I MALTRATTAMENTI

Di Gianfranco Dosi
I “maltrattamenti” sono un reato contro la famiglia o contro la persona?
La collocazione nel codice penale dell’art. 572 (originariamente rubricato “Maltrattamenti in fami¬glia o verso fanciulli” ed oggi “Maltrattamenti contro familiari o conviventi”) all’interno del titolo XI (“dei delitti contro la famiglia”) del secondo libro e specificamente nel capo IV (“dei delitti contro l’assistenza familiare”) sembra lasciare poco spazio interpretativo al dubbio se il reato in questio¬ne, nelle intenzioni dei compilatori del codice, avesse come bene tutelato la famiglia o la persona. La collocazione nell’ambito dei delitti contro la famiglia sembra, tuttavia, dissonante rispetto a quello che appare il bene tutelato dal momento che il reato si consuma indubbiamente attraverso il compimenti di atti che ledono l’integrità fisica e morale della persona.
Come mai allora il delitto di maltrattamenti non è collocato nell’ambito dei delitti contro la persona e cioè nel XII titolo del secondo libro?
Se i codici italiani preunitari conoscevano solo il reato di maltrattamenti tra coniugi (e quindi con l’evidente obiettivo della tutela esclusiva delle relazioni coniugali), il codice penale Zanardelli del 1889 collocava più ragionevolmente il delitto di maltrattamenti tra i reati contro la persona (art. 391) in quanto riteneva prevalente evidentemente la lesione dell’integrità psicofisica della vittima. Tra autore e vittima, però, nella formulazione della norma, era sempre presupposto un legame e una relazione familiare (ed infatti la disposizione puniva i maltrattamenti “verso persone della famiglia”). In altri termini nemmeno il codice Zanardelli prevedeva un reato generale di maltrat¬tamenti, al pari per esempio delle lesioni, e il maltrattare era questione che riguardava le sole relazioni familiari.
Il Codice Rocco riproponeva la collocazione del reato (art. 572) nell’ambito dei reati contro la famiglia – in significativa simmetria con quello di “abuso dei mezzi di correzione o di disciplina” (art. 571) – allargando tuttavia la cerchia dei soggetti passivi, ma al tempo stesso confermando che il reato si consuma attraverso il maltrattare e cioè, nell’interpretazione corrente, attraverso il compimento di atti lesivi dell’integrità fisica o morale della persona. È giusto allora chiedersi quale sia il bene tutelato.
Fino all’ottobre 2012 il testo dell’art. 572 (allora rubricato “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”) era il seguente: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua auto¬rità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’eser¬cizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni.”
La legge 1 ottobre 2012, n. 172 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale) modificava il primo comma dell’art. 572 che veniva così riscritto: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottopo¬sta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni” e inseriva un secondo comma del tenore seguente: “La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici”.
La novità stava nella più ampia tutela offerta ai minori degli anni quattordici, nell’inasprimento della sanzione e – cosa certamente non di poco conto – nell’introduzione delle persone comunque “conviventi” tra i soggetti passivi del reato. Ed infatti anche la rubrica originaria della disposizione (”Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”) veniva modificata in “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”.
Il decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 (contenente norme per il contrasto della violenza di genere) convertito dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, inseriva all’art. 61 del codice penale (“circostanze aggravanti”) un numero 11-quinquies il cui testo prevede come aggravante comune “l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza” e abrogava conseguentemente il secondo com¬ma dell’art. 572 (dove si aggravava la pena nel caso di persona offesa minore di anni quattordici) reso inutile dall’aggravamento generale previsto in caso di reati contro minori di diciotto anni.
L’art. 9 della legge 19 luglio 2019, n. 69 contenente misure di tutela delle vittime di violenza dome¬stica e di genere (in GU del 25 luglio 2019 ed entrata in vigore il 9 agosto 2019) ha rivisto ancora il testo dell’art. 572 c.p. che, dopo quest’ultima modifica è il seguente:
art. 572 c.p. (Maltrattamenti contro familiari e conviventi)
Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’eser¬cizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato.
Di particolare interesse l’ultimo comma aggiunto dalla riforma del 2019 che qualifica persona of¬fesa dal reato il minore che assiste ai maltrattamenti (cosiddetta violenza assistita). Maltrattare una persona in presenza di un minore è perciò una forma aggravata del delitto (secondo comma) mentre il minore è considerato anche lui persona offesa (terzo comma).
Riprendiamo ora il discorso sul bene tutelato dalla norma.
Nonostante la collocazione sistematica che è rimasta quella originaria (nell’ambito, cioè, dei de¬litti contro la famiglia, specificamente contro l’assistenza familiare) e nonostante la modifica del¬la rubrica (“maltrattamenti contro familiari e conviventi”), che coglie soltanto uno degli svariati contenuti dell’intera fattispecie, non vi è dubbio che lo spettro dei comportamenti eterogenei penalmente sanzionati ricadenti nell’ambito dell’art. 572, colloca decisamente il baricentro della disposizione in un’area di tutela molto più estesa (ed addirittura diversa) di quella delle relazioni familiari (estendendo la tutela ai contesti comunitari di tipo educativo, lavorativo, scolastico, sa¬nitario) potendosi fondatamente ritenere che il reato di “maltrattamenti” abbia (e abbia sempre avuto, a dispetto della rubrica) come bene tutelato primariamente l’incolumità e l’integrità psico-fisica della persona.
Con la precisazione importante, però, che il delitto di maltrattamenti non è un delitto a contenuto generale, ma ha come sfondo necessariamente una relazione, un contesto relazionale, un legame tra l’autore e la sua vittima. L’autore del reato – nonostante l’espressione “chiunque…” utilizzata in apertura della disposizione – è necessariamente legato alla vittima da una particolare specifica relazione. Sta qui la caratteristica peculiare dei “maltrattamenti”. Ed è sull’affidamento reciproco che nasce da questa relazione che la legge fonda la sanzione di quei comportamenti vessatori che questa relazione strumentalizzano con la violenza e la sopraffazione. E’ proprio l’esistenza di que¬sta relazione che ha portato Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2011, n. 24575 a precisare che il reato di maltrattamenti in famiglia sarebbe un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “autorità” o peculiare “affidamento” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’art. 572 del codice penale (contesti cosiddetti parafamiliari).
Piuttosto esplicita nell’additare come bene tutelato la persona all’interno della la relazione che la unisce ad un’altra è Cass. pen. Sez. VI, 31 gennaio 2003, n. 7781 secondo cui l’interesse protetto dal reato di cui all’art. 572 c.p. è la personalità del singolo in relazione al rapporto che lo unisce al soggetto attivo. E ugualmente Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2015, n. 12065 secondo cui la condotta penalmente rilevante di maltrattamenti in famiglia è riscontrabile soltanto laddove l’abitualità delle vessazioni riveli la strumentalizzazione di una relazione ai fini di una pre¬varicazione sistematica che induce, nella vittima, una perdurante afflizione.
Si può concludere quindi sul punto ritenendo che il delitto di “maltrattamenti” in famiglia non ha assolutamente come bene tutelato la famiglia, ma l’integrità fisica e morale della persona in tutte le sue relazioni vitali più significative (familiare, educativa, scolastica, lavorativa, sanitaria). L’og¬getto della tutela è la persona nell’ambito delle sue relazioni in quelle che l’art. 2 della Costituzione chiama “le formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. In questa prospettiva le relazioni familiari sono certamente le più importanti, ma non sono le uniche.
L’aumento della pena base (da tre a sette anni, rispetto a quella originaria da uno a cinque anni) operato con la legge 19 luglio 2019, n. 69 ha rafforzato la potenzialità dissuasiva della disposizione penale, ma deve anche accompagnarsi ad una forte riqualificazione del reato sul versante del bene tutelato che non può che essere quello della incolumità e della dignità della persona. Non è tanto la relazione in sé ad essere tutelata ma la persona che in quella relazione ripone fiducia.
Di questo auspicio si era fatta in qualche modo interprete Cass. pen. Sez. VI, 23 settembre 2011, n. 36503 affermando che “l’oggetto della tutela penale nel reato di maltrattamenti in fami¬glia di cui all’art. 572 c.p. non è rappresentato soltanto dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla tutela dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma”.
Concetti che, in precedenza, aveva bene espresso anche Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 37019 per la quale nel reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessa¬tori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari1.
II La condotta nel delitto di maltrattamenti
a) L’abitualità della condotta e la sua idoneità ad imporre una condizione di sofferenza
Vedremo ora quali sono, secondo la giurisprudenza, i presupposti oggettivi del reato, cioè quale dovrebbe essere la caratteristica della condotta ai fini della punibilità del reato.
E qui incontriamo, in molte sentenze, una particolare criticità costituita dal fatto che un diffuso orientamento sul punto ritiene che la sofferenza della vittima determinata dal comportamento maltrattante non sia sufficiente per l’integrazione del reato di maltrattamenti essendo invece ne¬cessario che il giudice accerti, quale presupposto della condotta punibile, una condizione di pro¬strazione della vittima (come si dirà nel prossimo capitolo).
Recenti sentenze, proprio in vicende tristi di violenza nelle relazioni familiari, sembrano essersi scrollate di dosso questa impostazione concentrandosi sulla sola idoneità della condotta ad imporre un regime di vita vessatorio. Queste recenti decisioni (Cass. pen. sez. VI, 21 gennaio 2015, n. 12605; Cass. pen. Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 20126 ribadiscono che il reato di “maltratta¬menti in famiglia” è costituto da una condotta connotata dalla abitualità cioè da comportamenti che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo ribadendo anche che “tali comportamenti possono consistere in percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche in atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, ma precisano che si deve trattare di “comportamenti idonei ad imporre alla persona offesa un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile” senza fare espresso riferimento alla condizione di prostrazione in cui dovrebbe venirsi a trovare la vittima. In questa nozione di maltrattamenti “rientrano anche fatti lesivi dell’integrità solo morale del soggetto passivo, che possono consistere in parole che offendono la dignità della persona, purché tali condot¬te abbiano i caratteri della sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la convivenza particolarmente dolorosa, con conseguente intollerabile degenerazione del rapporto familiare”.
La condotta ha quindi uno spettro molto ampio come anche ha ribadito Cass. pen. Sez. Unite, 29 gennaio 2016, n. 10959 nella parte in cui – premessa la disposizione dell’art. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen., che stabilisce l’obbligo di dare avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dei delitti commessi con “violenza alla persona” – ha ribadito che l’espressione “delitti com¬messi con violenza alla persona” comprende anche i reati di atti persecutori e di maltrattamenti in famiglia. Il sintagma ‘violenza alla persona’ deve essere inteso alla luce del concetto di violenza di genere, quale risulta dalle relative disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto co¬munitario. La nozione di violenza sviluppata in ambito internazionale e comunitario è più ampia di quella prevista nel codice penale italiano ed è comprensiva non solo delle aggressioni fisiche ma anche morali o psicologiche.
Si è osservato in giurisprudenza che anche comportamenti fisicamente non violenti, che si arre¬stano alla soglia della minaccia, raggiungono la soglia della rilevanza penale ai fini del reato di cui all’art. 572 c.p. quando si collochino in una più ampia e unitaria condotta abituale idonea ad imporre alla vittima un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile. Ugualmente si è affermato con riferimento ai comportamento degenere di un genitore (Cass. pen. Sez. VI, 12 febbraio 2019, n. 16855) e al comportamento di sistematico svilimento della figura materna agli occhi dei figli minori (Cass. pen. Sez. V, 25 marzo 2019, n. 21133; Cass. pen. Sez. V, 29 marzo 2018, n. 32368). Perfino l’invio di messaggi ingiuriosi e minacciosi e l’utilizzo ai me¬desimi fini dei social network sono state ritenute condotte idonee ad integrare la fattispecie punita dall’art. 572 c.p. (Cass. pen. Sez. VI, 22 maggio 2018, n. 57870). Secondo Cass. pen. Sez. III, 19 gennaio 2016, n. 18937 la condotta di maltrattamenti contro familiari o conviventi può consistere anche nella privazione pressoché totale del sostegno economico ai danni della persona offesa, a maggior ragione se unita ad ulteriori condotte vessatorie di altro genere.
Nella prospettiva di approfondimento dell’elemento della abitualità Cass. pen. Sez. VI, 9 ottobre 2018, n. 6126 e Cass. pen. Sez. VI, 19 ottobre 2017, n. 56961 hanno negli ultimi anni riaf¬fermato – in accordo con la consolidata giurisprudenza sul punto – che ai fini della configurabilità del reato abituale di maltrattamenti in famiglia, è richiesto il compimento di atti che non siano spo¬radici e manifestazione di un atteggiamento di contingente aggressività, occorrendo una persisten¬
1 In questa voce, considerata la mole enorme di decisioni giudiziarie, viene indicata soltanto la giurisprudenza di legittimità. Le decisioni di merito sono comunque tutte riportate nell’appendice contenente la rassegna di giurisprudenza.
te azione vessatoria idonea a ledere la personalità della vittima. A tale proposito Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 20494 ha annullata per vizio di motivazione la sentenza di condanna per maltrattamenti coniugali senza che fosse stato “provato l’elemento dell’abitualità intesa come instaurazione di un regime di vita improntato alla sopraffazione e alla vessazione in una vicenda in cui la sussistenza del reato di maltrattamenti era stata desunta da singole condotte violente del marito a danno della moglie, inserite in un contesto familiare di forte tensione.
È stato messo in luce che la non è necessario che il comportamento maltrattante venga posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la sua ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell›agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo (Cass. pen. Sez. III, 22 novembre 2017, n. 6724)
È essenziale, ai fini della ricostruzione del reato di maltrattamenti di cui all›art. 572 c.p., l›accertamento dell›abitualità e ripetitività della condotta lungo un ambito temporale rilevante senza che la valutazione di offensività possa arrestarsi a fronte di condotte che non culminino in veri e propri atti di aggressione fisica.
L’accento, insomma, viene giustamente messo soprattutto sulla gravità dei comportamenti di so-praffazione reiterati nel tempo più che sulla necessaria condizione di prostrazione in cui dovrebbe trovarsi la vittima.
Si ricorda che in sede di teoria generale si definisce abituale il reato nel quale il comportamento criminoso viene prodotto dalla reiterazione nel tempo di più condotte o ciascuna penalmente irri¬levante (reato abituale proprio) ovvero ciascuna costituente un reato (reato abituale improprio).
La connotazione necessaria dell’abitualità del reato di maltrattamenti ritorna fino ai nostri giorni in molte sentenze.
È stata ribadita in Cass. pen. Sez. VI, 23 gennaio 2019, n. 4935 in cui si afferma che integra gli estremi del reato la condotta di chi infligge abitualmente vessazioni e sofferenze, fisiche o morali, a un’altra persona, che ne rimane succube, imponendole un regime di vita persecutorio e umiliante. In Cass. pen. Sez. I, 19 aprile 2017, n. 206 in una vicenda in cui imputata di mal¬trattamenti era na badante. In Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2015, n. 12065 dove si afferma che il delitto ex art. 572 c.p. è necessariamente abituale, dal momento che si caratterizza per la sussistenza di comportamenti che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo. Ugualmente in Cass. pen. Sez. VI, 11 luglio 2014, n. 34197 secondo cui l’art. 572 c.p. richiede condotte lesive, fisicamente o psicologicamente, che devono essere tali da portare a sofferenze morali (tra le varie: percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni im-poste alla vittima, ma anche atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali). Ancora in Cass. pen. Sez. VI, 2 aprile 2014, n. 15143 dove si ricorda che occorre che la condotta vessatoria sia reiterata per un lasso di tempo che giustifichi il convincimento del giudice di merito circa una volontà da parte dell’agente di una sopraffazione sistemica diretta a rendere dolorosa la convivenza delle persone della famiglia. In Cass. pen. Sez. III, 10 dicembre 2013, n. 4343 si afferma che il delitto di maltrattamenti in famiglia è da considerarsi reato abituale, in cui il termine di prescrizione inizia a decorrere dal giorno dell’ultima condotta tenuta, la quale “chiude il periodo di consumazione del reato”. Quest’ultimo inizia fin dalla “condotta primigenia” che, valutata insieme con le susseguenti, forma la serie minima di fatti penalmente rilevanti. Ed ancora in Cass. pen. Sez. VI, 8 ottobre 2013, n. 44700 secondo cui nello schema del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali. Cass. Sez. VI, 14 febbraio 2013, n. 12828 ritiene che integra il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. la condotta del figlio che muove “pressanti e continue richieste di somme di denaro” formulate alla madre, accompagnate da atti produttivi di diverse sofferenze morali per il tramite di contegni vessatori e ingiuriosi e attraverso l’esposizione a stati d’ira.
Nella vicenda trattata da Cass. pen. Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 20126 l’abitualità consisteva in un “continuo ed invasivo controllo da parte del marito, divorato da una patologica ed inconteni¬bile gelosia nei confronti della moglie”.
Le considerazioni svolte nelle sentenze più recenti sopra richiamate non nascono dal nulla ma appaiono conclusive di un lungo percorso di elaborazione giurisprudenziale sul reato di maltratta¬menti in famiglia, non privo, come si dirà, di alcune forzature interpretative cui sono conseguite non del tutto convincenti decisioni assolutorie determinate dal fatto che la vittima non è apparsa ai giudici eccessivamente prostrata dalla condotta del reo.
Gli ampi confini del delitto di maltrattamenti in famiglia (condotta prevaricatrice e stato di grave sofferenza della vittima) sono stati delineati comunque in lontane decisioni. Già negli anni Ottanta si affermava che nello schema del delitto in questione rientrano non soltanto le percosse, le mi¬nacce, le ingiurie e le privazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di scherno, di disprezzo, di umiliazione, di vilipendio e di asservimento che cagionano durevole sofferenza morale; sempre che essi si rivelino come manifestazioni consapevoli di recare o produrre nella vittima offesa, disprezzo, umiliazione, vilipendio o asservimento e che la vittima stessa finisca per subirli al di fuori e al di là di uno specifico fatto di violenza, ma nell’ambito delle complessive sofferenze inferte (Cass. pen. Sez. V, 9 giugno 1983 e più tardi in senso analogo Cass. pen. Sez. VI, 4 dicembre 2003, n. 7192).
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 2 maggio 2000, n. 9414 il reato di maltrattamenti in famiglia sus¬siste quando l’agente sottoponga il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo che i singoli atti vessatori siano uniti tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo) quanto dalla coscienza e volontà (elemento soggettivo) di porre in essere tali atti; è da escludere quindi che sporadici episodi di violenza, del tutto occasionali, possano integrare una abituale con¬dotta vessatoria, tale da integrare il reato di maltrattamenti.
Per Cass. pen. Sez. V, 5 luglio 1996, n. 7651 richiedere abitualmente il compimento di atti sessuali contro natura alla convivente in rapporto di coppia, di cui si conosca l’indisponibilità, ben¬ché la donna resista ed esiga rispetto e benché al rifiuto della stessa talora segua offerta di scuse, integra gli estremi del reato di maltrattamento perché la ripetizione insistente delle richieste, dato il disvalore che la persona convivente vi attribuisce, cagiona a costei sofferenze per il disprezzo che l’uomo mostra delle sue condizioni.
Moltissime lontane decisioni (tra tutte Cass. pen. Sez. III, 15 marzo 1985; Cass. pen. Sez. VI, 29 maggio 1990; Cass. pen. Sez. VI, 16 ottobre 1990) già, comunque, avevano afferma¬to in passato che rientrano nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non soltanto le percosse, le minacce, le ingiurie e le privazioni imposte ai familiari, ma anche gli atti di scherno, di disprezzo, di umiliazione, di vilipendio e di asservimento – in sostanza tali da cagionare durevole sofferenza morale. E proprio a proposito di umiliazioni anche per Cass. pen., 21 gennaio 1987 lo stato di avvilimento e di sofferenza provocato nel soggetto passivo, costretto a sopportare le continue infedeltà dell’agente, di cui questi si faceva vanto per mortificare ancor più la vittima, integra gli estremi dell’elemento oggettivo del reato previsto dall’art. 572 del codice penale. Nella stessa prospettiva emblematiche sono Cass. pen., 12 ottobre 1989 e poi ancora Cass. pen. Sez. VI, 7 giugno 1996, n. 8396 secondo le quali, premesso che nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo, di umiliazione, affermano che fra tali atti, che si risolvono in vere e proprie sofferenze morali, deve annoverarsi anche la condotta del marito che costringa la moglie a sopportare la presenza della concubina nel domicilio coniugale. E sempre con riferimento ai rapporti tra coniugi Cass. pen. Sez. VI, 14 luglio 2009, n. 38125 ha ritenuto che “risponde del reato di maltrattamenti in famiglia il marito che continuamente percuote ed ingiuria la moglie, ostenta infedeltà, e impedisce alla medesima di rientrare nella casa familiare all’esito di un ricovero in ospedale, in quanto tale quadro probatorio, rappresenta quella situazione di abitualità di sofferenze fisiche e morali, che determinano nel soggetto passivo una condizione di vita costantemente dolorosa e avvilente”.
La maggiormente penosa condizione di sofferenza in cui si trova la vittima di maltrattamenti rispetto alla vittima dei reati singoli che compongono la condotta abituale è stata in passato ben messa in evidenza da Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 1989, n. 16185 che ha ritenuto manifestamente infon¬data la questione di legittimità costituzionale dell’art. 572 c. p. in relazione agli art. 581, 582 e 594 stesso codice, con riferimento all’art. 3 cost., dedotta sotto il profilo della diseguaglianza del tratta¬mento sanzionatorio previsto per il reato di maltrattamenti rispetto alla pena stabilita per i reati di percosse, lesioni e ingiuria; infatti, le norme comparate con le relative sanzioni non sono omologhe sia sotto i profili materiale e soggettivo, perché i maltrattamenti, pur manifestandosi in fatti lesivi della integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, richiedono ex art. 572 c. p. un sistema di vita particolarmente tormentato per la vittima e la volontà di infierire sulle persone della famiglia in modo da rendere alle stesse la vita impossibile, sia per la diversità degli interessi tutelati.
b) L’ambiguità delle decisioni che richiedono nella vittima uno stato di prostrazione
Questo percorso della giurisprudenza non è privo – come si diceva – di decisioni ambivalenti e am¬bigue. In alcune sentenze, infatti, l’elemento materiale dei maltrattamenti in famiglia si ritiene che debba essere caratterizzato dalla sovrapposizione di due aspetti: da un lato la condotta abituale prevaricatrice di un soggetto; dall’altro lo stato non di semplice sofferenza ma di vera e propria prostrazione della vittima.
Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 24 settembre 1996, n. 8650 afferma che non è sufficiente ai fini della configurabilità dei maltrattamenti una convivenza difficile, conflittuale, in cui vengono a mancare i doveri di solidarietà tra coniugi, ma deve trattarsi di fatti in grado di realizzare una pregnante offesa della integrità psicofisica della vittima, “tali da farla precipitare in una condizio¬ne duratura di sofferenza e prostrazione”. A tale proposito la sentenza chiarisce che “qualora la condotta irrispettosa dell’un coniuge verso l’altro abbia carattere meramente estemporaneo ed occasionale, nel senso che sia solo l’espressione reattiva di uno stato di tensione, che comunque può sempre verificarsi nella vita di coppia, si dovrà eventualmente fare richiamo a figure criminose diverse dai maltrattamenti”.
Ha fatto molto discutere una decisione in cui la Cassazione in passato ha escluso che fosse col¬pevole del delitto di maltrattamenti in famiglia “ il coniuge che reiteratamente picchia, ingiuria ed umilia l’altro coniuge in quanto ai fini della configurabilità della fattispecie criminosa in argomento si richiede che vi sia un soggetto che abitualmente infligge sofferenze fisiche o morali a un altro, il quale, specularmente, ne resta succube (Cass. pen. Sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 9531 dove ci si è spinti a precisare che affinché sia integrato il reato di cui all’art. 572 c.p., secondo il signi¬ficato riconducibile al termine maltrattare, “è necessario che l’agente eserciti, abitualmente, una forza oppressiva nei confronti di una persona della famiglia mediante l’uso delle più varie forme di violenza fisica o morale e che la vittima ne risulti prostrata”.
Anche perplessi può lasciare Cass. pen. Sez. VI, 12 marzo 2010, n. 25138 in una vicenda di una donna vessata da ingiurie, minacce e percosse nell’arco di tre anni nella quale i giudici han¬no escluso il delitto di maltrattamenti dal momento che “la condizione psicologica della persona offesa, lungi dall’apparire sopraffatta, appariva più propriamente scossa o esasperata ma non propriamente intimorita o soggiogata”.
Quindi nell’elemento oggettivo del reato secondo questo orientamento presente in giurisprudenza dovrebbe sempre emergere lo stato di prostrazione e di soggezione della vittima. Un significato della parola maltrattare che esaspera le conseguenze della condotta – appunto lo stato di sogge¬zione della vittima – piuttosto che la condotta in sé. Come se la “sofferenza” non accompagnata dalla “soggezione” avesse meno diritto di essere considerato “interesse tutelato” dalla norma.
Anche più di recente l’ambiguità sembra riemergere in Cass. pen. Sez. III, 20 marzo 2018, n. 46043 in cui si afferma che in tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di inferiorità psicologica della vittima non deve necessariamente tradursi in una situazione di completo abbattimento, ma può consistere anche in un avvilimento generale conseguente alle vessazioni patite.
In queste decisioni è ancora visibile un approccio che in fondo considera tollerabile nelle relazioni familiari una quota di inevitabile coazione. E la collocazione della norma (art. 572 c.p.) accanto all’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.) non scoraggia certo questa impo¬stazione.
c) Lo stato di sofferenza della vittima come evento sufficiente per la configurabilità del delitto di maltrattamenti
Molto più convincente appare quindi l’orientamento giurisprudenziale che – pur richiamando la necessità di molteplici atti – incentra la tutela soprattutto sulla condotta reiteratamente violenta e sulla “sofferenza fisica e morale” in sé.
Molto esplicita sul punto è Cass. pen. Sez. VI, 9 novembre 2006, n. 3419 l’offensività del bene protetto dalla norma di cui all’art. 572 c.p. si attua nel momento in cui si crea per la persona offesa la situazione di sofferenza in cui è costretta a vivere. Il verificarsi di tale situazione integra l’evento del delitto e non si richiede che dalla stessa derivi un ulteriore danno alla integrità fisica o psichica del soggetto passivo.
Ancora Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 2010, n. 1417 ritiene che il reato di maltrattamenti in famiglia sussiste se l’agente sottopone il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e mo¬rali, in modo che i singoli atti siano uniti tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo), quanto da un’intenzione criminosa che si ponga come elemento unificatore dei singoli atti vessatori (elemento soggettivo, inteso come dolo unitario).
Per Cass. pen. Sez. VI, 16 dicembre 1986 il reato di maltrattamenti è reato abituale poiché “caratterizzato dalla sussistenza di una serie di fatti i quali, isolatamente considerati, potrebbero anche non costituire delitto, ma che rinvengono la ratio dell’antigiuridicità penale soprattutto nella loro reiterazione, che si protrae nel tempo.
Bene ha precisato Cass. pen. Sez. VI, 28 febbraio 1995, n. 4636 affermando che si tratta di un reato “necessariamente abituale, che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo”.
E il giudice deve dimostrare che tutti i fatti sono tra loro connessi e cementati in maniera inscindi¬bile dalla volontà unitaria, persistente e ispiratrice di una condotta insistita nella finalità criminosa (Cass. pen., 10 aprile 1987).
Molto opportunamente Cass. pen. Sez. VI, 4 marzo 1996, n. 4015 ha precisato che il giudice di merito può desumere dalla ripetitività dei fatti di percosse e di ingiurie l’esistenza di un vero e proprio sistema di vita di relazione abitualmente doloroso ed avvilente, consapevolmente instau¬rato dall’agente, a seguito di iniziali stati di degenerazione del rapporto familiare; tuttavia per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima all’autore del reato, in quanto la norma, nel reprimere l’abituale attentato alla dignità e al decorso della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza.
Molto chiara anche Cass. pen. Sez. VI, 13 luglio 1988 secondo cui il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica o morale, della libertà o del decoro delle persone di famiglia, in modo tale da rendere abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni tra il soggetto attivo e le vittime; l’elemento psicologico è costituito dal dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche o mo¬rali in modo continuato.
Il delitto esige per la sua configurabilità una abituale sottoposizione della persona offesa a soffe¬renze fisiche e psichiche, espressione di un atteggiamento di prevaricazione da parte del sogget¬to attivo del reato (Cass. pen. Sez. VI, 22 dicembre 1992; Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 1996).
Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 2004, n. 34522 parla di “modello di padre famiglia prevaricatore” mentre Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 1996, n. 8510 e Cass. pen. Sez. III, 9 marzo 1998, n. 4752 si richiamano ad una “condotta di sopraffazione sistematica e programmata, tale da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza”. Nel caso trattato da Cass. pen. Sez. VI, 18 mar¬zo 2008, n. 27048 l’imputato aveva sottoposto la convivente ad un clima oppressivo, umiliante, vessatorio e di sistematica sopraffazione, insultandola continuamente e senza motivo, cacciandola di casa ed infliggendole percosse e lesioni. In Cass. pen. Sez. VI, 23 novembre 2010, n. 45467 si considerano “maltrattamenti” alcuni “comportamenti volgari, irriguardosi e umilianti, caratteriz¬zati da una serie indeterminata di aggressioni verbali ed ingiuriose abitualmente poste in essere dall’imputato nei confronti del coniuge”.
In conclusione il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato da una condotta abituale che si estrinseca in una pluralità di atti lesivi della integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo (Cass. pen., 19 dicembre 1990).
La materialità del fatto deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze (Cass. pen. Sez. I, 12 febbraio 1996, n. 8618).
d) La non episodicità delle condotte che integrano i maltrattamenti
Non sono però sufficienti singoli episodi. Secondo Cass. pen. Sez. VI, 2 dicembre 2010, n. 45037 – che rimarca forse eccessivamente la necessità di una condizione di necessaria soggezione della vittima – non integra il delitto di maltrattamenti in famiglia la consumazione di atti episodici non inquadrabili in una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione ai soggetti passivi di un regime di vita oggettivamente vessatorio. Qui il confine può apparire eccessivamente labile: quanti devono es¬sere gli episodi per integrare il delitto di maltrattamenti? E’ evidente che il numero delle condotte in¬criminate non può che essere contestualizzato. Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 1400 ha ritenuto che “integra il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi la condotta del marito che sottopone la moglie, nell’arco di un anno, a tre gravi e violente aggressioni fisiche, le quali si aggiungono a una situazione familiare contrassegnata dallo stato di frequente ubriachezza dello stesso, durante il quale egli sottopone la donna a insulti e vessazioni morali”.
In realtà il verbo maltrattare impone di considerare soprattutto una continuità dello stato di soffe¬renza. Spetta al giudice verificare questa continuità, questa abitualità. E d’altro lato l’assenza della continuità non esclude certo la punibilità ad altro titolo.
I maltrattamenti possono anche evidenziarsi in un limitato periodo tempo, nel senso che se è vero che il delitto in questione è costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, de¬littuosi o meno, che determinano sofferenze fisiche o morali, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa, è anche vero che “ad integrare l’abi¬tualità della condotta non è necessario che la stessa venga posta in essere in un tempo prolungato, essendo sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, anche se per un limitato periodo di tempo” (Cass. pen. Sez. V, 9 gennaio 1992). Quindi è sufficiente un lasso di tempo, ancorché limitato, e tuttavia utile alla realizzazione della ripetizione di atti vessatori idonea a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa (Cass. pen. Sez. VI, 9 dicembre 1992).
Molte decisioni hanno poi anche chiarito che il delitto di maltrattamenti in famiglia, quale reato abituale, non resta escluso se nel tempo considerato vi siano parentesi di normalità nella condotta dell’agente e che, quindi, non assume rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con perio¬di di normalità e che siano stati, a volte, cagionati da motivi contingenti, poiché, data la natura abituale del delitto, l’intervallo di tempo tra una serie e l’altra di episodi lesivi non fa venir meno l’esistenza dell’illecito (Cass. pen. Sez. VI, 2 aprile 2014, n. 15147; Cass. pen. Sez. VI, 17 aprile 1998, n. 7803; Cass. pen. Sez. VI, 7 giugno 1996, n. 8396; Cass. pen., 13 ottobre 1989; Cass. pen. Sez. VI, 25 gennaio 1989).
La non episodicità delle condotte può accompagnarsi alla tensione di coppia; non per questo viene meno la configurabilità dei maltrattamenti in famiglia. Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2008, n. 35862 e Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2008, n. 35963 ricordano che il reato di cui all’art. 572 c.p. può sussistere anche in un contesto familiare caratterizzato da forti tensioni ascrivibili a entrambi i coniugi, tra i quali viene a crearsi un clima di reciproca insofferenza e intollerabilità, considerato che tale situazione non legittima reazioni che insistono su condotte abitualmente pro¬iettate all’aggressione, alla mortificazione e all’umiliazione.
Né il delitto viene meno se la tensione si riduce successivamente. Con ampia motivazione Corte cost. 20 luglio 1990, n. 357 ha dichiarato manifestamente inammissibile – in riferimento agli art. 2, 3, 29, 30 e 31 cost. – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 572, 1° comma, c. p., nella parte in cui non prevede come causa di estinzione del reato di maltrattamenti in famiglia la seria riconciliazione dei coniugi ed il normale svolgimento della vita coniugale, giudizialmente accertati; e ciò in quanto spetta esclusivamente al legislatore stabilire se esistano fatti successivi al reato in grado di estinguere il carattere criminale delle violazioni commesse e le relative conse¬guenze sanzionatorie. Una volta riconosciuta e confermata l’attuale validità della rilevanza penale di fatti che violano i principi su cui si fonda l’unità della famiglia e l’etica della coesistenza pacifica dei suoi membri (anche nell’interesse dei figli minori), non può spettare che allo stesso legislatore stabilire se esistano fatti successivi in grado di estinguere il carattere criminale di quelle violazioni e le relative conseguenze sanzionatorie.
e) Le condotte omissive
Il delitto può essere integrato anche da condotte omissive, individuabili nel deliberato astenersi, da parte del responsabile dell’educazione e dell’assistenza al minore o al disabile o all’anziano dall’impedire gli effetti illegittimi di una propria condotta maltrattante diretta (Cass. pen. Sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 4332 in un caso di maltrattamenti in danno dei figli minori realizzato con condotte di reiterata violenza fisica o psicologica nei confronti dell’altro genitore, quando i discendenti siano resi sistematici spettatori obbligati di tali comportamenti – cosiddetta violenza assistita – in quanto tale atteggiamento integra anche una omissione connotata da deliberata e consapevole indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della prole”; Cass. pen. Sez. VI, 17 gennaio 2013, n. 9724 secondo cui integrano il reato di maltrat¬tamenti in danno di una persona disabile non solo fatti commissivi sistematicamente lesivi della sua personalità, ma anche condotte omissive connotate da una deliberata indifferenza e trascu¬ratezza verso i suoi elementari bisogni affettivi ed esistenziali; Cass. pen. Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142 secondo cui, in un caso di violenza assistita, il delitto di maltrattamenti può esse¬re integrato anche mediante condotte omissive, individuabili nel deliberato astenersi, da parte del responsabile dell’educazione e dell’assistenza al minore, dall’impedire gli effetti illegittimi di una propria condotta maltrattante diretta verso altri soggetti; Cass. pen. Sez. VI, 30 maggio 1990, n. 394 e Cass. pen. Sez. VI, 1 febbraio 2018, n. 10763 secondo cui il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c. p. può essere realizzato anche mediante condotte omissive, individuabili pure nel deliberato astenersi da parte dei responsabili di una pubblica struttura di assistenza e cura – in presenza del contrario dovere incombente su di loro – dall’impedire condotte illegittime realizzanti la materialità del reato, omettendo di intervenire pur avendo conoscenza dei maltratta¬menti consumati nella struttura.
III Maltrattamenti e relazioni familiari
Il contesto primario – per definizione – in cui il delitto di “maltrattamenti verso familiari e convi¬venti” trova applicazione è quello delle relazioni familiari. La famiglia è il luogo degli affetti ma anche il luogo in cui le relazioni umane, all’interno delle mura domestiche, possono scivolare nella violenza e nella sopraffazione.
a) La famiglia allargata
Sul versante della famiglia allargata e della famiglia di fatto è ormai il legislatore che con la legge 1 ottobre 2012, n. 172 – richiamata all’inizio – ha esteso l’area della punibilità modificando la stessa rubrica dell’art. 572 c.p. in “maltrattamenti contro familiari e conviventi” includendo quindi nella disposizione penale in primo luogo certamente i parenti conviventi (la famiglia non solo nucleare ma anche quella allargata), ma anche il convivente more uxorio e comunque le persone che convi¬vono all’interno di uno stesso nucleo familiare ancorché non costituito con il matrimonio.
D’altro lato il testo dell’art. 572 c.p. non lascia dubbi (Chiunque…maltratta una persona della fa¬miglia o comunque convivente).
Quanto alla famiglia allargata, perciò, non possono esservi dubbi che il delitto di maltrattamenti sia configurabile anche nell’ipotesi di condotte vessatorie agite per esempio anche nei confronti di un parente o di un affine convivente (ed anche s’intende, per quanto si dirà tra breve, non convivente).
b) La famiglia di fatto
L’estensione alla famiglia di fatto era già stata proposta da tempo in giurisprudenza dove il delitto di maltrattamenti è stato sempre pacificamente applicato anche alle relazioni familiari non matri¬moniali.
Per quanto concerne la famiglia di fatto per esempio già Cass. pen. Sez. III, 13 novembre 1985 aveva avuto modo di precisare che “il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c. p. non presuppone necessariamente l’esistenza di vincoli di parentela civili o naturali, ma sussiste anche nei riguardi di una persona convivente more uxorio, perché anche in tal caso viene tra le parti a crearsi quel rapporto stabile di comunità familiare che il legislatore ha ritenuto di dover tutelare.
In seguito moltissime sentenze, in un susseguirsi regolare, hanno ribadito questo orientamento.
Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 9 dicembre 1992 (“agli effetti di cui all’art. 572 c.p., deve intendersi per famiglia ogni consorzio tra persone tra le quali, per relazioni sentimentali o con¬suetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e di solidarietà per un apprezzabile periodo di convivenza”); Cass. pen., 30 gennaio 1991 (“agli effetti del delitto di cui all’art. 572 c. p. deve considerarsi ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà); Cass. pen., 3 marzo 1993, Cass. pen. Sez. III, 3 lu¬glio 1997, n. 8953 (“ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., deve considerarsi “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione. È sufficiente un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi anche assistenziali”); Cass. pen. Sez. VI, 18 ottobre 2000, n. 12545 (“in tema di maltrattamenti in famiglia, il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima in presenza di un rapporto di stabile convivenza, in quanto suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza”);Cass. pen. Sez. VI, 10 ottobre 2001, n. 36576 (“deve ritenersi responsabile del reato di maltrattamenti in famiglia colui che risulti aver percosso e vessato moralmente la convivente essendo da considerarsi membri della famiglia, tutelati dall’art. 572 c.p. anche i componenti della famiglia di fatto, fondata cioè sulla volontà di vivere insieme, di avere figli, di avere beni comuni, di dar vita, cioè, ad un nucleo stabile e duraturo. Questa interpretazione dell’art. 572 c.p. è la più coerente con i principi ispiratori del nostro ordinamento, nonché con la realtà sociale moderna. Del resto l’introduzione del divorzio e il suo largo utilizzo hanno dimostrato che il matrimonio non è più un legame indissolubile ed hanno eliminato, dunque, il presupposto più plausibile per una tutela diversificata dei due rapporti”); Cass. pen. Sez. VI, 30 gennaio 2003, n. 8848 (“in tema di maltrattamenti in famiglia, il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima in presenza di un rap¬porto di stabile convivenza, in quanto suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza); Cass. pen. Sez. III, 8 novembre 2005, n. 44262 (“il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima, in presenza di un rapporto di sta¬bile convivenza, come tale suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una certa durata, quanto piuttosto che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione”); Cass. pen. Sez. VI, 24 gennaio 2007, n. 21329 (“il delitto di maltrattamenti in famiglia è certamente configurabile anche in danno di persona convivente more uxorio quando si sia in presenza di un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra le due persone, con legami di reciproca assistenza e protezione”); Cass. pen. Sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 20647 (“ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente “more uxorio”, atteso che il richiamo contenuto nell’art. 572 cod. pen. alla “famiglia” deve inten¬dersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”).
Il principio dell’estensione del reato anche ai comportamenti vessatori nella famiglia di fatto è ri¬badito in moltissime altre decisioni successive dello stesso tenore (Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2008, n. 27048, Cass. pen. Sez. III, 19 settembre 2008, n. 39338, Cass. pen. Sez. II, 2 ottobre 2009, n. 40727, Cass. pen. Sez. III, 19 gennaio 2010, n. 9242; Cass. pen. Sez. III, 18 ottobre 2018, n. 56673; Cass. pen. Sez. III, 27 novembre 2018, n. 345; Cass. pen. Sez, II, 23 gennaio 2019, n. 10222).
Quindi in giurisprudenza è sempre stato molto chiaro – anche prima delle modifiche introdotte nel testo e nella rubrica dell’art. 572 c.p. dalla legge 1 ottobre 2012, n. 172 – che agli effetti del delitto di maltrattamenti deve intendersi come “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo e che, pertanto, il delitto di maltrattamenti in famiglia si consuma anche tra per¬sone legate soltanto da un puro rapporto di fatto, che, per le intime relazioni e consuetudini di vita correnti tra le stesse, presenti somiglianza ed analogia con quello proprio delle relazioni coniugali.
Gli stessi concetti – a seguito della richiamata novella normativa di cui alla legge n. 172 del 2012 – sono stati ripresi da una molto articolata decisione del 2013 (Cass. pen. Sez. VI, 7 maggio 2013, n. 22915) che ha perentoriamente affermato che sono certamente da considerare persone della famiglia anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune, di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo. Con la legge del 2012 si è inteso assicurare tutela penale non solo ai componenti della famiglia legale, ma anche ai membri delle unioni di fatto fondate sulla convivenza. Ciò in quanto si è ricono¬sciuto il valore sociale della convivenza come modello idoneo a costituire una di quelle formazioni sociali che l’ordinamento costituzionale si impegna a riconoscere e garantire.
L’accento viene messo sulla intensità della relazione. Afferma Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 31121 che, “posto che la fattispecie di maltrattamenti non esige il carattere monogamico del vincolo sentimentale posto a fondamento della relazione, e neppure continuità di convivenza, intesa quale coabitazione, è necessario che detta relazione presenti intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà (nella specie, la corte territoriale aveva accertato un rapporto di convivenza durato due anni, nel quale assumeva speciale rilievo l’iden¬tificazione della casa stabilmente abitata dalla vittima ed istituita come luogo di svolgimento del rapporto di coppia, il quale poi si concretava in coabitazione, ogni volta che fosse stato possibile).
c) La famiglia separata
Perfino l’elemento del “convivere insieme”, nelle relazioni familiari, è stato superato ammettendosi i maltrattamenti tra coniugi separati o tra genitori non più conviventi.
Il principio è ben riassunto in Cass. pen. Sez. VI, 22 febbraio 2018, n. 19868; Cass. pen. Sez. VI, 1 febbraio 2017, n. 10932, Cass. pen. Sez. II, 5 luglio 2016, n. 39331 dove si afferma che il reato di maltrattamenti è configurabile nell’ipotesi in cui i maltrattamenti siano posti in es¬sere dal marito nei confronti della moglie separata o dell’ex moglie, non rilevando in sé e per sé, ai fini della configurabilità del reato, la durata della convivenza tra i due dopo il divorzio, quanto piuttosto l’esistenza di una stabile relazione affettiva tra l’imputato e la persona offesa, relazione che ha creato reciproco affidamento e aspettative di assistenza, protezione e solidarietà.
Nella stessa prospettiva Cass. pen. Sez. VI, 20 aprile 2017, n. 25498; Cass. pen. Sez. VI, 13 febbraio 2017, n. 3356 e Cass. pen. Sez. VI, 19 dicembre 2017, n. 3087 hanno ritenuto che il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente “more uxorio” con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione.
Molto esplicita sul punto era stata già in passato Cass. pen. Sez. VI, 1 febbraio 1999, n. 3570 secondo cui integra gli estremi del reato di cui all’art. 572 c.p. la sottoposizione dei familiari, ancorché non conviventi, ad atti di vessazione continui e tali da cagionare agli stessi sofferenze, privazioni, umiliazioni, che costituiscano fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza. Ed invero, comportamenti abituali caratterizzati da una serie indeterminata di atti di molestia, di ingiuria, di minaccia e di danneggiamento, manifestano l’esi¬stenza di un programma criminoso di cui i singoli episodi, da valutare unitariamente, costituiscono l’espressione ed in cui il dolo si configura come volontà comprendente il complesso dei fatti e coin¬cidente con il fine di rendere disagevole in sommo grado e per quanto possibile penosa l’esistenza dei familiari.
Il reato di cui all’art. 572 c.p. si può configurare anche in assenza di un rapporto di convivenza, e cioè quando questa sia cessata a seguito di separazione legale o di fatto, restando integri anche in tal caso i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione.
Secondo Cass. pen. Sez. IV, 17 marzo 2010, n. 24688 “per famiglia non si intende soltanto un consorzio di persone avvinte da vincoli di parentela naturale o civile, ma anche un’unione di persone tra le quali, per relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza, protezione e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione”. Con la conse¬guenza che “Il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in danno di una persona legata all’autore della condotta da una relazione sentimentale, che abbia comportato un’assidua frequentazione della di lei abitazione, trattandosi di un rapporto abituale tale da far sorgere senti¬menti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale”.
Si entra così nel tema della famiglia separata, e cioè della configurabilità del reato di maltratta¬menti anche alle relazioni post-familiari. Quello che viene richiesto è che la “relazione familiare” sia attuale, nel senso non di “convivenza” attuale ma di “attualità intesa come permanere di un vincolo affettivo e produttivo di doveri di solidarietà ed assistenza”
Proprio su questo tema si è per esempio soffermata Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 31123 che ha ribadito che “non ogni reato commesso con continuità nei confronti di un parente, quand’anche provochi un penoso regime di vita, può essere qualificato a norma dell’art. 572 c.p. in quanto l’integrazione del delitto contestato deve essere verificata in base al principio che, sul piano obiettivo, è necessaria l’attualità di una relazione familiare intesa come vincolo affettivo e produttivo di doveri di solidarietà ed assistenza.
