare ben oltre una normale e
professionalmente lecita manifestazione di affetto da parte di un insegnante verso gli alunni.
2. Il ricorso, in conclusione, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13
giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono
elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima
consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonchè quello del
versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro
3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per la
comunicazione del presente dispositivo al Ministero dell’istruzione.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi,
a norma del D.lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.