Anche tra persone che non convivono più può, quindi, permanere il vincolo di solidarietà e di assistenza (quella che viene chiamata “relazione qualificata”) che è presupposto del delitto di maltrattamenti (Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2009, n. 16658 secondo cui soggetto passivo del delitto di cui all’art. 572 c.p. è colui il quale risulta legato al soggetto attivo da una «relazione qualificata», nell’ambito di rapporti fondati sull’autorità, su precise ragioni di affidamento o, anco¬ra, su vincoli familiari).
La giurisprudenza ritiene quindi configurabile il reato di maltrattamenti anche se la relazione for¬male di tipo familiare è terminata, come nel caso di rapporti tra coniugi separati e questo principio trova affermazioni anche nella giurisprudenza risalente. Per esempio già Cass. pen. Sez. VI, 29 aprile 1980 aveva affermato che la cessazione del rapporto di convivenza non influisce sulla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, la cui consumazione può aver luogo anche nei confronti di persona non convivente con l’imputato quando essa sia unita all’agente da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione; il reato pertanto sussiste anche nei confronti della moglie la cui convivenza sia cessata legittimamente in seguito alla proposizione della domanda di separa¬zione; Cass. pen., 12 ottobre 1989 aveva precisato che la cessazione del rapporto di convivenza non influisce sulla configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, la cui consumazione può aver luogo anche nei confronti di persona non convivente con l’imputato quando essa sia unita all’agente da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione (nella specie, l’imputato aveva commes¬so ripetuti atti di violenza fisica e morale in danno della moglie anche dopo la separazione di fatto).
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 1996, n. 10023 lo stato di separazione legale, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e di fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto il suddetto stato non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria si valga proprio o co¬munque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata. (Fattispecie nella quale il marito separato pure dinanzi a terzi percuoteva abitualmente e minacciava la moglie di ritorsioni gravi sul figlio minore).
Anche per Cass. pen. Sez. VI, 26 gennaio 1998, n. 282 lo stato di separazione legale, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di re¬ciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto, poiché la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie criminosa in questione, il suddetto stato di separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudizia¬rio, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata.
Il concetto è stato ribadito da Cass. pen. Sez. VI, 27 giugno 2008, n. 26571 secondo cui il reato di maltrattamenti in famiglia a carico del coniuge è configurabile anche in caso di separazione e di conseguente cessazione della convivenza, purché la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della fattispecie. (Principio affermato relativamente al caso di reiterate ed offensive mani¬festazioni di aggressività, attuate dal coniuge separato per convincere la moglie a riprendere la convivenza) e da Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2009, n. 16658 secondo cui “la fattispecie cri¬minosa dei maltrattamenti infraconiugali può e deve ravvisarsi anche in situazioni di separazione e di sopravvenuta interruzione della convivenza, allorché la condotta del soggetto agente realizzi gli elementi strutturali tipici dell’ipotesi criminosa di cui all’art. 572 c.p. attraverso ripetute e insistite manifestazioni di offensività e di aggressività attuate in danno del coniuge separato”. .
Il principio non vale in assoluto, però, tra persone che hanno convissuto more uxorio e che deci¬dono di separare le loro vite. In tal caso il delitto di maltrattamenti potrebbe configurarsi soltanto in relazione a quegli elementi del rapporto che permangono anche dopo la cessazione della con¬vivenza.
A tale proposito Cass. pen. Sez. VI, 7 maggio 2013, n. 22915 ha voluto precisare che il prin¬cipio secondo il quale il requisito della convivenza o coabitazione non sarebbe necessario per integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia, se vale nel caso di separazione (consensuale o giudiziale) dei coniugi in considerazione della circostanza per cui nonostante la cessazione della convivenza persistono altri obblighi giuridici, sia pure attenuati, di assistenza morale o materiale nascenti dal matrimonio, non può valere nell’ipotesi di famiglia di fatto, in quanto la cessazione della convivenza rende manifesta l’avvenuta estinzione dell’affectio che reggeva quella unione, a meno che altri elementi rivelino la prosecuzione del rapporto di reciproca assistenza che costituisce il fondamento volontario della famiglia di fatto.
In effetti questi altri elementi possono consistere per esempio nell’esistenza di figli della coppia. Ed infatti Cass. pen. Sez. VI, 8 luglio 2014, n. 33882 ha affermato che è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filia¬zione. (chiarendosi in motivazione, che proprio la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell’educazione, nell’istruzione e nell’assistenza morale del figlio minore naturale derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale, implica necessaria¬mente il rispetto reciproco tra i genitori anche se non conviventi).
L’indirizzo che ammette la possibile incriminazione per maltrattamenti anche in caso di separa¬zione o di cessazione della convivenza non è stato condiviso da Cass. pen. Sez. VI, 19 maggio 2016, n. 30704; Cass,. pen. Sez. V, 4 maggio 2016, n. 41665 e Cass. pen. Sez. II, 21 aprile 2016, n. 17719 che hanno marcato la differenza tra i maltrattamenti e gli atti persecutori proprio in ragione della convivenza o meno dell’autore con la vittima.
IV Il maltrattamento dei minori
1. L’evoluzione del quadro normativo
La tutela oggi offerta alle vittime minorenni è molto ampia anche nell’ambito delle condotte di maltrattamenti.
In primo luogo, infatti, l’art. 61 c.p. (aggravanti comuni) prevede al n. 11-quinquies l’aggravante di “avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto” (testo che si deve al decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 contenente norme per il contrasto della violenza di genere, convertito dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119). Inoltre le modifiche al testo dell’art. 572 c.p. introdotte dall’art. 9 della legge 19 luglio 2019, n. 69 conte¬nente misure di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere hanno rafforzato la tutela penale aumentando la pena per tale delitto (reclusione da tre a sette), prevedendo un ulteriore aggravamento “fino alla metà” se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore e rafforzando il contrasto alla violenza assistita prevedendo nell’ultimo comma dell’art. 572 c.p. che “Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato”.
Come si è all’inizio ricordato, fin all’ottobre 2012 il testo del primo comma dell’art. 572 c.p. (allora rubricato “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”) prevedeva la punibilità per maltrattamenti contro “ una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici”. All’interno di questa impo¬stazione penalistica – che individuava espressamente i soli minori di quattordici anni come soggetti passivi dei maltrattamenti in famiglia – aveva preso l’avvio in Italia negli anni Settanta il dibattito sulla insufficienza degli strumenti di tutela in tema di violenza all’infanzia. Il dibattito coinvolse, però, all’inizio non tanto i penalisti ma soprattutto i giudici e gli operatori della giustizia minorile che, a fronte della scarsa significatività della deterrenza delle misure penali – vedevano soprat¬tutto nelle misure previste nel codice civile (articolo 330 sulla decadenza della potestà genitoriale e art. 333 sulle misure limitative della potestà genitoriale) oltre che nella legislazione minorile (R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404 sull’istituzione e il funzionamento del tribunale per i minorenni) gli strumenti per nuovi interventi a tutela dei minorenni. L’abuso all’infanzia (child abuse) era soprat¬tutto individuato, sotto la spinta del nascere di una nuova cultura verso l’infanzia in quel periodo, come abuso nell’ambito della famiglia e dentro le mura domestiche ed era evidente che all’interno di questo contesto di tutela giudiziaria si indirizzasse l’impegno della giustizia soprattutto minorile.
Il sistema penale era d’altro lato, allora, del tutto carente. Mentre si rafforzava il convincimento che fossero necessari forti interventi legislativi di riforma in ogni settore della giustizia per ade¬guarla alle nuove esigenze di tutela dei minori dalla violenza dentro e fuori la famiglia, ancora non esisteva negli anni Settanta e Ottanta un riferimento penale sistematico per contrastare le diverse forme di violenza che nel frattempo venivano ad essere rilevate ed approfondite in tutti i loro risvolti (maltrattamento fisico e psicologico, trascuratezza, contesa dei figli, violenza sessuale, sfruttamento dei minori e molte altre aree).
Si consideri, a titolo di esempio che solo con la legge 15 febbraio 1996, n. 66 (Norme contro la violenza sessuale) tutto il sistema penale di contrasto alla violenza sessuale fu riformato con nor¬me di garanzia e di tutela dei minori più efficaci. Solo con la legge 3 agosto 1998, n. 269 (Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno dei minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù) fu sistematizzato e reso più moderno il sistema penale di tutela contro lo sfruttamento in genere dei minori. Solo con la legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari) fu introdotto un sistema efficace basato su ordini di protezione a tutela delle vittime della violenza domestica.
Lo stesso codice penale si rivelava inefficace nel contrasto alle nuove emergenti forme della vio¬lenza psicologica sui minori e sia il reato di lesioni (art. 582 c.p.) che quello di maltrattamenti (art. 572 c.p.) non trovavano quasi mai applicazione nell’ambito specifico della violenza psicologica.
La legge 1 ottobre 2012, n. 172 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale) interveniva sul delitto di maltrattamenti e modificava il primo comma dell’art. 572 che veniva così riscritto: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni” e inseriva un secondo comma del tenore seguente: “La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici”.
La tutela fu poi estesa a tutti i minorenni vittime di violenza e di maltrattamenti con l’inserimento nell’art. 61 c.p. (aggravanti comuni) di un n. 11-quinquies il cui testo prevede come aggravante “l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto”. Questo inserimento si deve al decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 (contenente norme per il contrasto della violenza di genere) convertito dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119.
In seguito a queste modifiche e a quelle, sopra ricordate, introdotte dalla legge 19 luglio 2019, n. 69 contenente misure di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere si è rafforzata decisamente la tutela offerta oggi in sede penale a tutte le vittime di violenza e di maltrattamenti nell’arco dell’intera minore età.
Sul versante della tutela processuale va ricordato che anche in caso di maltrattamenti sono at¬tivabili le garanzie che la legge espressamente riserva ai minori vittime di violenza sessuale. Sul punto Corte cost. 9 maggio 2001, n. 114 ha affermato “Premesso che la scelta del legislatore di prevedere una speciale disciplina per l’incidente probatorio rispetto ai reati sessuali è collegata a specifiche esigenze sia di assicurazione della genuinità della prova, sia, soprattutto di protezione del minore infrasedicenne rispetto alle possibili lesioni della sua personalità derivanti dalle modalità del suo intervento nel procedimento, non è fondata la questione di legittimità sollevata riguardo all’art. 398 comma 5 bis c.p.p.(Provvedimenti sulla richiesta di incidente probatorio) nella parte in cui non prevede, fra le ipotesi di reato in presenza delle quali essa si applica, il reato di maltratta¬menti in famiglia o verso fanciulli, di cui all’art. 572 c.p. in riferimento all’art. 3 della Costituzione. Diversamente è per il reato di maltrattamenti in famiglia che non presenta caratteristiche di tale assimilabilità, rispetto ai reati sessuali, da imporre in modo automatico l’estensione della medesima ratio. Tuttavia le modalità particolari di assunzione della testimonianza del minore infrasedicenne, previste dall’art. 398 comma 5 bis, con l’introduzione ad opera della legge 269/98 del comma 4 bis all’art. 498 c.p.p., il quale si applica nel dibattimento indipendentemente dal titolo di reato per il quale si procede, possono trovare applicazione, poiché esso è applicabile, in forza dell’art. 401 comma 5, anche nell’incidente probatorio, nell’ambito di un procedimento per reato diverso da quelli sessuali”.
Alla condanna per il delitto di maltrattamenti commessa dai genitori consegue, ai sensi dell’art. 34 cod. pen., la sospensione e la decadenza della responsabilità genitoriale.
2. L’abuso psicologico
Come si è visto nei paragrafi precedenti lo spettro dei comportamenti sanzionati dal reato di mal-trattamenti è, invece, oggi praticamente illimitato (percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche in atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, fatti le¬sivi dell’integrità anche solo morale del soggetto passivo: Cass. pen. sez. VI, 21 gennaio 2015, n. 12605; Cass. pen. Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 20126).
Secondo la definizione fornita dal Consiglio d’Europa nel 1978, il maltrattamento “si concretizza negli atti e nelle carenze che turbano gravemente i bambini e le bambine, attentano alla loro integrità corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di un terzo”.
Nel 1999 la Consulta sulla prevenzione dell’abuso sui bambini dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha indicato la seguente definizione: “l’abuso o il maltrattamento sull’infanzia è rappresen¬tato da tutte le forme di cattivo trattamento fisico e/o affettivo, abuso sessuale, incuria o tratta¬mento negligente nonché sfruttamento sessuale o di altro genere che provocano un danno reale o potenziale alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo o alla dignità del bambino, nell’ambito di una relazione di responsabilità, fiducia o potere”.
Come sottolineato nel rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, “per maltrattamento psicologico si intende una relazione emotiva caratterizzata da ripetute e continue pressioni psico¬logiche, ricatti affettivi, indifferenza, rifiuto, denigrazione e svalutazioni che danneggiano o inibi¬scono lo sviluppo di competenze cognitivo-emotive fondamentali quali l’intelligenza, l’attenzione, la percezione, la memoria.”
Nell’ordinamento giuridico italiano né la trascuratezza (di cui si dirà nel prossimo paragrafo) né l’a¬buso psicologico sono previsti espressamente quali fattispecie specifiche di reato. I reati nei quali questi comportamenti possono rientrare sono oggi sparsi all’interno del codice penale in modo disordinato come per esempio, ove ve ne siano i presupposti, quello di abbandono (art. 591 c.p.), di ingiuria (art.594 c.p.), di violenza privata (art. 610 c.p.), di minaccia (art. 612 c.p.), di lesioni (nei quali ultimi rientrano i comportamenti che provocano “una malattia nel corpo o nella mente” secondo la definizione che ne dà l’art. 582 c.p.).
Qui va osservato che l’abuso psicologico contro bambini e adolescenti consiste in atti omessi o commessi che vengono ritenuti psicologicamente dannosi. Tali comportamenti vengono messi in atto individualmente o collettivamente da persone che, per particolari caratteristiche come l’età o la condizione sociale, sono in posizione di potere rispetto al bambino. Si tratta di comportamenti che possono danneggiare anche in modo irreversibile lo sviluppo affettivo, cognitivo, relazionale e fisico del minore. L’abuso o maltrattamento psicologico include gli atti di rifiuto, terrorismo psicologico, minaccia, sfruttamento, isolamento e allontanamento del bambino dal contesto sociale. Mentre la vio¬lenza psicologica può verificarsi da sola, essa accompagna spesso la violenza fisica e quella sessuale.
Si legge nella letteratura specialistica sull’argomento che l’abuso psicologico a danno di minore può assumere diverse forme e consistere nel farlo sentire costantemente giudicato; fargli continue critiche o esprimere giudizi negativi sulla sua personalità, sul suo aspetto fisico e sulle sue capacità; impedirgli di esprimere determinate emozioni e comportamenti, come la rabbia e il pianto; farlo vivere in un clima familiare costantemente caratterizzato da angoscia o terrore; nei casi di conflittualità fra coniugi metterlo contro l›altro genitore; limitarlo e proteggerlo eccessivamente. L’abuso psicologico, se perpetuato nel tempo e qualora assuma connotazioni particolarmente gravi può produrre diverse conseguenze nella crescita del bambino: scarsa autostima e assertività, incapacità di avere fiducia negli altri, instabilità o disadattamento emozionale, disturbi del sonno e inibizione del gioco.
La giurisprudenza ha saputo cogliere alcuni aspetti legati specificamente all’abuso psicologico sui minori e se ne parlerà allorché si tratterà dell’abuso dei mezzi di correzione (Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2005, n. 16491; Cass. pen. Sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289; Cass. pen. Sez. VI, 21 ottobre 2010, n. 11251; Cass., Sez. VI, 10 settembre 2012, n. 34492).
Come prescrive il secondo comma dell’art. 40 c.p. (“Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”), il delitto di maltrattamenti può consumarsi anche mediante omissioni giacché “trattare” un figlio da parte di un padre implica almeno il rispetto della norma di cui all’art. 147 c.c. che impone l’obbligo di “mantenere, istruire ed educare la prole te¬nendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli” e, per converso, “maltrattare” vuol dire, in primo luogo, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di evi¬dente stato di disagio psicologico e morale del minore, generare o aggravare una condizione di abituale e persistente sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità né materiale, né morale di risolvere da solo (Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 1996, n. 4904). Di converso si è anche soste¬nuto, però, che “non integrano il delitto di maltrattamenti in famiglia fatti episodici di aggressione, violenza e rimprovero nei confronti dei figli, collegati alla contingente e particolare situazione di frustrazione vissuta dalla madre che, oltre al fallimento del proprio matrimonio, si vede rifiutata dai figli che hanno un rapporto di frequentazione privilegiato col padre, invece che con la madre stessa, affidataria (Cass. pen. Sez. VI, 21 maggio 2009, n. 40385). Sempre in questa direzio¬ne Cass. pen. Sez. VI, 23 settembre 2011, n. 36503 ha ritenuto che il delitto di maltrattamenti può essere integrato anche da atteggiamenti iperprotettivi o di grave trascuratezza nei confronti del minore che si concretizzano nel non fargli frequentare con regolarità la scuola, nell’impedirne la socializzazione, nell’impartire regole di vita tali da incidere sul suo sviluppo psichico e nel pro¬spettargli la figura paterna come negativa e violenta.
Cass. pen. Sez. VI, 13 luglio 2007, n. 38962 precisa che il reato di maltrattamenti in famiglia, essendo a forma libera, può sicuramente essere integrato anche da condotte consapevolmente perturbatrici dell’equilibrio e dell’evoluzione psichica di un soggetto minore. (Nella specie l’impu¬tato aveva tenuto ripetutamente nei confronti della figlia minore atteggiamenti diretti e idonei a stimolare in lei un’impropria e precoce inclinazione erotico-sessuale, con palese turbamento, ac¬clarato con perizia, della sua equilibrata evoluzione psichica)
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 13 marzo 2014, n. 12004 la nozione di malattia nella fattispecie di lesioni personali – cui evidentemente fa rinvio anche l’art. 572, comma 2, c.p. – risulta certa¬mente riferibile anche alle situazioni di mancata o ritardata crescita dei bambini dipendente da problemi di malnutrizione, trattandosi di disturbo patologico che richiede adeguati esami diagno¬stici e opportuni trattamenti terapeutici per fronteggiare quello che è una vera e propria forma di alterazione del normale ritmo di sviluppo del minore.
La stessa sentenza precisa anche che la circostanza aggravante della lesione grave, di cui al se¬condo comma dell’art. 572 c.p., può essere integrata dalla ritardata crescita del minore che, per via dei maltrattamenti, si sia trovato in condizioni di denutrizione o malnutrizione tali da cagionare la predetta malattia. Ciò in quanto la nozione di malattia nella fattispecie di lesioni personali – cui evidentemente fa rinvio anche ‘art. 572, comma 2, c.p. – non comprende solamente le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, bensì tutte quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione delle fun¬zioni dell’organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa.
In base a quanto precisato da Cass. pen. Sez. VI, 6 maggio 2014, n. 23013 il delitto di cui all’art. 572 c.p. si configura qualora sia dimostrato il requisito dell’abitualità della condotta, il quale può essere desunto sia dai segni fisici rilevati sulle vittime che dagli anomali comportamenti reat¬tivi osservati sulle stesse, soprattutto se ci si riferisce a bambini di tenerissima età non in grado di esprimersi verbalmente e di far emergere tempestivamente il loro disagio.
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 9 novembre 2006, n. 3419 configura il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 cod. pen. la condotta di chi, avuto in consegna un minore allo scopo di accu¬dirlo, educarlo ed avviarlo ad una istruzione, consente che viva in stato di abbandono in strada, per vendere piccoli oggetti e chiedere l’elemosina, appropriandosi poi del ricavato e disinteressandosi del suo stato di malnutrizione e delle situazioni di pericolo fisico e morale cui egli si trovi esposto: si tratta infatti di una condotta lesiva dell’integrità fisica e morale del minore, idonea a determinare una situazione di sofferenza, di cui va ritenuto responsabile chiunque ne abbia l’affidamento.
3. La trascuratezza
La trascuratezza (negligenza) nelle forme della incuria (cure insufficienti rispetto ai bisogni fisici e psicologici propri dell’età e del momento evolutivo), la discuria (cure distorte e inadeguate rispetto all’età, richiesta di prestazioni superiori all’età e alle possibilità, accudimento iperprotettivo) o della ipercura (cure eccessive, caratterizzate da una inadeguata e dannosa medicalizzazione) difficil¬mente rientra nelle norme del codice penale..
In giurisprudenza sono stati configurati come maltrattamenti il persistente disinteresse verso i figli ((Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 1996, n. 4904 ) o la malnutrizione (Cass. pen. Sez. VI, 13 marzo 2014, n. 12004).
Di ipercura si è occupata Cass. pen. Sez. VI, 23 settembre 2011, n. 36503 dove si legge che nel concetto di maltrattamenti, richiesto ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p., rientrano non solo condotte che si qualificano per una chiara connotazione negativa, talora violenta, talora subdolamente mortificante o ingiustificatamente punitiva, ma sempre e comunque negativa, ma anche atteggiamenti iperprotettivi, qualificabili come eccesso di accudienza, di prote¬zione e di cura. L’oggetto giuridico del delitto in oggetto, invero, non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, connotati da una chiara connotazione negativa, ma anche dalla tutela della incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto integrale della loro personalità e delle loro potenzialità nello svolgimento di un rapporto.
Integra, perciò, il delitto di maltrattamenti in famiglia il genitore che tenga nei confronti del figlio minore comportamenti iperprotettivi tali da incidere sullo sviluppo psicofisico dello stesso, a pre¬scindere dal fatto che il minore abbia o meno percepito tali comportamenti come un maltrattamen¬to o vi abbia acconsentito.
Integrano l’elemento oggettivo del delitto ex art. 572 c.p. gli atteggiamenti iperprotettivi tenuti nei confronti del minore, che siano concretamente idonei a ritardare gravemente nel minore stesso sia lo sviluppo psicologico relazionale, sia l’acquisizione di abilità in attività materiali e fisiche, anche elementari.
Il ricorso dell’elemento psicologico del delitto di maltrattamenti in famiglia, ritenuto sussistente anche in presenza di atteggiamenti denotanti un eccesso di accudienza, di protezione e di cura nei confronti del minore, se può escludersi in una fase iniziale, allorquando sia legittimo ritenere che la famiglia agisca in buona fede nella scelta delle metodiche educative e nell’accurata attenzione nell’impedire al minore contatti di ogni tipo, isolandolo nelle sicure mura domestiche, deve cer¬tamente ritenersi sussistente qualora perduranti le condotte familiari anche in seguito a ripetuti e sinergici interventi correttivi provenienti da una pluralità di esperti e tecnici dell’età evolutiva e del disagio psichico, oltre che delle competenti Autorità giudiziarie. La persistenza, ciò nonostante, delle metodiche di iperaccudienza e di isolamento, in palese violazione delle indicazioni e delle pre¬scrizioni, talora imposte e talora concordate, segnala, invero, al di là di ogni ragionevole dubbio, la pacifica ricorrenza in capo agli agenti della intenzionalità della condotta che connota il delitto previsto e punito dal disposto codicistico di cui all’art. 572 c.p.
4. La violenza assistita
Per violenza assistita, soprattutto in ambito domestico, si intende ogni situazione nella quale un bambino assista alla violenza tra soggetti appartenenti al proprio nucleo familiare. Anche laddove una donna sia oggetto di violenza da parte del compagno, esistono due vittime: la donna, diretta¬mente colpita, e il bambino che assiste.
Secondo dati non recenti (2007) dell’ISTAT tra le donne che hanno subito violenze ripetute da parte del partner, sono 690 mila quelle avevano figli al momento della violenza; il 62,4% di queste ha dichiarato che i figli hanno assistito ad uno o più di questi episodi: nel 19,6% dei casi i figli vi hanno assistito raramente, nel 20,2% a volte, nel 22,6% spesso.
In giurisprudenza si è ritenuto sussistente il delitto di maltrattamenti verso i figli in casi di violenza assistita a casi in cui la violenza era stata, appunto, esercitata nei confronti della madre dei minori che vi avevano assistito e che a causa di questo “avevano timore persino di andare a scuola per non poter difendere adeguatamente la propria madre e, quindi, assistevano agli atti vessatori del padre, ivi comprese le minacce di morte indirizzate alla madre” (Cass. pen. Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142).
Si tratta di una vicenda in cui il giudice di merito aveva affermato la responsabilità dell’imputato, in ordine al delitto di maltrattamenti anche nei confronti dei figli minori, pur riconoscendo che gli atti di violenza fisica erano stati indirizzati solo alla convivente, avendo evidenziato le ricadute del comportamento del genitore sui minori, i quali avevano timore persino di andare a scuola per non poter difendere adeguatamente la propria madre.
Il delitto di maltrattamenti può essere, quindi, integrato anche mediante condotte omissive, in¬dividuabili nel deliberato astenersi, da parte del responsabile dell’educazione e dell’assistenza al minore, dall’impedire gli effetti illegittimi di una propria condotta maltrattante diretta verso altri soggetti.
Integrano, perciò, il reato di maltrattamenti in danno del figlio minore anche le condotte persecu¬torie poste in essere da un genitore nei confronti dell’altro quando il figlio è costretto ad assistervi sistematicamente, trattandosi di condotta espressiva di una consapevole indifferenza verso gli ele¬mentari bisogni affettivi ed esistenziali del minore ed idonea a provocare sentimenti di sofferenza e frustrazione in quest’ultimo (Cass. pen. Sez. V, 29 marzo 2018, n. 32368)
Perciò il principio è che integra il delitto di maltrattamenti anche nei confronti dei figli la condotta di colui che compia atti di violenza fisica contro la convivente, in quanto lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere del soggetto attivo, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere dall’entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi.
Analogamente Cass. pen. Sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 4332 in un caso di maltrattamenti in danno dei figli minori realizzato con condotte di reiterata violenza fisica o psicologica nei confronti dell’altro genitore, quando i discendenti siano resi sistematici spettatori obbligati di tali comporta¬menti, in quanto tale atteggiamento integra anche una omissione connotata da deliberata e consa¬pevole indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della prole”.
In caso di violenza (assistita) esercitata in famiglia per esempio da un genitore nei confronti dell’altro e in presenza di un figlio minore si è già osservato che troverà anche applicazione l’art. 61 del codice penale al numero 11-quinquies che prevede come aggravante comune “l’avere… nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza…di un minore di anni diciotto. Quindi la violenza assistita può integrare il delitto di maltrattamenti aggravati.
Ed inoltre, come anche si è già detto, la legge 19 luglio 2019, n. 69 contenente misure di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere ha ulteriormente rafforzato il contrasto alla violenza assistita prevedendo nell’ultimo comma dell’art. 572 c.p. che “Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato”.
Si afferma in Cass. pen. Sez. VI, 25 ottobre 2018, n. 2003 che in tema di maltrattamenti in fa¬miglia, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante dell’essere stato il delitto commesso alla presenza del minore, prevista dall’art. 61, n. 11-quinquies, cod. pen., non è necessario che gli atti di violenza posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell’abitualità, essen¬do sufficiente che egli assista ad uno dei fatti che si inseriscono nella condotta costituente reato.
L’espressione “violenza assistita” compare per la prima volta in Cass. pen. Sez. VI, 23 febbraio 2018, n. 18833 dove si afferma che il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano indirettamente, come involontari spettatori delle liti tra i genitori che si svolgono all’interno delle mura domestiche (c.d. violenza assistita), sempre che sia stata accertata l’abi¬tualità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica nei minori spettatori passivi.
5. Il bullismo
L’ampiezza dei comportamenti che possono configurare il delitto maltrattamenti è tale da ricom¬prendere certamente anche i comportamenti che vanno sotto il nome di bullismo. Ci si riferisce con questo termine – secondo l’analisi che ne han fatto per esempio finora Telefono Azzurro nell’ambito dei comportamenti devianti nella minore età – a tutte quelle azioni di sistematica prevaricazione e sopruso messe in atto da parte di un bambino/adolescente, definito “bullo” (o da parte di un grup¬po), nei confronti di un altro bambino/adolescente percepito come più debole, la vittima.
Naturalmente fenomeni di bullismo sono conosciuti anche in contesti comunitari di adulti, per esempio nell’ambiente militare.
Secondo le definizioni date dagli studiosi del fenomeno una persona è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto deliberatamente da altre persone.
Non si fa quindi riferimento ad un singolo atto, ma a una serie di comportamenti portati avanti ripetutamente, all’interno di un gruppo, da parte di qualcuno che fa o dice cose per avere potere su un’altra persona.
È possibile distinguere tra bullismo diretto (che comprende attacchi espliciti nei confronti della vittima e può essere di tipo fisico o verbale) e bullismo indiretto (che danneggia la vittima nelle sue relazioni con le altre persone, attraverso atti come l’esclusione dal gruppo dei pari, l’isolamento, la diffusione di pettegolezzi e calunnie sul suo conto, il danneggiamento dei suoi rapporti di amicizia). Quando le azioni di bullismo si verificano attraverso Internet (posta elettronica, social network, chat, blog, forum), o attraverso il telefono cellulare, si parla di cyberbullismo.
In giurisprudenza finora il bullismo non ha ricevuto molta attenzione e non ne risulta una configu¬razione all’interno del delitto di maltrattamenti.
V I maltrattamenti nei contesti educativi e l’abuso dei mezzi di correzione
L’art. 572 c.p. – aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 11-quinquies c.p. quando commesso in danno di un minore di età – è naturalmente configurabile non solo in famiglia ma, in virtù di quanto espressamente previsto nella stessa disposizione anche a scuola e comunque in tutti i contesti di socializzazione scolastici, extrascolastici, sportivi, educativi (persone affidate per ragioni di edu¬cazione e istruzione), tutti ambiti nei quali la correttezza nel rapporto tra educatori e minori deve essere garantita al massimo.
A questo proposito sono molte e continue anche in giurisprudenza le interferenze tra il delitto di “maltrattamenti” (art 572 c.p.) e quello di “abuso dei mezzi di correzione o di disciplina” (art. 571)2 la cui matrice storica unitaria è evidente anche dalla stessa collocazione simmetrica delle due norme. Sono anzi frequenti le interpretazioni del reato di maltrattamenti subordinate all’interpre¬tazione del reato di abuso dei mezzi di correzione. Presupposto comune è, almeno storicamente, l’attribuzione di uno ius corrigendi, al genitore o all’educatore, da esercitarsi però non in modo abusivo (abuso dei mezzi di correzione) né in modo violento (maltrattamenti).
Il reato di cui all’art. 571 c.p. sanziona con simmetrica aderenza al reato di maltrattamenti “chiun¬que abusa dei mezzi di correzione o di disciplina di una persona affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte” se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente.
Si tratta di una norma accusata da sempre di anacronismo morale e sociale. La norma lascia inten¬dere, infatti, che siano leciti di per sé mezzi di correzione e di disciplina, ed in ogni caso, sanziona l’uso di un potere correttivo che scivola in atti di violenza – come prevede il secondo l’art. 571 c.p. – con sanzioni attenuate rispetto a quelle previste per le lesioni e la morte della persona offesa. L’abuso dei mezzi di correzione è punito con la reclusione fino a sei mesi ma il secondo comma dell’art. 571 prevede che “se dal fatto deriva una lesione personale si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte di un terzo; se ne derivala morte, si applica la reclusione da tre a otto anni”. Riduzione di pena intollerabile perché lascia intendere che la finalità educativa costitu¬isce una attenuante della violenza.
Ed è proprio nell’affermazione della inconciliabilità tra qualsiasi finalità educativa e la violenza che si è sviluppato nel tempo ormai un consolidato orientamento giurisprudenziale che in questo ambito appare ineccepibile e che ha portato la giurisprudenza ad affermare perentoriamente che alla luce della concezione personalistica e pluralistica della Costituzione (art. 2, 3, 29, 30, 31), del riformato diritto di famiglia ( art. 147 c.c.) e della convenzione delle nazioni unite sui diritti del bambino (New York, 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la l. 27 maggio 1991 n. 176), non può non ritenersi lecito l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi. (Cass. pen. Sez. VI, 16 maggio 1996, n. 4904)
Già Cass. pen. Sez. I, 29 giugno 1977 aveva chiarito che il carattere distintivo tra le incrimi¬nazioni previste dall’art. 572 e dall’ art. 571 c.p. consiste nel fatto che la prima implica l’uso di mezzi o modi di trattamento sempre e di per se stessi illeciti, mentre la seconda postula l’eccesso nell’uso di mezzi giuridicamente leciti, che, tramutando l’uso in abuso, lo fa diventare illecito; inol¬tre, il reato di cui all’art. 571 c.p. è qualificato da un dolo specifico che si concreta nell’avere agito nell’esercizio dello “ius corrigendi”, cioè al particolare fine correttivo.
In un caso di abusi da parte di un insegnante Cass. pen. Sez. VI, 11 luglio 2018, n. 45736 ha ritenuto che l’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina in ambito scolastico, si può configurare a condizione che sia esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravitàdel comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità. Analogamente ha ritenuto Cass. pen. Sez. V, 16 luglio 2015, n. 47543 e Cass. pen. Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 9954 (Integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che faccia ricorso a qualunque forma di violenza, fisica o morale, ancorché minima ed orientata a scopi educativi). Si tratta di sentenze non prive tuttavia di elementi di ambiguità.
Meo ambigue sono altre sentenze. Per esempio in una vicenda di maltrattamenti commessi da un insegnante nei confronti dei propri alunni Cass. pen. Sez. VI, 25 giugno 1996, n. 8314 ricor¬da che l’utilizzazione di sanzioni corporali è vietato espressamente dall’ordinamento scolastico, così come qualunque condotta di coartazione fisica o morale che renda dolorose e mortificanti le relazioni tra l’insegnante e la classe attuata consapevolmente, fosse anche per finalità educative. Pertanto, come afferma Cass. pen. Sez. VI, 8 ottobre 2002 integra il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p., e non quello di abuso dei mezzi di correzione e disciplina di cui all’art. 571 c.p., l’imposizione di un regime di vita scolastica assolutamente ed inutilmente umi¬liante e vessatorio per i piccoli alunni, soggetti a ripetute ingiurie, ad imposizioni mortificanti ed in alcuni casi anche a violenza fisica.
Effettivamente il reato di cui all’art. 571 c.p. presuppone un uso consentito e legittimo dei mez¬zi correttivi, e non è configurabile, per mancanza dell’elemento oggettivo, nel caso in cui lo ius corrigendi venga esercitato fuori dai casi consentiti o con mezzi di per sé illeciti e contrari al fine educativo.
La condanna della violenza da parte della giurisprudenza nelle vicende in cui l’imputato pretende di dare legittimità ad un asserito ius corrigendi che sussisterebbe tra coniugi è molto netta. Cass. pen. Sez. VI, 26 aprile 2011, n. 26153 chiarisce che non rileva, ai fini dell’esclusione del dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia, la circostanza che il marito abbia agito sulla base della convinzione della superiorità della figura maschile all’interno della famiglia e della conseguente legittimità di atteggiamenti “padronali” nei confronti della moglie. Cass. pen. Sez. VI, 24 ottobre 2013, n. 45585 precisa che l’eventuale inadeguatezza del ruolo genitoriale della moglie mai e in nessun caso può giustificare il maltrattamento ad opera del marito, cui non può competere alcun intervento in funzione di un inammissibile “ius corrigendi”, il quale, comunque, non dà alcuna le¬gittimità ad azioni e condotte caratterizzate da violenza.
Nella medesima prospettiva Cass. pen. Sez. VI, 2 settembre 2019, n. 36832, Cass. pen. Sez. III, 6 novembre 2018, n. 17810; Cass. pen. Sez. VI, 4 novembre 2016, n. 52900, Cass. pen. Sez. VI, 24 gennaio 2017, n. 17574 hanno ribadito che in tema di reati contro la famiglia, non può ritenersi lecito l’uso sistematico da parte del genitore di violenza fisica e morale, come ordinario trattamento del figlio minore, anche se sorretto da “animus corrigendi”, integrando in tal caso il più grave reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione.
Ugualmente Cass. pen. Sez. VI, 11 luglio 2018, n. 45736 e Cass. pen. Sez. VI, 15 febbraio 2017, n. 11956 e Cass. pen. Sez. VI, 23 marzo 2016, n. 19852 hanno ritenuto che integra il reato di maltrattamenti e non di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che umili, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno, causandogli peri¬coli per la salute, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravitàdel comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità.
Il tema del rapporto tra “maltrattamenti in famiglia” e “abuso dei mezzi di correzione” è anche utile per la corretta individuazione del dolo richiesto per la configurabilità dei due reati. A questo proposito Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2005, n. 39927 ha fornito di recente un criterio sul quale concorda pressoché tutta la giurisprudenza successiva. La sentenza afferma che per la configurabilità del reato di maltrattamenti l’art. 572 cod. pen. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità; ne consegue che deve escludersi che l’intenzione dell’agente di agire esclusivamente per finalità educative sia elemento dirimente per fare rientrare gli abituali atti di violenza posti in essere in danno dei figli minori nella previsione di cui all’art. 571 cod. pen., in quanto gli atti di violenza devono ritenersi oggettivamente esclusi dalla fattispecie dell’abuso dei mezzi di correzione, do¬vendo ritenersi tali solo quelli per loro natura a ciò deputati, che tradiscano l’importante e delicata funzione educativa. Analogamente, in una penosa vicenda in cui un uomo era stato condannato per maltrattamenti per aver impedito alla figlia fin dalla tenera età di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di casa se non per andare a scuola o a fare la spesa Cass. pen. Sez. VI, 20 febbraio 2007, n. 34460 ribadiva gli stessi principi affermando che la condotta relativa al delitto di maltrattamenti in famiglia si distingue rispetto a quella propria del delitto di abuso dei mezzi di correzione e disciplina, in quanto, mentre quest’ultima presuppone un uso consentito e legittimo dei mezzi correttivi, che, senza attingere a forme di violenza, trasmodi in abuso a cagione dell’ec¬cesso, arbitrarietà o intempestività della misura, la prima implica un regime di prevaricazione e violenza ed una abitualità di comportamenti illegittimi, tali da rendere intollerabili le condizioni di vita della vittima.
Si può affermare quindi che in giurisprudenza il principio consolidato è che gli atti di violenza devo¬no ritenersi oggettivamente esclusi dalla fattispecie dell’abuso dei mezzi di correzione (Cass. pen. Sez. VI, 31 maggio 2007, n. 40340; Cass. pen. Sez. VI, 7 novembre 2007, n. 45283; Cass. pen. Sez. V, 15 dicembre 2009, n. 2100; Cass. pen. Sez. V, 15 dicembre 2009, n. 2100; Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 2009, n. 48272; Cass. pen. Sez. VI, 23 novembre 2010, n. 45467; Cass. pen. Sez. VI, 10 settembre, 2012, n. 34492; Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53425; Cass. pen. Sez. VI, 30 giugno 2015, n. 30436; Cass. pen. Sez. VI, 13 novembre 2015, n. 5258; Cass. pen. Sez. VI, 4 novembre 2016, n. 52900; Cass. pen. Sez. VI, 11 ottobre 2016, n. 48703; Cass. pen. Sez. VI, 28 giugno 2017, n. 40959; Cass. pen. Sez. III, 6 novembre 2018, n. 17810; Cass. pen. Sez. VI, 2 settembre 2019, n. 36832).
Permane comunque in giurisprudenza ancora l’utilizzazione del reato di abuso dei mezzi di cor¬rezione per stigmatizzare l’uso di mezzi eccedenti la normale funzione educativa, anche se nelle vicende di cui i giudici si sono occupati sono visibili molto chiaramente i segni anche del delitto di maltrattamenti.
È opportuno ricordare che l’art. 571 c.p. prevede che la condotta sia punibile “se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corso o nella mente” e che proprio in ordine al pericolo per la salute, la Corte di cassazione ha più volte precisato che la nozione di malattia nella mente (il cui rischio di causazione implica la rilevanza penale della condotta di cui all›art. 571 c.p.) è più ampia di quelle concernenti l›imputabilità o i fatti di lesione personale, estendendosi fino a comprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato d’ansia all’insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento (Cass. pen. Sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289; Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2005, n. 16491; Cass. pen. Sez. III, 22 ottobre 2009, n. 49433).
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2005, n. 16491 è configurabile il reato di abuso dei mezzi di correzione (sempre che, ricorrendo il requisito dell’abitualità ed il necessario elemento soggettivo, non si renda configurabile il più grave reato di maltrattamenti), anche il comportamen¬to doloso, attivo od omissivo, mantenuto per un tempo apprezzabile, che finisca per umiliare, sva¬lutare, denigrare e sottoporre a sevizie psicologiche un bambino, causandogli pericoli per la salute, anche psichica, senza che in contrario possa rilevare il fatto che esso sia stato posto in essere con intenzione correttiva e disciplinare.
In un caso in cui alcuni bambini affidati ad un’insegnante di scuola materna erano stati in più oc¬casioni oggetto di minacce e percosse e sottoposti a umilianti dileggi per il loro basso rendimento scolastico Cass. pen. Sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289 ricorda che il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, a differenza di quello di maltrattamenti, non ha natura di reato abituale e può ritenersi integrato da un unico atto espressivo dell’abuso, ovvero da una serie di comportamenti lesivi dell’incolumità fisica e della serenità psichica del minore, che, mantenuti per un periodo di tempo apprezzabile e complessivamente considerati, realizzano l’evento, quale che sia l’intenzione correttiva o disciplinare del soggetto attivo.
Considerazioni analoghe sono svolte da Cass., Sez. VI, 10 settembre 2012, n. 34492, rela¬tivamente al comportamento di una insegnante che aveva umiliato, svalutato denigrato e com¬messo atti di abuso psicologico su un alunno “atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità”. Il tribunale di Palermo aveva assolto un’insegnante che aveva fatto scrivere ad un alunno “per punizione” cento volte la frase “sono deficiente” per aver vessato con episodi di bullismo un compagno più debole, non è punibile per abuso dei mezzi di correzione o disciplina, essendo tale strumento correttivo proporzionato, efficace, l’unico imme¬diatamente disponibile, ed illustrato a tutta la classe nel suo intento educativo.
In accoglimento dell’impugnazione del Pubblico Ministero la Corte d’appello di Palermo dichiarava l’imputata colpevole del reato di abuso dei mezzi di disciplina rilevando che l’imputata “ha manife¬stato nei rapporti con il minore un comportamento particolarmente afflittivo e umiliante, trasmo¬dante l’esercizio della sua funzione educativa.
La Cassazione rilevava che dal processo educativo va bandito ogni elemento contraddittorio ri¬spetto allo scopo e al risultato che il nostro ordinamento persegue, in coerenza con i valori di fondo assunti e consacrati nella Costituzione della Repubblica. Non può ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, distortamente finalizzata a scopi ritenuti educativi: e ciò sia per il pri¬mato attribuito alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, tolleranza, convivenza e solidarietà, utilizzando mezzi violenti e costrittivi che tali fini contraddicono. Ne consegue che non ogni intervento correttivo o disciplinare può ritenersi lecito sol perché soggettivamente finalizzato a scopi educativi o discipli¬nari; e, d’altro lato, può essere abusiva la condotta, di per sé non illecita, quando il mezzo è usato per un interesse diverso da quello per cui è stato conferito, per esempio a scopo vessatorio, di pu¬nizione esemplare, per umiliare la dignità della persona sottoposta, per mero esercizio d’autorità o di prestigio dell’agente. Sotto altro profilo, la nozione giuridica di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina non può ignorare l’evoluzione del concetto di “abuso sul minore”, che si è andato evolvendo e specificando nel tempo. Da una sorpassata e limitativa nozione di abuso, inteso come comportamento attivo dannoso sul piano fisico per il bambino, l’attuale cultura giuridica e quella medica e psicologica qualificano come abuso anche quello psicologico, correlato allo sviluppo di numerosi e diversi disturbi psichiatrici. Costituisce abuso punibile a norma dell’art. 571 c.p. (e che, nella ricorrenza dell’abitualità e del necessario elemento soggettivo, può integrare anche il delitto di maltrattamenti) anche il comportamento doloso che umilia, svaluta, denigra o violenta psico¬logicamente un bambino,, causandogli pericoli per la salute, anche se è compiuto con soggettiva intenzione educativa o di disciplina. Viene richiamata Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2005, n. 16491 che molto opportunamente ricorda come nell’ordinamento italiano, incentrato sulla Costi¬tuzione della Repubblica e qualificato dalle norme in materia di diritto di famiglia (introdotte dalla legge n. 151 del 1975) e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino (approvata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con la legge n. 176 del 1991), il termine “correzione”, utilizzato dall’articolo 571 del c.p., va assunto come sinonimo di educazione, con ri¬ferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. Ne deriva che non può più ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, sia pure distortamente finalizzato a scopi ritenuti educativi: ciò sia per il primato attribuito alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare di diritti; sia perché non può più perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, utilizzando mezzi violenti e costrittivi.
Stesse considerazioni sono svolte da Cass. pen. Sez. VI, 21 ottobre 2010, n. 11251 in una vicenda in cui una donna con violenza aveva imposto il taglio di capelli alla propria figlia minoren¬ne essendo risultato che all’opposizione della bambina aveva fatto riscontro una isterica reazione della madre che aveva inteso proseguire nelle sue operazioni particolarmente pericolose, per affer¬mare la propria autorità sulla piccola abusando dei mezzi di correzione e disciplina.
In molte delle vicende esaminate nel leggere le pesanti imputazioni rivolte agli imputati potrebbe dubitarsi della configurabilità del reato di abuso dei mezzi di correzione essendo, invece, più ade¬rente ai fatti semmai l’imputazione per maltrattamenti. i
I tempi sembrano maturi per espungere del tutto il reato di “abuso dei mezzi di correzione” dal codice penale lasciando che il giudice adegui la sanzione del delitto di “maltrattamenti” alla gravità delle condotte e al dolo dell’agente.
VI Anziani, disabili e maltrattamenti
Si è visto che il nuovo testo dell’art. 572 c.p. – come modificato dall’art. 9 della legge 19 luglio 2019, n. 69 contenente misure di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere – prevede un aumento della pena “fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona mi¬nore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi”. Il disabile è quindi a pieno titolo inserito, con i minori e le donne in stato di gravidanza, tra le vittime più vulnerabili del delitto di maltrattamenti.
In una vicenda di cui si è occupata Cass. pen. Sez. VI, 17 gennaio 2013, n. 9724 si è affermato che il reato di maltrattamenti è integrato non soltanto da specifici fatti commissivi direttamente opprimenti la persona offesa, sì da imporle un inaccettabile e penoso sistema di vita, ma altresì da fatti omissivi di deliberata indifferenza verso elementari bisogni esistenziali e affettivi di una persona disabile (Fattispecie relativa ad una serie di comportamenti posti in essere nei confronti di una persona totalmente inabile e portatrice di “sindrome di down”, affidata alla cura e vigilanza di una “badante” con essa convivente).
Anche i disabili e gli anziani, a causa delle ridotte capacità di difesa, sono potenziali vittime di maltrattamenti, spesso in famiglia, oppure nelle strutture sanitarie o nelle case di riposo dove sono ricoverati.
Come ha osservato Cass. pen. Sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 12866 la reiterata e grave carenza di cure ed assistenza di persone anziane non autosufficienti, può certamente configurare il reato di maltrattamenti.
Il rapporto tra una struttura sanitaria e i pazienti ospitati per ragioni di cura è particolarmente esposto al rischio dell’abuso e del maltrattamento, come le cronache giornalistiche mettono spesso in evidenza. E molte decisioni si sono occupate dei maltrattamenti in questo settore. Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 30 maggio 1990, n. 394 (in un caso in cui si contestava ai responsabili di una struttura pubblica di assistenza e cura di non aver impedito ad estranei di maltrattare gli anziani ricoverati); Cass. pen. Sez. VI, 17 ottobre 1994, n. 3965 (in tema di contegno omissivo da parte di responsabile di un dipartimento di salute mentale di una U.S.L. nei confronti di persone affidate ad una struttura assistenziale); Cass. pen. Sez. VI, 21 dicembre 2009, n. 8592 (in relazione alla continua espressione di frasi ingiuriose e a maltrattamenti fisici da parte delle operatrici di un istituto pubblico di assistenza nei confronti di persone anziane ricoverate nel reparto di lunga degenza).
Secondo Cass. pen. 16 gennaio 1991 il delitto di maltrattamenti riferito a fatti commessi in una struttura assistenziale – specie se pubblica – per persone anziane (o minori o minorate o comunque bisognose di aiuto), può essere realizzato anche a mezzo di soggetto estraneo; ciò si verifica quan¬do i responsabili dell’assistenza consapevolmente e deliberatamente si astengano dall’impedire che persone non autorizzate realizzino condotte integranti l’elemento oggettivo del reato, posto che in tale situazione, stante il dovere funzionale, di natura pubblicistica, di attivarsi, non impedire la verificazione dell’evento, sotto il profilo eziologico, equivale a cagionarlo.
In tema di maltrattamenti di persone affidate ad una pubblica struttura di assistenza e cura, la valutazione dei comportamenti tenuti dai soggetti obbligati a garantire cura e livelli di vita decorosi e conformi ai regolamenti dell’ente, va operata con massimo rigore, dato che i comportamenti di aggressione fisica, o di lesione del patrimonio morale, o di sopraffazione sistematica, costituenti l’essenzialità dell’elemento materiale del delitto de quo, sono, in negativo, esaltati dalla violazione dei doveri funzionali, connessi alla posizione di garanzia di cui quei soggetti sono onerati.
La problematica giuridica non è diversa da quella di cui fin qui si è parlato.
Come si è visto, per i minori il decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 convertito nella legge 15 otto¬bre 2013, n. 119 ha introdotto l’aggravante generale di cui all’art. 61, n.11-quinquies c.p. “l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza). Prima di allora però non erano previste specifiche aggravanti nel codice penale salvo l’aggravante specifica per fatti commessi contro mi¬nori di quattordici anni inserita dalla legge 1 ottobre 2012, n. 172 e poi sostituita nel 2013 dall’art. 61 n. 11-quinquies.
Per gli anziani ugualmente non era prevista nel codice un’apposta aggravante. L’unica aggravante ipotizzabile era quella generica di cui all’art. 61 n. 5 c.p. (“l’avere profittato di circostanze di tem¬po, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”) segno eloquente di quanto l’età anziana, nonostante l’ampiezza demografica, avesse sempre poco attirato le attenzioni del legislatore. Solo nel 2009 l’aggravante in questione venne meglio specificata dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) e il nuovo testo dell’art. 61 n. 5 c.p. è da allora il seguente: “l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”. Il riferimento specifico all’età è il segnale di una inversione di rotta dell’ordinamento giuridico diventato più attento alle esigenze di protezione degli anziani.
Nei casi di maltrattamenti in famiglia non è escluso il concorso con l’aggravante generale di cui all’art. 61 n. 11 sotto il profilo dell’avere commesso il fatto con abuso di relazioni domestiche o di coabitazione.
Alcune decisioni edite si riferiscono al reato di abbandono di persone incapaci anche per vecchiaia di cui si debba avere cura o si abbia la custodia (art. 591 c.p.). Per esempio Cass. pen. Sez. I, 15 gennaio 2009, n. 5945 e Cass. pen. Sez. V, 9 aprile 1999, n. 6885 dove si afferma che, ai fini della sussistenza del reato di abbandono di persone incapaci, che è necessario accertare sempre in concreto, salvo che si tratti di minori di anni quattordici [espressamente previsti come persone offese], l’incapacità del soggetto passivo di provvedere a se stesso con la conseguenza che non vi è presunzione assoluta di incapacità per vecchiaia, la quale non è una condizione pato¬logica ma fisiologica che deve essere accertata concretamente quale possibile causa di inettitudine fisica o mentale all’adeguato controllo di ordinarie situazioni di pericolo per l’incolumità propria; Cass. pen. Sez. V, 21 ottobre 1992 dove, sempre in tema di abbandono di persone anziane si ritiene sufficiente qualsiasi azione o omissione che contrasti con l’obbligo della custodia o della cura; nella fattispecie l’imputato, amministratore unico di una società, cui era affidata la gestio¬ne di un gerontocomio, abbandonava le persone ospitate, incapaci di provvedere a se stesse per vecchiaia, consentendo in particolare che le stesse fossero tenute in pessime condizioni, sotto il profilo igienico e sanitario.
Altre sentenze fanno applicazione dell’aggravante di cui si è parlato della “minorata difesa” per ragioni di età (art. 61 n. 5 c.p.). Così per esempio Cass. pen. Sez. II, 18 novembre 2014, n. 8998 dove si legge – con riferimento ad una rapina in cui la vittima era una donna di settanta¬quattro anni che aveva accennato una reazione alle minacce dei malfattori e che per questo veniva afferrata per le spalle e scaraventata a terra – che la circostanza aggravante di aver approfittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa, a seguito della modifica normativa introdotta dalla sopra richiamata legge n. 94 del 2009, deve essere spe¬cificamente valutata anche in riferimento all’età senile e alla debolezza fisica della persona offesa, avendo voluto il legislatore assegnare rilevanza ad una serie di situazioni che denotano nel sog¬getto passivo una particolare vulnerabilità della quale l’agente trae consapevolmente vantaggio.
Ugualmente Cass. pen. Sez. V, 13 luglio 2011, n. 38347 e Cass. pen. Sez. II, 23 settembre 2010, n. 35997 secondo cui, sempre ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della minorata difesa, l’età avanzata della vittima del reato, a seguito delle modificazioni legislative in¬trodotte dalla legge n. 94 del 2009, impone al giudice di verificare, allorché il reato sia commesso in danno di persona anziana, se la condotta criminosa posta in essere sia stata agevolata dalla scarsa lucidità o incapacità di reazione della vittima.
Poco convincente, sempre in tema di minorata difesa, è l’orientamento seguito da Cass. pen. Sez. II, 17 settembre 2008, n. 39023 e Cass. pen. Sez. II, 30 marzo 1994, n. 10531 secondo cui l’età non può di per sé costituire condizione autosufficiente ai fini della configurabilità dell’ag¬gravante di cui all’art. 61 n. 5 c.p. dovendo essere accompagnata da fenomeni di decadimento o di indebolimento delle facoltà mentali o da ulteriori condizioni personali, quali il basso livello culturale del soggetto passivo, che determinano un diminuito apprezzamento critico della realtà.
Più condivisibile è, invece, quanto si legge nella risalente Cass. pen., 21 giugno 1983 che, ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, c. p. osservò che non è richiesto che la difesa sia quasi o del tutto impossibile, ma è sufficiente che essa sia semplicemente osta¬colata; la debolezza fisica dovuta all’età senile costituisce una minorazione delle capacità difensive del soggetto che impedisce il tentativo di reazione possibile a una persona giovane e di ordinaria prestanza fisica, particolarmente quando la violenza non venga esercitata con uso di arma o altro mezzo intimidatorio, ma solo con mezzo fisico manuale, e quando risulti che la vittima del reato è stato scelta dall’agente in considerazione dell’avanzata età..
Alla condanna per il delitto di maltrattamenti di una persona anziana di età, commessa con abuso di potere o con abuso della professione, consegue, ai sensi dell’art. 31 cod. pen., l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione sanitaria.
VII I maltrattamenti in istituto
Strettamente legato al tema dei maltrattamenti verso disabili e anziani è quello dei “maltratta¬menti in istituto”. Con questa espressione si fa tradizionalmente riferimento alle condizioni di sof¬ferenza in cui spesso sono rinvenuti gli ospiti (minorenni o maggiorenni) all’interno delle strutture assistenziali (per adulti o per l’infanzia) e di custodia.
A tutto ciò si è recentemente riferita Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2019, n. 16583 chiarendo che ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., commesso all’interno di una comunità per l’assistenza e la cura dei disabili, lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime può derivare anche dal clima vessatorio generalmente instaurato, per effetto di atti di sopraffazio¬ne indistintamente e variamente commessi dal personale a carico dei soggetti ricoverati, i quali, a causa delle proprie condizioni di vulnerabilità, sono vittime del detto reato tanto se patiscano in prima persona le violenze fisiche o verbali, quanto se ne siano meri spettatori.
Sono sempre più frequenti le notizie su fatti di abbandono e di maltrattamenti perpetrati in strut¬ture socio-sanitarie per anziani non autosufficienti. Talvolta si è arrivati a parlare di istituti “lager” dove i ricoverati vivono in condizioni precarie e subiscono maltrattamenti. Sono state scoperte alcune strutture di ricovero abusive e altri fatti illeciti che comportano situazioni di pericolo per la salute dei ricoverati.
In genere gli anziani degenti presso istituti socio-sanitari sono affetti da patologie croniche invali¬danti con necessità di cure medico-infermieristiche e di assistenza continua per il compimento dei normali atti della vita quotidiana. In questo contesto si verificano casi di abbandono e di maltratta¬menti per responsabilità di amministratori e operatori di strutture assistenziali che si comportano in violazione dei loro doveri contro gli assistiti. Le vittime, normalmente, sono persone incapaci di difendersi e di presentare denuncia penale contro i responsabili.
Il codice penale non prevede autonome figure di reato riferite specificamente alla responsabilità penale di amministratori e operatori di strutture e istituti che in violazione dei loro doveri, mettono in pericolo la salute degli utenti o causano danni agli stessi.
L’articolo 591 del codice penale prevede un’unica fattispecie criminosa per tutti i casi di “abban¬dono di persone minori o incapaci”. Nel paragrafo precedente sono state ricordate alcune decisioni significative di condanna nei confronti di amministratori di strutture assistenziali per abbandono di ricoverati anziani malati non autosufficienti lasciati in pessime condizioni igienico-sanitarie. La condotta criminosa del delitto in questione consiste nel lasciare la persona incapace in balia di se stessa o di soggetti inidonei a provvedere adeguatamente alla sua custodia ed alla cura o, comun¬que, insufficienti allo scopo, in modo tale che derivi un pericolo per la incolumità personale.
In giurisprudenza, come si è visto nel paragrafo precedente, è fatta applicazione del reato di mal-trattamenti ma, non è previsto – come si diceva – un delitto specifico relativo ai maltrattamenti perpetrati in istituto e in strutture di cura e di assistenza contro i ricoverati. Attualmente le ipotesi in questione ricadono dunque nell’ambito del reato di maltrattamenti in generale.
Prendendo in considerazione il problema dei maltrattamenti contro assistiti ricoverati ricorrono elementi tipici di gravità che impongono la previsione di autonome figure di reato. Occorre consi¬derare che ricorrono spesso in questi casi sia omissioni di cura e di assistenza, mancanza di igiene, pasti preparati con alimenti avariati o in cattivo stato di conservazione, e altri fatti che incidono negativamente sulle condizioni di vita di una pluralità di assistiti. Sia comportamenti vessatori che si manifestano attraverso un’aggressione abituale diretta contro una o più persone ricoverate.
Ai contesti di cui si è detto fanno riferimento alcune decisioni in giurisprudenza.
Così per esempio Cass. pen. Sez. VI, 5 dicembre 2007, n. 6581 ha precisato che integra il reato di maltrattamenti, previsto dall’art. 572 c.p., la condotta degli operatori di una casa di cura destinata ad accogliere pazienti affetti da gravi disturbi psichici; condotta sostanziatasi nel somministrare ai malati massicce dosi di sedativi, al fine di non dover prestar loro assistenza nel corso della notte o in altre circostanze. Lo stato di prostrazione determinato dall’abuso dei farmaci integra, invero, una grave causa di sofferenza, idonea a concretizzare la materialità del reato di cui all’art. 572 c.p.
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 21 maggio 2012, n. 30780 integra il delitto di maltrattamen¬ti – e non solo quello di “abuso di autorità contro arrestati o detenuti”, reato istantaneo che può concorrere con quello di maltrattamenti – la reiterata e sistematica condotta violenta, vessatoria, umiliante e denigrante da parte degli agenti della polizia penitenziaria nei confronti di detenuti in ambiente carcerario e per tal motivo sottoposti alla loro autorità o, in ogni caso, a loro affidati per ragioni di vigilanza e custodia. .
Le pratiche persecutorie realizzate fuori dello stretto ambito familiare possono integrare il delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p. anche all’interno di comunità come quelle carcerarie, nell’ambito delle quali il rapporto tra agente e parte offesa, che vede il primo ricoprire una posizione di supre¬mazia formale e sostanziale nei confronti della seconda, assume natura para-familiare, poiché tale rapporto è caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i due soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione anche solo psico¬logica; ne deriva che condotte vessatorie, umilianti e denigranti cui vengano sottoposti i detenuti possono ricondursi all’elemento materiale del reato di maltrattamenti in famiglia
VIII Il mobbing: reato di maltrattamenti solo nelle realtà lavorative para-familiari?
I rapporti di lavoro (l’esercizio di una professione o di un’arte) costituiscono un altro contesti significativo in cui la giurisprudenza si è soffermata nell’esplorare la configurabilità del reato di maltrattamenti.
Molto esplicita sul punto Cass. pen. Sez. VI, 25 novembre 2010, n. 44803 secondo cui la con¬figurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p. richiede la sussistenza di un rapporto, tra l’agente ed il soggetto passivo, caratterizzato da un potere autoritativo, esercitato di fatto o di diritto, dal primo sul secondo, il quale versa in una condizione di apprezzabile soggezione. La descritta situazione, tradizionalmente confinata in ambito familiare, è stata successivamente estesa anche ai rapporti educativi, di istruzione, cura, vigilanza e custodia, ovvero quelli che si instaurano in ambito lavo¬rativo. In relazione a tale ultimo rapporto, in particolare, è necessario che il soggetto agente versi in una posizione di supremazia non solo formale ma sostanziale, la quale si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere specularmente ipotizzabile un’apprezzabile soggezione del soggetto passivo ad opera di quello attivo.
In questi ultimi anni molte decisioni hanno riconosciuto la configurabilità del delitto di maltratta¬menti in ambito lavorativo. Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 16 aprile 2014, n. 17689 secondo cui commette il reato di cui all’art. 572 c.p. il preside di un liceo che abbia maltrattato una pro¬fessoressa, insegnante in quell’istituto, a lui sottoposta per ragioni lavorative e di ordinamento, facendola oggetto di persecuzioni e di vessazioni; Cass. pen. Sez. VI, 2 novembre 2010, n. 774 che afferma che il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro o sovraordinato gerarchico e lavoratore dipendente, essendo caratterizzato dal potere direttivo e/o disciplinare che la legge attribuisce ai primi nei confronti del secondo, pone quest’ultimo nella condizione, specifi¬camente prevista dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., di “persona sottoposta” alla “autorità” di altri, con conseguente astratta configurabilità della stessa a carico del sovraordinato; Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2009, n. 21537 secondo cui in tema di reato di maltrattamenti, rientra nel rapporto d’autorità di cui all’art. 572 c.p. il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, in quanto caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al primo nei confronti del secondo; Cass. pen. Sez. VI, 5 febbraio 2009, n. 16031 che afferma che ai sensi degli artt. 36 e 37 D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, il Consigliere regionale di parità è legittimato a costituirsi parte civile, ex art. 74 c.p.p., nella veste di “danneg¬giato” dal reato di maltrattamenti commessi nei confronti di più lavoratori con atti e comportamenti a carattere discriminatorio, anche al fine di ottenere il ristoro del danno non patrimoniale subito; Cass. pen. Sez. III, 5 giugno 2008, n. 27469 secondo cui tra i soggetti passivi del delitto di maltrattamenti, di cui all’art. 572 c.p., rientrano anche coloro che sono sottoposti all’autorità dell’a¬gente o sono al medesimo affidati per ragioni di istruzione o di educazione. Il rapporto di autorità sussiste, in particolare, fra il datore di lavoro e il lavoratore dipendente, essendo, quest’ultimo, sot¬toposto al potere direttivo e disciplinare del primo. In tal caso, per la configurabilità del reato non è necessaria la convivenza, ma è sufficiente che tra i due sussista un rapporto di tipo continuativo.
Già in anni lontani altre sentenze aveva affrontato l’argomento. Per esempio Cass. pen. Sez. II, 18 marzo 1986, n. 7382 aveva affermato che “il reato di maltrattamenti, tipico delitto contro la famiglia, è configurabile, in una sua più vasta accezione, nei casi in cui la degenerazione dell’uso dei mezzi di correzione colpisca persone collegate all’agente da un rapporto di dipendenza o per lo svolgimento di una professione o di un’arte; in tal caso, però, l’illiceità del trattamento deve consistere in una sistematica persecuzione suggerita da odio, malanimo, disprezzo, crudeltà fine a se stessa, riconducibili alla determinazione dell’agente di arrecare sofferenze fisiche e morali”.
Particolarmente si presenta Cass. pen. Sez. VI, 28 settembre 2016, n. 51591 secondo cui in tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previ¬sto dall’art. 571 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’art. 572 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico (nella specie, lancio di oggetti verso il dipendente e imposizione di stare seduto per lungo tempo davanti alla scrivania del datore di lavoro senza svolgere alcuna funzione).
Una volta ammesso che anche nell’ambito lavorativo sia configurabile il delitto di maltrattamento si tratta di verificare se il delitto possa configurarsi in presenza di quella particolare modalità di maltrattare un dipendente che va sotto il nome di mobbing.
Si tratta di un comportamento consistente in una serie di atti (anche se singolarmente considerati eventualmente leciti) che hanno lo scopo di perseguitare un lavoratore per emarginarlo e spingerlo a presentare le dimissioni o ad accettare mansioni diverse o inferiori. Una condotta, quindi, con¬siderata nel suo complesso, certamente lesiva della dignità professionale e umana del lavoratore.
Quanto questo comportamento è realizzato dal datore di lavoro (o comunque da un superiore) nei confronti di un dipendente prende anche il nome di mobbing verticale mentre se questa pratica viene realizzata da alcuni lavoratori nei confronti di un loro collega ritenuto da emarginare per i più svariati motivi (politici, etnici, razziali, di orientamento sessuale) si parla mobbing orizzontale.
Il tema è stato affrontato in particolare per le pratiche di mobbing (inquadrate in genere nel delitto di “violenza privata”: Cass. pen. Sez. VI, 8 marzo 2006, n. 31413 in una vicenda all’Ilva di Taranto) cioè per quelle pratiche consistenti in una serie di atti che hanno lo scopo di perseguita¬re un dipendente per emarginarlo e, in sostanza, attraverso la lesione della sua dignità umana e professionale, spingerlo a presentare le dimissioni o ad accettare un declassamento della qualifica. Il mobbing in genere non si esaurisce in un’unica condotta, ma richiede una molteplicità di com¬portamenti diversi, che si esprimono attraverso una vera e propria attività persecutoria finalizzata all’emarginazione o all’espulsione dall’ambiente lavorativo della vittima e proprio per questo se ne suggerisce l’assimilazione al reato di maltrattamenti che presenta la stessa abitualità e continuità di comportamenti.
Ebbene il mobbing può integrare il delitto di “maltrattamenti” (reclusione da due a sei anni) o è inevitabilmente destinato a rimanere “violenza privata” (reclusione fino a quattro anni)?
Per esempio secondo Cass. pen. Sez. VI, 25 novembre 2010, n. 44803 – sopra citata – integra il reato di violenza privata e non il reato di maltrattamenti in famiglia la condotta violenta e mi¬nacciosa reiteratamente posta in essere da un capo officina nei confronti di un meccanico, in modo da costringere il lavoratore, nel contesto di un’azienda organicamente strutturata, a tollerare una situazione di denigrazione e deprezzamento delle sue qualità lavorative È configurabile il reato di violenza privata aggravata ex art. 61, n. 11, c.p., e non già quello di maltrattamenti in famiglia, al cospetto di comportamenti mortificanti compiuti da un capofficina nei confronti di un meccanico nel contesto di un’azienda strutturata in maniera non riconducibile ad ambiti familiari.
Secondo una tra le più articolate decisioni sul punto (Cass. pen. Sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594) “il mobbing è punibile ai sensi dell’art. 572 c.p. solo con riferimento al rapporto lavorativo di natura para-familiare, ove si verifichi l’alterazione della funzione di quel rapporto attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo. Nella sentenza si leg¬ge che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratteriz¬zato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (nella vicenda è stata esclusa la sussistenza del reato in relazione alle vessazioni subite dalla dipendente di un’azienda di grandi dimensioni).
La sentenza – la cui impostazione, come si vedrà, verrà testualmente riproposta in tutte le altre successive che ad essa faranno pedissequo riferimento – non è del tutto convincente, dal momento che fonda la sua ragione giustificatrice sul fatto che il delitto di cui all’art. 572 c.p. avrebbe come bene tutelato quello della famiglia e delle relazioni familiari e da questa considerazione fa discen¬dere logicamente che esso potrebbe trovare applicazione solo in relazioni di lavoro para-familiare.
Se, tuttavia, il bene tutelato dalla disposizione penale di cui all’art. 572 c.p. non è la famiglia ma la persona nelle sue relazioni vitali assimilabili alle “formazioni sociali in cui si svolge la sua personali¬tà” (art. 2 Costituzione) dovrebbe conseguirne che i “maltrattamenti” potrebbero configurarsi anche nelle relazioni lavorative quali che sia il tipo di organizzazione del lavoro o la dimensione dell’azienda.
Tuttavia la giurisprudenza è ancora fortemente legata in questo settore all’orientamento che ritie¬ne ammissibile la configurabilità come maltrattamenti del mobbing solo se realizzato all’interno di una realtà lavorativa para-familiare.
Nella motivazione della sentenza capofila sopra richiamata (Cass. pen. Sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594) la premessa – ma non le conseguenze che se traggono – appafrecondivisibile. Si legge infatti che il mobbing è solo vagamente assimilabile alla previsione di cui all’art. 572 c.p., ma di questa non condivide tout court, quasi per automatismo, tutti gli elementi tipici. Ed invero, sia l’art. 571 c.p. che l’art. 572 c.p., indicano come soggetto passivo delle rispettivi; previsioni anche la “persona sottoposta all’autorità dell’agente o a lui affidata…per l’esercizio di una professione o di un’arte”. La formula linguistica utilizzata postula il chiaro riferimento a rapporti implicanti una subordinazione, sia essa giuridica o di mero fatto, la quale – da un lato – può indurre il soggetto attivo a tenere una condotta abitualmente prevaricatrice verso il soggetto passivo e – dall’altro – rende difficile a quest’ultimo di sottrarvisi, con conseguenti avvilimento ed umiliazione della sua personalità. Proprio incidendo sulle nozioni di “subordinazione ad autorità” e di “affidamento”, può farsi rientrare nella corrispondente situazione, come parte della dottrina e della, giurisprudenza ritiene, anche il rapporto che lega il lavoratore al datore di lavoro.
È il seguito della sentenza che, in relazione a quanto sopra detto in ordine al bene tutelato dall’art. 572 c.p. – non appare del tutto convivente.
Scrivono i giudici infatti che “L’affermazione merita, però, una precisazione. Osserva, invero, la Corte che tale rapporto, avuto riguardo alla ratio delle richiamate norme e, in particolare, a quella di cui all’art. 572 c.p., deve comunque essere caratterizzato da “familiarità”, nel senso che, pur non inquadrandosi nel contesto tipico della “famiglia”, deve comportare relazioni abituali e inten¬se, consuetudini di vita tra i soggetti, la soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia-soggezione), la fiducia riposta dal soggetto passivo nel soggetto attivo, destinatario quest’ultimo di obblighi di assistenza verso il primo, perché parte più debole. E’ soltanto nel li¬mitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della funzione del medesimo rapporto attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti: si pensi, esemplifi¬cativamente, al rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o a quello che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista. L’inserimento dei maltrattamenti tra i delitti contro l’assistenza familiare è in linea col ruolo che la stessa Costituzione assegna alla “famiglia”, quale società intermedia destinata alla formazione e all’affermazione della personalità dei suoi componenti, e nella stessa ottica vanno letti e interpre¬tati soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per una natura para-familiare.
Insomma solo la para-familiarità della relazione di lavoro (e non tanto la relazione di lavoro in sé) sarebbe, secondo la giurisprudenza, il contesto di punibilità dell’art. 572 codice penale.
È questo l’orientamento che tutte le decisioni di legittimità successive hanno di fatto poi adottato, con l’unica eccezione di Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2009, n. 28553 (in un caso di mobbing all’interno di un’azienda municipalizzata per lo smaltimento dei rifiuti urbani) dove si è ritenuta – sia pure ai fini di una valutazione di legittimità di una misura cautelare – sussumibile la condotta vessatoria integrante “mobbing” nel reato di maltrattamenti.
Per il resto tutte le decisioni successive si sono adeguate all’indirizzo interpretativo che limita la possibile incriminazione per maltrattamenti ai soli casi di mobbing nelle relazioni lavorative di tipo para-familiare in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, come tale, desti¬natario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (Cass. pen. Sez. III, 17 settembre 2018, n. 55348; Cass. pen. Sez. VI, 7 giugno 2018, n. 39920, Cass. pen. Sez. V, 29 marzo 2018, n. 3236; Cass. pen. Sez. VI, 13 febbraio 2018, n. 14754; Cass. pen. Sez. II, 6 di¬cembre 2017, n. 7639; Cass. pen. Sez. VI, 29 giugno 2017, n. 39338; Cass. pen. Sez. VI, 28 settembre 2016, n. 51591; Cass. pen. Sez. VI, 1 giugno 2016, n. 26766; Cass. pen. Sez. VI, 29 settembre 2015, n. 45077; Cass. pen. Sez. VI, 1 settembre 2015, n. 44589; Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 2014, n. 31713; Cass. pen. Sez. VI, 19 giugno 2014, n. 47896; Cass. pen. Sez. VI, 11 aprile 2014, n. 24057; Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416; Cass. pen. Sez. VI, 16 ottobre 2014, n. 49545; Cass. pen. Sez. VI, 19 marzo 2014, n. 24642; Cass. pen. Sez. VI, 5 marzo 2014, n. 13088; Cass. pen. Sez. VI, 13 gen¬naio 2012, n. 19392 e Cass. pen. Sez. VI, 11 aprile 2012, n. 16094; Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12517; Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2011, n. 24575; Cass. pen. Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 16164; Cass. pen. Sez. VI, 10 ottobre 2011, n. 43100; Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2010, n. 685).
L’interpretazione consolidata ha portato anche Cass. pen. Sez. VI, 9 febbraio 2018, n. 10784 a considerare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 572 c.p. eccepita in relazione agli artt. 32, 35 e 41 Cost. nella parte in cui limita la configurabilità nei luoghi di lavoro del delitto di maltrattamenti all’ipotesi in cui il rapporto tra datore di lavoro e dipendente assuma natura parafamiliare.
Quindi secondo la giurisprudenza si deve escludere che, all’interno di una struttura lavorativa non di tipo para-familiare, sia configurabile un rapporto di subordinazione lavorativa che consenta di ipotizzare il delitto di maltrattamenti in famiglia. Al fine, quindi, di ravvisare il delitto di maltrat¬tamenti è insufficiente la condizione di subalternità del dipendente, così come la quotidianità dei rapporti intercorrenti nel corso dell’orario lavorativo, occorrendo, invece, la verifica che le dinami¬che relazionali in seno all’azienda o all’ufficio riproducano le relazioni di prossimità permanente ed il clima di confidenzialità sussistente all’interno di una comunità assimilabile a quella del consorzio familiare
Singolare e paradossale la conclusione di Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2013, n. 28603 dove in una articolata motivazione si scrive che il reato sussisterebbe “in via esemplificativa, nel rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o a quello che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista”.
L’interpretazione è sempre quella riduttiva della collocazione formale dell’art. 572 c.p. tra i reati contro la famiglia.
Secondo la giurisprudenza l’inserimento dell’art. 572 c.p. tra i delitti contro l’assistenza familiare si pone in linea con il ruolo che la stessa Costituzione assegna alla “famiglia”, quale società inter¬media destinata alla formazione e all’affermazione della personalità dei suoi componenti, e nella stessa prospettiva ermeneutica vanno letti ed interpretati soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per una natura para-familiare”.
Ed è evidente quindi – ma non condivisibile – il ragionamento che se ne fa conseguire e cioè che siffatta connotazione deve escludersi allorché la posizione lavorativa della vittima sia inquadrata all’interno di una realtà aziendale complessa la cui articolata organizzazione non implica l’instau¬rarsi di quella stretta ed intensa relazione diretta tra il datore di lavoro ed il dipendente, che appare in grado di determinarne una comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare. Non sarebbe in alcun modo apprezzabile, all’interno di tale organizzazione, la riduzione del soggetto più debole in una condizione esistenziale dolorosa ed intollerabile a causa della so¬praffazione sistematica di cui egli sarebbe rimasto vittima all’interno di un rapporto quanto meno assimilabile a quello di natura familiare.
Se, da un lato, è vero – si legge per esempio in Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2013, n. 28603 – che l’art. 572 c.p. ha “allargato” l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di mal¬trattamenti anche oltre quello strettamente endo-familiare, è pur vero, dall’altro, che la fattispecie incriminatrice è inserita nel titolo dei delitti in materia familiare sicché non può ritenersi idoneo a configurarla il mero contesto di un generico rapporto di subordinazione/sovraordinazione. Da qui la ragione dell’indicazione del requisito della parafamiliarità del rapporto di sovraordinazione, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di pros¬simità permanente, d abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. Se così non fosse ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro dovrebbe, per ciò solo, configurare una sorta di comunità (para)familiare, idonea ad imporre la qualificazione in termini di violazione dell’art. 572 c.p., di condotte che, pur di eguale contenuto ma poste in essere in un contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile. Né, infine, potrebbero trarsi, al riguardo, argomenti in senso contrario dall’analisi della recente interpolazione del testo normativo attraverso la modifica introdotta dalla novella legislativa n. 172 del 1 ottobre 2012. L’art. 4, comma 1, lett. d), della legge citata ha sostituito l’art. 572 c.p., novellandone la rubrica, ora denominata “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”, ed aggiungendo i conviventi nel novero dei soggetti passivi del reato, ma la natura (abituale) e la struttura del reato di maltrattamenti (prima “in famiglia o verso fanciulli”, ora “contro familiari e conviventi”) sono rimaste sostanzialmente immutate. Le novità, infatti, riguardano essenzialmente la previsione di un complessivo inasprimento del trattamento sanzio¬natorio e l’estensione della tutela nei confronti di persone “comunque conviventi”, in una prospet¬tiva orientata, per un verso, a valorizzare l’incidenza della relazione intersoggettiva nell’ambito di operatività della fattispecie, e, per altro verso, ad allargare anche ad un rapporto di mera “convi¬venza” – non necessariamente qualificato dalla particolare natura del legame che ha portato alla sua instaurazione – la rilevanza del rapporto “familiare”, ferme restando le altre relazioni di tipo non propriamente familiare, la cui elencazione è rimasta immutata”.
Naturalmente al di fuori del mobbing l’uso della violenza nelle relazioni tra datore di lavoro e lavoratori, quando anche sorretto da asserite finalità disciplinari, integra comunque il reato di maltrattamenti come ha ben messo in evidenza Cass. pen. Sez. VI, 22 gennaio 2001, n. 100 trattando del tema – di cui si parlerà più oltre – del rapporto tra maltrattamenti e abuso dei mezzi di correzione e affermando che integra il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p., e non invece quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina ( art. 571 c.p.), la condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipen¬denti. Nella specie il datore di lavoro e i preposti avevano sottoposto i propri subordinati a varie vessazioni, accompagnate da minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle retribuzioni pattuite, che venivano corrisposte su libretti di risparmio intestati ai lavoratori ma tenuti dal datore di lavoro, che così li mantenevano in uno stato di sottomissione e umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro intensissimi.
IX Il dolo nel reato di maltrattamenti
Si è esaminata nei paragrafi precedenti la condotta che il codice penale considera quale delitto di maltrattamenti nei diversi ambiti in cui esso appare configurabile.
A tale proposito va anche detto che secondo Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2011, n. 24575 il reato di maltrattamenti in famiglia configura un reato proprio, potendo essere commesso soltan¬to da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “autorità” o peculiare “affidamento” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’art. 572 del codice penale. L’affermazione appare troppo perentoria dal momento che certamente an¬che il comportamento maltrattante posto in essere da un figlio minore nei confronti della madre può integrare il delitto in questione, ancorché il figlio non ricopra nessuna posizione dominante nella famiglia.
a) La coscienza e volontà del comportamento maltrattante
Ciò premesso interessa però indagare meglio l’elemento soggettivo del reato. Su di esso ci si è già in parte soffermati allorché sono state esaminate le differenze tra il reato di maltrattamenti e quello di abuso dei mezzi di correzione.
Molteplici sono le decisioni che hanno indagato la natura del dolo nel reato di maltrattamenti.
Già si è accennato – trattando delle differenze tra maltrattamenti e abuso dei mezzi di correzione – a Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2005, n. 39927 che ha ribadito in anni recenti un cri¬terio sul quale ormai concorda pressoché tutta la giurisprudenza. La sentenza afferma che per la configurabilità del reato di maltrattamenti l’art. 572 cod. pen. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità.
Il principio che il dolo nei maltrattamenti è generico (la coscienza e la volontà del comportamento maltrattante) è comunque un principio consolidato in giurisprudenza.
Così per esempio Cass. pen. Sez. VI, 12 aprile 2006, n. 26235 afferma che per configurare l’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia non è necessario che l’agente abbia perseguito particolari finalità né il pravo proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o mo¬rali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico, cioè la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo e abituale. Il dolo del reato, in altri termini, consiste nell’inclinazione della volontà a una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va “progressivamente” realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persi¬stere in un’ attività illecita, posta in essere altre volte; con la conseguenza che tali singole sopraf¬fazioni, realizzate in momenti successivi, risultano collegate da un nesso di abitualità e avvinte nel loro svolgimento dall’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo. Ugualmente secondo Cass. pen. Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142 nel delitto di maltrattamenti in famiglia il dolo è generico, sicché non si richiede che il soggetto attivo sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e la volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva. Anche per Cass. pen. Sez. II, 20 settem-bre 2011, n. 41011 i comportamenti volgari, irriguardosi e umilianti, caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali ed ingiuriose poste in essere nei confronti del coniuge, posso¬no configurare il reato di maltrattamenti quando, valutati unitariamente, evidenziano l’esistenza di una volontà finalizzata a realizzare un regime di vita avvilente e mortificante per il coniuge stesso.
Tutti principi ribaditi negli ultimi anni.
Per esempio Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 1400 afferma che è idonea ad integrare il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia la coscienza e volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza. E’ sufficiente che le condotte vessatorie siano tenu¬te nella consapevolezza della loro ripetizione e della loro idoneità a creare una stabile e dolorosa patologia della vita familiare. Il dolo non richiede la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo, invece, sufficiente la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima medesima.
Nel delitto di maltrattamenti in famiglia – secondo tutta la giurisprudenza – il dolo è generico, sicché non si richiede che il soggetto attivo sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e la volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva (Cass. pen. Sez. VI, 20 novembre 2018, n. 761; Cass. pen. Sez. III, 26 ottobre 2018, n. 1508).
Su questi concetti la giurisprudenza è praticamente sterminata: Cass. pen. Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142; Cass. pen. Sez. VI, 24 febbraio 1998, n. 4080; Cass. pen. Sez. VI, 22 feb¬braio 1994, n. 6319; Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 16836; Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2010, n. 12798; Cass. pen. Sez. VI, 26 febbraio 2009, n. 14409; Cass. pen. Sez. VI, 18 novembre 2008, n. 45808; Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2008, n. 27048; Cass. pen. Sez. VI, 8 gennaio 2008, n. 16982; Cass. pen. Sez. VI, 11 gennaio 2007, n. 4139; Cass. pen. Sez. VI, 8 gennaio 2004, n. 4933; Cass. pen., 11 dicembre 2003, n. 6541; Cass. pen. Sez. VI, 2 ottobre 1997, n. 11471; Cass. pen. Sez. VI, 27 ottobre 1997, n. 11476).
b) La non necessità di un programma criminoso
Un contrasto sembra esistere tra Cass. pen. Sez. VI, 6 novembre 1991 (dove si afferma che l’elemento unificatore dei singoli episodi è costituito da un dolo unitario di carattere programma¬tico, che unifica le diverse azioni, che consiste nell’orientamento della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si realizza e si conferma progressivamente, in modo che l’agente accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consa¬pevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte) e Cass. pen. Sez. VI, 6 ottobre 2017, n. 49997 dove invece si ribadisce che l’elemento soggettivo richiesto dal reato di cui all’art. 572 c.p. è integrato dalla consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’atti¬vità delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, “non essendo necessaria la sussistenza di uno specifico programma criminoso”. Ed in effetti il riferimento al programma criminoso sembra richiamare più il concetto di dolo specifico che quello di dolo generico. Anche per Cass. pen. Sez. III, 7 aprile 2017, n. 4183 e Cass,. pen. Sez. VI, 24 gennaio 2017, n. 17574 il delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo, invece, sufficienti la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima.
c) Il dolo nei maltrattamenti a condotta omissiva
Come si è detto il delitto può essere integrato anche da condotte omissive, individuabili – quanto al dolo – nel deliberato astenersi, da parte del responsabile dell’educazione e dell’assistenza al minore, dall’impedire gli effetti illegittimi di una propria condotta maltrattante diretta (Cass. pen. Sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 4332; Cass. pen. Sez. VI, 17 gennaio 2013, n. 9724; Cass. pen. Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142; Cass. pen. Sez. VI, 30 maggio 1990, n. 394).
d) Maltrattamenti e tensioni familiari
Non del tutto convincente appare un certo orientamento riduttivo che tende a non fare appli¬cazione del delitto di maltrattamenti nei casi di forte tensione familiare o coniugale, come se la tensione nei rapporti personali potesse in qualche modo giustificare l’uso della violenza abituale. Così per esempio Cass. pen. Sez. VI, 4 novembre 2008, n. 649 afferma che il congiunto non va condannato per il reato di maltrattamenti se i continui litigi con l’altro coniuge si inquadrano in un contesto di permanente tensione caratterizzante la vita familiare e può in tal caso difettare l’elemento soggettivo del reato.
A questo indirizzo si contrappongono, però, decisamente altre decisioni tra cui Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2008, n. 35963 (dove si legge che il reato di maltrattamenti può evidenziarsi anche in un contesto familiare caratterizzato da forti tensioni ascrivibili ad entrambi i protagonisti della controversia (nel caso di specie due coniugi), tra i quali viene a crearsi un clima di reciproca insofferenza e intollerabilità. Una tale situazione infatti, deve essere gestita comunque in modo equilibrato, nel rispetto delle regole di civile convivenza e della dignità fisica e morale della perso¬na e non legittima reazioni che insistono su condotte abitualmente proiettate all’aggressione, alla mortificazione e all’umiliazione della controparte. La provocazione da parte del soggetto passivo non costituisce pertanto causa di esclusione del reato di maltrattamenti, la di cui pena non può essere perciò esclusa o diminuita) e Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2008, n. 35862 secondo cui il reato di cui all’art. 572 c.p. può sussistere anche in un contesto familiare caratterizzato da forti tensioni ascrivibili a entrambi i coniugi, tra i quali viene a crearsi un clima di reciproca insofferenza e intollerabilità, considerato che tale situazione non legittima reazioni che insistono su condotte abitualmente proiettate all’aggressione, alla mortificazione e all’umiliazione della controparte. In tal caso, la provocazione del soggetto passivo, se provata, è in astratto compatibile con il reato di maltrattamenti, il quale potrà semmai essere attenuato nelle conseguenze sanzionatorie in rela¬zione ai singoli episodi ai quali la provocazione si riferisce.
X Maltrattamenti e differenze culturali (i cosiddetti reati culturalmente orientati)
La giurisprudenza ha affrontato anche il tema delle differenze culturali quale possibile causa giu¬stificatrice della violenza e dei maltrattamenti risolvendolo nel senso di escludere che il delitto di maltrattamenti possa essere scriminato dai contesti culturali nei quali si evidenzia.
Si parla di reati “culturalmente orientati” quando un’azione commessa da un appartenente ad una diversa cultura, pur se considerata come reato dal sistema penale viene giustificata, accettata, promossa o approvata all’interno del proprio gruppo di appartenenza. E’ evidente in questi casi lo sforzo del giudice di mediare tra opposte esigenze: da un lato, il riconoscimento ed il rispetto della “diversità” culturale, dall’altro lato, la credibilità e l’efficienza del sistema penale.
Alcuni autori hanno messo in luce questo fenomeno richiamando il concetto di cultural defence del quale si parla nella letteratura giuridica statunitense per alludere ad una causa di esclusione o di diminuzione della responsabilità penale, invocabile (all’interno della legittima difesa, dell’errore di fatto, della non intenzionalità offensiva, ma anche della semi imputabilità) da un soggetto appar¬tenente ad una minoranza etnica con cultura, costumi e religione diversi o addirittura contrastanti con quelli propri del sistema dominante.
L’art. 27 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, stabilisce che “negli Stati in cui vi sono minoranze etniche, religiose o linguistiche, le persone appartenenti a queste minoranze non possono essere private del diritto di avere, in comune con gli altri membri del loro gruppo, la propria vita culturale, di professare e praticare la loro religione, di utilizzare la loro lingua”.
La questione centrale – esaminata dalle decisioni che in Italia si sono occupate di questo proble¬ma – è se riconoscere ed accettare il diritto alla diversità comporta avallare necessariamente usi e costumi differenti e sottrarli a qualsiasi sindacato.
La Corte di cassazione ha espresso un orientamento che esclude la possibilità di invocare esimenti di tipo culturale. Si legge nelle sentenze che verranno esaminate che anche per i reati culturali o culturalmente orientati, il giudice non può sottrarsi al suo compito naturale di rendere imparziale giustizia con le norme positive vigenti, compito che. non può mai attuarsi al di fuori o contro le regole che, nel nostro sistema, fissano i limiti della condotta consentita ed i profili soggettivi che presiedono ai comportamenti, che integrano ipotesi di reato, nella cornice della irrilevanza della ignorantia iuris.
Già in una decisione resa alla fine degli anni Novanta (Cass. pen. Sez. VI, 20 novembre 1999, n. 3398) la Corte di cassazione ebbe a precisare che il reato di maltrattamenti in famiglia non può essere scriminato dal consenso dell’avente diritto, sia pure affermato sulla base di opzioni sub culturali relative ad ordinamenti diversi da quello italiano. Dette sub culture, infatti, ove vigenti, si porrebbero in assoluto contrasto con i principi che stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili dell’uopo sanciti dall’art. 2 della Costitu¬zione i quali trovano specifica considerazione in materia di diritto di famiglia negli art. 29 – 31 della Costituzione. (in questa vicenda la scriminante del consenso dell’avente diritto era stata fondata sull’origine albanese dell’imputato e delle persone offese per le quali varrebbe un concetto dei rapporti familiari diverso da quello vigente nel nostro ordinamento).
Pertanto il soggetto resosi responsabile di maltrattamenti in famiglia non può invocare a proprio favore la scriminante di cui all’art. 50 c.p. (consenso dell’avente diritto) neppure adducendo a sostegno di ciò l’esistenza, nel proprio paese di origine (nella specie tanto l’imputato quanto le vittime erano di nazionalità albanese), di una concezione della convivenza familiare e dei poteri del capo famiglia secondo cui comportamenti come quelli inquadrabili, secondo l’ordinamento italiano, nella suddetta figura di reato sarebbero invece accettati come normali
Alcuni anni dopo la Corte di cassazione ribadì molto perentoriamente lo stesso concetto afferman¬do che le differenze culturali non possono legittimare comportamenti in contrasto con i principi fondamentali ai quali si ispira il nostro ordinamento giuridico. Si tratta di Cass. pen. Sez. VI, 8 novembre 2002, n. 55 che si trovò a precisare che il reato di maltrattamenti in famiglia “è integrato dalla condotta dell’agente che sottopone la moglie ad atti di vessazione reiterata e tali da cagionarle sofferenza, prevaricazione e umiliazioni, costituenti fonti di uno stato di disagio continuo e incompatibile con normali condizioni di esistenza. Né l’elemento soggettivo del reato in questione può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi, perciò, particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare, in quanto si tratta di concezioni che si pongono in assoluto contrasto con le norme che stanno alla base dell’ordinamento giuridi¬co italiano, considerato che la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, cui è certamente da ascrivere la famiglia (art.2 Cost.), nonché il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (art. 3 Cost., commi 1 e 2) costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione di diritto o di fatto nella società civile di consuetudini, prassi o costumi con esso assolutamente incompatibili.
Successivamente anche Cass. pen. Sez. VI, 26 novembre 2008, n. 46300 ribadì l’estraneità al nostro sistema positivo di qualsiasi esimente culturale nei reati contro la persona, affermando con chiarezza l’orientamento giurisprudenziale già affermatosi in Italia in tema di reati culturalmente orientati, argomentando incisivamente il netto rifiuto nei confronti di un’applicazione “culturalmen¬te differenziata” del diritto penale, calibrata cioè sulle tradizioni religiose, etniche e culturali del destinatario della norma penale.
Gli stessi principi affermarono Cass. pen. Sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 22700; Cass. pen. Sez. VI, 26 marzo 2009, n. 32824 e Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 2009, n. 48272.
Pertanto le differenti tradizioni che regolano i rapporti familiari in società culturalmente diverse non eliminano il disvalore del fatto di maltrattamenti, né sono di per sé idonee a giustificare l’ap¬plicazione delle circostanze attenuanti generiche e ugualmente fece
Perciò relativamente ai reati cosiddetti culturali, qualificati dal fatto che la norma penale va appli¬cata nei confronti di soggetti di cultura ed etnia diversa, i quali risultino portatori di tradizioni so¬ciologiche e abitudini antropologiche confliggenti con la norma penale, il giudice non può sottrarsi al suo compito di applicare le norme vigenti, non potendosi ammettere qualsivoglia soluzione in¬terpretativa che pretenda di escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, invocando le convinzioni religiose ed il retaggio culturale dell’imputato, perché tale interpretazione finirebbe col porsi in contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano
L’orientamento è stato ribadito da Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12089 secondo cui ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti familiari (nella specie, nei confronti della figlia minorenne perché non in grado di ripetere perfettamente a memoria i versi del corano) non rileva la supposta finalità educativa fondata sul codice etico-religioso del padre di religione musulmana, trattandosi di violazione dei diritti inviolabili della persona i quali rappresen¬tano uno “sbarramento invalicabile” contro l’introduzione di consuetudini, prassi e costumi “anti¬storici” contrastanti con i diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione. Ancora più di recente Cass. pen. Sez. III, 29 gennaio 2015, n. 14960 osserva che in tema di cause di giustificazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia (nella specie: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare) non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà asserita¬mente riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell’ordinamento italiano, in cui l’agente ha scelto di vivere, attesa l’esigenza di valorizzare – in linea con l’art. 3 della Costituzione. – la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l’instaurazione di una società civile multietnica. Nello stesso senso si è espressa Cass. pen. Sez. VI, 2 settembre 2019, n. 36832 secondo cui i comportamenti maltrattanti non possono mai ritenersi compatibili e giustificabili con un intento correttivo ed edu¬cativo proprio della concezione culturale di cui l’agente è portatore.
XI Gli eventi ulteriori non voluti
Ai maltrattamenti può conseguire un evento non voluto (per esempio le lesioni o la morte della vit¬tima) oppure un evento che non era prevedibile o che si poteva in qualche modo prevedere come potrebbe essere il suicidio della persona offesa.
L’art. 572 c.p. prevede al terzo comma che “Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Come si è sopra visto il reato di “maltrattamenti in famiglia” è costituto da comportamenti che ac¬quistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo e che possono consistere in percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche in atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità che si risolvano in una condizione – ed in questo consiste l’evento del delitto – di generale sofferenza per la persona offesa alla quale viene di fatto imposto un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile (Cass. pen. sez. VI, 21 gennaio 2015, n. 12605; Cass. pen. Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 20126).
Non è certamente escluso che quei comportamenti possano cagionare anche lesioni gravi o gravis¬sime o addirittura la morte della persona offesa.
Il realizzarsi di questi specifici eventi ulteriori aggrava la sanzione del delitto di maltrattamenti, in base a quanto stabilisce il secondo comma dell’art. 572 c.p. e, naturalmente, rende applicabile a titolo di concorso anche il reato di lesioni o di omicidio.
Il delitto di maltrattamenti aggravato ai sensi del secondo comma dell’art. 572 c.p.c è qualificato “aggravato dall’evento” e l’evento specifico ulteriormente realizzatosi viene posto a carico dell’a¬gente – determinando l’aumento della sanzione – per il solo fatto di essersi verificato. Si tratta di delitti – come si insegna – che subiscono un aumento di pena in quanto si verifichi l’ulteriore evento dannoso o pericoloso previsto rispetto a quello richiesto per l’esistenza del reato-base: l’ulteriore evento è posto a carico dell’agente a titolo di responsabilità oggettiva. Lo prevede invia generale l’art, 42 del codice penale al terzo comma dove si legge che “la legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti [cioè né a titolo di dolo, né a titolo di colpa] a carico dell’agente come conseguenza della sua azione od omissione”.
Cass. pen. Sez. VI, 15 ottobre 2009, n. 44492 ritiene che in tema di maltrattamenti in fami¬glia, l’imputazione soggettiva dell’evento aggravante, non voluto, della morte della vittima per sui¬cidio, ne richiede la prevedibilità in concreto come conseguenza della condotta criminosa di base, in modo da escludere che sia stato oggetto di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima; mentre Cass. pen. Sez. VI, 29 novembre 2007, n. 12129 ritiene che in tema di maltrattamenti in famiglia, qualora il suicidio della persona offesa sia derivato dall’esigenza di sottrarsi alle conti¬nue sofferenze psico-fisiche cagionate abitualmente, potrà dirsi sussistente un rapporto eziologico tra la condotta dell’autore dei maltrattamenti e il suicidio; nesso che viene meno solo qualora si verifichi una causa autonoma e successiva che si inserisca nel processo causale in modo atipico.
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 20 novembre 2012, n. 46848 integra la circostanza aggravante di cui all’art. 572, secondo comma, codice penale la condotta di colui che ponga in essere fatti di mal¬trattamento nel cui ambito si inscriva un’azione “finale”, anche se compiuta da un concorrente, la quale provochi direttamente il decesso della persona offesa, quando i maltrattamenti, globalmente considerati, pure in considerazione dell’ultimo episodio di violenza, abbiano idoneità concreta ad offendere il bene vita.
Per Cass. pen. Sez. I, 21 febbraio 2003, n. 16578 non è configurabile il reato aggravato dall’evento di cui all’art. 572 c.p., comma 2, quando la morte del familiare, che sia stato fino a quel momento sottoposto a maltrattamenti, anziché essere conseguenza non voluta della condotta abituale di maltrattamenti, sia cagionata intenzionalmente. In tali circostanze non è neppure con¬figurabile il nesso teleologico tra il reato di maltrattamenti e quello di omicidio volontario, rappre¬sentando quest’ultimo un salto qualitativo rispetto ai comportamenti di prevaricazione e violenza in ambito familiare, posti in essere fino a quel momento nei confronti della vittima.
L’espressione “derivare”, contenuta nell’art. 572, comma secondo, codice penale, in tema di mal-trattamenti in famiglia o verso fanciulli seguiti da lesioni o morte della vittima, va interpretata – secondo Cass. pen. Sez. VI, 16 aprile 2010, n. 29631 – in relazione ai principi posti dall’art. 41 codice penale, ed impone quindi un rinvio alle regole con le quali viene regolamentata l’impu¬tazione oggettiva degli eventi causati dall’autore di un reato.
Secondo Cass. pen. Sez. V, 13 aprile 2010, n. 28509 integra la circostanza aggravante di cui all’art. 572, comma secondo, codice penale la condotta di colui che, incaricato di prestare assisten¬za ad una persona anziana, abbandoni quest’ultima senza cure ed assistenza per un lungo periodo, aggravandone le già precarie condizioni di salute, in quanto ai fini della sussistenza del nesso di causalità tra maltrattamenti e morte non è necessario che i fatti di maltrattamento costituiscano la causa unica ed esclusiva degli eventi più gravi, stante il principio della equivalenza delle cause o della “conditio sine qua non” ( art. 41 codice penale.
Secondo Cass. pen. Sez. I, 14 maggio 2008, n. 21329 non è configurabile l’ipotesi aggravata di cui all’art. 572, comma secondo, codice penale (morte come conseguenza non voluta dei mal¬trattamenti) – ma quella di omicidio volontario di cui all’art. 575 codice penale – nel caso in cui la morte della vittima, sottoposta a continui maltrattamenti, sia oggetto della sfera rappresentativa e volitiva dell’agente, oltre ad essere causalmente collegata alla condotta da questi posta in esse¬re; mentre secondo Cass. pen. Sez. VI, 19 febbraio /1990 sussiste la circostanza aggravante della morte derivata dal fatto dei maltrattamenti in famiglia, prevista dall’art. 572, cpv. c. p., qua¬lora il suicidio del soggetto passivo, benché non espressamente voluto, sia da mettere in sicuro e diretto collegamento con i ripetuti e gravi episodi di maltrattamenti per effetto dei quali lo stato di prostrazione indotto nella vittima sia da identificarsi quale vero e proprio trauma fisico e morale.
XII Concorso tra maltrattamenti e ed altri reati
I maltrattamenti si realizzano in genere attraverso condotte che sono costitutive della violenza, come le percosse e le minacce e che pertanto restano assorbite nel delitto di maltrattamenti. Altre volte attraverso o insieme a comportamenti che ledono o mettono in pericolo altri beni giuridici.
Non è sempre agevole individuare il criterio in base al quale, in presenza di più comportamenti che possono integrare differenti ipotesi delittuose debbano trovare applicazione le norme sul concorso (materiale o formale) di reati ovvero debba applicarsi l’art. 15 sul principio di specialità (secondo cui i maltrattamenti assorbono il reato ulteriore).
Secondo un indirizzo consolidato in giurisprudenza, nel reato di cui all’art. 572 c. p. restano assor¬biti soltanto i reati (per esempio percosse e di minacce) che sono elementi costitutivi della violenza fisica o morale propria del delitto di maltrattamenti (l’art. 84 c,p, sul reato complesso esclude l’ap¬plicazione delle regole sul concorso “quando la legge considera come elementi costitutivi o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero per se stessi reato”); per tutti gli altri reati si ha concorso – e non assorbimento – qualora il bene giuridico offeso non riguardi l’assistenza familiare,
a) Ingiuria e minacce
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 13 novembre 2012, n. 7369, Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 11140, Cass. pen. Sez. V, 14 maggio 2010, n. 22790, Cass. pen. Sez. I, 9 no¬vembre 2005, n. 7043, Cass. pen. Sez. VI, 19 giugno 2003, n. 33091 restano assorbiti nel delitto di maltrattamenti i reati di ingiuria, minacce ed atti persecutori.
b) Lesioni
Con la conseguenza che il delitto di maltrattamenti e quello di lesioni possono concorrere mate¬rialmente tra loro, poiché le lesioni personali volontarie non costituiscono sempre elemento essen¬ziale del delitto di maltrattamenti; pertanto il delitto di lesioni non può essere assorbito da quello di maltrattamenti secondo la disciplina del reato complesso, ma configurano un reato autonomo (Cass. pen. Sez. VI, 4 maggio 1982).
Come si è visto, tuttavia, se le lesioni sono gravi o gravissime troverà applicazione a titolo di re¬sponsabilità oggettiva l’ipotesi aggravata di cui all’ultimo comma dell’art. 572 codice penale.
c) Violenza privata
Per quanto concerne in generale la violenza privata (art. 610 c.p.) è pacifico in giurisprudenza che il reato di maltrattamenti non può ritenersi assorbito in quello, appunto, di violenza privata, non sol¬tanto perché è più gravemente punito rispetto al secondo, ma anche perché si tratta di delitti posti a tutela di beni giuridici diversi (Cass. pen. Sez. II, 6 dicembre 2012, n. 10994; Cass. pen. Sez. VI, 3 maggio 2011, n. 19700, Cass. pen. Sez. III, 6 maggio 2010, n. 22769; Cass. pen. Sez. VI, 11 maggio 2004, n. 28367 e, in passato, Cass. pen. Sez. I, 15 maggio 1982).
Si è già visto – trattando del mobbing – che secondo Cass. pen. Sez. VI, 25 novembre 2010, n. 44803 può integrare il reato di violenza privata e non il reato di maltrattamenti in famiglia la condotta violenta e minacciosa reiteratamente posta in essere dal datore di lavoro.
d) Violazione degli obblighi di assistenza familiare
Concorrono tra loro il delitto di maltrattamenti e quello di violazione degli obblighi di assistenza familiare avendo ad oggetto beni giuridici distinti, posti a tutela, il primo, della dignità della perso¬na, e il secondo del rispetto dell’obbligo legale di assistenza nei confronti dei familiari (Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2009, n. 4390)
e) Sequestro di persona
È del tutto pacifico anche che non è configurabile il rapporto di specialità (ma c’è concorso di reati) tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di sequestro di persona, giacché sono figure di reato dirette a tutelare beni diversi e poi, l›uno, è integrato dalla condotta di programmatici e continui maltrattamenti psico-fisici ai danni di famigliari e, l›altro, da quella di privare taluno della libertà personale (Cass. pen. Sez. I, 2 maggio 2006, n. 18447).
f) riduzione in schiavitù
Non sussiste, ugualmente, rapporto di specialità (ma concorso di reati) tra il delitto di maltratta¬menti in famiglia e quello di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), trattandosi di reati che tutelano interessi diversi ed esattamente la correttezza dei rapporti familiari nella prima ipotesi e lo “status libertatis” dell’individuo nella seconda – e che presentano un diverso elemento materiale, in quanto nell’ipotesi dell’art. 572 c.p. è necessario che un componente della famiglia sottoponga un altro a vessazioni, mentre nel caso di riduzione in schiavitù è necessario che un soggetto eserciti su un altro individuo un diritto di proprietà, con la conseguenza che le due ipotesi di reato, sussistendone i presupposti, possono concorrere (Cass. pen. Sez. V, 1 luglio 2002, n. 32363, Cass. pen. Sez. V, 17 settembre 2008, n. 44516, Cass. pen. Sez. VI, 12 dicembre 2006, n. 1090).
Cass. pen. Sez. V, 17 settembre 2008, n. 44516 ha affrontato il problema dei rapporti fra i reati di riduzione in schiavitù, di maltrattamenti in famiglia e di impiego di minori nell’accattonag¬gio. Una donna rumena veniva sorpresa per due volte dalla polizia a mendicare di mattino in una strada, seduta per terra con in grembo la figlia; l’altro figlio, di quattro anni — che per quattro ore non si era mai seduto, non aveva mangiato ed era vestito, nonostante il periodo invernale, solo con pantaloni e maglietta — elemosinava nei paraggi e consegnava poi il denaro alla madre.
La sentenza afferma che non sussiste il reato di riduzione in schiavitù, per carenza dell’elemento oggettivo, poiché non emerge quell’integrale negazione della libertà e della dignità del bambino comportante uno stato di completa servitù; che l’impiego di minori degli anni quattordici nell’ac-cattonaggio è illecito, nonostante la richiesta di elemosina costituisca «una condizione di vita tradizionale molto radicata nella cultura e nella mentalità» di alcune comunità etniche; sussiste, invece, il reato di maltrattamenti perché è ravvisabile un comportamento omissivo della madre nei confronti del minore, capace di produrgli gravi danni.
g) Atti persecutori
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2011, n. 24575 il reato di maltrattamenti in famiglia si distingue anche da quello di “stalking” (art. 612-bis c.p.), sebbene le condotte materiali appa¬iano omologabili per modalità esecutive e per tipologia lesiva. Il reato di atti persecutori è, infatti, un reato contro la persona e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia reiterati (reato abituale) e che non presuppone l’esistenza di interrelazioni soggettive specifiche. Cass. pen. Sez. VI, 1 marzo 2018, n. 16846 ha ritenuto che la condanna per il reato di atti persecutori passata in giudicato preclude la celebrazione del giudizio per il medesimo fatto storico pur se diversamente qualificato quale maltrattamenti in fami¬glia, in quanto le due fattispecie di reato sono l’una sussumibile nell’altra. (In motivazione, la Cor¬te ha precisato che l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona ed, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, n.200 del 2016, anche nelle ipotesi di concorso formale di reati).
In Cass. pen. Sez. VI, 19 maggio 2016, n. 30704; Cass,. pen. Sez. V, 4 maggio 2016, n. 41665 e Cass. pen. Sez. II, 21 aprile 2016, n. 17719 si è affermato che in tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. – che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie – è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen.) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessa¬zione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale. In questo le sentenze citate si allontanano dalla posizione che, come si è visto trattando il tema della famiglia separata, ritiene possibile il delitto di maltrattamenti anche in seguito alla cessazione della coa¬bitazione e della convivenza.
h) Abbandono di persone incapaci
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 19 giugno 2012, n. 25183 i reati di maltrattamenti in famiglia e di abbandono di persone minori o incapaci possono concorrere in quanto le relative fattispecie incriminatrici sono poste a tutela di beni diversi ed integrate da condotte differenti. Tuttavia come ha osservato Cass. pen. Sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 12866 la reiterata e grave ca¬renza di cure ed assistenza di persone anziane non autosufficienti, pur potendo configurare il reato di maltrattamenti, non integra di per sé il diverso reato di abbandono di incapaci, per la cui configurabilità è necessario l’accertamento di una condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia) da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza con la quale la corte di appello aveva condannato l’imputata , addetta, presso un residence per anziani, alla pulizia dei locali, all’igiene personale dei pazienti e alla loro assistenza duranti i pasti, senza individuare se l’incuria nello svolgimento di dette mansioni e le condotte di maltrattamenti poste in essere nei confronti dei pazienti avessero determinato una situazione di “abbandono”)
i) Violenza sessuale
Per quanto concerne i reati di violenza sessuale la giurisprudenza ritiene che in linea di principio i reati di violenza sessuale e di maltrattamenti concorrono tra loro salvo che non si configuri il solo delitto di violenza sessuale continuata (Cass. pen. Sez. III, 13 giugno 2012, n. 13707, Cass. pen. Sez. III, 16 dicembre 2010, n. 5340, Cass. pen. Sez. IV, 12 febbraio 2010, n. 12423, Cass. pen. Sez. III , 12 novembre 2008, n. 46375; Cass. pen. Sez. III, 15 aprile 2008, n. 26165, Cass. pen. Sez. III, 12 luglio 2007, n. 36962, Cass. pen. Sez. III, 16 maggio 2007, n. 22850 Cass. pen. Sez. III, 5 dicembre 2003, n. 984). A tale proposito Cass. pen. Sez. III, 13 maggio 2003, n. 26830 aveva chiarito che i reati di maltrattamenti e di violenza sessuale con-corrono allorquando le minacce e le vessazioni poste in essere nei confronti del soggetto passivo non si esauriscono nel perseguimento del piano delittuoso finalizzato al compimento del reato di violenza sessuale e si sostanziano in una serie di atti tesi a determinare, nello stesso, anche – ma non solo – attraverso la violenza sessuale, uno stato abituale di vita caratterizzata da sofferenze fisiche e psi¬chiche. da vessazioni e umiliazioni, tali da distruggerne o mortificarne seriamente la dignità. Il reato di maltrattamenti consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà o del decoro del soggetto passivo, nei cui confronti viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica e programmata tale da rendergli la vita e l’esistenza particolarmente dolorose ed è sorretto dal dolo generico costituito dalla coscienza e volontà di sottoporre la vittima a una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuativo e abituale, sì da lederne la personalità.
Secondo Cass. pen. Sez. III, 22 ottobre 2008, n. 45459 e Cass. pen. Sez. III, 24 giugno 2004, n. 35849 il delitto di maltrattamenti è assorbito da quello di violenza sessuale soltanto quando vi è piena coincidenza tra le condotte, nel senso che gli atti lesivi siano finalizzati esclu¬sivamente alla realizzazione della violenza sessuale e siano strumentali alla stessa, mentre in caso di autonomia anche parziale delle condotte, comprendenti anche atti ripetuti di percosse gratuite e ingiurie non circoscritte alla violenza o alla minaccia strumentale necessaria alla re¬alizzazione della violenza, vi è concorso tra il reato di violenza sessuale continuata e quello di maltrattamenti.
XIII La velocizzazione processuale per il delitto di maltrattamenti (legge 19 luglio 2019, n. 69)
La legge 19 luglio 2019, n. 69 (denominata significativamente “Codice rosso”) contenente mi¬sure di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, richiama espressamente una lista di delitti3 tra cui, appunto il delitto di “maltrattamenti” – che possono a ragione essere, quindi, definiti “di violenza domestica e di genere” – a cui si fa rinvio nelle prime disposizioni della riforma per ricollegarvi l’applicazione di norme tese alla velocizzazione delle indagini e degli interventi di protezione della vittima.
La lista in questione è proposta fin dall’art. 1 della nuova legge che comincia con il dichiarare appli¬cabile a questa “lista” di delitti l’art. 347, comma 3, del codice di procedura penale che, per i delitti indicati nell’art. 407, comma 2, lett. a, n. da 1 a 6, del codice penale4 (ed ora, appunto, anche per i delitti contro la violenza domestica e di genere), prescrive l’obbligo della polizia giudiziaria di comunicare “immediatamente anche in forma orale” al Pubblico Ministero la notizia di reato5.
All’art. 2 della legge di riforma sempre nell’ottica di velocizzare il procedimento penale, per i delitti di violenza domestica e di genere facenti parte della lista (che non richiama, però, in questo caso il nuovo art. 612-ter c.p.) la riforma impone al pubblico ministero il termine di tre giorni dall’iscri¬zione della notizia di reato per assumere informazioni dalla persona offesa (salvo che sussistano esigenze di tutela o ragioni di riservatezza che non consentono il rispetto di tale termine).
In occasione della commissione degli stessi delitti e per le medesime ragioni di rapidità della tutela si prevede nell’art. 3 della nuova legge che la polizia giudiziaria deve procedere senza ritardo al compimento degli atti delegati dal pubblico ministero, mettendogli anche a disposizione quanto prima la documentazione dell’attività svolta.
Come si vede, quindi, la lista dei delitti di violenza domestica e di genere, oltre ad una oggetti¬va funzione generale di tipo classificatorio, ha la finalità di indicare quelli che sono ritenuti i più gravi comportamenti offensivi in cui è necessario velocizzare maggiormente non solo le indagini ma soprattutto gli interventi di protezione della vittima. Naturalmente la lista in questione non esaurisce il ventaglio dei possibili delitti di violenza domestica e di genere, ben potendosi rinvenire altri comportamenti penalmente illeciti caratterizzati dalla stessa intenzionalità criminosa a cui si applicheranno le norme istruttorie ordinarie.
L’art. 12 della legge 19 luglio 2019, n. 69 prescrive anche che per i condannati di tali delitti non si applicano i benefici previsti nella legge penitenziaria (art. 4-bis della legge 26 luglio 1075, n. 354: Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti).
3 Il “gruppo” di delitti in questione è costituito dai “delitti previsti dagli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-qua¬ter, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis e 612-ter del codice penale, ovvero dagli articoli 582 e 583-quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del medesimo codice penale”.
4 Art. 407 (Termini di durata massima delle indagini preliminari)
1. Salvo quanto previsto all’articolo 393 comma 4, la durata delle indagini preliminari non può comunque supe¬rare diciotto mesi.
2. La durata massima è tuttavia di due anni se le indagini preliminari riguardano:
a) i delitti appresso indicati:
1) delitti di cui agli articoli 285, 286, 416-bis e 422 del codice penale, 291-ter, limitatamente alle ipotesi ag-gravate previste dalle lettere a), d) ed e) del comma 2, e 291-quater, comma 4, del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43;
2) delitti consumati o tentati di cui agli articoli 575, 628, terzo comma, 629, secondo comma, e 630 dello stesso codice penale;
3) delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo;
4) delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, nonché delitti di cui agli articoli 270, terzo comma e 306, secondo comma, del codice penale;
5) delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi comuni da sparo escluse quelle previste dall’articolo 2, comma terzo, della legge 18 aprile 1975, n. 110;
6) delitti di cui agli articoli 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, comma 2, e 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabi¬litazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni;
(omissis)
5 Art. 1 legge 19 luglio 2019, n. 69 (Obbligo di riferire la notizia del reato)
1. All’articolo 347, comma 3, del codice di procedura penale, dopo le parole: ”nell’articolo 407, comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6)” sono inserite le seguenti: “del presente codice, o di uno dei delitti previsti dagli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis e 612-ter del codice penale, ovvero dagli articoli 582 e 583-quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del medesimo codice penale”.
MALTRATTAMENTI
Giurisprudenza
Cass. pen. Sez. VI, 2 settembre 2019, n. 36832 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, non può ritenersi lecito l’uso sistematico da parte del genitore di violenza fisica e morale, come ordinario trattamento del figlio minore, anche se sorretto da “animus corrigendi”, integrando in tal caso il più grave reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione. Né tali comportamenti maltrattanti possono ritenersi compatibili e giustificabili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l’agente è portatore.
Tribunale Genova Sez. I, 4 luglio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto di maltrattamenti in famiglia la condotta dell’agente che per un arco di tempo di oltre sei mesi molesti ripetutamente il coniuge con continue richieste di denaro e ponga, altresì, in essere atti denigratori, consistiti in vere e proprie perquisizioni, arrivando a cercare di impedirgli di uscire da casa, percuotendolo in un crescendo di violenza, tanto da causare allo stesso vere e proprie lesioni e costringendolo a sopportare un regime di vita umiliante e vessatorio.
Il reato di cui all’art. 572 c.p. integra un reato abituale che richiede, sotto il profilo oggettivo, il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinino sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi.
Corte d’Appello Ancona, 17 giugno 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con la previsione di cui all’art. 572 c.p., il legislatore ha attribuito particolare disvalore soltanto alla reiterata aggressione all’altrui personalità, assegnando autonomo rilievo penale all’imposizione di un sistema di vita oggettivamente caratterizzato da sofferenze, afflizioni, lesioni dell’integrità fisica o psichica, le quali incidono negativamente sulla personalità della vittima e su valori fondamentali propri della dignità e della condizione umana; ciò in quanto la norma, nel reprimere l’abituale attentato alla dignità ed al decoro della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza.
Tribunale Cassino, 17 giugno 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella nozione di “maltrattamenti” rientrano i fatti lesivi dilla integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, che rendano abitualmente doloroso le relazioni familiari, e si manifestino mediante le sofferenze morali che determinano uno stato di avvilimento, con atti o parole che offendono il decoro e la dignità della persona, ovvero con violenze capaci di produrre sensazioni dolorose ancorché tali da non lasciare traccia.
Corte d’Appello Palermo Sez. IV,14 giugno 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è contraddistinto, sotto il profilo soggettivo, dal dolo generico e, dunque, dalla coscienza e dalla volontà dell’agente di sottoporre la persona offesa alla propria condotta abitualmente offensiva, mentre non è richiesto che il medesimo sia animato dal fine di maltrattare la vittima. In tal senso non rileva, dunque, un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto, essendo l’elemento unificatore dei singoli episodi costituito da un dolo unitario che consiste nell’ attitudine della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte.
La materialità del delitto di cui all’art. 572 c.p. si concreta in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica o della libertà o del decoro del soggetto passivo nei confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffa¬zione sistematica tale da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza. L’elemento psichico si concre¬tizza in modo unitario ed uniforme, tale da evidenziare nell’agente una grave intenzione di avvilire e sopraffare la vittima e deve ricondurre ad unità i veri episodi di aggressione alla sfera morale e materiale di quest’ultima. Non rileva, in senso contrario, stante la natura abituale del reato, che durante il lasso di tempo considerato siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con la persona offesa.
In assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente “more uxorio” con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione.
Cass. pen. Sez. VI, 11 giugno 2019, n. 32781 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche comportamenti fisicamente non violenti, che si arrestano alla soglia della minaccia, raggiungono la soglia della rilevanza penale ai fini del reato di cui all’art. 572 c.p. quando si collochino in una più ampia e unitaria condotta abituale idonea ad imporre alla vittima un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile. E’, dunque, essenziale, ai fini della ricostruzione del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., l’accertamento dell’abitualità e ripetitività della condotta lungo un ambito temporale rilevante senza che la valutazione di offen¬sività possa arrestarsi a fronte di condotte che non culminino in veri e propri atti di aggressione fisica.
Tribunale Cassino, 31 maggio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamento in famiglia, di natura abituale, a forma libera e di sola condotta, sotto il profilo soggettivo è integrato dal dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze, instaurando un sistema di sopraffazioni e vessazioni che ne avviliscono la personalità e co¬stituiscono fonte di disagio continuo, incompatibile con normali condizioni di vita. Ai fini della configurabilità del reato non assumono alcun rilievo le finalità perseguite dall’autore degli atti vessatori, né lo stato di nervosismo o di risentimento dell’agente esclude l’elemento psicologico del reato, costituendo, al contrario, uno dei possibili moventi dell’ipotesi delittuosa.
Tribunale Pescara, 28 maggio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra gli estremi del reato p. e p. dall’art. 572 c.p. la sottoposizione dei familiari ad atti di vessazione continui e tali da cagionare agli stessi sofferenze, privazioni, umiliazioni che costituiscono fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza.
Tribunale Napoli Sez. V, 17 maggio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di cui all’art. 572 c.p. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraf¬fazioni e di vessazioni che avviliscono la personalità della vittima.
Corte d’Appello Ancona, 13 maggio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato è integrato dalla condotta dell’agente che sottopone la moglie ad atti di vessazione reiterata e tali da cagionarle sofferenza, prevaricazione e umiliazioni, costituenti fonti di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza. E ad integrare l’abitualità della condotta non è necessario che la stessa venga posta in essere in un tempo prolungato, essendo sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, come sopra caratterizzati ed “unificati”, anche se per un limitato periodo di tempo, senza che valgano ad escludere il reato eventuali parentesi di normalità nella condotta dell’agente.
Tribunale Napoli Sez. V, 3 maggio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Premesso che le lesioni personali volontarie non costituiscono sempre elemento essenziale del delitto di maltrat¬tamenti, il delitto di lesioni non può essere assorbito da quello di maltrattamenti secondo la disciplina del reato complesso, ma configura un reato autonomo.
Tribunale Taranto Sez. I, 16 aprile 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di ves¬sazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l’esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo.
Tribunale Vicenza, 6 aprile 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, l’elemento psicologico del reato non implica l’intenzione e la volontà dell’a¬gente di sottoporre le vittime in modo continuo e abituale ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma soltanto la consapevolezza dell’agente medesimo di persistere in un’attività vessatoria.
L’elemento psicologico del reato p. e p. dall’art. 572 c.p. è costituito dal dolo generico, non richiedendosi che l’autore della condotta abbia come fine intenzionale quello di maltrattare e umiliare la persona offesa. È sufficien¬te, cioè, che egli abbia la consapevolezza e la volontà dei singoli atti di maltrattamento e della loro reiterazione. Il dolo è cioè coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale e continuativo.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 2 aprile 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dolo richiesto per la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, previsto e punito dall’art. 572 c.p., è generico, sicché non si richiede che l’agente sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e la volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva. Detto elemento soggettivo deve ritenersi sussistente in re ipsa ove, in virtù delle circostanze del fatto e della modalità della con¬dotta, possa ritenersi che l’agente non poteva certamente ignorare che la sistematicità dei propri comportamenti vessatori ingenerava sofferenze per il familiare, creando un clima insostenibile.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 2 aprile 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le condotte di maltrattamenti commesse quando l’imputato era minorenne, data la natura di reato abituale del delitto di cui all’art. 572 c.p., non rilevano come autonomi reati (non contestati e per i quali sussiste – ovvia¬mente – la competenza del Tribunale per i Minorenni) bensì quali segmenti del reato in contestazione, che era in corso alla data di quando l’imputato era maggiorenne. E’ noto, infatti, che il reato di maltrattamenti in famiglia si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili ovvero non perseguibili, ma che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.
Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2019, n. 16583 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., commesso all’interno di una comunità per l’assi¬stenza e la cura dei disabili, lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime può derivare anche dal clima ves¬satorio generalmente instaurato, per effetto di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi dal personale a carico dei soggetti ricoverati, i quali, a causa delle proprie condizioni di vulnerabilità, sono vittime del detto reato tanto se patiscano in prima persona le violenze fisiche o verbali, quanto se ne siano meri spettatori.
Cass. pen. Sez. V, 25 marzo 2019, n. 21133 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto maltrattamenti in famiglia, oltre che l’esercizio reiterato di minacce e restrizioni della libertà di movimento di una donna componente del gruppo familiare, anche la sostanziale privazione della sua funzione genitoriale, realizzata mediante l’avocazione delle scelte economiche, organizzative ed educative relative ai figli minori e lo svilimento, ai loro occhi, della sua figura morale.
In tema di maltrattamenti, l’autore del reato non può invocare, a propria discolpa, l’inesigibilità di un compor¬tamento diverso da quello tenuto siccome coartato dalla volontà di altri, che abbia imposto un proprio modello culturale improntato ad autoritarismo maschilista, in quanto il principio della non esigibilità non trova applicazio¬ne al di là delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate. (Vedi: Sez. 6, n. 973 del 1993, Rv. 194384).
Corte d’Appello Roma Sez. II, 20 marzo 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di cui all’art. 572 c.p. sussiste anche nel caso in cui sia commesso nei confronti di persone non convi¬venti purché legati con il soggetto agente, da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione.
Tribunale Cagliari, 6 marzo 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La violenza fisica non costituisce componente necessaria del delitto di maltrattamenti in famiglia, che può essere realizzato anche con atti di disprezzo e offesa della dignità della persona offesa, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali e anche con condotte che, in sé, non costituiscano reato.
Tribunale Cagliari, 2 marzo 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La compromissione del bene protetto dal reato ex art. 572 c.p. non si verifica in presenza di semplici fatti che ledano ovvero mettano in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia; tali azioni devono essere la componente di una più ampia e unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile. Di talché, fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della per¬sona, derivanti da situazioni contingenti e particolari che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, ma conservano la propria autonomia di reati contro la persona.
Cass. pen. Sez. VI, 12 febbraio 2019, n. 16855 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi, punito dall’art. 572, c.p., la condotta del genitore “degenere” che imponga al proprio figlio ad un regime di vita snaturato, in particolare costringendolo ad assiste¬re ai rapporti sessuali avuti con diversi uomini – anche contemporaneamente – ed ad assumere droga.
Tribunale Lecce Sez. I, 8 febbraio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti sussiste anche nei riguardi della convivente, indipendentemente dall’esserci o meno un vincolo matrimoniale.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 28 gennaio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia deve ritenersi pacificamente configurabile anche ove le condotte delittuose siano realizzate in danno del coniuge separato, legalmente o di fatto. Rileva in tal senso la circostanza che la separazione in quanto condizione transeunte, pure liberando i coniugi dagli obblighi di convivenza e di fedeltà, non esclude la permanenza in capo agli stessi degli obblighi di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale a garanzia del cui adempimento è diretta la previsione di cui all’art. 572 c.p.. Di talché, la cessazione del rap¬porto di convivenza non influisce, escludendola, sulla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia che può essere consumato anche nei confronti di persona non convivente, laddove sia unita all’autore da vincoli di filiazione o nascenti dal coniugio.
Cass. pen. Sez. VI, 23 gennaio 2019, n. 4935 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, integra gli estremi del reato la condotta di chi infligge abitualmente ves¬sazioni e sofferenze, fisiche o morali, a un’altra persona, che ne rimane succube, imponendole un regime di vita persecutorio e umiliante, che non ricorre qualora le violenze, le offese e le umiliazioni siano reciproche, con un grado di gravità e intensità equivalenti.
Cass. pen. Sez. II, 23 gennaio 2019, n. 10222 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di cui all’art. 572 c.p. è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio bensì a qualunque tipo di relazione sentimentale implicante l’insorgenza di legami affettivi e assistenziali non dissimili da quelli caratterizzanti la “famiglia” come tradizionalmente intesa.
Nel caso di “convivenza more uxorio”, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile soltanto per le con¬dotte tenute fino a quando la convivenza non sia cessata, mentre le azioni violente o persecutorie compiute in epoca successiva possono integrare il delitto di atti persecutori.
Tribunale Pescara, 17 gennaio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, ai fini della configurabilità del reato, è necessario che il soggetto attivo sot¬toponga il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali, in modo che i singoli atti vessatori siano uniti tanto da un legame di abitualità, quanto dalla coscienza e volontà dell’agente di porre in essere abitualmen¬te tali atti. La serie di fatti in cui si sostanzia il reato “de quo”, isolatamente considerati, potrebbero anche non costituire delitto, in quanto la “ratio” dell’antigiuridicità penale risiede nella loro reiterazione, che si protrae in un arco di tempo che può essere anche limitato, e nella persistenza dell’elemento intenzionale.
Cass. pen. Sez. III, 27 novembre 2018, n. 345 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In mancanza di una stabile convivenza e di un progetto di vita comune, la sola durata prolungata del rapporto affettivo e la nascita di un figlio non costituiscono elementi sufficienti per ritenere sussistente un nucleo familiare quale presupposto del reato di cui all’art. 572 c.p.
Cass. pen. Sez. VI, 20 novembre 2018, n. 761 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinché possano riconoscersi gli estremi del delitto di cui all’art. 572 c.p., l’agente deve porre in essere siste¬maticamente un’attività vessatoria e oppressiva. Per la configurabilità del dolo rileva la volontà di avvilire e so¬praffare la vittima, dovendosi trascurare, nel lasso di tempo considerato, eventuali periodi di pacifica convivenza tra le mura domestiche.
Cass. pen. Sez. III, 6 novembre 2018, n. 17810 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti tra maltrattamenti e abuso dei mezzi di correzione, nel caso di uso sistematico di violenza fisica e morale, come ordinario trattamento del minore affidato, anche se sorretto da “animus corrigendi”, deve escludersi la configurabilità del meno grave delitto previsto dall’art. 571 cod. pen. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che integri il delitto di maltrattamenti la condotta di sistematico ricorso ad atti violenti tenuta dal ricorrente nei confronti dei figli minori della propria convivente, a nulla rilevando il preteso intento educativo).
Cass. pen. Sez. VI, 25 ottobre 2018, n. 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante dell’essere stato il delitto commesso alla presenza del minore, prevista dall’art. 61, n. 11-quinquies, cod. pen., non è necessario che gli atti di violenza posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell’abitualità, essendo suf¬ficiente che egli assista ad uno dei fatti che si inseriscono nella condotta costituente reato.
Cass. pen. Sez. III, 18 ottobre 2018, n. 56673 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sono da considerare persone della famiglia, anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di prestarsi reciproca assistenza e protezione, di avere beni in comune, di dare vita a un nucleo solido e duraturo, anche in assenza di una stabile convivenza fisica. È attribuita particolare valenza probatoria alla dichiarazione resa dalla coppia all’Anagrafe del comune di residenza del soggetto presso il quale si instaura la convivenza. In particolare, in presenza di tale dichiarazione l’onere probatorio è invertito, spettando all’imputato, che contesti la sussistenza del legame fattuale caratterizzato dalla stabilità e dalla mutua solidarie¬tà, fornire prova contraria. L’intervallarsi di condotte improntate a registri di normalità alle vessazioni fisiche e morali non esclude la configurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p.
Cass. pen. Sez. III, 16 ottobre 2018, n. 1508 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della rituale contestazione del delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572, cod. pen., commesso ai danni di anziani ricoverati in una casa di riposo, non è necessario che il capo d’imputazione rechi l’identificazione anagrafica delle vittime, essendo sufficiente che in esso siano indicati il luogo e l’arco temporale di compimento delle condotte illecite.
La sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 cod. pen. non implica l’in¬tenzione di sottoporre la vittima, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria.
Cass. pen. Sez. VI, 9 ottobre 2018, n. 6126 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato abituale di maltrattamenti in famiglia, è richiesto il compimento di atti che non siano sporadici e manifestazione di un atteggiamento di contingente aggressività, occorrendo una persi¬stente azione vessatoria idonea a ledere la personalità della vittima. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna emessa in relazione a tre distinti episodi di minaccia, ingiuria e percosse, posti in essere dall’imputato a distanza di tempo l’uno dall’altro ed in un arco temporale di circa undici mesi).(Conf. Sez.6, n.8953/1984).
Cass. pen. Sez. III, 17 settembre 2018, n. 55348 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine di ravvisare il delitto di maltrattamenti in caso di vessazioni del direttore di una direzione provinciale del tesoro in danno di impiegate, è insufficiente la condizione di subalternità delle impiegate al superiore gerarchi¬co, quale si configura nella relazione delle dipendenti della tesoreria provinciale rispetto al direttore, così come la quotidianità dei rapporti intercorrenti nel corso dell’orario lavorativo fra costoro in ragione dell’identità dei progetti o dei risultati lavorativi perseguiti, occorrendo, invece, la verifica che le dinamiche relazionali in seno all’azienda o all’ufficio riproducano le relazioni di prossimità permanente ed il clima di confidenzialità sussistente all’interno di una comunità assimilabile a quella del consorzio familiare e dovendo la para-familiarità preesistere all’azione criminosa ed essere indipendente dal rapporto degenerato per effetto delle condotte vessatorie poste in essere nei confronti del personale.
Corte d’Appello Palermo Sez. IV, 25 luglio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti è integrato da atti di sopraffazione sistematica, tali da rendere particolarmente dolo¬rosa la stessa convivenza, caratterizzati dall’elemento psichico, che deve evidenziare nell’agente la consapevo¬lezza e la volontà di avvilire e sopraffare la vittima e deve ricondurre ad unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e materiale di quest’ultima.
Tribunale Udine, 24 luglio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia, la cui integrazione richiede un atteggiamento oppressivo e prevaricatorio, causa di sofferenze fisiche o morali, che si realizza e conferma nella reiterazione dei maltrattamenti, posti in essere dal soggetto attivo nella consapevolezza di persistere nella sopraffazione dell’altro, deve ritenersi confi¬gurabile anche nell’ipotesi in cui le sistematiche condotte violente e sopraffattrici non realizzano l’unico registro comunicativo con il familiare, ma sono intervallate da condotte prive di tali connotazioni. Le ripetute manifesta¬zioni di mancanza di rispetto e di aggressività conservano, invero, il loro connotato di disvalore in ragione del loro stabile prolungarsi nel tempo.
Cass. pen. Sez. V, 18 luglio 2018, n. 42599 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di lesioni personali lievi non è assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia se l’autore della condotta ha avuto non solo l’intenzione di maltrattare ma anche di ledere l’integrità fisica del soggetto passivo. (Fattispe¬cie in cui la Corte ha escluso qualsiasi violazione del principio del “ne bis in idem” nei confronti dell’imputato del reato di lesioni, già condannato per il delitto di maltrattamenti, in ragione della diversità dell’elemento soggettivo tra i due reati).
Tribunale Vicenza, 16 luglio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della sussistenza del delitto p. e p. dall’art. 572 c.p., è necessario che vi sia un soggetto che abitualmen¬te infligge sofferenze fisiche o morali ad un altro, il quale, specularmente, ne resta succube. Nel caso in cui le violenze, offese, umiliazioni sono reciproche, pur se di diverso peso e gravità, non può ritenersi integrata la fattispecie ascritta.
Cass. pen. Sez. VI, 11 luglio 2018, n. 45736 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che umili, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno, causandogli pericoli per la salute, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravitàdel comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità.
Tribunale Frosinone, 3 luglio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
dall’abitualità del comportamento dell’agente e, dunque, dalla unitarietà della condotta, pur nella pluralità delle manifestazioni, che costituiscono, dunque, estrinsecazione di un sistema di vita di relazione abitualmente dolo¬roso ed avvilente. Ai fini della sussistenza del reato, pertanto, è necessario dimostrare, ancorché in via indiziaria, l’esistenza di tale tessuto uniforme.
Tribunale Ferrara, 21 giugno 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per ritenersi integrato il reato di cui all’art. 572 c.p. occorre che gli atti vessatori tenuti dal soggetto agente nei confronti della vittima possano inserirsi in una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione alla vittima di un regime di vita oggettivamente vessatorio.
Tribunale Firenze Sez. I, 8 giugno 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È imputabile per il reato di maltrattamenti in famiglia il prevenuto che con reiterate condotte violente e vessatorie, protrattesi per circa tre anni, maltrattava la moglie, picchiandola selvaggiamente ed ingiuriandola anche in presenza dei figli minori. La reiterazione degli atti di vessazione deve dunque ingenerare una fonte di disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 7 giugno 2018, n. 39920 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti ai danni di un lavoratore nella forma del mobbing, occorre accertare la natura parafamiliare della relazione intercorrente tra datore di lavoro e lavoratore, a prescindere dal dato meramente quantitativo costituito dal numero dei dipendenti, e senza che la parafamiliarità possa essere esclusa dalla mera impostazione moderna ed attuale del contesto lavorativo o dalla circostanza che i comporta¬menti discriminanti e prevaricatori siano attuati nei confronti di più dipendenti o dal fatto che la persona offesa si sia determinata a denunciare all’autorità giudiziaria il fatto di essere vittima di cd. mobbing da parte del datore di lavoro o ancora dalla circostanza che la persona offesa abbia nel corso del processo rimesso la querela, fatto comunque rilevante in relazione alla procedibilità del solo reato di lesioni personali e non anche di quello di mal¬trattamenti. (Nella fattispecie, trattasi di mobbing lamentato dalla dipendente di uno studio notarile).
È necessario il requisito della para-familiarità per configurare il delitto di maltrattamenti in famiglia in ambito lavorativo, concretizzandosi nella sottoposizione di una persona all›autorità di un›altra in un contesto di prossimità permanente.
Il reato di maltrattamenti in famiglia può essere realizzato anche in ambienti di lavoro, purché il contesto lavo¬rativo presenti i caratteri della para-familiarità. Tale requisito deve essere valutato non tanto sulla scorta di ele¬menti quantitativi o dimensionali dell’azienda, bensì analizzando in concreto la qualità del rapporto intercorrente tra il datore ed il lavoratore.
Cass. pen. Sez. VI, 22 maggio 2018, n. 57870 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’invio di messaggi ingiuriosi e minacciosi e l’utilizzo ai medesimi fini dei social network, in particolare laddove i medesimi contegni si pongano in disattendimento delle prescrizioni imposte nell’ordinanza cautelare di divieto di dimora, sono condotte idonee ad integrare la fattispecie punita dall’art. 572 c.p.
Integra il reato di maltrattamenti in famiglia aggravato la condotta del soggetto che invia alle persone offese messaggi non solo tramite telefono ma anche per mezzo di social network, stante la potenziale diffusività ed il carattere altamente invasivo del mezzo utilizzato.
Tribunale Bari, 22 maggio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elemento soggettivo del reato ex art. 572 c.p. si sostanzia nel dolo generico, ossia nella consapevolezza e vo¬lontà di sottoporre la persona offesa ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuato ed abituale.
L’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia consiste nella sottoposizione dei familiari a una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo e incompatibile con normali condizioni di vita. In tal caso, i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l’esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo.
Tribunale Pescara, 15 maggio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima al soggetto agente, in quanto la norma, nel reprimere l’abituale attentato alla dignità e al decoro della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza. Tanto che nello schema del delitto di maltrattamenti non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, senza che assuma rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità e che siano stati, a volte, cagionati da motivi contingenti, poiché, data la natura abituale del delitto, l’intervallo di tempo tra una serie e l’altra di episodi lesivi non fa venir meno l’esistenza dell’illecito.
Tribunale Firenze Sez. I, 23 aprile 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato si configura come reato necessariamente abituale, e si si carat¬terizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo. Detto reato si perfeziona allorché si realizza un minimo di tali condotte (delittuose o meno) collegate da un nesso di abitualità.
Tribunale Napoli Sez. V, 6 aprile 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È imputabile per il reato p. e p. dall›art. 572 c.p. il prevenuto che con reiterate condotte violente, sottoponeva la coniuge a continui maltrattamenti costringendola ad un regime di vita intollerabilmente vessatorio ed umiliante nonché lesivo per la sua integrità psicofisica. Per la configurabilità di tale reato occorre che il soggetto agente non si limiti a porre in essere fatti che ledono o pongono in pericolo beni che l›ordinamento giuridico già autonomamente protegge (percosse, lesioni, ingiuria, violenza privata), ma occorre che il suo comportamento si estenda a tutti quei fatti lesivi del patrimonio morale e dell›integrità psichica del soggetto passivo, che, seppure singolarmente considerati non costituiscono reato, siano tali da rendere abitualmente dolorosa la relazione con l›agente.
Cass. pen. Sez. V, 29 marzo 2018, n. 32368 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integrano il reato di maltrattamenti in danno del figlio minore anche le condotte persecutorie poste in essere da un genitore nei confronti dell’altro quando il figlio è costretto ad assistervi sistematicamente, trattandosi di con¬dotta espressiva di una consapevole indifferenza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali del minore ed idonea a provocare sentimenti di sofferenza e frustrazione in quest’ultimo.
Cass. pen. Sez. VI, 20 marzo 2018, n. 36802 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le molestie sessuali e le prevaricazioni poste in essere sul luogo di lavoro in danno di lavoratori sono riconducibili nella fattispecie di maltrattamenti prevista dall’art. 572 c.p., qualora il rapporto interpersonale sia caratterizzato dal requisito della para-familiarità, avuto riguardo non semplicemente al numero dei dipendenti dell’azienda, alla durata del rapporto di lavoro, alla reiterazione del condotte discriminatorie nei confronti dei soggetti ed alla reazione delle vittime, bensì alle dinamiche relazionali intercorrenti fra i lavoratori ed il datore di lavoro, nonché all’esistenza o meno di una condizione di soggezione e subalternità delle vittime suddette. (Nella fattispecie, l’autore delle vessazioni era il capofficina).
Cass. pen. Sez. III, 20 marzo 2018, n. 46043 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di inferiorità psicologica della vittima non deve necessariamente tradursi in una situazione di completo abbattimento, ma può consistere anche in un avvilimento generale conse¬guente alle vessazioni patite, non escludendo sporadiche reazioni vitali ed aggressive della vittima la sussistenza di uno stato di soggezione a fronte di soprusi abituali.
Cass. pen. Sez. VI, 1 marzo 2018, n. 16846 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La condanna per il reato di atti persecutori passata in giudicato preclude la celebrazione del giudizio per il mede¬simo fatto storico pur se diversamente qualificato quale maltrattamenti in famiglia, in quanto le due fattispecie di reato sono l’una sussumibile nell’altra. (In motivazione, la Corte ha precisato che l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi ele¬menti costitutivi e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona ed, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, n.200 del 2016, anche nelle ipotesi di concorso formale di reati).
Cass. pen. Sez. VI, 23 febbraio 2018, n. 18833 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, scaturente da una condotta riportabile alla c.d. violenza assistita, proprio perchéfondato su di una relazione non diretta, ma indiretta fra il comportamento dell’agente e la vittima – essendo l’azione rivolta a colpire non il minore, ma altri ovvero, come nella specie, connotandosi per la reciprocitàdelle offese fra i genitori, postula una prova rigorosa che l’agire – in ipotesi – illecito, per un verso, sia connotato dalla c.d. abitualità; per altro verso, sia idoneo ad offendere il bene giuridico protetto dall’in¬criminazione, id est abbia cagionato – secondo un rapporto di causa-effetto – uno stato di sofferenza di natura psìco- fisica nei minori spettatori passivi.
Il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti diretta¬mente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano indirettamente, come involontari spettatori delle liti tra i genitori che si svolgono all’interno delle mura domestiche (c.d. violenza assistita), sempre che sia stata accertata l’abitua¬lità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica nei minori spettatori passivi.
Cass. pen. Sez. VI, 22 febbraio 2018, n. 19868 (Dir. Pen. e Processo, 2018, 9, 1201 nota di Barbati)
Il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. (maltrattamenti contro familiari e conviventi) è configurabile nell’ipotesi in cui i maltrattamenti siano posti in essere dal marito nei confronti dell’ex moglie, non rilevando in sé e per sé, ai fini della configurabilità del reato, la durata della convivenza tra i due dopo il divorzio, quanto piuttosto l’esistenza di una stabile relazione affettiva tra l’imputato e la persona offesa, relazione che ha creato reciproco affidamento e aspettative di assistenza, protezione e solidarietà.
Corte d’Appello Perugia, 14 febbraio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi della integrità fisica o morale, della libertà o del decoro delle persone di famiglia, in modo tale da rendere abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni tra il soggetto attivo e le vittime. L’oggetto giuridico del reato contestato non è infatti costituito dal solo interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia, ma anche quello della difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone nella nonna indicate.
Cass. pen. Sez. VI, 13 febbraio 2018, n. 14754 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosid¬detto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte poste in essere dai superiori in grado nei confronti di un appuntato dei Carabinieri).
Corte d’Appello Napoli Sez. III, 13 febbraio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto di maltrattamenti in famiglia la condotta delittuosa concretizzatasi in plurimi episodi di violenza, ingiuria e minaccia posti in essere dall’imputato ai danni della coniuge, connessi in maniera inscindibile dalla volontà unitaria, persistente e ispiratrice della condotta criminosa tesa a ledere in maniera sistematica l’integrità fisica ed il patrimonio morale della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 9 febbraio 2018, n. 10784 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 572 c.p. eccepita in relazione agli artt. 32, 35 e 41 Cost. nella parte in cui limita la configurabilità nei luoghi di lavoro del delitto di maltrattamenti all’ipotesi in cui il rapporto tra datore di lavoro e dipendente assuma natura parafamiliare.
Cass. pen. Sez. VI, 1 febbraio 2018, n. 10763 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il concorso per omissione nel delitto di maltrattamenti in famiglia la condotta della referente del Comune presso un asilo nido che ometta di intervenire pur avendo conoscenza dei maltrattamenti consumati nella struttura.
Il concorso nel reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. può configurarsi anche in forma omissiva nell’ipotesi in cui il soggetto garante, nella fattispecie un’educatrice di un asilo, non denunci i maltrattamenti posti in essere dalle colleghe.
Tribunale Trani, 29 gennaio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La violenza perpetrata dal padre nei confronti dalla madre alla presenza dei figli denota l’inidoneità del padre non solo sotto il profilo dell’accudimento primario, ma anche sotto quello delle esigenze affettive e evolutive della prole minore e in grado di garantire la figura genitoriale paterna, che rende allo stato non attuabile un affida¬mento condiviso. Deve quindi disporsi l’affido esclusivo.
Cass. pen. Sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 12866 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La reiterata e grave carenza di cure ed assistenza di persone anziane non autosufficienti, pur potendo configurare il reato di maltrattamenti, non integra di per sé il diverso reato di abbandono di incapaci, per la cui configurabilità è necessario l’accertamento di una condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia) da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza con la quale la corte di appello aveva con¬dannato l’imputata , addetta, presso un residence per anziani, alla pulizia dei locali, all’igiene personale dei pazienti e alla loro assistenza duranti i pasti, senza individuare se l’incuria nello svolgimento di dette mansioni e le condotte di maltrattamenti poste in essere nei confronti dei pazienti avessero determinato una situazione di “abbandono”)
Tribunale Firenze Sez. I, 23 gennaio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, il reato di maltrattamenti in famiglia integra una ipotesi di reato necessaria¬mente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti che, isolatamente considerati, potreb¬bero anche essere non punibili ovvero non perseguibili, ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.
Cass. pen. Sez. VI, 19 dicembre 2017, n. 3087 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le condotte vessatorie poste in essere ai danni del coniuge non più convivente, a seguito di separazione legale o di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di atti persecutori, in quanto i vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione permangono integri anche a seguito del venir meno della convivenza. (In motivazione, la Corte ha precisato che il reato previsto dall’art.612-bis cod. pen. è configurabile solo nel caso di divorzio tra i coniugi, ovvero di cessazione della relazione di fatto).
Cass. pen. Sez. VI, 13 febbraio 2017, n. 3356 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di per¬sona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione. Peraltro, il reato persiste anche in caso di separazione legale, tenuto conto del fatto che tale stato, pur dispensando i coniugi dall’obbligo di convivenza e di fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto, atteso che la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., la separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività vessatoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicolo¬gica subordinata o comunque dipendente.
Cass. pen. Sez. II, 6 dicembre 2017, n. 7639 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti di lavoro, le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, come tale, destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo.
Cass. pen. Sez. III, 22 novembre 2017, n. 6724 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.) il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo. (Fattispecie in cui la condotta contestata, consistita nell’ingiuriare, minacciare ed aggre¬dire fisicamente la vittima, tenendo, altresì, atteggiamenti palesemente denigratori nei suoi confronti era stata attuata nel corso di tre mesi di convivenza frammezzata da periodi di quiete).
Corte d’Appello Lecce Taranto, 6 novembre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Incorrono nell’imputazione per il reato di mobbing, p. e p. dall’art. 612-bis, i prevenuti che in qualità di responsa¬bile della s.r.l. l’uno e vice-direttore l’altro, sottoponevano un proprio dipendente a quotidiani atti discriminatori e vessatori ingenerando nel predetto un “disturbo dell’adattamento con umore depresso”, stati di ansia e crisi di panico; in particolare sottoponevano il predetto ad un regime lavorativo umiliante e peggiorativo rispetto alle legittime aspirazioni dello stesso, con demansionamento nonché emarginazione ed isolamento dagli altri dipendenti.
Tribunale Genova Sez. I, 25 ottobre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti presuppone la sottoposizione della persona offesa ad una serie di atti di vessazione continui, idonei a cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, tali da costituire fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita.
Cass. pen. Sez. VI, 19 ottobre 2017, n. 56961 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto previsto dall’art 572 cod. pen. configura un reato abituale, essendo costituito da una pluralità di fatti commessi reiteratamente dall’agente con l’intenzione di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali, onde ogni successiva condotta di maltrattamento si riallaccia a quelle in precedenza realizzate, saldandosi con esse e dando vita ad un illecito strutturalmente unitario; allorché, di contro, la serie di fatti co¬stituenti maltrattamenti si esaurisca e, dopo un notevole intervallo temporale, ne inizi un’altra contro lo stesso soggetto passivo, si è in presenza di due autonomi reati di maltrattamenti, eventualmente uniti dal vincolo della continuazione ove sussista un medesimo disegno criminoso.
Corte d’Appello Lecce, 19 ottobre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Incorre nell’imputazione per il reato di maltrattamenti in famiglia il prevenuto che maltrattava la compagna convivente con aggressioni fisiche e verbali pressoché quotidiane, picchiandola con schiaffi, calci e spintoni, ingiuriandola e minacciandola di farle del male, costringendo la donna ad un regime di vita penoso ed intollera¬bilmente vessatorio. Con riferimento all’elemento soggettivo, poi, va rilevato che, per integrare il delitto di cui si tratta, è sufficiente il dolo generico, per cui non si richiede che l’agente sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva.
Cass. pen. Sez. VI, 6 ottobre 2017, n. 49997 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elemento soggettivo richiesto dal reato di cui all’art. 572 c.p. è integrato dalla consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, non essendo necessaria la sussistenza di uno specifico programma criminoso.
Cass. pen. Sez. VI, 28 settembre 2017, n. 52723 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente more uxorio con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione.
Corte d’Appello Lecce Taranto, 4 settembre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti è costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti che determinano nella vittima sofferenze fisiche e morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica di un soggetto passivo nel senso di infliggergli abitualmente sofferenze.
Tribunale Cassino, 4 settembre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia, occorre che sia accertata una condotta (consi¬stente in aggressioni fisiche o vessazioni o manifestazioni di disprezzo) abitualmente lesiva dell’integrità fisica e del patrimonio morale della persona offesa che, a causa di ciò, versa in una condizione di sofferenza: sotto il profilo soggettivo, pertanto, occorre la dimostrazione della sussistenza di una volontà sopraffattrice idonea ad abbracciare le diverse azioni e a ricollegare a unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e fisica del soggetto passivo.
Tribunale Firenze Sez. I, 21 agosto 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, ai fini della configurabilità del delitto è richiesta la sussistenza di una serie abituale di atti vessatori nei confronti della persona offesa, consistenti in minacce, percosse, offese, lesioni, pri¬vazioni ed umiliazioni, ma anche in atti di disprezzo e di lesione della dignità della persona, causa di sofferenze morali o fisiche per la stessa e tale reato può essere integrato anche da condotte di per sé non costituenti reato.
Corte d’Appello Lecce, 28 luglio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ imputabile per i reati p. e p. dagli artt. 572, 612 comma 2 e 594 c.p., il prevenuto che maltrattando la moglie, picchiandola, perseguitandola con telefonate ed sms, minacciandola di un male ingiusto anche attraverso l’uso di armi, teneva un atteggiamento avvilente, arrogante, violento ed autoritario, procurando alla donna sofferenze fisiche e morali tali da rendere la convivenza insostenibile.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 27 luglio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Incorre nell’imputazione per il reato p. e p. dall’art. 572 c.p. il prevenuto che percuotendo con calci e pugni la moglie, ingiuriandola con espressioni offensive ed ostentando una relazione extraconiugale con la stes-sa, usava continui maltrattamenti nei confronti della stessa. In merito alla fattispecie ascritta si rileva, che, mentre il “semplice” tradimento coniugale non costituisce reato, quando questo è ripetuto e associato ad altri comportamenti che risultano umilianti o lesivi della dignità del coniuge può venirsi a configurare il reato di maltrattamenti familiari.
Tribunale Firenze Sez. I, 27 luglio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In ordine all’abitualità dei comportamenti maltrattanti di cui all’art. 572 c.p., essi devono essere tali da cagionare sofferenza, prevaricazione e umiliazioni e da creare fonti di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza.
Tribunale Genova Sez. I, 5 luglio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto previsto dall’art. 572 c.p. si configura attraverso la sottoposizione del familiare ad una serie di soffe¬renze fisiche e morali che, isolatamente considerate, potrebbero anche non costituire reato, in quanto la ratio dell’antigiuridicità penale risiede nella loro reiterazione protrattasi in un arco di tempo che può essere anche limitato e nella persistenza dell’elemento intenzionale. Di talché l’integrazione della fattispecie in parola non può essere esclusa ove alle condotte penalmente rilevanti si alternino momenti di vita familiare comunque sereni e gratificanti, in quanto le ripetute manifestazioni di mancanza di rispetto e di aggressività conservano il loro connotato di disvalore in ragione del loro stabile prolungarsi nel tempo.
Tribunale Firenze Sez. I, 4 luglio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra la condotta p. e p. dall’art. 572 c.p., la condotta di chi abbia posto in essere reiterati comportamenti di maltrattamento nei confronti della ex convivente e del figlio.
Cass. pen. Sez. VI, 28 giugno 2017, n. 40959 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore affidato, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma con¬cretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. VI, 28 giugno 2017, n. 39338 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Commette il delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. la gestrice di fatto di un albergo che nei confronti di una lavoratrice tenga condotte vessatorie in un contesto di parafamiliarità, ossia di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratteriz¬zate da discrezionalità e informalità.
Tribunale Genova, 28 giugno 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per l’integrazione del delitto ex art. 572 c.p. è necessaria una condotta di vessazione continuativa, la quale deve costituire fonte di un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita, poiché altrimenti deve escludersi l’abitualità del comportamento, implicita nella struttura normativa della fattispecie, ed i singoli fatti che ledono o mettono in pericolo l’incolumità di una persona della famiglia conservano la propria autonomia di reati contro la persona.
Cass. pen. Sez. VI, 27 giugno 2017, n. 35673 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reato di maltrattamento, la cessazione della convivenza da parte di un uomo – non legato con la donna maltrattata da rapporto di coniugio – non consente di qualificare la prosecuzione della condotta persecu¬toria nell’ambito del reato di cui all’art. 572 c.p., dovendosi tale parte della condotta qualificare nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 612-bis, comma 2, c.p.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 15 giugno 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Incorre nell’imputazione per il reato di maltrattamenti in famiglia il prevenuto che, attraverso continue, perduranti e reiterate vessazioni di ordine psicologico e fisico, rendeva penosa ed intollerabile la convivenza alla moglie, fa¬cendola vivere in un clima di paura e prostrazione. In merito alla fattispecie ascritta la materialità del fatto deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o morali, reiterati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica inten¬zione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze.
Tribunale Firenze Sez. II, 5 maggio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti si caratterizza per una “condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determi¬nano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze”.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 26 aprile 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, ai fini della sussistenza della abitualità quale requisito del reato di maltrat¬tamenti in famiglia, è sufficiente che gli atti vessatori siano ripetuti, anche se per un limitato periodo di tempo, ed idonei a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa, non essendo, di contro, necessario che la condotta illecita venga realizzata in un lasso di tempo prolungato.
Cass. pen. Sez. VI, 20 aprile 2017, n. 25498 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente “more uxorio” con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione. (In motivazione, la S.C. ha precisato che la permanenza del complesso di obblighi verso il figlio implica il permanere in capo ai genitori, che avevano costi¬tuito una famiglia di fatto, dei doveri di collaborazione e di reciproco rispetto).
La cessazione della convivenza non esclude, per ciò stesso, la configurabilità di condotte di maltrattamento tra i componenti della coppia quando il rapporto personale di fatto sia stato il risultato di un progetto di vita fondato sul¬la reciproca solidarietà ed assistenza, la cui principale ricaduta non può che essere il derivato rapporto di filiazione.
Cass. pen. Sez. VI, 19 aprile 2017, n. 27088 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le condotte criminose poste in essere nei confronti del familiare convivente integranti percosse ed umiliazioni in danno del medesimo, ma prive del connotato dell’abitualità, in quanto verificatesi nell’ambito di un rapporto conflittuale, e di volta in volta commesse quale (abnorme) reazione occasionata da specifici comportamenti posti in essere dalla vittima, e, dunque, non come espressione della volontà di determinare in questa un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita, non risultano sussumibili nel reato di maltrattamenti in famiglia, ma integrano distinti episodi autonomamente rilevanti (nella specie di percosse, di lesioni, ed even¬tualmente di diffamazione, tuttavia non perseguibili per difetto o rimessione accettata di querela).
Cass. pen. Sez. I, 19 aprile 2017, n. 206 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 572 cod. pen., è sufficiente la sussistenza di un rapporto di convivenza caratterizzato dalla situazione di fatto della sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra, che non deriva da un rapporto di familiarità o di lavoro, ma si sviluppa in un contesto di affidamento e di soggezione del sottoposto rispetto a chi assume una posizione di supremazia. (Fattispecie in cui la Corte ha riconosciuto la configurabilità del reato commesso da una persona, da tutti riconosciuta come “badante” della vittima, pur in mancanza della consacrazione di tale relazione in un formale rapporto di lavoro).
Tribunale Torino, 14 aprile 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Incorre nell’imputazione per il reato p. e p. dall’art. 572 c.p. il prevenuto che maltratti il figlio minore costrin¬gendolo ad un regime di vita umiliante e vessatorio picchiandolo abitualmente in vari modi e cagionandogli varie ecchimosi. L’elemento soggettivo della fattispecie ascritta consiste nella coscienza e volontà dell’agente di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che ne avviliscono la personalità.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 11 aprile 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte criminose, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è, invece, sufficiente la consapevolezza, in capo all’autore del reato, di persistere in un’attività delittuosa, già posta in es¬sere in precedenza, idonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice.
Cass. pen. Sez. III, 7 aprile 2017, n. 4183 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo, invece, sufficienti la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la perso¬nalità della vittima.
Tribunale Campobasso, 5 aprile 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia posti in essere ai danni del coniuge, occorre di volta in volta verificare se la condotta irrispettosa dell’un coniuge verso l’altro assuma connotati di tale gravità da costituire per il soggetto passivo fonte abituale di sofferenze fisiche e morali, nel qual caso è configurabile l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 572 c.p.), ovvero si concreti nella inosservanza cosciente e volontaria dell’obbligo di assistenza morale ed affet¬tiva verso l’altro coniuge, nel qual caso si versa nell’ipotesi delittuosa ex art. 570, comma 1, c.p., ovvero, infine, abbia carattere meramente estemporaneo ed occasionale.
Tribunale Genova Sez. I, 21 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p., può essere commesso da qualsiasi membro della famiglia in danno di un altro, anche non convivente, purché la relazione tra i due sia di intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà reciproche.
Tribunale Ascoli Piceno, 15 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ imputabile per il reato p. e p. dall’art. 572 c.p. il prevenuto che con condotte abituali, maltrattava la propria figlia minore, sottoponendola a vessazioni psicologiche con atti di disprezzo ed umiliazioni che le cagionavano profonde sofferenze morali. Nel caso di specie il reato deve ritenersi pienamente integrato avendo posto in es¬sere il prevenuto, una pluralità di atti di sopraffazione (reiterate ingiurie, minacce, molestie, atti di aggressività verbale eclatante posti in essere non a carico della figlia ma in presenza della stessa) ripetuti nel tempo attra¬verso cui l’imputato gettava in uno stato di angoscia la figlia ledendo sistematicamente la sua dignità morale e la sua integrità psico-fisica.
Cass. pen. Sez. III, 21 febbraio 2017, n. 16543 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti (art. 572 cod. pen.) integra una ipotesi di reato necessariamente abituale che si ca¬ratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), idonei a cagionare nella vittima durevoli sof¬ferenze fisiche e morali.
Cass. pen. Sez. VI, 15 febbraio 2017, n. 11956 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore affidato, anche lì dove fosse sostenuto da “animus corrigendi”, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti. (In appli¬cazione del principio, la S.C. ha riqualificato, ai sensi dell’art. 572 cod. pen., la condotta dell’insegnante della scuola materna di ripetuto ricorso alla violenza, sia psicologica che fisica nei confronti dei bambini, per finalità educative, non rilevando in senso contrario il limitato numero di episodi di violenza che ciascun bambino, singo¬larmente considerato, aveva subito).
Gli atti di violenza esercitati da un’insegnante di scuola materna nei confronti di infanti di tre anni devono essere qualificati come delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e non come abuso dei mezzi di correzione e di disciplina (art. 571 c.p.), atteso peraltro che le dichiarazioni dei bimbi, per quanto da valutarsi con particolare attenzione, non possono ritenersi aprioristicamente inaffidabili.
Cass. pen. Sez. VI, 15 febbraio 2017, n. 10906 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel reato di maltrattamenti familiari possono essere riconosciute le attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis c.p. ai genitori che, per la loro inadeguatezza etno-culturale, ritengono consentite punizioni corporali sul figlio minore che nel Paese di origine (Marocco) non costituiscono illecito, allorquando la loro incapacità culturale non gli ha permesso di rendersi conto della patologia diagnosticata al figlio stesso a causa dei loro atti, nonché per la loro incapacità di gestirne i suoi comportamenti oppositivi e provocatori (ricondotti, pur sbagliando, ad aspetti caratte¬riali) che si proponevano di contenere con metodi non certamente consentiti ed erroneamente ritenuti educativi.
Cass. pen. Sez. VI, 14 febbraio 2017, n. 9154 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il compimento sistematico di atti di natura vessatoria integra il reato previsto dall’art. 572 c.p. anche qualora le condotte dell’agente siano sorrette da un intento educativo o animate da spirito “di protezione”.
Corte d’Appello Cagliari Sez. II, 9 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sussiste il reato ex art. 572 c.p. allorché il soggetto agente abbia assoggettato la di lui madre ad un regime di vita intollerabile, caratterizzato da un’abituale e prolungata serie di aggressioni verbali, minacce, ingiurie e danneggiamenti degli arredi e delle suppellettili della casa.
Cass. pen. Sez. VI, 8 febbraio 2017, n. 10901 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto previsto dall’art. 572 c.p. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sotto¬porre la vittima ad un’abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza.
Cass. pen. Sez. VI, 1 febbraio 2017, n. 10932 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di cui all’art. 572 c.p. sussiste in caso di reiterate condotte vessatorie poste in essere in costanza di separazione legale o di fatto, in presenza della quale persistono i doveri di rispetto reciproco, assistenza morale e materiale e di solidarietà sociale sorti dal rapporto coniugale.
Tra coniugi che siano soltanto separati legalmente e non ancora divorziati non si configura l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p., bensì il reato di maltrattamenti in famiglia ai sensi dell’art. 572 c.p., in ragione della permanenza del vincolo famigliare nel caso di semplice separazione.
Cass. pen. Sez. VI, 24 gennaio 2017, n. 17574 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel reato di maltrattamenti contro familiari, oltre che verificare l’abitualità dei comportamenti offensivi, è neces¬sario accertare la sussistenza dell’elemento psicologico del “dolo abituale”, non potendosi richiamare il generico criterio per il quale non occorre uno specifico programma criminoso, ma è sufficiente la consapevolezza di persi¬stere in un’attività vessatoria diretta a ledere la personalità della vittima, dovendosi, invero, valutare la coscien¬za e la volontà di persistere in una tale siffatta attività. A sua volta, anche in mancanza di dati probatori nuovi e senza il rinnovo dell’istruttoria dibattimentale, è ben possibile la reformatio in peius della sentenza assolutoria di primo grado, purché il (nuovo) giudizio di condanna reso in appello poggi su argomentazioni più forti, tali da elidere il dubbio che potrebbe essere evocato dal contrasto tra le due sentenze.
Corte d’Appello Palermo Sez. IV, 20 gennaio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, il delitto di maltrattamenti è integrato da atti di sopraffazione sistematica, tali da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza, caratterizzati dall’elemento psichico, che deve evidenziare nell’agente la consapevolezza e la volontà di avvilire e sopraffare la vittima e deve ricondurre ad unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e materiale di quest’ultima.
Tribunale Bari Sez. I, 20 gennaio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Incorre nell’imputazione per il reato di maltrattamenti in famiglia il prevenuto che poneva in essere una serie di atti lesivi dell’integrità psicofisica della moglie e la maltrattava sottoponendola ad un regime di vita vessatorio e violento, così rendendo abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni familiari, offendendola, picchiandola frequentemente ed impedendole di coltivare i sui interessi. L’oggetto giuridico della tutela penale apprestata dall’art. 572 c.p. non è solo l’interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia da comportamenti vessatori e violenti ma è anche la difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari.
Cass. pen. Sez. VI, 4 novembre 2016, n. 52900 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia, configurando un’ipotesi di reato abituale, si consuma nel momento e nel luo¬go in cui le condotte poste in essere divengono complessivamente riconoscibili e qualificabili come maltrattamenti; fermo restando che, attesa la struttura persistente e continuativa del reato, ogni successiva condotta di maltrat¬tamento compiuta si riallaccia a quelle in precedenza realizzate, saldandosi con esse e dando vita ad un illecito strutturalmente unitario; ne deriva che il termine di prescrizione decorre dal giorno dell’ultima condotta tenuta.
Tribunale Campobasso, 2 novembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto p. e p. dall’art. 572 c.p. si concreta nella sottoposizione dei familiari ad atti di vessazione continui, tali da cagionare agli stessi sofferenze, privazioni, umiliazioni che costituiscano fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza. Ai fini della configurabilità della fattispecie ascritta occorre accertare se la condotta irrispettosa di uno dei coniugi verso l’altro sia così grave da costituire, per il coniuge vessato, fonte abituale di sofferenze fisiche e morali ovvero si concreti nell’inosservanza, cosciente e volonta¬ria, dell’obbligo di assistenza morale ed affettiva dei coniugi, derivante dal matrimonio, oppure abbia carattere estemporaneo ed occasionale in quanto espressione di un momento di particolare tensione che può verificarsi nella vita di coppia.
Tribunale Ivrea, 12 ottobre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È imputabile per il reato di maltrattamenti in famiglia il prevenuto che colpendo con calci e pugni ripetutamente la madre in più occasioni e minacciandola in vario modo, la costringeva a subire continue aggressioni fisiche ed umiliazioni morali, facendola vivere in uno stato di prostrazione sia fisica che morale. Alcun dubbio sussiste in merito alla configurabilità del reato p. e p. dall›art. 572 c.p., ricorrendone sia l›elemento materiale, cioè la reiterazione, per apprezzabile lasso di tempo, di percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni, atti di disprezzo e di offesa alla dignità imposti dall›imputato ai familiari conviventi, sia quello psicologico, ritenendosi sufficiente, ad integrare il dolo del delitto de qua, la consapevolezza dell›autore del reato di persistere in un›attività delittuosa.
Cass. pen. Sez. VI, 11 ottobre 2016, n. 48703 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti verso familiari e con¬viventi, l’intento educativo e correttivo non esclude il reato di cui all’art. 572 c.p. in caso di sistematico ricorso ad atti di violenza commessi nei confronti di minori.
Tribunale Bari Sez. I, ottobre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è integrato anche quando le sistematiche condotte violente e sopraffat¬trici non realizzano l’unico registro comunicativo con il familiare, ma sono intervallate da condotte prive di tali connotazioni o dallo svolgimento di attività familiari, anche gratificanti per la parte lesa, poiché le ripetute ma¬nifestazioni di mancanza di rispetto e di aggressività conservano il loro connotato di disvalore in ragione del loro stabile prolungarsi nel tempo. Per l’integrazione dell’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia è imprescindibile il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se per un limitato periodo di tempo.
Cass. pen. Sez. VI, 28 settembre 2016, n. 51591 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previsto dall’art. 571 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’art. 572 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente com¬portamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico (nella specie, lancio di oggetti verso il dipendente e imposizione di stare seduto per lungo tempo davanti alla scrivania del datore di lavoro senza svolgere alcuna funzione).
Commette il delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., e non il meno grave delitto di abuso dei mezzi di correzione o disciplina punito dall’art. 571 c.p., il datore di lavoro che nei confronti di un lavoratore dipendente tenga condotte non riconducibili alla nozione di abuso in quanto eccentriche rispetto all’esercizio, pur eccedente i limiti fisiologici, del potere di correzione e disciplinare funzionale ad assicurare la qualità e l’efficacia del risul¬tato perseguito dalla singola organizzazione lavorativa, e, quindi, condotte che valgono ad integrare il delitto di maltrattamenti, sempreché siano caratterizzate da parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro, di abitudini di vita proprie e fisiologiche alle comunità familiari per la stretta comunanza di vita, nonché di af¬fidamento e fiducia del sottoposto (soggetto più debole) rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, contraddistinte da ampia discrezionalità ed informalità.
Cass. pen. Sez. VI, 28 settembre 2016, n. 51591 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto di cui all’art. 572 c.p. la realizzazione, da parte del datore di lavoro, di pratiche persecutorie realizzate in un contesto lavorativo caratterizzato da parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro, di abitudini di vita proprie e fisiologiche alle comunità familiari per la stretta comunanza di vita, nonché di af¬fidamento e fiducia del sottoposto (soggetto più debole) rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.
Tribunale Firenze Sez. II, 2 agosto 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La realizzazione di condotte di reiterata violenza fisica o psicologica nei confronti dell’altro genitore integra il de¬litto di maltrattamenti in famiglia nei confronti dei figli ogni qualvolta essi siano resi sistematici spettatori obbli¬gati delle stesse. Tale atteggiamento integra, invero, anche una omissione connotata da deliberata e consapevole indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affittivi ed esistenziali della prole.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 19 luglio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel rapporto tra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, la osservanza della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612 bis, comma 1, c.p., rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie, risultando configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori solo in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale.
Corte d’Appello Palermo Sez. IV, 7 luglio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel delitto di maltrattamenti in famiglia le condotte sono poste in essere ai danni di un familiare ovvero di un convivente; tale fattispecie si differenzia da quella di stalking in quanto la condizione di coniuge separato o divorziato costituisce circostanza aggravante della fattispecie, potendo, la vittima del reato, essere anche una persona estranea all’ambito familiare. Pertanto si configura il delitto di maltrattamento nel caso in cui le condotte criminose siano cosumate ai danni del convivente mentre sussiste la fattispecie p. e p. dall’art. 612-bis c.p., rela¬tivamente alle condotte assunte dopo la fine del rapporto di convivenza, costituendo, tale circostanza, il criterio discriminante tra le due ipotesi delittuose.
Cass. pen. Sez. II, 5 luglio 2016, n. 39331 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche qualora la condotta sia commessa ai danni del coniuge le¬galmente separato.
È configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l›agente, quando quest›ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione. (In motivazione, la S.C. ha altresì precisato che la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie e, pertanto, quanto al rapporto tra i coniugi, la separazione legale non esclude il reato quando le condotte persecutorie incidano sui vincoli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, nonché di collaborazione, che permangono integri anche seguito della cessazione della convivenza).
Il reato di maltrattamenti in famiglia si configura anche a seguito della cessazione della convivenza e in presenza della separazione, qualora l’attività persecutoria si contestualizzi in ambito familiare. Ciò in quanto, il vincolo coniugale non viene meno con la separazione legale, ma si attenua soltanto, posto che rimangono integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale, nonché di collaborazione tra coniugi. Ne discende che lad¬dove la condotta criminosa incida sui rapporti familiari, la separazione non esclude il reato di cui all’art. 572 c.p.
Tribunale Genova Sez. II, 21 giugno 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È imputabile per il reato p. e p. dall›art. 572 CP, perché, sottoponendo la propria madre ad una lunga serie di atti vessatori tali da determinare reiterate e durevoli sofferenze psichiche e morali, costituite da ingiurie, da privazioni, da umiliazioni, da un completo disinteresse per le condizioni psicofisiche della madre, poneva in essere una condotta di sistematica vessazione e sopraffazione della persona offesa, avvilendone la personalità e maltrattandola.
Cass. pen. Sez. VI, 1 giugno 2016, n. 26766 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore possono integrare il delitto di maltrattamenti in fa¬miglia quando il soggetto agente versi in una posizione di supremazia, che si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere specularmente ipotizzabile una soggezione, anche di natura meramente psicologica, del soggetto passivo, riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supre¬mazia. (Nella fattispecie, è stato escluso il reato con riguardo a condotte dei titolari di una tabaccheria in danno di una dipendente quali abituali atti di scherno, disprezzo e vilipendio, riguardanti il suo aspetto fisico e le sue competenze professionali, anche al cospetto dei clienti, così da determinare l’insorgere nella stessa di una pa¬tologia psichica. Afferma che, “con particolare riferimento ai rapporti di lavoro, occorre”. E annulla senza rinvio per insussistenza del fatto la condanna, sull’asserito presupposto che “nella situazione oggetto del presente procedimento, relativa ai rapporti tra i gestori di una ricevitoria e una loro dipendente, qualificabili in termini di lavoro subordinato, non ricorreva quel nesso di supremazia-soggezione che ha esposto la parte offesa a situa¬zioni assimilabili a quelle familiari”.
Cass. pen. Sez. VI, 19 maggio 2016, n. 30704 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia presuppone la sussistenza di un vincolo familiare, o comunque di stretta assistenza e solidarietà reciproche, vincolo che viene meno con l’allontanamento del coniuge o convivente dal domicilio familiare attraverso il quale si manifesta la chiara volontà di rompere il sodalizio familiare. Ciò posto, si configura il reato di maltrattamenti in famiglia, disciplinato dall’art. 572 c.p. nell’ipotesi di sussistenza del vincolo familiare mentre si configura il reato di atti persecutori, disciplinato dall’art. 612-bis c.p. nell’iposi del venir meno di detto vincolo.
In tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. – che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della rela¬tiva fattispecie – è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen.) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamen¬ti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva configurato il concorso tra i due reati, sul presupposto della diversità dei beni giuridici tutelati, ritenendo integrato quello di maltrattamenti in famiglia fino alla data di interruzione del rapporto di convivenza e poi, dalla cessazione di tale rapporto, quello di atti persecutori).
Corte d’Appello Roma Sez. III, 6 maggio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, è da ritenersi integrato il reato di maltrattamenti, laddove il soggetto agente ponga in essere una condotta abitualmente lesiva e vessatoria nei confronti dei componenti della sua famiglia, con atteggiamento di prevaricazione, di prepotenza, di disprezzo e di violenza, contravvenendo anche al minimo dovere di mutuo rispetto che caratterizza i rapporti familiari, con consapevolezza e volontà degli atti di maltrat¬tamenti, della loro reiterazione e quindi della sottoposizione dei soggetti passivi ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuativo ed abituale.
Cass. pen. Sez. V, 4 maggio 2016, n. 41665 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispe¬cie; è, invece, configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen.) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale. Ne deriva che è configurabile il solo delitto di maltrattamenti in famiglia allorché le condotte criminose siano poste in essere in costanza di separazione legale.
Cass. pen. Sez. II, 21 aprile 2016, n. 17719 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti fra il reato di cui all’art. 572 c.p. e quello di cui all’art. 612-bis c.p., salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma 1, c.p. – che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie – è invece confi¬gurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis, comma 2, c.p.) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale.
Cass. pen. Sez. III, 7 luglio 2016, n. 10497 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia, previsto dall’art. 572 cod. pen., può concorrere con il reato di minaccia grave nell’ipotesi in cui la minaccia sia finalizzata al conseguimento dell’impunità per i maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. VI, 6 aprile 2016, n. 24375 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti è una fattispecie necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, i quali acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.
Cass. pen. Sez. VI, 23 marzo 2016, n. 19852 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il cagionare nella vittima minore, all’agente affidata per ragioni di educazione e/o istruzione, sofferenze fisiche e/o morali, pur se accompagnate dall’intenzione di agire per finalità educative e correttive, non integra la con¬dotta tipica del delitto di abuso dei mezzi di correzione ex art. 571 c.p. I trattamenti lesivi dell’incolumità fisica o afflittivi della personalità del minore costituiscono, invece, l’elemento materiale del reato di maltrattamenti, previsto dall’art. 572 c.p.
Tribunale Genova Sez. I, 23 marzo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 del Codice Penale è necessario il dolo generico ovvero la coscienza e volontà di sottoporre la vittima a sopraffazioni fisiche e morali ripetute nel tempo ed in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e vessazioni in grado di incidere sulla sua personalità avvilendola.
Tribunale Napoli, 16 marzo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia configura una ipotesi di reato necessariamente abituale, costituito da una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali acquistano rilevanza penale per la loro reiterazione nel tempo. Trattasi di fatti singolarmente lesivi dell’integrità fisica o psichica del soggetto passivo, i quali non sempre, singolarmente considerati, configurano ipotesi di reato, ma che valutati nel loro complesso devono inte¬grare, ai fini della configurabilità del delitto in parola, una condotta di sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la convivenza particolarmente dolorosa.
Cass. pen. Sez. VI, 10 marzo 2016, n. 13422 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia può essre integrato anche mediante il compimento di atti che, di per sè, non costituiscono reato. (In motivazione, la Corte ha precisato come il termine “maltrattare” non evoca in sè la necessità del compimento di singole condotte riconducibili a fattispecie tipiche ulteriori rispetto a quella di cui all’art.572 cod.pen.).
Tribunale Ivrea, 6 mazo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’integrazione del reato di maltrattamenti in famiglia richiede, in punto di elemento soggettivo, un dolo generico consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e vessazioni che ne avviliscono la personalità.
Corte d’Appello Roma Sez. III, 2 marzo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reati contro la famiglia, ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., la convivenza non è un presupposto necessario, essendo a tal fine sufficiente che tra i soggetti coinvolti sussi¬sta un legame sentimentale assistito dal carattere dell’abitualità e della frequentazione nel medesimo luogo di abitazione, suscettibile di far sorgere sentimenti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale.
Cass. pen. Sez. II, 17 febbraio 2016, n. 8401 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di cui all’art. 572 c.p., per fatti avvenuti prima della sua riforma avvenuta nel 2012 e nel 2013, è con¬figurabile anche in danno di persona convivente more uxorio, quando si sia in presenza di un rapporto tenden¬zialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra le due persone, con legami di reciproca assistenza e protezione e dal quale emerga un progetto di vita comune.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in danno di persona convivente “more uxorio”, quan¬do si sia in presenza di un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra le due persone, con legami di reciproca assistenza e protezione. La valutazione della esistenza del legame richiede un giudizio di merito che deve essere trasfuso in una motivazione priva di fratture logiche ed aderente alla emer¬genze processuali e tale può considerarsi il fatto che l’imputato e la parte offesa successivamente alla nascita della figlia abbiano deciso di convivere e abbiano preso in locazione una casa familiare nonché la circostanza che l’imputato ancorché si sia reso protagonista di frequenti allontanamenti dalla casa familiare abbia continuato a pagare il canone di locazione le quote condominiali e le bollette relative alle utenze dell’abitazione. Tali elementi inducono a ritenere sussistente un comune intento della coppia di iniziare e proseguire una stabile convivenza con caratteristiche della famiglia di fatto, ovvero un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assi-stenza.
Tribunale Napoli, 17 febbraio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato è costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o meno, realizzati in tempi successivi, ma collegati dal nesso di abitualità ed uniti da un’unica intenzio¬ne criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo. La caratteristica del reato necessariamente abituale è, dunque, rappresentata dal fatto che ciascuna delle singole azioni costituisce un elemento della serie, al realizzarsi del quale sorge la condotta tipica.
Cass. pen. Sez. III, 11 febbraio 2016, n. 14742 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato anche quando le sistematiche condotte violente e sopraffattrici non realizzano l’unico registro comunicativo con il familiare, ma sono intervallate da condotte prive di tali con¬notazioni o dallo svolgimento di attività familiari, anche gratificanti per la parte lesa, poiché le ripetute mani¬festazioni di mancanza di rispetto e di aggressività conservano il loro connotato di disvalore in ragione del loro stabile prolungarsi nel tempo.
Lo stato di nervosismo e di risentimento non esclude l’elemento psicologico del reato di maltrattamenti in fami¬glia, costituendo, al contrario, uno dei possibili moventi dell’ipotesi delittuosa. (La S.C. ha applicato il suddetto principio di diritto in fattispecie relativa allo stato di risentimento dell’imputato, determinato dal rifiuto del co¬niuge a congiungersi carnalmente).
Cass. pen. Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 9954 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che faccia ricor¬so a qualunque forma di violenza, fisica o morale, ancorché minima ed orientata a scopi educativi. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva ricondotto al predetto reato la condotta di una insegnante che aveva sottoposto i bambini a lei affidati a violenze fisiche, consistite in schiaffi o nel tirare loro i capelli con forza, ovvero a violenza psicologica e, ancora, a condotte umilianti, come il minacciarli dell’arrivo di un diavoletto, nel costringerli a cantare o a mangiare, nel farli tenere la lingua fuori dalla bocca).
Cass. pen. Sez. Unite, 29 gennaio 2016, n. 10959 (Dir. Pen. e Processo, 2016, 8, 1063 nota di MICHELA-GNOLI)
L’espressione “delitti commessi con violenza alla persona” comprende anche i reati di atti persecutori e di mal¬trattamenti in famiglia. Il sintagma ‘violenza alla persona’ deve essere inteso alla luce del concetto di violenza di genere, quale risulta dalle relative disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario. La nozione di violenza sviluppata in ambito internazionale e comunitario è più ampia di quella prevista nel codice penale italiano ed è comprensiva non solo delle aggressioni fisiche ma anche morali o psicologiche.
La disposizione dell’art. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen., che stabilisce l’obbligo di dare avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dei delitti commessi con “violenza alla persona”, è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsti rispettivamente dagli artt. 612-bis e 572 cod. pen., in quanto l’espressione “violenza alla persona” deve essere intesa alla luce del concetto di “vio¬lenza di genere”, risultante dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario.
Cass. pen. Sez. VI, 26 gennaio 2016, n. 8886 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Spetta al giudice ordinario la competenza a conoscere del delitto di maltrattamenti in famiglia allorché la con¬dotta criminosa, benché iniziata quando l’imputato era ancora minorenne, sia terminata in epoca successiva al raggiungimento della maggiore età, trattandosi di una fattispecie di reato unica non suscettibile di frazionamenti.
Tribunale Genova, 26 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di una relazione coniugale, il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 del Codice Penale si configura in presenza di condotte vessatorie reiterate nel tempo che assumano il carattere di abitualità attra¬verso la sottoposizione del familiare ad una serie abituale di privazioni, sofferenze, umiliazioni tali da risultare incompatibili con le normali condizioni di vita e creare nella vittima uno stato di abituale soggezione psicologica.
Tribunale Firenze Sez. I, 26 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia non è integrato soltanto dalle percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazio¬ni ed umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di umiliazione e disprezzo della vittima, che comportino vere e proprie sofferenze morali. Nel caso di specie costituiscono una vera e propria sofferenza morale lo stato d’animo della vittima, costantemente soggetta a richieste di prestazioni intime, dalla stesse non gradite, e per questo insultata e svalorizzata.
Cass. pen. Sez. III, 19 gennaio 2016, n. 18937 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La condotta di maltrattamenti contro familiari o conviventi può consistere anche nella privazione pressoché totale del sostegno economico ai danni della persona offesa, a maggior ragione se unita ad ulteriori condotte vessatorie di altro genere. Non può invece rientrare nella fattispecie di cui all’art. 572 c.p. la costrizione del coniuge al rapporto sessuale: il rapporto di coniugio non comporta alcun diritto a pretenderne la consumazione contro la volontà del consorte, ragion per cui il predetto comportamento integra pienamente il delitto di violenza sessuale ex art. 609-bis c.p.
Cass. pen. Sez. VI, 12 gennaio 2016, n. 2625 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché l’interesse protetto dal reato di cui all’art. 572 cod. pen. è la personalità del singolo in relazione al rap¬porto che lo unisce al soggetto attivo, è configurabile una pluralità di reati, eventualmente unificati dalla conti¬nuazione, nel caso di maltrattamenti posti in essere nei confronti di più familiari.
Tribunale Firenze Sez. I, 8 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, la relazione di convivenza tra i componenti della famiglia non è elemento essenziale per la configurabilità della condotta incriminata, essendo preminente l’aspetto della mera relazione familiare dalla quale scaturiscono gli obblighi in capo ai partecipanti del nucleo. In particolare, laddove la con¬dotta venga realizzata da un padre nei confronti della prole, i doveri di padre restano vigenti anche quando la convivenza non c’è, con la conseguenza che, laddove sussistano gli elementi costitutivi del reato, cioè la sotto¬posizione ad atti di vessazione reiterata, tali da cagionare sofferenza, prevaricazione ed umiliazioni, in quanto costituenti fonti di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di esistenza, gli estre¬mi del reato sono da ritenersi pienamente integrati anche in difetto di convivenza.
Cass. pen. Sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 7760 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., l’esistenza, in una casa di cura e ricovero per anziani, di un generalizzato clima di sopraffazione e violenza nei confronti degli assistiti non esime dalla rigorosa individuazione dei distinti autori delle varie condotte, in quanto il carattere personale della responsabilità penale impedisce che il singolo addetto, in mancanza di addebiti puntuali che lo riguardano, possa essere chiamato a rispondere, sia pure in forma concorsuale, del contesto in sé considerato, anche nel caso in cui da tale contesto egli tragga vantaggio.
Cass. pen. Sez. VI, 18 novembre 2015, n. 4170 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’uso sistematico della violenza sui minori, anche nel caso in cui sia sostenuto dal c.d. animus corrigendi, integra gli estremi del delitto di cui all’art. 572 c.p.
Cass. pen. Sez. VI, 13 novembre 2015, n. 5258 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In un contesto familiare di continua conflittualità, ove alla veemenza verbale ed alla collera del marito la moglie risponde con capacità reattiva e non con un supino atteggiamento, non può configurarsi il delitto di maltratta¬menti in famiglia.
Tribunale Bari Sez. I, 15 dicembre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella nozione di “maltrattamenti” di cui all’art. 572 c.p. rientrano i fatti lesivi dell’integrità fisica e del patrimo¬nio morale del soggetto passivo, che rendano abitualmente dolorose le relazioni familiari, che si manifestano mediante le sofferenze morali che determinano uno stato di avvilimento ed offendono il decoro e la dignità della persona, sia con atti o parole che con violenze capaci di produrre sensazioni dolorose ancorché tali da non la¬sciare traccia.
Cass. pen. Sez. VI, 8 ottobre 2015, n. 46336 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Risponde del delitto di maltrattamenti, aggravati dal fine della discriminazione razziale, in danno di un dipenden¬te straniero, l’amministratore di fatto di una Snc che abbia attuato condotte vessatorie nell’ambito di un’azienda a conduzione familiare.
Cass. pen. Sez. VI, 29 settembre 2015, n. 45077 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La figura di reato di cui all’art. 572 c.p. non costituisce la tutela penale del mobbing lavorativo, che, purtutta¬via, può essere ricondotto a tale ipotesi criminosa solo quando il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura parafamiliare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.
A prescindere dalla prova delle condotte vessatorie, la pratica del mobbing lavorativo può integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia solo allorquando il rapporto professionale presenti il carattere della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abi¬tudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del soggetto “debole” nei confronti di chi ha la posizione di supremazia.
Cass. pen. Sez. VI, 17 settembre 2015, n. 17950 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti a carico del coniuge è ravvisabile anche quando gli atti vessatori, confliggenti con un nor¬male regime di vita, siano posti in essere dopo la separazione di fatto e la cessazione della convivenza stricto iure.
Cass. pen. Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 44589 (Dir. Pen. e Processo, 2016, 4, 477 nota di ARRIGO)
La fattispecie di cui all’art. 572 c.p., lungi dal rappresentare il generico strumento di repressione penale del mobbing lavorativo, può trovare applicazione solo in presenza di situazioni del tutto particolari, che conferiscano al rapporto il carattere della parafamiliarità, come ad esempio la sovrapposizione tra dinamiche professionali e relazioni familiari vere e proprie.
Al mobbing in ambito lavorativo è applicabile l’art. 572 c.p. purché vi sia con la vittima un rapporto di “para-familiarità”. Infatti, il delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo alla condizione che sussista il presupposto della “para-familiarità”, intesa come sottoposizione di una persona alla autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all’azione di chi ha la posizione di supremazia.
Cass. pen. Sez. VI, 29 settembre 2015, n. 43960 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il deterioramento del rapporto matrimoniale e la relazione extraconiugale del marito, manifestata alla moglie, non integra già di per sé il delitto di maltrattamenti, a meno che non sussistano altri elementi idonei a creare una situazione di sofferenza morale e fisica alla donna. Così pure non c’è (violenza economica), secondo la sentenza n. 43960/2015, se le scelte economiche e organizzative familiari, anche se non condivise allo stesso modo da entrambi i coniugi, sono compiute senza vessazioni o violenze fisiche.
Cass. pen. Sez. V, 16 luglio 2015, n. 47543 (Quotidiano Giuridico, 2015 nota di SCARCELLA)
Integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che umilii, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno causandogli pericoli per la salute, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità.
Cass. pen. Sez. VI, 7 luglio 2015, n. 32156 (Famiglia e Diritto, 2015, 10, 937)
Il rapporto sentimentale, sia pure di una certa durata, che difetti di qualsiasi manifestazione tangibile di stabilità, quale la convivenza, non consente di ritenere creatasi neppure quella situazione di minore reattività nella vitti¬ma, generata dall’affidamento e che consente di configurare il delitto di maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. VI, 30 giugno 2015, n. 30436 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito all’imputazione per il reato di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali aggravate, in danno del figlio minore, il termine correzione va inteso quale sinonimo di educazione con riferimento ai connotati intrin¬secamente conformativi di ogni processo educativo e non può certamente ritenersi tale l’uso abituale della vio¬lenza a scopi educativi, e cio’ sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignita’ delle persone, anche minori, in quanto titolari di specifici diritti e non piu’ come in passato semplici oggetto di protezione, sia perche’ non puo’ perseguirsi quale meta educativa lo sviluppo armonico della personalita’ mediante l’uso di un mezzo violento che tale fine contraddice. Ne consegue che l’eccesso di mezzi di correzione violenti concretizza il reato di maltrattamenti in famiglia e non rientra nella fattispecie di cui all’art. 571 c.p., neppure ove sostenuto da animus corrigendi non essendo, l’intenzione soggettiva, idonea a far rientrare nella fattispecie meno grave una condotta oggettiva di abituali maltrattamenti, umiliazioni, rimproveri anche per motivi banali, offese, minacce e violenze fisiche.
Cass. pen. Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 20126 (Quotidiano Giuridico, 2015 nota di PETRINI)
L’abitualità che caratterizza il delitto di maltrattamenti in famiglia può derivare dal continuo ed invasivo controllo da parte del marito, divorato da una patologica ed incontenibile gelosia nei confronti della moglie. Ma il giudice di merito deve vagliare con particolare attenzione la credibilità della vittima e dei testimoni, suoi prossimi con¬giunti, anche alla luce di eventuali motivi di astio di questi ultimi, derivanti da una pretesa risarcitoria di notevole valore economico, azionata in sede civile dall’indagato.
Cass. pen. Sez. III, 29 gennaio 2015, n. 14960 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di cause di giustificazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia (nella specie: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare) non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente ri¬conosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incom¬patibile con le regole dell’ordinamento italiano, in cui l’agente ha scelto di vivere, attesa l’esigenza di valorizzare – in linea con l’art. 3 Cost. – la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l’instaurazione di una società civile multietnica.
Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2015, n. 12065 (Famiglia e Diritto, 2015, 5, 507)
Il delitto ex art. 572 c.p. è necessariamente abituale, dal momento che si caratterizza per la sussistenza di comportamenti che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo. Le singole condotte assumono rilevanza nella misura in cui rendono evidente l’esistenza di un programma criminoso animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo.
La condotta penalmente rilevante di maltrattamenti in famiglia è riscontrabile soltanto laddove l’abitualità delle vessazioni riveli la programmatica strumentalizzazione di una relazione ai fini di una prevaricazione sistematica che induce, nella vittima, una perdurante afflizione.
Cass. pen. Sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 4332 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 422)
Integrano il reato di maltrattamenti in danno dei figli minori anche condotte di reiterata violenza fisica o psico¬logica nei confronti dell’altro genitore, quando i discendenti siano resi sistematici spettatori obbligati di tali com¬portamenti, in quanto tale atteggiamento integra anche una omissione connotata da deliberata e consapevole indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della prole.
Possono integrare il delitto di maltrattamenti (art. 572 c.p.) anche condotte omissive connotate da una delibe¬rata indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della “persona. debole” da tutelare; ne consegue che, nell’ambito della disamina della condotta maltrattante di un coniuge nei confronti dell’altro, va ricompresa nel novero dell’offensività, tipica della norma, anche la “posizione passiva dei figli mino¬ri” laddove questi siano “sistematici spettatori obbligati” delle manifestazioni di violenza, anche psicologica (nella specie del padre nei confronti della madre).
Cass. pen. Sez. II, 18 novembre 2014, n. 8998 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di minorata difesa, la circostanza aggravante di aver approfittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa, a seguito della modifica normativa introdotta dalla legge n. 94 del 2009, deve essere specificamente valutata anche in riferimento all’ età senile e alla debolezza fisica della persona offesa, avendo voluto il legislatore assegnare rilevanza ad una serie di situazioni che denotano nel soggetto passivo una particolare vulnerabilità della quale l’agente trae consapevolmente vantaggio. (Fattispecie relativa a una rapina in cui la vittima – una donna di settantaquattro anni – che aveva accennato una reazione alle minacce dei malfattori, veniva da questi afferrata per le spalle e scaraventata a terra).
Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 1400 (Famiglia e Diritto, 2015, 3, 281)
È idonea ad integrare il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia la coscienza e volontà di persistere in un›attività vessatoria, già posta in essere in precedenza. E› sufficiente che le condotte vessatorie siano tenute nella consapevolezza della loro ripetizione e della loro idoneità a creare una stabile e dolorosa patologia della vita familiare.
Integra il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi la condotta del marito che sottopone la moglie, nell’arco di un anno, a tre gravi e violente aggressioni fisiche, le quali si aggiungono a una situazione familiare contrassegnata dallo stato di frequente ubriachezza dello stesso, durante il quale egli sottopone la donna a insulti e vessazioni morali.
Il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la rappresentazione e la programmazione di una plu¬ralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo, invece, sufficiente la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima medesima.
Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53425 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche lì dove fosse sostenuto da “ani¬mus corrigendi”, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti. (In applicazione del principio, la S.C. ha annullato la decisione del giudice di merito qualificando ai sensi dell’art. 572 cod. pen., e non come abuso dei mezzi di correzione, la condotta di ripetuto ricorso alla violenza, sia psicologica che fisica, inflitta, per finalità educative, da una maestra di scuola materna ai bambini a lei affidati). (Annulla con rinvio, Trib. lib. Trieste, 29/04/2014)
Cass. pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416 (Famiglia e Diritto, 2015, 3, 281)
Ai fini della sussumibilità del mobbing nella fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti ex art. 572 c.p., l’esi¬stenza di una situazione para-familiare e di uno stato di soggezione e subalternità del lavoratore va verificata avendo riguardo delle dinamiche relazionali in seno all’azienda tra datore di lavoro e lavoratore.
Cass. pen. Sez. VI, 16 ottobre 2014, n. 49545 (Famiglia e Diritto, 2015, 2, 155)
Si deve escludere che, all’interno di una struttura pubblica, sia configurabile un rapporto di subordinazione la¬vorativa riconducibile a quelli di tipo parafamiliare, presupposto necessario per la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia.
Ai fini della punibilità dei comportamenti vessatori nei rapporti di lavoro mediante la fattispecie di maltrattamen¬ti in famiglia, è richiesta non solo la sussistenza di un rapporto di autorità, ma anche la presenza di una relazione interpersonale intensa qualificata come “parafamiliare”. La sentenza n. 49545 del 2014 sembra affermare, non senza qualche rischio di eccessiva semplificazione, che all’interno di una struttura pubblica tale rapporto “para¬familiare” non sia mai configurabile.
Cass. pen. Sez. VI, 11 luglio 2014, n. 34197 (Quotidiano Giuridico, 2014 nota di SCARCELLA)
L’art. 572 c.p. richiede condotte lesive, fisicamente o psicologicamente, che devono essere tali da portare a sofferenze morali (tra le varie: percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali), non essendo sufficiente, ai fini di integrarlo, un comportamento che, per quanto fastidioso nei confronti del coniuge, valutato oggettivamente, non vada al di là della obiettiva attitudine a portare ad una pur comprensibile ma non penalmente rilevante condizione di “stizza”.
Cass. pen. Sez. VI, 8 luglio 2014, n. 33882 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l›agente, quando quest›ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione. (In motivazione, la S.C. ha precisato che la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell›educazione, nell›istruzione e nell›assistenza morale del figlio minore naturale derivanti dall›esercizio congiunto della potestà genitoriale, implica necessariamente il rispetto reciproco tra i genitori anche se non conviventi).
Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 2014, n. 31713 (Famiglia e Diritto, 2014, 10, 947)
Comportamenti discriminatori e vessatori possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia solo qualora si verifichino all’interno di rapporti tra datore di lavoro e dipendenti di natura parafamiliare, caratterizzati da relazioni intense ed abituali, tali da parificare un ambiente di lavoro ad una famiglia. Tale rapporto parafamiliare, pur essendo in astratto possibile in strutture complesse, deve svilupparsi con l’isolamento del lavoratore e non deve essere confuso con la mera confidenza.
Cass. pen. Sez. VI, 19 giugno 2014, n. 47896 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non esclude l’abitualità della condotta di maltrattamenti l’eventuale intermittenza di periodi di comportamento non aggressivo da parte dell’agente, sussistendo il rapporto di convivenza anche quando, per i peculiari impegni di lavoro dell’autore del reato e della vittima, siano frequenti e prolungate le assenze.
Cass. pen. Sez. VI, 6 maggio 2014, n. 23013 (Quotidiano Giuridico, 2014 nota di MONTICELLI)
Il delitto di cui all’art. 572 c.p. si configura qualora sia dimostrato il requisito dell’abitualità della condotta, il qua¬le può essere desunto sia dai segni fisici rilevati sulle vittime che dagli anomali comportamenti reattivi osservati sulle stesse, soprattutto se ci si riferisce a bambini di tenerissima età non in grado di esprimersi verbalmente e di far emergere tempestivamente il loro disagio.
Cass. pen. Sez. VI, 16 aprile 2014, n. 17689 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Commette il reato di cui all’art. 572 c.p. il preside di un liceo che abbia maltrattato una professoressa, insegnan¬te in quell’istituto, a lui sottoposta per ragioni lavorative e di ordinamento, facendola oggetto di persecuzioni e di vessazioni.
Cass. pen. Sez. VI, 11 aprile 2014, n. 24057 (Foro It., 2014, 7-8, 2, 401)
Si configura il reato previsto dall’art. 572 del codice penale, e non quello previsto dall’art. 600, comma 1, codice penale, nel caso in cui il datore maltratti un proprio dipendente, sottoposto alla sua autorità, qualora il rapporto di lavoro tra i due soggetti assuma carattere parafamiliare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abitua¬li, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia e che la esercita tramite il potere direttivo o disciplinare.
Commette il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. il datore di lavoro nel caso in cui i lavoratori dipendenti siano ospitati in locali fatiscenti, in pessime condizioni igienico-sanitarie, con somministrazione scarsa o nulla di cibo e privazione del compenso.
Nell’ambito di rapporti lavorativi di natura parafamiliare, caratterizzati da relazioni intense ed abituali, da con¬suetudini di vita tra datore e prestatore di lavoro, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione anche solo psicologica, integra il delitto di maltrattamenti in famiglia la condotta del datore di lavoro consistente nell’a¬ver tenuto alle proprie dipendenze lavorative alcuni cittadini rumeni in condizioni di estremo degrado materiale, nell’averli ospitati in locali fatiscenti, in pessime condizioni igienico-sanitarie, con somministrazione scarsa o nul¬la di cibo e privazione del compenso (nella specie, la Suprema corte ha ritenuto che il giudice di appello avesse correttamente riqualificato la fattispecie di riduzione in schiavitù, originariamente contestata al datore di lavoro, come maltrattamenti in famiglia).
Si configura il reato p. e p. dall’art. 572 c.p. nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, di natura para-familiare, caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole in quello che ricopre la posizione di supremazia il quale, a sua volta, esercita il potere direttivo o disciplinare rendendo ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo.
Cass. pen. Sez. VI, 2 aprile 2014, n. 15143 (Famiglia e Diritto, 2014, 6, 625)
Occorre che la condotta vessatoria sia reiterata per un lasso di tempo che giustifichi il convincimento del giudice di merito circa una volontà da parte dell’agente di una sopraffazione sistemica diretta a rendere dolorosa la convivenza delle persone della famiglia.
Cass. pen. Sez. VI, 19 marzo 2014, n. 24642 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non commette il reato di maltrattamenti in danno di una funzionaria comunale il sindaco, qualora le condotte percepite dalla funzionaria come denigratorie della propria professionalità e dignità rientrino nell’’ambito di scelte decisionali motivate da ragioni di tipo strettamente fiduciario, ovvero dettate da logiche politiche assimilabili a pratiche di cd. spoils system, e la posizione lavorativa della funzionaria comunale sia inquadrata in una dinamica relazionale complessa, la cui articolata disciplina è retta dalle norme del pubblico impiego, che ne delineano le forme di esercizio dei diritti e l’adempimento dei reciproci doveri, senza lasciare spazio all’instaurarsi di quella stretta ed intensa relazione diretta tra il datore di lavoro ed il suo dipendente, che appare in grado di determinare forme di soggezione di una parte nei confronti dell’altra, ovvero una consuetudine o comunanza di vita assimila¬bile a quella caratterizzante il consorzio familiare, tanto più che il ruolo proprio del sindaco, rispetto alle attribu¬zioni del funzionario di un comune, non è assimilabile alla tipica posizione di un datore di lavoro, instaurandosi il rapporto lavorativo di un dipendente comunale con il relativo ente pubblico territoriale, e non con il sindaco.
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosid¬detto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere da un sindaco nei confronti di una funzionaria comunale).
Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 31123 (Famiglia e Diritto, 2014, 11, 1039)
Non ogni reato commesso con continuità nei confronti di un parente, quand’anche provochi un penoso regime di vita, può essere qualificato a norma dell’art. 572 c.p.; l’integrazione del delitto contestato deve essere verificata in base al principio che, sul piano obiettivo, è necessaria l’attualità di una relazione familiare intesa come vincolo affettivo e produttivo di doveri di solidarietà ed assistenza e che, sul piano soggettivo, l’agente deve volere la produzione del regime di vita segnato dalla vessazione nella sua specifica qualità di patologica relazione familiare.
Il delitto ex art. 572 c.p. è integrabile anche quando non vi sia più convivenza, laddove le condotte violente e minacciose siano idonee a provocare un penoso regime di vita. Tuttavia, non ogni reato commesso con continuità nei confronti di un parente (quand’anche provochi un penoso regime di vita), può essere qualificato a normadell’ art. 572 c.p. poiché: (a) è necessaria l’attualità di una relazione familiare intesa come vincolo affettivo e produt¬tivo di doveri di solidarietà ed assistenza e che, sul piano soggettivo, (b) l’agente intenda produrre un regime di vita segnato dalla vessazione, nella sua specifica qualità di patologica relazione familiare.
Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 31121 (Foro It., 2014, 12, 2, 664)
La configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, previsto e punito dalla fattispecie incriminatrice di cu¬iall’art. 572 c.p., non esige il carattere monogamico del vincolo sentimentale posto a fondamento della relazione, né una continuità di convivenza, intesa come coabitazione. A tal fine è, invece, necessario che detta relazione presenti intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà. La fattispecie incriminatrice, pertanto, deve ritenersi certamente configurabile nell’ambito di un rapporto di convivenza duratu¬ro (specificamente circa due anni) con un soggetto già coniugato, nell’ambito di un alloggio istituito come luogo di svolgimento del rapporto di coppia, che si concretizzi, quando possibile, in coabitazione.
Non sussiste alcuna incompatibilità logica tra condotte vessatorie determinate da gelosia ossessiva e condotte ispirate da generosità orientata a soddisfare le esigenze economiche dei componenti di un nucleo familiare, giacché la volontà lesiva tipicamente riconducibile alla fattispecie di maltrattamenti ex art. 572 c.p. non è quella di provocare sofferenza in qualunque possibile modo alla vittima, quanto piuttosto la consapevolezza di porre in essere con regolarità comportamenti prevaricatori, così da imporre un penoso regime di vita al familiare.
Posto che la fattispecie di maltrattamenti non è esclusa dall’intermittenza tra periodi di aperta patologia della relazione familiare e periodi di maggiore equilibrio, sempre che la loro reiterazione sia tale da determinare, con continuità, uno stabile stato di sofferenza della relazione familiare, il dolo del reato non è integrato solo quando l’agente abbia programmato una serie continua di prevaricazioni, essendo sufficiente che egli si renda conto di provocare una protratta condizione di disagio della vittima, quale effetto della propria persistente attività ves¬satoria.
Cass. pen. Sez. VI, 5 marzo 2014, n. 13088 (Famiglia e Diritto, 2014, 6, 624)
Le pratiche vessatorie realizzate ai danni di un lavoratore dipendente al fine di determinare l’emarginazione (cd. mobbing), anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 172 del 2012, possano integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia soltanto quando s’inquadrino nel contesto di un rapporto che – per le caratteristiche peculiari della prestazione lavorativa ovvero per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro – comporti relazioni intense e abituali, una stretta comunanza di vita ovvero una relazione di affidamento del soggetto più debole verso quello rivestito di autorità, assimilabili alle caratteristiche proprie del consorzio familiare. (Fattispecie nella
quale la Corte ha escluso la sussistenza del delitto in parola, per essersi verificate le condotte vessatorie nel contesto di un’articolata realtà aziendale, caratterizzata da uno stabilimento di ampie dimensioni e da decine di dipendenti sindacalizzati).
Comportamenti discriminatori e vessatori, anche a sfondo sessuale sia verbale che fisico, possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia solo qualora si verifichino all’interno di rapporti tra datore di lavoro e dipen¬denti di natura parafamigliare, caratterizzati da relazioni intense ed abituali, tali da parificare un ambiente di lavoro ad una famiglia.
Cass. pen. Sez. VI, 4 marzo 2014, n. 12004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti contro familiari e conviventi, integra la circostanza aggravante della lesione grave, di cui al secondo comma dell’art. 572 cod. pen., la ritardata crescita del minore che, per via dei maltrattamenti, si sia trovato in condizioni di denutrizione o malnutrizione tali da cagionare la predetta malattia.
In tema di maltrattamenti contro familiari e conviventi, la circostanza aggravante della lesione grave, di cui al secondo comma dell’art. 572 c.p., può essere integrata dalla ritardata crescita del minore che, per via dei mal¬trattamenti, si sia trovato in condizioni di denutrizione o malnutrizione tali da cagionare la predetta malattia. Ciò in quanto la nozione di malattia nella fattispecie di lesioni personali – cui evidentemente fa rinvio anchel’art. 572, comma 2, c.p. – non comprende solamente le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, bensì tutte quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione delle funzioni dell’organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa.
Cass. pen. Sez. III, 10 dicembre 2013, n. 4343 (Quotidiano Giuridico, 2014 nota di LEOTTA)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è da considerarsi reato abituale, in cui il termine di prescrizione inizia a decorrere dal giorno dell’ultima condotta tenuta, la quale “chiude il periodo di consumazione del reato”. Quest’ul¬timo inizia fin dalla “condotta primigenia” che, valutata insieme con le susseguenti, forma la serie minima di fatti penalmente rilevanti.
Cass. pen. Sez. VI, 24 ottobre 2013, n. 45585 (Famiglia e Diritto, 2014, 1, 81)
L’eventuale inadeguatezza del ruolo genitoriale della moglie mai e in nessun caso può giustificare il maltratta¬mento ad opera del marito, cui non può competere alcun intervento in funzione di un inammissibile “ius corrigen¬di”, il quale, comunque, non dà alcuna legittimità ad azioni e condotte caratterizzate da violenza.
Cass. pen. Sez. VI, 8 ottobre 2013, n. 44700 (Famiglia e Diritto, 2014, 1, 81)
Nello schema del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali.
Cass. pen. Sez. VI, 7 maggio 2013, n. 22915 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Agli effetti dell’art. 572 c.p., deve considerarsi famiglia ogni consorzio di persone tra cui, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione. Ne consegue che sono da conside¬rare persone della famiglia anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune, di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo.
A seguito della novella normativa di cui alla legge n. 172 del 2012, che ha modificato la rubrica dell’art. 572 c.p. da “Maltrattamenti in famiglia” in “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”, precisando che soggetto passivo del reato di cui al citato articolo non è soltanto una persona della famiglia, bensì una persona della famiglia o comunque convivente, si è inteso assicurare tutela penale non solo ai componenti della famiglia legale, ma anche ai membri delle unioni di fatto fondate sulla convivenza. Ciò in quanto si è riconosciuto il valore sociale della convivenza come modello idoneo a costituire una di quelle formazioni sociali che l’ordinamento costituzionale si impegna a riconoscere e garantire.
Nel caso di famiglia di fatto, il delitto di maltrattamenti non è configurabile allorquando viene meno la convi¬venza, ciò che rende manifesta l’avvenuta estinzione dell’affectio che reggeva quell’unione, a meno che altri elementi rivelino la prosecuzione del rapporto di reciproca assistenza.
Il principio secondo il quale il requisito della convivenza o coabitazione non sarebbe necessario per integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia, se vale nel caso di separazione (consensuale o giudiziale) dei coniugi in considerazione della circostanza per cui nonostante la cessazione della convivenza persistono altri obblighi giu¬ridici, sia pure attenuati, di assistenza morale o materiale nascenti dal matrimonio, non può valere nell’ipotesi di famiglia di fatto, in quanto la cessazione della convivenza rende manifesta l’avvenuta estinzione dell’affectio che reggeva quella unione, a meno che altri elementi rivelino la prosecuzione del rapporto di reciproca assistenza che costituisce il fondamento volontario della famiglia di fatto.
Il delitto di maltrattamenti è configurabile pure se con la vittima degli abusi vi sia un rapporto familiare di mero fatto, desumibile, anche in assenza di una stabile convivenza, dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza. (Nella specie, la Corte ha escluso ricorresse un rapporto di tal genere nel caso di due persone che, pur avendo generato dei figli, non avevano convissuto se non per brevissimi periodi ed avevano instaurato un legame caratterizzato da precarietà ed instabilità).
Cass. pen. Sez. VI, 28 marxo 2013, n. 28603 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve escludersi la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, previsto e punito dalla norma incrimi¬natrice di cui all’art. 572 c.p., in relazione alle pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione, nell’ipotesi in cui il rapporto sia inquadrato all’interno di una realtà aziendale complessa, la cui articolata organizzazione non implichi l’instaurarsi di quella stretta ed intesta relazione tra par¬te datoriale e dipendente, in grado di determinarne una comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare.
L’esclusione della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, in relazione alle pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente, non consente di pretermettere la valutazione della rilevanza di condotte idonee a configurare altre fattispecie di rilievo penale, pur meno gravi, che come tali devono essere prese in considerazione nell’ambito della cognizione di merito.
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia-soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (nella specie, la Corte ha escluso la sussistenza della natura para-familiare del rapporto, considerato che la posizione lavorativa della persona offesa era inquadrata all’interno di una realtà aziendale complessa – istiuto di credito – la cui articolata organizzazione, attraverso la previsione di “quadri intermedi”, non implicava certo l’instaurarsi di quella stretta ed intensa relazione diretta tra il datore di lavoro ed il dipendente, che appare in grado di deter¬minarne una comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare).
Cass. pen. Sez. VI, 14 febbraio 2013, n. 12828 (Famiglia e Diritto, 2013, 6, 605)
Integra il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. la condotta del figlio che muove pressanti e continue richieste di somme di denaro formulate alla madre, accompagnate da atti produttivi di diverse sofferenze morali per il tramite di contegni vessatori e ingiuriosi e attraverso l’esposizione a stati d’ira.
Cass. pen. Sez. VI, 17 gennaio 2013, n. 9724 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti è integrato non soltanto da specifici fatti commissivi direttamente opprimenti la per¬sona offesa, sì da imporle un inaccettabile e penoso sistema di vita, ma altresì da fatti omissivi di deliberata indifferenza verso elementari bisogni esistenziali e affettivi di una persona disabile.
Integrano il reato di maltrattamenti in danno di una persona disabile non solo fatti commissivi sistematicamente lesivi della sua personalità, ma anche condotte omissive connotate da una deliberata indifferenza e trascuratezza verso i suoi elementari bisogni affettivi ed esistenziali. (Fattispecie relativa ad una serie di comportamenti posti in essere nei confronti di una persona totalmente inabile e portatrice di “sindrome di down”, affidata alla cura e vigilanza di una “badante” con essa convivente).
Cass. pen. Sez. II, 6 dicembre 2012, n. 10994 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia, che consiste nella sottoposizione di un familiare ad una serie abituale di atti di vessazione, continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, risultando incompatibili con normali condizioni di vita, è configurabile anche nel caso in cui al familiare venga improvvisamente riservato un trattamento sistematicamente e immotivatamente deteriore rispetto a quello in precedenza ordinariamente riservatogli, ove ciò renda manifesta l’esistenza di un programma criminoso animato da una volontà unitaria di vessare, fisicamente, ed anche psicologicamente, il soggetto passivo. (Nella specie, la Corte ha ritenuto confi¬gurabile il reato in presenza del trattamento, non in assoluto disumano né insopportabile, riservato alla moglie disabile dell’imputato, – “medio tempore” divenuto convivente sotto il tetto coniugale con altra donna -, consi¬stente, fra l’altro, nella sistemazione della stessa in un vano ricavato da un “garage”, nella somministrazione di cibo non sempre fresco ed adeguato alle sue condizioni, e nel mancato apprestamento delle necessarie cure).
I reati di maltrattamenti in famiglia e di abbandono di persone minori o incapaci possono concorrere in quanto le relative fattispecie incriminatrici sono poste a tutela di beni diversi ed integrate da condotte differenti. (In motivazione la S.C. ha osservato che i criteri di assorbimento e di consunzione sono privi di fondamento nor¬mativo, perché si riferiscono solo a casi determinati, non generalizzabili, in quanto i giudizi di valore che essi richiederebbero sono tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, in particolare con il principio di determinatezza e tassatività, facendo dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l’applicazione di una norma penale).
Cass. pen. Sez. VI, 20 novembre 2012, n. 46848 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, integra la circostanza aggravante di cui all’art. 572, secondo comma, cod. pen.la condotta di colui che ponga in essere fatti di maltrattamento nel cui ambito si inscriva un’azione “finale”, anche se compiuta da un concorrente, la quale provochi direttamente il decesso della persona offesa, quando i maltrattamenti, globalmente considerati, pure in considerazione dell’ultimo episodio di violenza, abbiano ido¬neità concreta ad offendere il bene vita. (Fattispecie in cui la sentenza impugnata aveva attribuito la morte di un minore non solo all’autore del colpo letale, ma anche ad altro soggetto che aveva maltrattato la vittima con medesime modalità, ritenendo l’ultima percossa ed il successivo decesso il naturale sviluppo dell’unitaria ed abituale condotta di maltrattamenti).
Cass. pen. Sez. VI, 13 novembre 2012, n. 7369 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia in danno del coniuge assorbe i reati di ingiuria, molestia ed atti persecutori anche in caso di separazione e di conseguente cessazione della convivenza, rimanendo integri i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale.
Cass., Sez. VI, 10 settembre 2012, n. 34492 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che umilii, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno causandogli pericoli per la salute, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità. (Nella fattispecie la Suprema Corte ha confermato la sentenza di condanna di un insegnante che aveva costretto un alunno a scrivere per 100 volte sul quaderno la frase “sono un deficiente”).
Cass. pen. Sez. VI, 19 giugno 2012, n. 25183 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.) il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se per un limitato periodo di tempo.
Il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo, invece, sufficiente la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la perso¬nalità della vittima.
Cass. pen. Sez. III, 13 giugno 2012, n. 13707 (Famiglia e Diritto, 2013, 5, 508)
Il reato di maltrattamenti e quello di violenza sessuale si pongono in rapporto di specialità solo quando le con¬dotte a sfondo sessuale siano le uniche in cui si concretizza la fattispecie criminosa del maltrattamento, mentre i due delitti conservano la loro autonomia e possono concorrere fra loro qualora le violenze sessuali siano solo uno degli atteggiamenti di umiliazione e di compressione della libertà della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 21 maggio 2012, n. 30780 (Foro It., 2013, 9, 2, 505)
Integra il delitto di maltrattamenti – e non solo quello di “Abuso di autorità contro arrestati o detenuti”, reato istantaneo che può concorrere con quello di maltrattamenti – la reiterata e sistematica condotta violenta, vessa¬toria, umiliante e denigrante da parte degli agenti della polizia penitenziaria nei confronti di detenuti in ambiente carcerario e per tal motivo sottoposti alla loro autorità o, in ogni caso, a loro affidati per ragioni di vigilanza e custodia. (Fattispecie in cui è stata accertata la protrazione di condotta vessatoria violenta per un periodo di tempo significativo in danno di due detenuti).
Le pratiche persecutorie realizzate fuori dello stretto ambito familiare possono integrare il delitto di maltratta¬menti exart. 572 c.p. anche all’interno di comunità come quelle carcerarie, nell’ambito delle quali il rapporto tra agente e parte offesa, che vede il primo ricoprire una posizione di supremazia formale e sostanziale nei confronti della seconda, assume natura para-familiare, poiché tale rapporto è caratterizzato da relazioni intense ed abi¬tuali, da consuetudini di vita tra i due soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, connotata dall’e¬sercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione anche solo psicologica; ne deriva che condotte vessatorie, umilianti e denigranti cui vengano sottoposti i detenuti possono ricondursi all’elemento materiale del reato di maltrattamenti in famiglia
Cass. pen. Sez. VI, 11 aprile 2012, n. 16094 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosid¬detto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal vice Presidente di un ATER nei confronti di una dipendente)
Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12089 (Foro It., 2012, 10, 2, 533)
Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti familiari (nella specie, nei confronti della figlia minorenne perché non in grado di ripetere perfettamente a memoria i versi del corano) non rileva la supposta finalità educativa fondata sul codice etico-religioso del padre di religione musulmana, trattandosi di violazione dei diritti inviolabili della persona i quali rappresentano uno “sbarramento invalicabile” contro l’introduzione di consuetudini, prassi e costumi “antistorici” contrastanti con i diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione.
Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12517 (Famiglia e Diritto, 2012, 10, 929 nota di FOLLA)
Aggressioni verbali, insulti e offese continuate realizzate dal datore di lavoro ai danni di una lavoratrice invalida non integrano il reato di “Maltrattamenti in famiglia”, se il rapporto di lavoro, pur connotato da una gerarchia di sovraordinazione, non sia altresì caratterizzato da una natura “para-familiare”; esse danno, invece, luogo a “Violenza privata” aggravata.
Il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 cod. pen. può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo a condizione che sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’auto¬rità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento e fiducia del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.
Cass. pen. Sez. VI, 13 gennaio 2012, n. 19392 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consue¬tudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.
Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2011, n. 24575 (Famiglia e Diritto, 2012, 10, 944)
Il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) si distingue da quello di “stalking” (art. 612-bis c.p.), anche se le condotte materiali appaiono omologabili per modalità esecutive e per tipologia lesiva. Il reato di maltrat¬tamenti familiari, infatti, è un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “autorità” o peculiare “affidamento” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’art. 572 c.p.. Il reato di atti persecutori è, invece, un re¬ato contro la persona e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia reiterati (reato abituale) e che non presuppone l’esistenza di interrelazioni soggettive specifiche. Il rapporto tra tale reato e il reato di maltrattamenti è regolato dalla clausola di sussidiarietà pre¬vista dall’art. 612-bis, comma 1, c.p., che rende applicabile – nelle condizioni date prima descritte – il reato di maltrattamenti, più grave per pena edittale rispetto a quello di atti persecutori nella sua forma generale di cui all’art. 612-bis, comma 1, c.p..
In tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. – che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della rela¬tiva fattispecie – è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen.) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale. (In motivazione, la S.C. ha precisato che ciò può valere, in particolare, in caso di divorzio o di relazione affettiva definitivamente cessata con la persona offesa, ravvisandosi il reato di maltrattamenti in caso di condotta posta in essere in presenza di una separazione legale o di fatto).
Cass. pen. Sez. VI, 10 ottobre 2011, n. 43100 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia nell’ambito di un rapporto professionale o di lavoro, è necessario che il soggetto attivo si trovi un una posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare. (Fattispecie relativa a condotte vessatorie poste in essere nell’ambito di un rapporto tra un sindaco e un dipendente comunale, in cui la S.C. ha escluso la configurabilità del reato previsto dall’art. 572 cod. pen.).
Cass. pen. Sez. VI, 23 settembre 2011, n. 36503 (Foro It., 2012, 2, 2, 81)
L’oggetto della tutela penale nel reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. non è rappresentato soltanto dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla tutela dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto integrale della loro personalità e delle loro potenzialità nello svolgimento di un rapporto, fondato su costruttivi e socializzanti vincoli familiari aperti alle risorse del mondo esterno, a prescindere da condotte pacificamente vessatorie e violente; pertanto, il delitto di maltrattamenti può essere integrato anche da atteggiamenti iperpro¬tettivi nei confronti del minore che si concretizzano nel non fargli frequentare con regolarità la scuola, nell’impe¬dirne la socializzazione, nell’impartire regole di vita tali da incidere sul suo sviluppo psichico e nel prospettargli la figura paterna come negativa e violenta.
Nel concetto di maltrattamenti, richiesto ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p., rientrano non solo condotte che si qualificano per una chiara connotazione negativa, talora violenta, talora subdolamente mortificante o ingiustificatamente punitiva, ma sempre e comunque negativa, ma anche atteggiamenti iperpro¬tettivi, qualificabili come eccesso di accudienza, di protezione e di cura. L’oggetto giuridico del delitto in oggetto, invero, non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, connotati da una chiara connotazione negativa, ma anche dalla tutela della incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto integrale della loro personalità e delle loro potenzialità nello svolgimento di un rapporto.
Integra il delitto di maltrattamenti in famiglia il genitore che tenga nei confronti del figlio minore comportamenti iperprotettivi tali da incidere sullo sviluppo psicofisico dello stesso, a prescindere dal fatto che il minore abbia o meno percepito tali comportamenti come un maltrattamento o vi abbia acconsentito.
Integrano l’elemento oggettivo del delitto ex art. 572 c.p. gli atteggiamenti iperprotettivi tenuti nei confronti del minore, che siano concretamente idonei a ritardare gravemente nel minore stesso sia lo sviluppo psicologico relazionale, sia l’acquisizione di abilità in attività materiali e fisiche, anche elementari.
Il ricorso dell’elemento psicologico del delitto di maltrattamenti in famiglia, ritenuto sussistente anche in pre¬senza di atteggiamenti denotanti un eccesso di accudienza, di protezione e di cura nei confronti del minore, se può escludersi in una fase iniziale, allorquando sia legittimo ritenere che la famiglia agisca in buona fede nella scelta delle metodiche educative e nell’accurata attenzione nell’impedire al minore contatti di ogni tipo, isolan¬dolo nelle sicure mura domestiche, deve certamente ritenersi sussistente qualora perduranti le condotte familiari anche in seguito a ripetuti e sinergici interventi correttivi provenienti da una pluralità di esperti e tecnici dell’età evolutiva e del disagio psichico, oltre che delle competenti Autorità giudiziarie. La persistenza, ciò nonostante, delle metodiche di iperaccudienza e di isolamento, in palese violazione delle indicazioni e delle prescrizioni, talora imposte e talora concordate, segnala, invero, al di là di ogni ragionevole dubbio, la pacifica ricorrenza in capo agli agenti della intenzionalità della condotta che connota il delitto previsto e punito dal disposto codicistico di cui all’art. 572 c.p.
Cass. pen. Sez. II, 20 settembre 2011, n. 41011 (Famiglia e Diritto, 2012, 1, 58)
I comportamenti volgari, irriguardosi e umilianti, caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali ed ingiuriose poste in essere nei confronti del coniuge, possono configurare il reato di maltrattamenti quando, valutati unitariamente, evidenziano l’esistenza di una volontà finalizzata a realizzare un regime di vita avvilente e mortificante per il coniuge stesso.
Cass. pen. Sez. V, 13 luglio 2011, n. 38347 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della minorata difesa, l’ età avanzata della vittima del reato, a seguito delle modificazioni legislative introdotte dalla legge n. 94 del 2009, rileva in misura maggiore attribuendo al giudice di verificare, allorché il reato sia commesso in danno di persona anziana, se la condotta criminosa posta in essere sia stata agevolata dalla scarsa lucidità o incapacità di orientarsi da parte della vittima nella comprensione degli eventi secondo criteri di normalità. (Fattispecie in tema di furto di danaro in danno di un anziano, indotto a prelevarlo da un libretto postale con il pretesto di fargli una cospicua donazione per la quale era necessario sostenere spese notarili).
Cass. pen. Sez. VI, 3 maggio 2011, n. 19700 (Dir. Pen. e Processo, 2011, 8, 944)
Nel caso in cui l’agente realizzi i maltrattamenti mediante lesioni personali dolose, è configurabile il concorso tra i delitti ex art. 572 e art. 582 c.p., senza però che sia ravvisabile, con riguardo a quest’ultimo reato, l’aggravante del nesso teleologico.
Cass. pen. Sez. VI, 26 aprile 2011, n. 26153 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non rileva, ai fini dell’esclusione del dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia, la circostanza che il marito abbia agito sulla base della convinzione della superiorità della figura maschile all’interno della famiglia e della conseguente legittimità di atteggiamenti “padronali” nei confronti della moglie. (Dichiara inammissibile,
Cass. pen. Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 16164 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti può integrarsi solo quando sussista un affidamento della parte lesa al potere disciplina¬re dell’autore dei fatti, circostanza che può verificarsi anche in ambienti di lavoro, che siano però caratterizzati da una consuetudine di vita costante di natura parafamiliare, che crei nella parte offesa un rapporto di dipendenza ed affidamento simile a quello che si realizza nell’ambito indicato, con riconoscimento da parte di questa della soggezione al potere del dirigente, e realizzazione, per l’effetto, di una situazione di debolezza che impone una più pregnante tutela (nella fattispecie, si è ritenuto insussistente il reato di maltrattamenti nel rapporto gerar¬chico intercorrente tra dirigenti medici).
Cass. pen. Sez. III, 16/12/2010, n. 5340 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti e quello di violenza sessuale possono porsi in rapporto di specialità esclusivamente nell’ipotesi che le condotte a sfondo sessuale siano le uniche che fondano anche l’ipotesi di maltrattamenti, mentre i due delitti conservano autonomia e possono concorrere tra loro qualora le violenze sessuali integrino soltanto una delle forme di umiliazione e compressione della libertà della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 2 dicembre 2010, n. 45037 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non integra il delitto di maltrattamenti in famiglia la consumazione di episodici atti lesivi di diritti fondamentali della persona non inquadrabili in una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione ai soggetti passivi di un regime di vita oggettivamente vessatorio.
Cass. pen. Sez. VI, 25 novembre 2010, n. 44803 (Foro It., 2011, 7-8, 2, 414)
Integra il reato di violenza privata, aggravato dall’abuso della relazione di prestazione d’opera, e non il reato di maltrattamenti in famiglia o quello di atti persecutori ex art. 612-bis, cod. pen., la condotta violenta e minac¬ciosa reiteratamente posta in essere da un capo officina nei confronti di un meccanico, in modo da costringere il lavoratore, nel contesto di un’azienda organicamente strutturata, a tollerare una situazione di denigrazione e deprezzamento delle sue qualità lavorative. (Fattispecie in cui la S.C. ha escluso, nell’ambito del rapporto di lavoro, la presenza di una posizione di supremazia formale e sostanziale nei confronti del soggetto passivo, con forme e modalità tali da assimilarne i caratteri a quelli propri di un rapporto di natura para-familiare). (Annulla con rinvio, App. Torino, 20/11/2009)
La configurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p. richiede la sussistenza di un rapporto, tra l’agente ed il sog¬getto passivo, caratterizzato da un potere autoritativo, esercitato di fatto o di diritto, dal primo sul secondo, il quale versa in una condizione di apprezzabile soggezione. La descritta situazione, tradizionalmente confinata in ambito familiare, è stata successivamente estesa anche ai rapporti educativi, di istruzione, cura, vigilanza e custodia, ovvero quelli che si instaurano in ambito lavorativo. In relazione a tale ultimo rapporto, in particolare, è necessario che il soggetto agente versi in una posizione di supremazia non solo formale ma sostanziale, la quale si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere specularmente ipotizzabile un’apprezzabile soggezione del soggetto passivo ad opera di quello attivo.
È configurabile il reato di violenza privata aggravata ex art. 61, n. 11, c.p., e non già quello di maltrattamenti in famiglia, al cospetto di comportamenti mortificanti compiuti da un capofficina nei confronti di un meccanico nel contesto di un›azienda strutturata in maniera non riconducibile ad ambiti familiari.
Cass. pen. Sez. VI, 23 novembre 2010, n. 45467 (Foro It., 2011, 3, 2, 138)
In tema di rapporti tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, deve escludersi che l’intento educativo e correttivo dell’agente costituisca un elemento dirimente per far rientrare il sistematico ricorso ad atti di violenza commessi nei confronti di minori nella meno grave previsione di cui all’art. 571 cod. pen. Ne consegue che l’esercizio del potere di correzione al di fuori dei casi consentiti, o con mezzi di per sè illeciti o contrari allo scopo, deve ritenersi escluso dalla predetta ipotesi di abuso e va inquadrato nell’ambito di diverse fattispecie incriminatrici. (Nel caso di specie, la S.C. ha censurato la pronuncia di merito, ravvisando il delitto di maltrattamenti nei confronti dei bambini affidati ad un asilo).
I comportamenti volgari, irriguardosi e umilianti, caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali ed ingiuriose abitualmente poste in essere dall’imputato nei confronti del coniuge, possono configurare il reato di maltrattamenti quando essi realizzino un regime di vita avvilente e mortificante.
Cass. pen. Sez. VI, 2 novembre 2010, n. 774 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro o sovraordinato gerarchico e lavoratore dipenden¬te, essendo caratterizzato dal potere direttivo e/o disciplinare che la legge attribuisce ai primi nei confronti del secondo, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., di “persona sottoposta” alla “autorità” di altri, con conseguente astratta configurabilità della stessa a carico del sovraordinato.
Cass. pen. Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142 (Foro It., 2011, 2, 2, 78)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche mediante condotte omissive, individuabili nel deliberato astenersi, da parte del responsabile dell’educazione e dell’assistenza al minore, dall’impedire gli effetti illegittimi di una propria condotta maltrattante diretta verso altri soggetti.
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori realizzati nei confronti di un soggetto determinato, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno della comunità come conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sotto¬poste al potere dei soggetti attivi, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere sia dall’entità numerica degli atti vessatori che dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi.
Integra il delitto di maltrattamenti ( art. 572 cod. pen.) anche nei confronti dei figli la condotta di colui che compia atti di violenza fisica contro la convivente, in quanto lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere del soggetto attivo, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere dall’entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità dell’imputato, in ordine al delitto di cui all’art. 572 cod. pen., anche nei confronti dei figli minori, pur riconoscendo che gli atti di violenza fisica erano stati indirizzati solo alla convivente, avendo evidenziato con congrua valutazione di merito, incensurabile in sede di legittimità, le ricadute del comportamento del genitore sui minori, i quali avevano timore persino di andare a scuola per non poter difendere adeguatamente la propria ma¬dre e, quindi, assistevano agli atti vessatori del padre, ivi comprese le minacce di morte indirizzate alla madre).
Cass. pen. Sez. VI, 21 ottobre 2010, n. 11251 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina non ha natura di reato necessariamente abituale, sicché ben può ritenersi integrato da un unico atto espressivo dell’abuso, come anche da una serie di comportamenti lesivi dell’incolumità fisica e della serenità psichica del minore, quale che sia l’intenzione correttiva o disciplinare del soggetto attivo. Perfeziona, pertanto, il reato in oggetto il comportamento della madre che con violenza im¬pone il taglio di capelli alla propria figlia minorenne recalcitrante , essendo risultato che all’isterica opposizione della bambina aveva fatto riscontro altrettanta isterica reazione della madre, che, indipendentemente dal luogo di provenienza e dall’ambito culturale della genitrice, aveva inteso proseguire nelle sue operazioni particolarmen¬te pericolose, proprio per affermare la propria autorità sulla piccola abusando dei mezzi di correzione e disciplina.
Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 2010, n. 1417 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia sussiste se l’agente non si limita a porre in essere sporadici episodi di violenza, di minaccia o di offesa, come espressione reattiva – magari – ad un particolare e contingente clima di tensione, ma sottopone il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali, in modo che i singoli atti siano uniti tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo), quanto da un’intenzione criminosa che si ponga come elemento unificatore dei singoli atti vessatori (elemento soggettivo, inteso come dolo unitario).
Affinché si configuri il reato di maltrattamenti in famiglia occorre che il soggetto agente non si limiti a porre in essere fatti che ledono o pongono in pericolo beni che l’ordinamento giuridico già autonomamente protegge (percosse, lesioni, ingiuria, violenza privata), ma occorre che il suo comportamento si estenda a tutti quei fatti lesivi del patrimonio morale e dell’integrità psichica del soggetto passivo, che, seppure singolarmente considerati non costituiscono reato, siano tali da rendere abitualmente dolorosa la relazione con l’agente.
Cass. pen. Sez. II, 23 settembre 2010, n. 35997 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della minorata difesa, l’ età avanzata della vittima del reato, a seguito delle modificazioni legislative introdotte dalla legge n. 94 del 2009, è rilevante nel senso che impone al giudice di verificare, allorché il reato sia commesso in danno di persona anziana, se la condotta cri¬minosa posta in essere sia stata agevolata dalla scarsa lucidità o incapacità di orientarsi da parte della vittima nella comprensione degli eventi secondo criteri di normalità. (Fattispecie in tema misura cautelare disposta per truffa consumata, con le medesime modalità, in danno di numerose persone, tutte di età compresa tra i sessan¬taquattro e gli ottantaquattro anni).
Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2010, n. 685 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente nel caso in cui il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente o tra il preposto e il lavoratore soggetto all’autorità del primo assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i detti soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.
Cass. pen. Sez. V, 14 maggio 2010, n. 22790 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe i reati di ingiuria, minacce e violenza privata che rientrano nella materialità di detto delitto.
Cass. pen. Sez. III, 6 maggio 2010, n. 22769 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli non può ritenersi assorbito in quello di violenza privata, non soltanto perché è più gravemente punito rispetto al secondo, ma anche perchè si tratta di delitti posti a tutela di beni giuridici diversi. (In motivazione la Corte ha ulteriormente affermato che, diversamente, il reato di cui all’art. 610 cod. pen. non concorre con quello di minaccia aggravata, in quanto quest’ultimo è assorbito nel primo, costituendo la minaccia una delle condotte che caratterizzano la violenza privata).
Cass. pen. Sez. VI, 16 aprile 2010, n. 29631 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’espressione “derivare”, contenuta nell’art. 572, comma secondo, cod. pen., in tema di maltrattamenti in fami¬glia o verso fanciulli seguiti da lesioni o morte della vittima, va interpretata in relazione ai principi posti dall’art. 41 cod. pen., ed impone quindi un rinvio alle regole con le quali viene regolamentata l’imputazione oggettiva degli eventi causati dall’autore di un reato. (Nella specie, la Corte ha ritenuto che il sopravvenire di un’infezione non interrompa il nesso di causalità tra i maltrattamenti e l’evento-morte, dovendo l’insorgere dell’infezione considerarsi come una causa simultanea che ha potenziato l’efficienza causale dei maltrattamenti, concorrendo a produrre il predetto evento).
Cass. pen. Sez. V, 13 aprile 2010, n. 28509 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra la circostanza aggravante di cui all’art. 572, comma secondo, cod. pen. la condotta di colui che, inca¬ricato di prestare assistenza ad una persona anziana, abbandoni quest’ultima senza cure ed assistenza per un lungo periodo, aggravandone le già precarie condizioni di salute, in quanto ai fini della sussistenza del nesso di causalità tra maltrattamenti e morte non è necessario che i fatti di maltrattamento costituiscano la causa unica ed esclusiva degli eventi più gravi, stante il principio della equivalenza delle cause o della “conditio sine qua non” ( art. 41 cod. pen.).(In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 572, comma secondo, cod. pen., nei confronti degli imputati che, incaricati di assistere una persona anziana, l’avevano, invece, abbandonata, aggravandone le condizioni di salute, già precarie, e favorendo l’insor¬gere di un fecaloma inveterato, che nella fase iniziale si sarebbe potuto distruggere, e che, invece, durante le molte settimane di abbandono, si era sviluppato in maniera abnorme, determinando la necessità di un intervento chirurgico, non superato dal paziente).
Cass. pen. Sez. IV, 17 marzo 2010, n. 24688 (Foro It., 2011, 6, 2, 385)
Oggetto di tutela dell’art. 572 c.p. sono le persone della famiglia, ove per famiglia non si intende soltanto un consorzio di persone avvinte da vincoli di parentela naturale o civile, ma anche un’unione di persone tra le quali, per relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza, protezione e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in danno di una persona legata all’autore della condotta da una relazione sentimentale, che abbia comportato un’assidua frequentazione della di lei abitazione, trattandosi di un rapporto abituale tale da far sorgere sentimenti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia può concorrere con il delitto di lesioni volontarie essendo diversa l’obiet¬tività giuridica dei due reati.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è ravvisabile anche in costanza della c.d. famiglia di fatto, ovvero quando in un consorzio di persone si sia realizzato, per strette relazioni e consuetudini di vita, un regime di vita impron¬tato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi, anche assistenziali; convivenza e coabitazione non costituiscono pertanto requisiti della fattispecie in questione.
Cass. pen. Sez. VI, 12 marzo 2010, n. 25138 (Giur. It., 2011, 2, 409 nota di PAVESI)
Il reato di maltrattamenti in famiglia può dirsi integrato allorché sia ravvisabile, come diretta conseguenza di una precisa volontà sopraffattrice, una condotta abitualmente lesiva dell’integrità fisica e morale altrui a causa della quale la persona offesa versa in uno stato di costante sofferenza e soggezione. Non è possibile, peraltro, ravvisare questo fondamentale requisito dell’abitualità della condotta vessatoria in limitati episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di un periodo di tempo moderatamente lungo (nel caso specifico tre anni) ancor più se la condizione psicologica della persona offesa, lungi dall’apparire sopraffatta, sia più propriamente scossa o esasperata ma non propriamente intimorita o soggiogata.
Posto che, ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, occorre accertare una condotta (consistente in aggressioni fisiche o vessazioni o manifestazioni di disprezzo) abitualmente lesiva della dignità fisica e del patrimonio morale della persona offesa, che, a causa di ciò, versa in una condizione di sofferenza, va annullata per vizio di motivazione la sentenza di condanna che non poggi su elementi idonei a rappresentare l’abitualità della condotta vessatoria dell’imputato (nella specie, è stata annullata senza rinvio la sentenza dei giudici di secondo grado, i quali avevano dedotto da episodi di ingiurie, minacce e percosse del marito a danno della moglie uno “stato di tensione” e uno “stato di sofferenza” considerati sintomatici di una condotta abituale di sopraffazione).
Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 16836 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia non implica l’intenzione di sotto¬porre il convivente, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consape¬volezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria. (Rigetta, App. Milano, 06/11/2008)
Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 20494 (Foro It., 2010, 9, 2, 441)
Essendo necessario, per la sussistenza del reato previsto dall’art. 572 c.p., che la condotta si manifesti in più atti, anche non necessariamente delittuosi, realizzati in momenti successivi, purché collegati da un nesso di abitualità e avvinti da un’unica intenzione criminosa, diretta a ledere l’integrità fisica o morale della vittima, va annullata per vizio di motivazione la sentenza di condanna che configuri il reato di maltrattamenti senza che risulti provato l’elemento dell’abitualità, ossia dell’instaurazione di un regime di vita improntato alla sopraffazione e alla vessa¬zione (nella specie, è stata annullata con rinvio la sentenza dei giudici di secondo grado, i quali avevano desunto la sussistenza del reato di maltrattamenti da singole condotte violente del marito a danno della moglie, inserite in un contesto familiare di forte tensione).
Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 11140 (Dir. Pen. e Processo, 2010, 6, 683)
Il delitto di ingiuria è assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia.
Cass. pen. Sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina non ha natura di reato necessariamente abituale, sicché ben può ritenersi integrato da un unico atto espressivo dell’abuso, ovvero da una serie di comportamenti lesivi dell’incolumità fisica e della serenità psichica del minore, che, mantenuti per un periodo di tempo apprezzabile e complessivamente considerati, realizzano l’evento, quale che sia l’intenzione correttiva o disciplinare del sogget¬to attivo. (Fattispecie in cui alcuni bambini affidati ad un’insegnante di scuola materna erano stati in più occasioni oggetto di minacce e percosse, ovvero sottoposti a umilianti dileggi per il loro basso rendimento scolastico).
Cass. pen. Sez. IV, 12 febbraio 2010, n. 12423 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È configurabile il concorso formale tra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di violenza sessuale, allorquando l›atto sessuale, oltre a cagionare sofferenze psichiche alla vittima, leda anche la sua libertà di autodeterminazione in materia sessuale.
Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2010, n. 12798 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elemento soggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli di cui all’ art. 572 c.p., deve rinvenirsi nella coscienza e volontà dell’agente di porre in essere, in maniera reiterata, comportamenti violenti, fisici e verbali, nei confronti dei propri familiari, in tal modo facendo vivere i medesimi in uno stato di terrore. Congrua sul punto la motivazione resa nella fattispecie dalla impugnata decisione, la quale al riguardo si integra e si salda con quella della sentenza di primo grado con la quale il Tribunale, confutando l’assunto difensivo, rite¬neva certo che l’imputato, nonostante la sua giovane età, che comunque non era tale da impedirgli di compiere liberamente le sue scelte di vita – in data odierna 26 anni – era consapevole della duratura sofferenza arrecata ai propri congiunti sia con gli atti di violenza fisica che con le frequenti e immotivate aggressioni verbali ai quali li sottoponeva.
Cass. pen. Sez. III, 19 gennaio 2010, n. 9242 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Agli effetti del delitto di cui all’art. 572 c.p., deve intendersi come “famiglia” ogni consorzio di persone tra le qua¬li, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo. Il delitto di maltrattamenti in famiglia si consuma anche tra persone legate soltanto da un puro rapporto di fatto, che, per le intime relazioni e consuetudini di vita correnti tra le stesse, presenti somiglianza ed analogia con quello proprio delle relazioni coniugali.
Cass. pen. Sez. VI, 21 dicembre 2009, n. 8592 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere dei soggetti attivi, i quali ne siano tutti siano consapevoli, a prescindere dall’entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi. (Fattispecie relativa alla continua espressione di frasi ingiuriose e a maltrattamenti fisici da parte delle operatrici di un istituto pubblico di assisten¬za nei confronti di persone anziane ivi ricoverate nel reparto di lunga degenza).
Cass. pen. Sez. V, 15 dicembre 2009, n. 2100 (Famiglia e Diritto, 2010, 5, 503)
La reiterazione del gesto punitivo può essere una delle modalità di manifestazione dell’abuso del mezzo di cor¬rezione: questo, infatti, può commettersi trasmodando nell’impiego di un mezzo lecito, sotto gli aspetti sia della forza fisica esercitata in un singolo gesto punitivo, che della reiterazione del gesto stesso.
Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2009, n. 4390 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti e quello di violazione degli obblighi di assistenza familiare possono concorrere tra loro, avendo ad oggetto beni giuridici distinti, posti a tutela, il primo, della dignità della persona, e il secondo del rispetto dell’obbligo legale di assistenza nei confronti dei familiari.
Cass. pen. Sez. III, 22 ottobre 2009, n. 49433 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La nozione di malattia rilevante ai fini del reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina è più ampia di quella relativa al reato di lesione personale, comprendendo ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato d’ansia all’insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento.
Cass. pen. Sez. VI, 15 ottobre 2009, n. 44492 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, l’imputazione soggettiva dell’evento aggravatore, non voluto, della morte della vittima per suicidio, ne richiede la prevedibilità in concreto come conseguenza della condotta criminosa di base, in modo da escludere che sia stato oggetto di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 2009, n. 48272 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione la consumazione da parte del genitore nei confronti del figlio minore di reiterati atti di violenza fisica e morale, anche qualora gli stessi possano ritenersi compatibili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l’agente è portatore.
Cass. pen. Sez. II, 2 ottobre 2009, n. 40727 (Foro It., 2010, 3, 1, 132)
Il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 672 c.p. è configurabile anche ove l’azione delittuosa venga com¬messa nei confronti del convivente “more uxorio”. È configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona convivente more uxorio, quando vi sia un rapporto tendenzialmente stabile.
Cass. pen. Sez. VI, 14 luglio 2009, n. 38125 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Risponde del reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p., il marito che continuamente percuote ed ingiu¬ria la moglie, ostenta infedeltà, e impedisce alla medesima di rientrare nella casa familiare all’esito di un ricovero in ospedale, in quanto tale quadro probatorio, rappresentato con motivazione adeguata e priva di carenze o vizi logici, rappresenta quella situazione di abitualità di sofferenze fisiche e morali, che determinando nel soggetto passivo una condizione di vita costantemente dolorosa e avvilente.
Cass. pen. Sez. VI, 21 maggio 2009, n. 40385 (Foro It., 2010, 3, 2, 153)
Non integrano il delitto di maltrattamenti in famiglia fatti episodici di aggressione, violenza e rimprovero nei con¬fronti dei figli, collegati alla contingente e particolare situazione di frustrazione vissuta dalla madre che, oltre al fallimento del proprio matrimonio, si vede rifiutata dai figli che hanno un rapporto di frequentazione privilegiato col padre, invece che con la madre stessa, affidataria.
Cass. pen. Sez. VI, 26 marzo 2009, n. 32824 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non rileva, per l’integrazione del reato di maltrattamenti in famiglia, nella specie in danno della moglie, il credo religioso dell’autore delle condotte, non potendo ritenersi che l’adesione ad un credo, che non sancisca la parità dei sessi nel rapporto coniugale, giustifichi i maltrattamenti in danno della moglie.
Cass. pen. Sez. VI, 26 marzo 2009, n. 32824 (Giur. It., 2010, 5, 1158)
La fede islamica, ove pure non sancisca la parità dei sessi nel rapporto coniugale, tuttavia non autorizza i maltrat¬tamenti da parte del marito e, anzi, pone a fondamento della sua autorevolezza proprio il dovere di astenersene. E sotto questo profilo, risulta del tutto conseguente la ritenuta ininfluenza delle convinzioni religiose del marito non solo sulla qualificazione giuridica della condotta, ma anche sulla sussistenza del dolo di maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2009, n. 28553 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La condotta vessatoria integrante “mobbing” non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati. (Fattispecie nella quale, in fase cautelare, l’indagato, direttore generale di un’azienda municipalizzata per lo smaltimento dei rifiuti urbani è stato ritenuto responsabile dei reati di maltrattamenti, lesioni personali e violenza privata).
Cass. pen. Sez. VI, 26 febbraio 2009, n. 14409 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mera pluralità di episodi vessatori (nella specie, trattavasi di percosse, ingiurie e minacce) non è di per sé sufficiente a integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, in assenza di un dolo che abbracci ed unifichi le di¬verse azioni e che ricolleghi a unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e psichica del soggetto passivo.
Cass. pen. Sez. VI, 18 febbraio 2009, n. 21537 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di reato di maltrattamenti, rientra nel rapporto d’autorità di cui all’art. 572 c.p. il rapporto intersogget¬tivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, in quanto caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al primo nei confronti del secondo.
Cass. pen. Sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594 (Famiglia e Diritto, 2009, 11, 1011 nota di MACRÌ)
Il “mobbing” è punibile ai sensi dell’art. 572 c.p. solo con riferimento al rapporto lavorativo di natura para-familiare, ove si verifichi l’alterazione della funzione di quel rapporto attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo.
Nel quadro del delitto di “Maltrattamenti in famiglia” il rapporto di autorità richiesto dall’art. 572 c.p., avuto ri¬guardo alla ratio della richiamata norma, deve comunque essere caratterizzato da “familiarità”, deve comportare relazioni abituali e intense, consuetudini di vita tra i soggetti, la soggezione di una parte nei confronti dell’al¬tra (rapporto supremazia-soggezione), la fiducia riposta dal soggetto passivo nel soggetto attivo, destinatario quest’ultimo di obblighi di assistenza verso il primo, perché parte più debole. È soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para- familiare che può configurarsi, ove si verifichi l’alterazione della funzione del medesimo rapporto attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti.
In materia di delitti contro la famiglia, la chiara formulazione letterale delle relative disposizioni codicistiche determina l’estensione del loro ambito di operatività a rapporti di fatto prescindenti giuridica o di mero fatto, la quale, da un lato, può indurre il soggetto attivo a tenere una condotta abitualmente prevaricatrice verso il sog¬getto passivo, e dall’altro, rende difficile a quest’ultimo sottrarvisi, con conseguenti avvilimento ed umiliazione della sua personalità. Avuto riguardo alla ratio delle norme di cui agli artt. 571 e 572 c.p., il rapporto di riferi¬mento deve, in ogni caso, dirsi caratterizzato da familiarità, nel senso che pur non inquadrandosi nel contesto tipico della famiglia, deve comportare relazioni abituali ed intense tra le parti, ed è solo nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della funzione del medesimo attraverso lo svilimento e la umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti in famiglia.
Cass. pen. Sez. VI, 5 febbraio 2009, n. 16031 (Nuova Giur. Civ., 2009, 11, 1, 1105 nota di CINQUE)
Ai sensi degli artt. 36 e 37 D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, il Consigliere regionale di parità è legittimato a co-stituirsi parte civile, ex art. 74 c.p.p., nella veste di “danneggiato” dal reato di maltrattamenti commessi nei confronti di più lavoratori con atti e comportamenti a carattere discriminatorio, anche al fine di ottenere il ristoro del danno non patrimoniale subito.
Cass. pen. Sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 22700 (Dir. Pen. e Processo, 2009, 8, 980)
Le differenti tradizioni che regolano i rapporti familiari in società culturalmente diverse non eliminano il disvalore del fatto di maltrattamenti, né sono di per sé idonee a giustificare l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
Cass. pen. Sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 20647 (Famiglia e Diritto, 2008, 10, 939)
Ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente “more uxorio”, atteso che il richiamo conte¬nuto nell’art. 572 cod. pen. alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo. (Nel caso di specie, la S.C. ha ravvisato l’esistenza di una convivenza di fatto di durata ultradecennale e connotata dalla nascita di due figlie, che ha dato luogo ad una situazione qualificabile come “famiglia di fatto”, ricompresa in quanto tale nell’ambito della tutela prevista dall’art. 572 cod. pen.).
Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2009, n. 16658 (Giur. It., 2010, 2, 397)
Poiché il delitto di maltrattamenti in famiglia può concretizzarsi anche in una condotta reiteratamente aggressiva ed offensiva nei confronti del coniuge separato di fatto, la conseguente responsabilità non si pone in contrasto con l’allontanamento spontaneo, avendo la medesima per obiettivo una tutela più ampia della persona offesa.
La fattispecie criminosa dei maltrattamenti infraconiugali può e deve ravvisarsi anche in situazioni di separazione e di sopravvenuta interruzione della convivenza, allorché la condotta del soggetto agente realizzi gli elementi strutturali tipici dell’ipotesi criminosa di cui all’art. 572 c.p. attraverso ripetute e insistite manifestazioni di offen¬sività e di aggressività attuate in danno del coniuge separato.
È inammissibile il ricorso per cassazione avverso l›applicazione della misura cautelare ex art. 282-bis c.p. volto al riesame in termini puramente fattuali della vicenda essendo precluso al giudice di legittimità il sindacato di merito se non nei limiti della coerenza, logicità ed ortodossia giuridica della motivazione. Il delitto di maltrattamenti può concretizzarsi anche sotto il profilo di una condotta reiteratamente aggressiva ed offensiva nei confronti del coniuge separato di fatto e la misura cautelare non si pone in rapporto di inconciliabilità con l›allontanamento spontaneo avendo la medesima per obiettivo una tutela più ampia della persona offesa.
Cass. pen. Sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 9531 (Famiglia e Diritto, 2009, 5, 524)
Non risponde del reato di maltrattamenti il coniuge che reiteratamente picchia, ingiuria ed umilia l’altro coniuge in quanto ai fini della configurabilità della fattispecie criminosa in argomento si richiede che vi sia un soggetto che abitualmente infligge sofferenze fisiche o morali a un altro, il quale, specularmente, ne resta succube.
ffinché sia integrato il reato di cui all’art. 572 c.p., secondo il significato riconducibile al termine “maltrattare”, è necessario che, come più volte affermato dalla giurisprudenza, l’agente eserciti, abitualmente, una forza oppres¬siva nei confronti di una persona della famiglia (o di uno degli altri soggetti indicati dall’art. 572 c.p.) mediante l’uso delle più varie forme di violenza fisica o morale.
Cass. pen. Sez. I, 15 gennaio 2009, n. 5945 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel reato di abbandono di persona minore o incapace l’evento aggravatore della morte si pone in rapporto di con¬causa con la condizione patologica della parte lesa, che deve trovarsi, quale presupposto del reato, in condizione di “malattia di mente o di corpo” o di “vecchiaia” tale da non poter provvedere a se stessa.
Cass. pen. Sez. VI, 26 novembre 2008, n. 46300 (Giur. It., 2010, 2, 416 nota di PAVESI)
L’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia, integrato dalla condotta dell’agente che sottopo¬ne la moglie ad atti di vessazione reiterata, non può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi, perciò, particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare, in quanto si tratta di concezioni che si pongono in assoluto contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell’or¬dinamento giuridico italiano e della regolamentazione concreta nei rapporti interpersonali.
Relativamente ai reati culturali, qualificati dal fatto che la norma penale va applicata nei confronti di soggetti di cultura ed etnia diversa, i quali risultino portatori di tradizioni sociologiche e abitudini antropologiche confliggenti con la norma penale, il giudice non può sottrarsi al suo compito di applicare le norme vigenti, non potendosi ammettere qualsivoglia soluzione interpretativa che pretenda di escludere la sussistenza dell’elemento soggetti¬vo del reato, invocando le convinzioni religiose ed il retaggio culturale dell’imputato, perché tale interpretazione finirebbe col porsi in contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano e della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali.
Cass. pen. Sez. VI, 18 novembre 2008, n. 45808 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia ( articolo 572 c.p.), non è necessario il dolo specifico, ossia che l’agente debba prefiggersi lo scopo di rendere abitualmente dolorosa la vita delle sue vittime, a causa di una inclinazione prevaricatoria, ma è invece sufficiente il dolo generico, ossia che il soggetto abbia la coscienza e la volontà di mantenere abitualmente un comportamento che sia causa di sofferenze e abbia effetto si degradazione dei rapporti tra i conviventi.
Cass. pen. Sez. III, 12 novembre 2008, n. 46375 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È configurabile il concorso formale tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di violenza sessuale quando la condotta integrante il reato di cui all›art. 572 cod. pen. non si esaurisca negli episodi di violenza sessuale, ma s›inserisca in una serie d›atti vessatori e percosse tipici della condotta di maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. VI, 4 novembre 2008, n. 6490 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il congiunto non va condannato per il reato di maltrattamenti se i continui litigi con l’altro coniuge si inquadrano in un contesto di permanente tensione caratterizzante la vita familiare e può in tal caso difettare l’elemento soggettivo del reato in argomento.
Cass. pen. Sez. III, 22 ottobre 2008, n. 45459 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti è assorbito da quello di violenza sessuale soltanto quando vi è piena coincidenza tra le condotte, nel senso che gli atti lesivi siano finalizzati esclusivamente alla realizzazione della violenza sessuale e siano strumentali alla stessa, mentre in caso di autonomia anche parziale delle condotte, comprendenti anche atti ripetuti di percosse gratuite e ingiurie non circoscritte alla violenza o alla minaccia strumentale necessaria alla realizzazione della violenza, vi è concorso tra il reato di violenza sessuale continuata e quello di maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. III, 19 settembre 2008, n. 39338 (Dir. Pen. e Processo, 2009, 1, 25)
Il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nel caso di famiglia di fatto.
Cass. pen. Sez. V, 17 settembre 2008, n. 44516 (Giur. It., 2010, 1, 179 nota di FERRARI)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste nel cagionare al soggetto passivo delle sofferenze morali e/o materiali, mentre quello di riduzione in servitù implica un’integrale negazione della libertà e della dignità della vittima, un suo completo asservimento all’agente. Le due condotte sono in progressione criminosa e quando è ravvisabile la seconda, la prima deve ritenersi consunta; invece, la contravvenzione dell’impiego di minori nell’accattonaggio ricorre in presenza di un isolato episodio di mendicità con utilizzo di minori. (Fattispecie in cui la Corte ha ravvisato il reato di maltrattamenti in famiglia nel comportamento di una madre che si avvaleva del figlio di quattro anni per chiedere l’elemosina ai passanti ogni giorno, facendolo stare in piedi per quattro ore consecutive in periodo invernale, senza cibo e senza che fosse adeguatamente vestito).
Non integra il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù la condotta posta in essere da chi pratichi l’accattonaggio per alcune ore del giorno facendosi aiutare dal figlio minore, e ciò per l’assenza di una condizione di integrale asservimento ed esclusiva utilizzazione del minore ai fini di sfruttamento economico. (La Corte ha precisato che la condotta, qualora sia continuativa e cagioni al minore sofferenze morali e materiali, integra il meno grave delitto di maltrattamenti in famiglia e, ove si risolva in un isolato episodio di mendicità, la contrav¬venzione dell’impiego di minori nell’accattonaggio).
Il reato di riduzione in schiavitù e/o servitù può configurarsi anche a carico dei genitori che impieghino i figli nell’accattonaggio, nel furto o in altre attività illecite, e ricorre allorquando le forme di assoggettamento del minore comportino una integrale negazione della sua dignità e libertà. È invece configurabile il reato di mal¬trattamenti in famiglia quando il genitore consenta o favorisca attività del minore che, pur non comportando un completo asservimento del medesimo, siano nondimeno lesive della sua integrità fisica e psichica, cagionandone sofferenze morali e materiali.
Cass. pen. Sez. II, 17 settembre 2008, n. 39023 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di minorata difesa, l’ età non può di per sè costituire condizione autosufficiente ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, cod. pen., dovendo essere accompagnata da fenomeni di decadimento o di indebolimento delle facoltà mentali o da ulteriori condizioni personali, quali il basso livello culturale del soggetto passivo, che determinano un diminuito apprezzamento critico della realtà.
Cass. pen. Sez. VI, 27 giugno 2008, n. 26571 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia a carico del coniuge è configurabile anche in caso di separazione e di con¬seguente cessazione della convivenza, purché la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della fattispecie. (Principio affermato relativamente al caso di reiterate ed offensive manifestazioni di aggressività, attuate dal coniuge separato per convincere la moglie a riprendere la convivenza)
Cass. pen. Sez. III, 5 giugno 2008, n. 27469 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Tra i soggetti passivi del delitto di maltrattamenti, di cui all’art. 572 c.p., rientrano anche coloro che sono sotto¬posti all’autorità dell’agente o sono al medesimo affidati per ragioni di istruzione o di educazione. Il rapporto di autorità sussiste, in particolare, fra il datore di lavoro e il lavoratore dipendente, essendo, quest’ultimo, sotto¬posto al potere direttivo e disciplinare del primo. In tal caso, per la configurabilità del reato non è necessaria la convivenza, ma è sufficiente che tra i due sussista un rapporto di tipo continuativo.
Cass. pen. Sez. VI, 27maggio 2008, n. 35963 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti può evidenziarsi anche in un contesto familiare caratterizzato da forti tensioni ascri¬vibili ad entrambi i protagonisti della controversia (nel caso di specie due coniugi), tra i quali viene a crearsi un clima di reciproca insofferenza e intollerabilità. Una tale situazione infatti, deve essere gestita comunque in modo equilibrato, nel rispetto delle regole di civile convivenza e della dignità fisica e morale della persona e non legittima reazioni che insistono su condotte abitualmente proiettate all’aggressione, alla mortificazione e all’umiliazione della controparte. La provocazione da parte del soggetto passivo non costituisce pertanto causa di esclusione del reato di maltrattamenti, la di cui pena non può essere perciò esclusa o diminuita.
Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2008, n. 35862 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di cui all’art. 572 c.p. può sussistere anche in un contesto familiare caratterizzato da forti tensioni ascrivi¬bili a entrambi i coniugi, tra i quali viene a crearsi un clima di reciproca insofferenza e intollerabilità, considerato che tale situazione non legittima reazioni che insistono su condotte abitualmente proiettate all’aggressione, alla mortificazione e all’umiliazione della controparte. In tal caso, la provocazione del soggetto passivo, se provata, è in astratto compatibile con il reato di maltrattamenti, il quale potrà semmai essere attenuato nelle conseguenze sanzionatorie in relazione ai singoli episodi ai quali la provocazione si riferisce.
Cass. pen. Sez. I, 14 maggio 2008, n. 21329 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è configurabile l’ipotesi aggravata di cui all’art. 572, comma secondo, cod. pen. (morte come conseguenza non voluta dei maltrattamenti) – ma quella di omicidio volontario di cui all’art. 575 cod. pen. – nel caso in cui la morte della vittima, sottoposta a continui maltrattamenti, sia oggetto della sfera rappresentativa e volitiva dell’agente, oltre ad essere causalmente collegata alla condotta da questi posta in essere. (In applicazione di questo principio la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la sussistenza del delitto di omicidio volontario nella condotta di due conviventi che avevano omesso di sommini¬strare il cibo ad una bimba, continuamente sottoposta a maltrattamenti e di cui avevano la responsabilità della cura ed educazione, correttamente ritenendo che rientra nella cognizione e nell’esperienza di qualsiasi individuo, pur se dotato di modeste facoltà cognitive e intellettive, che la mancata somministrazione di cibo ad un bambino è destinata a provocarne la morte).
Cass. pen. Sez. III, 15 aprile 2008, n. 26165 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di violenza sessuale concorre con quello di maltrattamenti in famiglia quando la condotta violenta, pur ispirata da prevalenti motivazioni di carattere sessuale, non si esaurisca nel mero uso della violenza necessaria a vincere la resistenza della vittima per abusarne sessualmente, ma s’inserisca in un contesto di sopraffazioni, ingiurie, minacce e violenze di vario genere nei confronti di quest’ultima, tipiche della condotta di maltrattamen¬ti. (Rigetta, App. Milano, 24 Aprile 2007)
Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 2008, n. 27048 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti, l’art. 572 cod. pen. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che ne avviliscono la personalità. (Fattispecie in cui è risul¬tato che l’imputato aveva sottoposto la convivente ad un clima oppressivo, umiliante, vessatorio e di sistematica sopraffazione, insultandola continuamente e senza motivo, cacciandola di casa ed infliggendole percosse e lesioni).
Cass. pen. Sez. VI, 8 gennaio 2008, n. 16982 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’integrazione del reato di maltrattamenti è sufficiente il dolo generico, che si sostanzia nella volontà dell’agente di sottoporre la vittima a sofferenze fisiche o morali in modo abituale; deve pertanto escludersi che l’intenzione dell’agente di agire esclusivamente per pretese finalità educative possa far venir meno il dolo.
Cass. pen. Sez. VI, 5 dicembre 2007, n. 6581 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato di maltrattamenti, previsto dall’art. 572 c.p., la condotta degli operatori di una casa di cura de¬stinata ad accogliere pazienti affetti da gravi disturbi psichici; condotta sostanziatasi nel somministrare ai malati massicce dosi di sedativi, al fine di non dover prestar loro assistenza nel corso della notte o in altre circostanze. Lo stato di prostrazione determinato dall’abuso dei farmaci integra, invero, una grave causa di sofferenza, idonea a concretizzare la materialità del reato di cui all’art. 572 c.p.
Cass. pen. Sez. VI, 29 novembre 2007, n. 12129 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
sottrarsi alle continue sofferenze psico-fisiche cagionate abitualmente, potrà dirsi sussistente un rapporto eziolo¬gico tra la condotta dell’autore dei maltrattamenti e il suicidio; nesso che viene meno solo qualora si verifichi una causa autonoma e successiva che si inserisca nel processo causale in modo atipico, eccezionale ed imprevedibile.
In tema di reato di maltrattamenti in famiglia, l’imputazione soggettiva dell’evento aggravatore, non voluto, della morte della vittima per suicidio ne richiede la prevedibilità in concreto come conseguenza della condotta criminosa di base, in modo che possa escludersi che sia stato oggetto di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 7 novembre 2007, n. 45283 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia, anziché la fattispecie meno grave di abuso di mezzi di correzione e disciplina, qualora i mezzi educativi o correttivi siano affiancati dall’uso di altri mezzi non consentiti in quanto do¬tati di immanente antigiuridicità (fattispecie relativa all’uso, da parte della madre nei confronti dei tre figli minori d’età, di mezzi e metodi privi di finalità correttive o pedagogiche, quali percosse e punizioni umilianti e gratuite).
Cass. pen. Sez. VI, 13 luglio 2007, n. 38962 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia, essendo a forma libera, può sicuramente essere integrato anche da con¬dotte consapevolmente perturbatrici dell’equilibrio e dell’evoluzione psichica di un soggetto minore. (Nella specie l’imputato aveva tenuto ripetutamente nei confronti della figlia minore atteggiamenti diretti e idonei a stimolare in lei un’impropria e precoce inclinazione erotico-sessuale, con palese turbamento, acclarato con perizia, della sua equilibrata evoluzione psichica)
Cass. pen. Sez. III, 12 luglio 2007, n. 36962 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di violenza sessuale e quello di maltrattamenti in famiglia possono concorrere tra loro, salvo che nel caso in cui vi sia piena coincidenza tra le due condotte, nel senso che il delitto di maltrattamenti sia consistito nella mera reiterazione degli atti di violenza sessuale. (Rigetta, App. Milano, 14 Luglio 2004)
Cass. pen. Sez. VI, 31 maggio 2007, n. 40340 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia, disciplinato all’art. 572 c.p., concorre con quello di lesioni personali ( art. 582 c.p.).
Sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia ( art. 570 c.p.) e non la meno grave fattispecie di abuso di mezzi di correzione, nel caso di uso sistematico della violenza da parte del genitore nei confronti dei figli minori, pur in presenza dell’animus corrigendi.
Cass. pen. Sez. III, 16 maggio 2007, n. 22850 (Famiglia e Diritto, 2007, 10, 911 nota di PITTARO)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia concorre con quello di violenza sessuale qualora le reiterate condotte di abuso sessuale, oltre a cagionare sofferenze psichiche alla vittima, ledono anche la sua libertà di autodetermi¬nazione in materia sessuale, attesa la diversità dei beni giuridici offesi.
Allorché i fatti di abuso sessuale siano commessi nell’ambito della famiglia o nell’ambito di un rapporto di affida¬mento, da parte di soggetto che ha un obbligo di assistenza o protezione nei confronti del minore, con il reato sessuale concorre quello di cui all’art. 572 c.p. se trattasi di condotte reiterate nel tempo in modo da configurare un’azione abituale idonea a ledere anche l’integrità psichica della vittima.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia, reato necessariamente abituale, può concorrere formalmente con quello di violenza sessuale rivolta verso un minore infraquattordicenne, atteso che questa, se reiterata nel tempo, può configurare un’azione abituale idonea a ledere anche l’integrità psichica della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 20 febbraio 2007, n. 34460 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La condotta relativa al delitto di maltrattamenti in famiglia si distingue rispetto a quella propria del delitto di abuso dei mezzi di correzione e disciplina, in quanto, mentre quest’ultima presuppone un uso consentito e le¬gittimo dei mezzi correttivi, che, senza attingere a forme di violenza, trasmodi in abuso a cagione dell’eccesso, arbitrarietà o intempestività della misura, la prima implica un regime di prevaricazione e violenza ed una abitua¬lità di comportamenti illegittimi, tali da rendere intollerabili le condizioni di vita della vittima. (Nella fattispecie si è ritenuto che il comportamento del padre che, fin dalla più tenera età, abbia impedito alla figlia di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di casa se non per andare a scuola o a fare la spesa integri il reato di maltrattamenti in famiglia)
Il comportamento del padre che sottoponga la figlia minore ad un regime di prevaricazione e violenza, tale da rendere intollerabili le condizioni di vita, impedendole, come nel caso di specie, di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di casa se non per andare a scuola o a fare la spesa, configura il reato di maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli ( art. 572 c.p.) e non quello meno grave di abuso di mezzi di correzione e di disciplina ( art. 571 c.p.) che presuppone un uso consentito e legittimo dei mezzi correttivi, che, senza attingere a forme di violenza, trasmodi abuso a cagione dell’eccesso, arbitrarietà o intempestività della misura. Non è ammissibile la condotta del genitore che reiteratamente impedisca alla figlia, fin dall’età di quattro anni, di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di casa, se non per andare a scuola o a fare la spesa integrando, tale condotta, il reato di maltrattamenti in famiglia.
Cass. pen. Sez. VI, 24 gennaio 2007, n. 21329 (Riv. Pen., 2008, 3, 320)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in danno di persona convivente more uxorio quando si sia in presenza di un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra le due per¬sone, con legami di reciproca assistenza e protezione. (Nell’affermare tale principio, la S.C. ha precisato che, agli effetti del delitto di cui all’art. 572 c.p., deve intendersi come “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo).
Cass. pen. Sez. VI, 11 gennaio 2007, n. 4139 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per configurare l’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia ( art. 572 c.p.), si richiede il dolo generico, che consiste nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima a una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità.
Cass. pen. Sez. VI, 12 dicembre 2006, n. 1090 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei reati di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù l’agente, realizzando tali alternative condotte, “mal¬tratta” necessariamente il soggetto passivo, a prescindere dalla percezione che questo (che potrebbe anche essere acquiescente) ne abbia, sicché non può ritenersi configurabile il concorso tra il reato in esame e quello di cuiall’art. 572 c.p., essendo irrilevante, stante il principio di consunzione, la diversità dei beni giuridici tutelati dalle due norme.
Cass. pen. Sez. VI, 9 novembre 2006, n. 3419 (Famiglia e Diritto, 2007, 5, 494)
Configura il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 cod. pen. la condotta di chi, avuto in consegna un minore allo scopo di accudirlo, educarlo ed avviarlo ad una istruzione, consente che viva in stato di abbandono in strada, per vendere piccoli oggetti e chiedere l’elemosina, appropriandosi poi del ricavato e disinteressandosi del suo stato di malnutrizione e delle situazioni di pericolo fisico e morale cui egli si trovi esposto: si tratta infatti di una condotta lesiva dell’integrità fisica e morale del minore, idonea a determinare una situazione di sofferenza, di cui va ritenuto responsabile chiunque ne abbia l’affidamento.
L’offensività del bene protetto dalla norma di cui all’art. 572 c.p. si attua nel momento in cui si crea per la persona offesa la situazione di sofferenza in cui è costretta a vivere. Il verificarsi di tale situazione integra l’evento del de¬litto e non si richiede che dalla stessa derivi un ulteriore danno alla integrità fisica o psichica del soggetto passivo.
Cass. pen. Sez. I, 2 maggio 2006, n. 18447 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è configurabile il rapporto di specialità tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di sequestro di persona, giacché sono figure di reato dirette a tutelare beni diversi e poi, l’uno, è integrato dalla condotta di programmatici e continui maltrattamenti psico-fisici ai danni di famigliari e, l’altro, da quella di privare taluno della libertà personale.
Cass. pen. Sez. VI, 12 aprile 2006, n. 26235 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per configurare l’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia ( art. 572 c.p.) non è necessario che l’agente abbia perseguito particolari finalità né il pravo proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisi¬che o morali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico, cioè la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo e abituale. Il dolo del reato, in altri termini, consiste nell’inclinazione della volontà a una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei mal¬trattamenti, si va “progressivamente” realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in un’ attività illecita, posta in essere altre volte; con la conseguenza che tali singole sopraffazioni, realizzate in momenti successivi, risultano collegate da un nesso di abitualità e avvinte nel loro svolgimento dall’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo.
Cass. pen. Sez. VI, 8 marzo 2006, n. 31413 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il compimento di atti e comportamenti (violenza, persecuzione psicologica), posti in essere dal datore di lavoro con carattere sistematico e duraturo e miranti a danneggiare il lavoratore al fine di estrometterlo dal lavoro, può travalicare i confini meramente civilistici o giuslavoristici della condotta di mobbing ed integrare ipotesi di reato.
Cass. pen. Sez. I, 9 novembre 2005, n. 7043 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe i delitti di percosse e minacce, anche gravi, sempre che tali com¬portamenti siano stati contestati come finalizzati al maltrattamento, ma non quello di lesioni attesa la diversa obiettività giuridica dei reati (principio affermato in sede di denunzia di conflitto positivo di competenza, che è stato dichiarato inammissibile).
Cass. pen. Sez. III, 8 novembre 2005, n. 44262 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima, in presenza di un rapporto di stabile convivenza, come tale suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una certa durata, quanto piuttosto che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione.
Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2005, n. 39927 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per la configurabilità del reato di maltrattamenti l’art. 572 cod. pen. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, in¬staurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità; ne consegue che deve escludersi che l’intenzione dell’agente di agire esclusivamente per finalità educative sia elemento dirimente per fare rientrare gli abituali atti di violenza posti in essere in danno dei figli minori nella previsione di cui all’art. 571 cod. pen., in quanto gli atti di violenza devono ritenersi oggettivamente esclusi dalla fattispecie dell’abuso dei mezzi di correzione, dovendo ritenersi tali solo quelli per loro natura a ciò deputati, che tradiscano l’importante e delicata funzione educativa.
Cass. pen. Sez. VI, 7 febbraio 2005, n. 16491 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, la nozione di malattia nella mente (il cui rischio di causazione implica la rilevanza penale della condotta) è più ampia di quelle concernenti l’imputabilità o i fatti di lesione personale, estendendosi fino a comprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del sog¬getto passivo, dallo stato d’ansia all’insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento.
Costituisce abuso dei mezzi di correzione (sempre che, ricorrendo il requisito dell’abitualità ed il necessario elemento soggettivo, non si renda configurabile il più grave reato di maltrattamenti), anche il comportamento doloso, attivo od omissivo, mantenuto per un tempo apprezzabile, che umilii, svaluti, denigri e sottoponga a sevizie psicologiche un bambino, causandogli pericoli per la salute, anche psichica, senza che in contrario possa rilevare il fatto che esso sia stato posto in essere con intenzione correttiva e disciplinare.
Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 2004, n. 34522 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia si estrinseca nel compimento di una pluralità di atti volti a ledere l’integrità fisica e il patrimonio morale del soggetto passivo. L’addebito di assunzione, da parte del prevenuto, del modello di padre famiglia prevaricatore, pur configurando un comportamento deprecabile, se posto in relazione ad un modo di gestire il rapporto familiare oggi improntato ad una sostanziale parità dei coniugi nelle decisioni della vita familiare, mai può costituire ed integrare quella lesione del bene giuridico tutelato dall’art. 572 c.p.
Cass. pen. Sez. III, 24 giugno 2004, n. 35849 (Dir. Pen. e Processo, 2005, 4, 463 nota di RANZATTO)
In caso di maltrattamenti in famiglia integratisi anche attraverso la condotta di ripetute violenze sessuali, non è ipotizzabile il concorso fra il delitto di violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis c.p., ed il delitto di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 c.p., atteso che in tale ipotesi in applicazione del principio di specialità si configura il solo delitto di violenza sessuale continuata, caratterizzato da un dolo unitario e programmatico.
Il delitto di violenza sessuale continuata non concorre formalmente con il delitto di maltrattamenti in famiglia essendo anch’esso caratterizzato da un dolo unitario e programmatico; né il concorso tra i due reati può essere giustificato dalla diversa obiettività giuridica, trattandosi di criterio estraneo alla configurazione codicistica del principio di specialità.
Cass. pen. Sez. VI, 11 maggio 2004, n. 28367 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La diversa obiettività giuridica del reato di maltrattamenti in famiglia e di quello di lesioni personali volontarie esclude l’assorbimento del secondo nel primo, rendendoli concorrenti tra loro.
Cass. pen. Sez. VI, 8 gennaio 2004, n. 4933 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel delitto di maltrattamenti in famiglia, punito dall’art. 572 c.p., il dolo è generico, sicché non si richiede che l’a¬gente sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva.
Cass. pen., 11 dicembre 2003, n. 6541 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dolo nel delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) è unitario e programmatico, nel senso che esso funge da elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima e si concretizza nell’incli¬nazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte.
Il dolo nel delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) si caratterizza come unitario e programmatico, ovvero funge da elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima e si concretizza nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltratta¬menti, si va via via realizzando e confermando, così che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte.
Cass. pen. Sez. III, 5 dicembre 2003, n. 984 (Riv. Pen., 2005, 230)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia può concorrere con quello di violenza sessuale, in quanto non vi è assorbi¬mento fra tali reati attesa la diversità dei beni giuridici protetti dai due delitti. (Fattispecie in cui la Corte ha rite¬nuto correttamente configurata la continuazione fra i delitti nel caso di ripetute violenze fisiche e morali adottate nei confronti anche della sorella minore che tentava di sottrarsi a non gradite pretese sessuali dell’imputato).
Cass. pen. Sez. VI, 4 dicembre 2003, n. 7192 (Riv. Pen., 2005, 500)
Il reato di cui all’art. 572 c.p. consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione con¬tinui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l’esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo.
Cass. pen. Sez. VI, 19 giugno 2003, n. 33091 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe i delitti di percosse, minacce, ingiurie.
Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 37019 (Riv. Pen., 2004, 1137)
Nel reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Sta¬to alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimen¬to di un rapporto fondato su vincoli familiari; tuttavia, deve escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile. (In motivazione, la Corte ha precisato che fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della persona, derivanti da situazioni contingenti e particolari, che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, ma conservano la propria autonomia di reati contro la persona).
Cass. pen. Sez. III, 13 maggio 2003, n. 26830 (Guida al Diritto, 2003, 43, 70)
Gli atti di violenza fisica e morale posti in essere per coartare la volontà del soggetto passivo a fini sessuali sono strumentali alla consumazione dei reati di cui agli articoli 609-bis e seguenti del codice penale e, normalmente, non fanno concorrere, con essi, il reato previsto dall’articolo 572 del codice penale, in quanto indotti non dalla volontà di infliggere alla vittima una serie continua e abituale di sofferenze fisiche e morali tali da renderle la vita impossibile, bensì dal proposito di soddisfare la propria libidine sessuale: pertanto, in genere, il reato di violenza sessuale continuata non concorre formalmente con quello di maltrattamenti, atteso che esso è caratterizzato da dolo unitario e programmato e che il concorso tra i due reati non può essere giustificato dalla loro diversa og¬gettività giuridica trattandosi di criterio estraneo alla configurazione codicistica del principio di specialità. I reati di che trattasi, peraltro, possono concorrere allorquando le minacce e le vessazioni poste in essere nei confronti del soggetto passivo non si esauriscono nel perseguimento del piano delittuoso finalizzato al compimento del reato di violenza sessuale e si sostanziano in una serie di atti tesi a determinare, nello stesso, anche – ma non solo – attraverso la violenza sessuale, uno stato abituale di vita caratterizzata da sofferenze fisiche e psichiche. da vessazioni e umiliazioni, tali da distruggerne o mortificarne seriamente la dignità.
Il reato di maltrattamenti consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà o del decoro del soggetto passivo, nei cui confronti viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica e program¬mata tale da rendergli la vita e l’esistenza particolarmente dolorose ed è sorretto dal dolo generico costituito dalla coscienza e volontà di sottoporre la vittima a una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuativo e abituale, sì da lederne la personalità.
Cass. pen. Sez. I, 21 febbraio 2003, n. 16578 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è configurabile il reato aggravato dall’evento di cui all’art. 572 c.p., comma 2, quando la morte del familiare, che sia stato fino a quel momento sottoposto a maltrattamenti, anziché essere conseguenza non voluta della condotta abituale di maltrattamenti, sia cagionata intenzionalmente. In tali circostanze non è neppure configura¬bile il nesso teleologico tra il reato di maltrattamenti e quello di omicidio volontario, rappresentando quest’ultimo un salto qualitativo rispetto ai comportamenti di prevaricazione e violenza in ambito familiare, posti in essere fino a quel momento nei confronti della vittima.
Cass. pen. Sez. VI, 31 gennaio 2003, n. 7781 (Riv. Pen., 2003, 613)
Poiché l’interesse protetto dal reato di cui all’art. 572 c.p. è la personalità del singolo in relazione al rapporto che lo unisce al soggetto attivo, è configurabile il reato continuato nel caso di maltrattamenti posti in essere nei confronti di più familiari.
Cass. pen. Sez. VI, 30 gennaio 2003, n. 8848 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima in presenza di un rapporto di stabile convivenza, in quanto suscettibile di determinare obblighi di soli¬darietà e di mutua assistenza. (Nella specie, la Corte ha peraltro ritenuto irrilevante, ai fini penali, la circostanza che tra l’imputato e la persona offesa esistesse un matrimonio contratto all’estero nel Paese di comune origine non dichiarato efficace in Italia, posto che le disposizioni regolatrici della materia – art. 17, primo comma, delle preleggi e art. 28della legge n. 218 del 1995 – rinviano per la validità del matrimonio alla legge del luogo in cui esso è stato celebrato o alla legge nazionale dei coniugi al momento della celebrazione).
Cass. pen. Sez. VI, 8 novembre 2002, n. 55 (Riv. Pen., 2003, 910)
Il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) è integrato dalla condotta dell’agente che sottopone la mo¬glie ad atti di vessazione reiterata e tali da cagionarle sofferenza, prevaricazione e umiliazioni, costituenti fonti di uno stato di disagio continuo e incompatibile con normali condizioni di esistenza. Né l’elemento soggettivo del reato in questione può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi, perciò, particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare, in quanto si tratta di concezioni che si pongono in assolu¬to contrasto con le norme che stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano, considerato che la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, cui è certamente da ascrivere la famiglia (art.2 Cost.), nonché il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (art. 3 Cost., commi 1 e 2) costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione di diritto o di fatto nella società civile di consuetudini, prassi o costumi con esso assolutamente incompatibili.
Cass. pen. Sez. VI, 8 ottobre 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p., e non quello di abuso dei mezzi di correzione e disciplina di cui all’art. 571 c.p., l’imposizione di un regime di vita scolastica assolutamente ed inutilmente umiliante e vessatorio per i piccoli alunni, soggetti a ripetute ingiurie, ad imposizioni mortificanti ed in alcuni casi anche a violenza fisica. Infatti il reato di cui all’art. 571 c.p. presuppone un uso consentito e legittimo dei mezzi correttivi, e non è configurabile, per mancanza dell’elemento oggettivo, nel caso in cui lo ius corrigendi venga esercitato fuori dai casi consentiti o con mezzi di per sé illeciti e contrari al fine educativo. Per integrare l’abitualità dei comportamenti richiesta dall’art. 572 c.p. basta la ripetizione degli atti vessatori, unificati dalla medesima intenzione criminosa, anche se succedutisi per un limitato o per limitati periodi di tempo, ed anche se gli atti lesivi si siano alternati a periodi di normalità.
Cass. pen. Sez. V, 1 luglio 2002, n. 32363 (Riv. Pen., 2003, 457)
Non sussiste rapporto di specialità (art. 15 c.p.) tra il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e quello di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), trattandosi di reati che tutelano interessi diversi – la correttezza dei rapporti familiari nella prima ipotesi, lo “status libertatis” dell’individuo nella seconda – e che presentano un di¬verso elemento materiale, in quanto nell’ipotesi dell’art. 572 c.p. è necessario che un componente della famiglia sottoponga un altro a vessazioni, mentre nel caso di riduzione in schiavitù è necessario che un soggetto eserciti su un altro individuo un diritto di proprietà, con la conseguenza che le due ipotesi di reato, sussistendone i pre¬supposti, possono concorrere.
Cass. pen. Sez. VI, 10 ottobre 2001, n. 36576 (Famiglia e Diritto, 2002, 2, 135 nota di BERSANI)
Deve ritenersi responsabile del reato di maltrattamenti alla famiglia, previsto e punito dall’art. 572 c.p. colui che risulti aver percosso e vessato moralmente la convivente. Sono da considerarsi membri della famiglia, tutelati dall’art. 572 c.p. anche i componenti della famiglia di fatto, fondata cioè sulla volontà di vivere insieme, di avere figli, di avere beni comuni, di dar vita, cioè, ad un nucleo stabile e duraturo. Questa interpretazione dell’art. 572 c.p. è la più coerente con i principi ispiratori del nostro ordinamento, nonchè con la realtà sociale moderna. Del resto l’introduzione del divorzio e il suo largo utilizzo hanno dimostrato che il matrimonio non è più un legame in¬dissolubile ed hanno eliminato, dunque, il presupposto più plausibile per una tutela diversificata dei due rapporti.
Corte cost., 9 maggio 2001, n. 114 (Foro It., 2001, I, 2423)
Premesso che la scelta del legislatore di prevedere una speciale disciplina per l’incidente probatorio rispetto ai reati sessuali è collegata a specifiche esigenze sia di assicurazione della genuinità della prova, sia, soprattutto di protezione del minore infrasedicenne rispetto alle possibili lesioni della sua personalità derivanti dalle mo¬dalità del suo intervento nel procedimento, non è fondata la questione di legittimità sollevata riguardo all’art. 398 comma 5 bis c.p.p.(Provvedimenti sulla richiesta di incidente probatorio) nella parte in cui non prevede, fra le ipotesi di reato in presenza delle quali essa si applica, il reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, di cui all’art. 572 c.p. in riferimento all’art. 3 della Costituzione. Diversamente è per il reato di maltrattamenti in famiglia che non presenta caratteristiche di tale assimilabilità, rispetto ai reati sessuali, da imporre in modo automatico l’estensione della medesima ratio. Tuttavia le modalità particolari di assunzione della testimonianza del minore infrasedicenne, previste dall’art. 398 comma 5 bis, con l’introduzione ad opera della legge 269/98 del comma 4 bis all’art. 498 c.p.p., il quale si applica nel dibattimento indipendentemente dal titolo di reato per il quale si procede, possono trovare applicazione, poiché esso è applicabile, in forza dell’art. 401 comma 5, anche nell’incidente probatorio, nell’ambito di un procedimento per reato diverso da quelli sessuali.
Cass. pen. Sez. VI, 22 gennaio 2001, n. 100 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p., e non invece quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina ( art. 571 c.p.), la condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti, quando la finalità perseguita dagli agenti non sia la loro punizione per episodi censurabili ma lo sfruttamento degli stessi per motivi di lucro personale. (Nella specie, gli imputati, in concorso fra loro, avevano sottoposto i propri subordinati a varie vessazioni, accompagnate da minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle retribuzioni pattuite, che venivano corrisposte su libretti di risparmio intestati ai lavoratori ma tenuti dal datore di lavoro, che così li mantenevano in uno stato di sottomissione e umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro intensissimi).
Cass. pen. Sez. III, 29 novembre 2000, n. 3998 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di violenza sessuale continuata non concorre formalmente con il delitto di maltrattamenti, atteso che anch’esso è caratterizzato da un dolo unitario e programmatico, nè il concorso tra i due reati può essere giu¬stificato dalla loro diversa obiettività giuridica, trattandosi di criterio estraneo alla configurazione codicistica del principio di specialità.
Cass. pen. Sez. VI, 18 ottobre 2000, n. 12545 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima in presenza di un rapporto di stabile convivenza, in quanto suscettibile di determinare obblighi di soli¬darietà e di mutua assistenza. (Nella specie la Corte ha peraltro ritenuto irrilevante, ai fini penali, la circostanza che tra l’imputato e la persona offesa esistesse un matrimonio contratto all’estero nel paese di comune origine non dichiarato efficace in Italia, posto che le disposizioni regolatrici della materia ù art. 17 comma 1 disp. prel. c.c. e art. 28 l. n. 218 del 1995 ù rinviano per la validità del matrimonio alla legge del luogo in cui esso è stato celebrato o alla legge nazionale dei coniugi al momento della celebrazione).
In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima in presenza di un rapporto di stabile convivenza, in quanto suscettibile di determinare obblighi di soli¬darietà e di mutua assistenza. (Nella specie la Corte ha peraltro ritenuto irrilevante, ai fini fiscali, la circostanza che tra l’imputato e la persona offesa esistesse un matrimonio contratto all’estero nel paese di comune origine non dichiarato efficace in Italia, posto che le disposizioni regolatrici della materia – art. 17, comma 1, disp. prel. c.c. e art. 28 l. n. 218 del 1995 – rinviano per la validità del matrimonio alla legge del luogo in cui esso è stato celebrato o alla legge nazionale dei coniugi al momento della celebrazione).
Cass. pen. Sez. VI, 2 maggio 2000, n. 9414 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La fattispecie di cui all’art. 572 c.p. si perfeziona con il compimento di una pluralità di atti lesivi dell’integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, legati tra loro dal vincolo dell’abitualità nonché dell’elemento psicologico unitario e pressoché programmatico.
Cass. pen. Sez. VI, 20 ottobre 1999, n. 3398 (Riv. Pen., 2000, 238)
Il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) non può essere scriminato dal consenso dell’avente diritto, sia pure affermato sulla base di opzioni sub culturali relative ad ordinamenti diversi da quello italiano. Dette sub culture, infatti, ove vigenti, si porrebbero in assoluto contrasto con i principi che stanno alla base dell’ordi¬namento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili dell’uopo sanciti dall’art. 2 cost., i quali trovano specifica considerazione in materia di diritto di famiglia negli art. 29 – 31 cost. (Fattispecie in cui la scriminante del consenso dell’avente diritto era stata fondata sull’origine albanese dell’imputato e delle persone offese per le quali varrebbe un concetto dei rapporti familiari diverso da quello vigente nel nostro ordinamento).
Il soggetto resosi responsabile di maltrattamenti in famiglia non può invocare a proprio favore la scriminante di cuiall’art. 50 c.p. (consenso dell’avente diritto) neppure adducendo a sostegno di ciò l’esistenza, nel proprio paese di origine (nella specie tanto l’imputato quanto le vittime erano di nazionalità albanese), di una concezione della convivenza familiare e dei poteri del capo – famiglia secondo cui comportamenti come quelli inquadrabili, secondo l’ordinamento italiano, nella suddetta figura di reato sarebbero invece accettati come normali.
Cass. pen. Sez. V, 9 aprile 1999, n. 6885 (Giust. Pen., 2000, II, 72)
Ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 591 c.p. (abbandono di persone minori o incapaci) è necessario accertare in concreto, salvo che si tratti di minore di anni quattordici, l’incapacità del soggetto passivo di prov¬vedere a se stesso. Ne consegue che non vi è presunzione assoluta di incapacità per vecchiaia, la quale non è una condizione patologica ma fisiologica che deve essere accertata concretamente quale possibile causa di inettitudine fisica o mentale all’adeguato controllo di ordinarie situazioni di pericolo per l’incolumità propria. Ne consegue, altresì, che il dovere di cura e di custodia deve essere raccordato con la capacità, ove sussista, di autodeterminazione del soggetto anziano.
Cass. pen. Sez. VI, 1 febbraio 1999, n. 3570 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra gli estremi del reato di cui all’art. 572 c.p. la sottoposizione dei familiari, ancorchè non conviventi, ad atti di vessazione continui e tali da cagionare agli stessi sofferenze, privazioni, umiliazioni, che costituiscano fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza. Ed invero, comportamenti abituali caratterizzati da una serie indeterminata di atti di molestia, di ingiuria, di minaccia e di danneggiamento, manifestano l’esistenza di un programma criminoso di cui i singoli episodi, da valutare unitariamente, costitui¬scono l’espressione ed in cui il dolo si configura come volontà comprendente il complesso dei fatti e coincidente con il fine di rendere disagevole in sommo grado e per quanto possibile penosa l’esistenza dei familiari.
Il reato di cui all’art. 572 c.p. si può configurare anche in assenza di un rapporto di convivenza, e cioè quando questa sia cessata a seguito di separazione legale o di fatto, restando integri anche in tal caso i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione.
Cass. pen. Sez. VI, 17 aprile 1998, n. 7803 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 c.p., non viene meno, quale reato abituale, se nel pe¬riodo considerato, tra una serie e l’altra di episodi di violenza, venga ripristinata la convivenza ad opera della persona offesa, qualora quest’ultima sia indotta a ciò a causa della mancanza di disponibilità di una diversa situazione alloggiativa.
Cass. pen. Sez. III, 9 marzo 1998, n. 4752 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà o del de¬coro del soggetto passivo, nei confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la stessa convivenza particolarmente dolorosa: atti sorretti dal dolo generico in¬tegrato dalla volontà cosciente di ledere la integrità fisica o morale della vittima. (Nella specie la Corte ha ritenu¬to integrare il reato in questione nel coinvolgimento del minore, da parte degli imputati, nei loro giochi amorosi).
Cass. pen. Sez. VI, 24 febbraio 1998, n. 4080 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dolo del reato di maltrattamenti in famiglia consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di violenze fisiche e morali in modo continuo e abituale, per cui l’eventuale stato di malattia, fisica o psichica, della vittima non esclude affatto il dolo del soggetto agente, ma semmai accentua la gravità del fatto, essendo l’offesa arrecata a persona psichicamente o fisicamente menomata.
Cass. pen. Sez. VI, 26 gennaio 1998, n. 282 (Giust. Pen., 1999, II, 443)
In tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di separazione legale, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonchè di collaborazione. Pertanto, poichè la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie criminosa in questione, il suddetto stato di separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata.
Cass. pen. Sez. VI, 27 ottobre 1997, n. 11476 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel delitto di maltrattamenti in famiglia il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuo e abituale, in modo da lederne complessivamente la personalità.
Cass. pen. Sez. VI, 27 ottobre 1997, n. 11471 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel delitto di maltrattamenti in famiglia il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuo ed abituale, in modo da lederne complessivamente la personalità.
Cass. pen. Sez. III, 3 luglio 1997, n. 8953 (Giust. Pen., 1998, II, 437)
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., deve considerarsi “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione. E’ sufficiente un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi anche assistenziali.
Cass. pen. Sez. VI, 7 ottobre 1996, n. 10023 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Lo stato di separazione legale, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e di fedeltà, lascia tutta¬via integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto il suddetto stato non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria si valga proprio o comun¬que incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata. (Fattispecie nella quale il marito separato pure dinanzi a terzi percuoteva abitualmente e minacciava la moglie di ritorsioni gravi sul figlio minore).
Cass. pen. Sez. VI, 24 settembre 1996, n. 8650 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora la condotta irrispettosa dell’un coniuge verso l’altro abbia carattere meramente estemporaneo ed oc¬casionale, nel senso che sia solo l’espressione reattiva di uno stato di tensione, che comunque può sempre verificarsi nella vita di coppia, si dovrà eventualmente fare richiamo a figure criminose estranee ai delitti contro la famiglia e rientranti tra quelli contro la persona; se la detta condotta si concreti nella inosservanza cosciente e volontaria dell’obbligo di assistenza morale ed effettiva verso l’altro coniuge, obbligo che scaturisce dal vincolo matrimoniale e che ha la finalità di garantire che l’altro coniuge – in caso di difficoltà – non sia mai lasciato solo a se stesso, si versa nell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 570, comma 1 c.p.; se la condotta antidoverosa assuma connotati di tale gravità da costituire, per il soggetto passivo, fonte abituale di sofferenze fisiche e morali, l’ipo¬tesi delittuosa configurabile è quella dei maltrattamenti.
Cass. pen. Sez. V, 5 luglio 1996, n. 7651 (Giust. Pen., 1997, II, 379)
Richiedere abitualmente il compimento di atti sessuali contro natura alla convivente in rapporto di coppia, di cui si conosca l’indisponibilità, benchè la donna resista ed esiga rispetto e benchè al rifiuto della stessa talora segua offerta di scuse, integra gli estremi del reato di maltrattamento perchè la ripetizione insistente delle richieste, dato il disvalore che la persona convivente vi attribuisce, cagiona a costei sofferenze per il disprezzo che l’uomo mostra delle sue condizioni.
Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 1996, n. 8510 (Foro It., 1996, II, 614)
Posto che l’elemento materiale del delitto di maltrattamenti in famiglia, che ha natura abituale, consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica o della libertà o del decoro del soggetto passivo, nei confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica e programmata, tale da rendere particolarmente do¬lorosa la stessa convivenza, e che l’elemento psicologico ha carattere di dolo generico ed è unitario e uniforme, consistendo nella volontà cosciente di commettere abitualmente una serie di atti lesivi, va annullata con rinvio per nuovo giudizio la sentenza che abbia motivato la sussistenza del reato sulla base del mero dato obiettivo della reiterazione degli episodi lesivi.
Cass. pen. Sez. VI, 25 giugno 1996, n. 8314 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Risponde del reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli l’insegnante che ponga in essere nei confronti dei propri alunni una condotta, espressione di un unico disegno volontario e consapevole, che renda dolorose e mortificanti per i suoi alunni le relazioni con lui, e agisca in esplicazione della coscienza e della volontà di sotto¬porre gli alunni in sè e la classe affidatagli ad una serie di sofferenze fisiche e morali, vietate – prima che dalla legge – dalle regole di pedagogia, metodologia e didattica. (Nella specie, i maltrattamenti consistevano nell’im¬brattamento del viso, nello schiaffeggiamento, nel taglio dei capelli degli alunni).
Cass. pen. Sez. VI, 7 giugno 1996, n. 8396 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, fra esse annoverando espressamente la condotta del marito che costringa la moglie a sopportare la presenza della concubina nel domicilio coniugale. Peraltro, in ordine alla configurabilità del delitto in oggetto, non assume rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità e che siano stati, a volte, cagionati da motivi contingenti, poiché, data la natura abituale del delitto in oggetto, l’intervallo di tempo tra una serie e l’altra di episodi lesivi non fa venir meno l’esistenza dell’illecito.
Cass. pen. Sez. VI, 16 maggio 1996, n. 4904 (Famiglia e Diritto, 1996, 324 nota di PITTARO)
Alla luce della concezione personalistica e pluralistica della Costituzione (art. 2, 3, 29, 30, 31), del riformato diritto di famiglia ( art. 147 c.c.) e della convenzione delle nazioni unite sui diritti del bambino (New York, 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la l. 27 maggio 1991 n. 176), non può non ritenersi lecito l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi.
Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 1996, n. 4904 (Dir. Famiglia, 1997, 509 nota di BONAMORE)
L’uso della violenza per scopi educativi non può ritenersi lecito, onde l’eccesso di mezzi di correzione violenti non configura il reato di abuso di mezzi di correzione previsto dall’art. 571 c.p., bensì quello di maltrattamenti in fa¬miglia di cui all’art. 572 c.p. La differenza fra i due reati, infatti, è da ravvisarsi nella condotta e non nell’elemento soggettivo, che si atteggia in entrambe le fattispecie come dolo generico.
Il delitto di maltrattamenti di minore ( art. 572 c.p.) si consuma non soltanto attraverso azioni, ma anche me¬diante omissioni giacchè “trattare” un figlio (per di più minore degli anni 14) da parte di un padre implica almeno il rispetto della norma di cui all’art. 147 c.c. che impone l’obbligo di “mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli” e, per converso, “maltrattare” vuol dire, in primo luogo, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di evidente stato di disagio psicologico e morale del minore, generare o aggravare una condizione di abituale e persistente sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità nè materiale, nè morale di risolvere da solo.
Il delitto di maltrattamenti di minore ( art. 572 c.p.) si consuma non soltanto attraverso azioni, ma anche me¬diante omissioni giacchè “trattare” un figlio (per di più minore degli anni 14) da parte di un padre implica almeno il rispetto della norma di cui all’art. 147 c.c. che impone l’obbligo di “mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli” e, per converso, “maltrattare” vuol dire, in primo luogo, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di evidente stato di disagio psicologico e morale del minore, generare o aggravare una condizione di abituale e persistente sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità nè materiale, nè morale di risolvere da solo.
Cass. pen. Sez. VI, 04/03/1996, n. 4015 (Giust. Pen., 1997, II, 245)
In tema di maltrattamenti familiari ( art. 572 c.p.), correttamente il giudice di merito desume dalla ripetitività dei fatti di percosse e di ingiurie l’esistenza di un vero e proprio sistema di vita di relazione abitualmente doloroso ed avvilente, consapevolmente instaurato dall’agente, a seguito di iniziali stati di degenerazione del rapporto familiare. Per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima all’autore del reato, in quanto la norma, nel reprimere l’abituale attentato alla dignità e al decorso della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza.
Cass. pen. Sez. I, 12/02/1996, n. 8618 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p. – maltrattamenti in famiglia – la materialità del fatto deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o mo¬rali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’u¬nica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze. Ne consegue che per ritenere raggiunta la prova dell’elemento materiale di tale reato, non possono essere presi in considerazione singoli e sporadici episodi di percosse o lesioni, nè un eventuale precedente spe¬cifico che può valere soltanto per la valutazione della personalità dell’imputato agli effetti della determinazione della pena da infliggere in concreto.
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p. – maltrattamenti in famiglia – la materialità del fatto deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o mo¬rali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’u¬nica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze. Ne consegue che per ritenere raggiunta la prova dell’elemento materiale di tale reato, non possono essere presi in considerazione singoli e sporadici episodi di percosse o lesioni, nè un eventuale precedente spe¬cifico che può valere soltanto per la valutazione della personalità dell’imputato agli effetti della determinazione della pena da infliggere in concreto.
Cass. pen. Sez. VI, 28 febbraio 1995, n. 4636 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia ( art. 572 c.p.) non costituisce reato permanente, bensì reato abituale. Ne consegue la inapplicabilità del principio secondo cui l’intrinseca idoneità del reato permanente a durare nel tempo, anche dopo l’avverarsi dei suoi elementi costitutivi, comporta che, quando nel capo di imputazione sia indicata soltanto la data iniziale e non quella della cessazione della permanenza, l’originaria contestazione si estende all’intero sviluppo della fattispecie criminosa, con la conseguenza che l’imputato è chiamato a difendersi, oltre che in ordine alla parte già realizzatasi di tale fattispecie, anche in ordine a quella successiva emergente dall’istruttoria dibattimentale, senza necessità di una ulteriore specifica contestazione da parte del pubblico mi¬nistero. Nel reato abituale, invece, i fatti nuovi acclarati in dibattimento, specialmente quando questo si svolga a distanza di anni dalla denuncia, devono essere sempre contestati all’imputato, sia che servano a perfezionare o ad integrare la fattispecie criminosa rispettivamente enunciata nel capo di imputazione, sia – e a maggior ragione – che costituiscano una serie autonoma unificabile alla precedente per vincolo di continuazione.
Il reato di maltrattamenti in famiglia ( art. 572 c.p.) integra una ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamen¬te considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo; esso si perfeziona allorchè si realizza un minimo di tali condotte (delit¬tuose o meno) collegate da un nesso di abitualità e può formare oggetto anche di continuazione ex art. 81 cpv. c.p., come nel caso in cui la serie reiterativa sia interrotta da una sentenza di condanna ovvero da un notevole intervallo di tempo tra una serie di ipotesi e l’altra.
Cass. pen. Sez. VI, 17 ottobre 1994, n. 3965 (Dir. Pen. e Processo, 1995, 2, 204 nota di PISA)
Il delitto di maltrattamenti risulta caratterizzato dalla presenza di quell’evento che più volte la giurisprudenza ha individuato nella produzione di durevoli sofferenze fisiche e morali nei confronti di una persona di famiglia o di una persona minore degli anni quattordici o di una persona sottoposta alla autorità dell’agente, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione o di un’arte. E poiché un simile evento può ritenersi realizzato anche quando ne siano vittima persone affidate ad una pubblica struttura di assistenza, ne consegue che coloro cui sono attribuiti oneri di protezione possono rispondere del delitto di cui all’art. 572 c.p. quando tollerino che quel risultato abbia a realizzarsi, purché, ovviamente, o non si siano attivati in alcun modo o si siano attivati in modo del tutto inefficiente pur essendo in condizione di impedire l’evento. Cosicchè il loro contegno omissivo, non impedendo quell’evento che avrebbero l’obbligo giuridico di impedire, viene equiparato dalla legge, sotto il profilo eziologico, a causa della sua realizzazione.
Il dolo del delitto di maltrattamenti, dovendo caratterizzarsi per l’intento di infliggere sofferenze fisiche e morali al soggetto passivo, è sì unitario, in modo da non confondersi con la coscienza e volontà di ciascun frammento della condotta, ma non è necessario che scaturisca da uno specifico programma criminoso rigorosamente fina¬lizzato alla realizzazione del risultato effettivamente raggiunto; vale a dire, non occorre che debba essere fin dall’inizio presente una rappresentazione della serie degli episodi. Quel che la legge impone è solo che sussista la coscienza e volontà di commettere una serie di fatti lesivi della integrità fisica e della libertà e del decoro della persona offesa in modo abituale. Un intento, dunque, riferibile alla continuità del complesso e perfettamente compatibile con la struttura abituale del reato, attestata ad un comportamento che solo progressivamente è in grado di realizzare il risultato. La conseguenza è che il momento soggettivo che travalica le singole parti della condotta e che esprima il dolo del delitto di maltrattamenti può ben realizzarsi in modo graduale, venendo esso a costituire il dato unificatore di ciascuna delle componenti oggettive. Ciò anche (e soprattutto) quando la con¬dotta si sostanzi nella violazione di un dovere di garanzia, tanto più rispetto a persone affidate ad una pubblica struttura di assistenza e cura.
Una nozione del delitto di maltrattamenti ispirata a principi solidaristici impone di trascendere dalla necessità di un rapporto diretto tra autore e vittima del reato; tanto più quando l’addebito si profili in rapporto alla concomi¬tante operatività dell’art. 40 comma 2 c.p. (Fattispecie in tema di contegno omissivo da parte di responsabile di Dipartimento di salute mentale di una U.S.L. nei confronti di persone affidate a pubblica struttura assistenziale).
Cass. pen. Sez. II, 30 marzo 1994, n. 10531 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 5, c.p., l’ età, specie se non accompagnata da fenomeni patologici di decadimento delle facoltà mentali, ed il basso livello culturale del soggetto passivo, non rientrano, di per sé, tra le circostanze attinenti alla persona che possono ostacolare la privata difesa. (Fattispecie in tema di truffa) .
Ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61 , n. 5, c. p. non è richiesto che la difesa sia quasi o del tutto impossibile, ma è sufficiente che essa sia semplicemente ostacolata; la debolezza fisica dovuta all’ età senile costituisce una minorazione delle capacità difensive del soggetto che impedisce il tentativo di reazione possibile a una persona giovane e di ordinaria prestanza fisica, particolarmente quando la violenza non venga esercitata con uso di arma o altro mezzo intimidatorio, ma solo con mezzo fisico manuale, e quando risulti che la vittima del reato è stato scelta dall’agente in considerazione dell’avanzata età.
Cass. pen. Sez. VI, 22 febbraio 1994, n. 6319 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. non si richiede una intenzione di sottoporre il convivente, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria e prevaricatoria, già posta in essere altre volte, la quale riveli, attraverso l’accettazione dei singoli episodi, una inclinazione della volontà a maltrat¬tare una o più persone conviventi.
Cass. pen., 3 marzo 1993 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., deve considerarsi “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione. È sufficiente un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi anche assistenziali.
Cass. pen. Sez. VI, 22 dicembre 1992 (Giust. Pen., 1993, II, 629)
Il reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, previsto dall’art. 572 c.p., esige per la sua configurabilità una abituale sottoposizione della persona offesa a sofferenze fisiche e psichiche, espressione di un atteggiamen¬to di normale prevaricazione da parte del soggetto attivo del reato.
Cass. pen. Sez. VI, 9 dicembre 1992 (Giust. Pen., 1993, II, 629)
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti è sufficiente un lasso di tempo, ancorchè limitato, e tut¬tavia utile alla realizzazione della ripetizione di atti vessatori idonea a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa.
Agli effetti di cui all’art. 572 c.p., deve intendersi per famiglia ogni consorzio tra persone tra le quali, per relazioni sentimentali o consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e di solidarietà per un apprezzabile periodo di convivenza.
Cass. pen. Sez. V, 21 ottobre 1992 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 591 c.p. (abbandono di persone minori o incapaci) costituisce abbandono qualsiasi azione o omissione che contrasti con l’obbligo della custodia o della cura ed è sufficiente, per l’integrazione del reato, che da tale condotta derivi un pericolo anche solo potenziale per l’incolumità della persona incapace. (Nella specie, relativa a ritenuta sussistenza del reato, l’imputato, amministratore unico di una società, cui era affidata la ge¬stione di un gerontocomio, abbandonava le persone ivi ospitate, incapaci di provvedere a se stesse per vecchiaia e malattia, consentendo in particolare che le stesse (alcune delle quali addirittura non in grado di intendere e di volere) fossero tenute in pessime condizioni, sotto il profilo igienico e sanitario).
Cass. pen. Sez. V, 9 gennaio 1992 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c. p.) è costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o meno, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali soffe¬renze; e ad integrare l’abitualità della condotta non è necessario che la stessa venga posta in essere in un tempo prolungato, essendo sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, come sopra caratterizzati ed , anche se per un limitato periodo di tempo.
Cass. pen. Sez. VI, 6 novembre 1991 (Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1994, 1119 nota di ANGELINI)
Per la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia non è necessario un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto. L’elemento unificatore dei singoli episodi è costituito da un dolo unitario di carattere programmatico, che unifica le diverse azioni. Esso consiste nell’orientamento della volontà ad una condotta op¬pressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si realizza e si conferma progressivamente, in modo che l’agente accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte.
Cass. pen. 30 gennaio 1991 (Giust. Pen., 1991, II, 501)
Agli effetti del delitto di cui all’art. 572 c. p. deve considerarsi ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà (fattispecie in cui la cassazione ha ritenuto far parte della nel senso suesposto la zia dell’imputata che conviveva con questa virtù di un contratto di rendita vitalizia nella forma del cosiddetto vitalizio alimentare o contratto di mantenimento, che – secondo quanto precisato dalla stessa corte – non ha contenuto meramente economico, ma obbliga il vitaliziante anche a provvedere alle esigenze dell’altro soggetto e ad assisterlo in caso di malattia).
Per la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 572 c. p. non è necessario che l’agente abbia perseguito particolari finalità né il pravo proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o morali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico, cioè la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo ed abituale.
Cass. pen., 16 gennaio 1991 (Giust. Pen., 1991, II, 500)
Il delitto di maltrattamenti riferito a fatti commessi in una struttura assistenziale – specie se pubblica – per persone anziane (o minori o minorate o comunque bisognose di aiuto), può essere realizzato anche a mezzo di soggetto estraneo; ciò si verifica quando i responsabili dell’assistenza consapevolmente e deliberatamente si astengano dall’impedire che persone non autorizzate realizzino condotte integranti l’elemento oggettivo del reato, posto che in tale situazione, stante il dovere funzionale, di natura pubblicistica, di attivarsi, non impedire la verificazione dell’evento, sotto il profilo eziologico, equivale a cagionarlo.
In tema di maltrattamenti di persone affidate ad una pubblica struttura di assistenza e cura, la valutazione dei comportamenti tenuti dai soggetti obbligati a garantire cura e livelli di vita decorosi e conformi ai regolamenti dell’ente, va operata con massimo rigore, dato che i comportamenti di aggressione fisica, o di lesione del pa¬trimonio morale, o di sopraffazione sistematica, costituenti l’essenzialità dell’elemento materiale del delitto de quo, sono, in negativo, esaltati dalla violazione dei doveri funzionali, connessi alla posizione di garanzia di cui quei soggetti sono onerati.
Cass. pen., 19 dicembre 1990 (Giust. Pen., 1991, II, 358)
Il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato da una condotta abituale che si estrinseca in una pluralità di atti volti a ledere la integrità fisica ed il patrimonio morale del soggetto passivo.
Cass. pen. Sez. VI, 16 ottobre 1990 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella nozione di rientrano i fatti lesivi della integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, che rendano abitualmente dolorose le relazioni familiari, e manifestantisi mediante le sofferenze morali che determi¬nano uno stato di avvilimento o con atti o parole che offendono il decoro e la dignità della persona, ovvero con violenze capaci di produrre sensazioni dolorose ancorché tali da non lasciare traccia.
Corte cost. 20 luglio 1990, n. 357 (Giust. Pen., 1990, I, 321)
È manifestamente inammissibile – in riferimento agli art. 2, 3, 29, 30 e 31 cost. – la questione di legittimità costituzionale dell›art. 572, 1° comma, c. p., nella parte in cui non prevede come causa di estinzione del reato di maltrattamenti in famiglia la seria riconciliazione dei coniugi ed il normale svolgimento della vita coniugale, giudizialmente accertati; e ciò in quanto spetta esclusivamente al legislatore stabilire se esistano fatti successivi al reato in grado di estinguere il carattere criminale delle violazioni commesse e le relative conseguenze sanzionatorie.
Una volta riconosciuta e confermata l’attuale validità della rilevanza penale di fatti che violano i principi su cui si fonda l’unità della famiglia e l’etica della coesistenza pacifica dei suoi membri (anche nell’interesse dei figli minori), non può spettare che allo stesso legislatore stabilire se esistano fatti successivi in grado di estinguere, sotto condizioni che ancora una volta solo il legislatore può disciplinare, il carattere criminale di quelle violazioni e le relative conseguenze sanzionatorie. (Manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 572 cod. pen. sollevata in riferimento agli artt. 2,3, 29, 30 e 31 Cost.).
Cass. pen. Sez. VI, 30 maggio 1990, n. 394 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c. p. può essere realizzato anche mediante condotte omissive, individuabili pure nel deliberato astenersi da parte dei responsabili di una pubblica struttura di assistenza e cura – in presenza del contrario dovere incombente su di loro – dall’impedire condotte illegittime realizzanti la materia¬lità del reato, sussistendo le altre condizioni previste dalla fattispecie legale; infatti non impedire il verificarsi di un evento che si ha il dovere giuridico di impedire equivale a cagionarlo (fattispecie in cui si contestava a taluno dei responsabili di una pubblica struttura di assistenza e cura di non aver impedito ad estranei di maltrattare anziani colà ricoverati).
Cass. pen. Sez. VI, 29 maggio 1990 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella materialità del delitto di maltrattamenti rientrano non soltanto percosse, minacce, ingiurie, privazioni im¬poste alla vittima, ma anche atti di scherno, disprezzo, umiliazione e di asservimento idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali; ne consegue che è riservato alla valutazione del giudice di merito accertare se singoli episodi vessatori rimangano assorbiti nel reato di maltrattamenti (ad esempio, lesioni non volute) oppure integri¬no ipotesi criminose autonomamente volute dall’agente e, quindi, concorrenti, con il delitto di cui all’art. 572 c. p.
Cass. pen. Sez. VI, 19 febbraio 1990 (Riv. Pen., 1991, 425)
Sussiste la circostanza aggravante della morte derivata dal fatto dei maltrattamenti in famiglia, prevista dall’art. 572, cpv. c. p., qualora il suicidio del soggetto passivo, benché non espressamente voluto, sia da mettere in sicuro e diretto collegamento con i ripetuti e gravi episodi di maltrattamenti per effetto dei quali lo stato di prostrazione indotto nella vittima sia da identificarsi quale vero e proprio trauma fisico e morale che la determi¬narono a darsi la morte.
Cass. pen., 13 ottobre 1989 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è costituito da una condotta abituale che si estrinseca in più atti lesivi realizzati in tempi successivi ma collegati da un vincolo di abitualità ed avvinti da un’unica intenzione criminosa di ledere in modo sistematico l’integrità fisica ed il patrimonio morale della vittima.
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia non assume rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità e che siano stati, a volte, causati da motivi contingenti; il delitto in que¬stione, invero, quale reato abituale, non resta escluso se nel tempo considerato vi siano, nella condotta dell’im¬putato, periodi di normalità o di accordo con i familiari; un intervallo di tempo fra una serie e l’altra di episodi lesivi, non fa, infatti, venir meno l’esistenza del reato, ma può dar luogo come per ogni reato permanente, alla continuazione.
Cass. pen., 12 ottobre 1989 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo, di umiliazione; fra tali atti, che si risolvono in vere e proprie sofferenze morali, deve annoverarsi anche la condotta del marito che costringa la moglie a sopportare la presenza della concubina nel domicilio coniugale.
La cessazione del rapporto di convivenza non influisce sulla configurabilità del delitto di maltrattamenti in fami¬glia, la cui consumazione può aver luogo anche nei confronti di persona non convivente con l’imputato quando essa sia unita all’agente da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione (nella specie, l’imputato aveva commes¬so ripetuti atti di violenza fisica e morale in danno della moglie anche dopo la separazione di fatto).
Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 1989, n. 16185 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 572 c. p. in relazione agli art. 581, 582 e 594 stesso codice, con riferimento all’art. 3 cost., dedotta sotto il profilo della diseguaglianza del tratta¬mento sanzionatorio previsto per il reato di maltrattamenti rispetto alla pena stabilita per i reati di percosse, lesioni e ingiuria; infatti, le norme comparate con le relative sanzioni non sono omologhe sia sotto i profili mate¬riale e soggettivo, perché i maltrattamenti, pur manifestandosi in fatti lesivi della integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, richiedono ex art. 572 c. p. un sistema di vita particolarmente tormentato per la vittima e la volontà di infierire sulle persone della famiglia in modo da rendere alle stesse la vita impossibile, sia per la diversità degli interessi tutelati.
Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 1989, n. 16185 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell›art. 572 c. p. in relazione agli art. 581, 582 e 594 stesso codice, con riferimento all›art. 3 cost., dedotta sotto il profilo della diseguaglianza del trattamento sanzionatorio previsto per il reato di maltrattamenti rispetto alla pena stabilita per i reati di percosse, lesioni e ingiuria; infatti, le norme comparate con le relative sanzioni non sono omologhe sia sotto i profili materiale e soggettivo, perché i maltrattamenti, pur manifestandosi in fatti lesivi della integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, richiedono ex art. 572 c. p. un sistema di vita particolarmente tormentato per la vittima e la volontà di infierire sulle persone della famiglia in modo da rendere alle stesse la vita impossibile, sia per la diversità degli interessi tutelati.
Cass. pen. Sez. VI, 25 gennaio 1989 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia, quale reato abituale, non resta escluso se nel tempo considerato vi siano parentesi di normalità nella condotta dell’agente di accordo con i familiari; pertanto, un intervallo di tempo fra una serie e l’altra di episodi lesivi dell’integrità fisica o morale del soggetto passivo non fa venir meno l’esistenza del reato, ma può dar luogo, come per ogni reato permanente, alla continuazione.
Cass. pen. Sez. VI, 13 luglio 1988 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica o morale, della libertà o del decoro delle persone di famiglia, in modo tale da rendere abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni tra il soggetto attivo e le vittime; l’elemento psicologico è costituito dal dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche o morali in modo continuato.
Cass. pen., 10 aprile 1987 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Stante il carattere abituale del reato previsto dall’art. 572 c. p., il giudice del merito non può ritenerne la sus¬sistenza in base ad un solo fatto di lesioni personali volontarie in danno del familiare, ma deve accertare, se gli altri allegati episodi di violenza siano lesivi dell’altrui integrità fisica e psichica e siano cementati fra loro dall’elemento intenzionale, cioè dal dolo di sottoporre il soggetto passivo ad una condizione di vita ai limiti della tollerabilità, con sevizie continue.
Cass. pen., 21 gennaio 1987 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Lo stato di avvilimento e di sofferenza provocato nel soggetto passivo del delitto di maltrattamenti in famiglia, costretto a sopportare le continue infedeltà dell’agente, di cui questi si faceva vanto per mortificare ancor più la vittima, integra gli estremi dell’elemento oggettivo del reato previsto dall’art. 572 c. p.
Cass. pen. Sez. VI, 16 dicembre 1986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti è reato abituale poiché è caratterizzato dalla sussistenza di una serie di fatti i quali, isolatamente considerati, potrebbero anche non costituire delitto, ma che rinvengono la ratio dell’antigiuridicità penale nella loro reiterazione, che si protrae nel tempo, e nella persistenza dell’elemento intenzionale; pertan¬to, poiché i fatti debbono essere molteplici e la reiterazione presuppone un arco di tempo che può essere più o meno lungo, ma comunque apprezzabile, la consumazione del reato si perfeziona con l’ultimo di questa serie di fatti (nella specie la suprema corte ha disatteso la tesi, sostenuta dal ricorrente, relativa al rinvenimento della competenza per territorio nel luogo ove aveva avuto inizio la consumazione e motivata dall’assimilabilità del reato abituale a quello permanente).
Ai fini della sussistenza del delitto di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 c. p., è particolarmente rigo¬roso per il giudice l’obbligo della motivazione, poiché occorre dimostrare che tutti i fatti sono tra loro connessi e cementati in maniera inscindibile dalla volontà unitaria, persistente e ispiratrice di una condotta insistita nella fi¬nalità criminosa; infatti, il reato di maltrattamenti è , in quanto è tutta la condotta dell’imputato che deve essere considerata come caratterizzata da una serie o insieme di azioni od omissioni finalizzate e quale comportamento assunto a sistema e distinto dal nesso di abitualità tra i vari fatti, con assoluta esclusione della mera occasionalità e del dolo d’impeto, isolato e frammentario.
Cass. pen. Sez. II, 18 marzo 1986, n. 7382 (Riv. Pen., 1987, 498)
Il reato di maltrattamenti, tipico delitto contro la famiglia, è configurabile, in una sua più vasta accezione, nei casi in cui la degenerazione dell’uso dei mezzi di correzione colpisca persone collegate all’agente da un rapporto di dipendenza o per lo svolgimento di una professione o di un’arte; in tal caso, però, l’illiceità del trattamento deve consistere in una sistematica persecuzione suggerita da odio, malanimo, disprezzo, crudeltà fine a se stes¬sa, riconducibili alla determinazione dell’agente di arrecare sofferenze fisiche e morali; quando invece si voglia conseguire, mediante l’atto del maltrattare, il diverso fine del profitto, si realizza il delitto di estorsione.
Cass. pen. Sez. III, 13 novembre 1985 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c. p. non presuppone necessariamente l’esistenza di vincoli di parentela civili o naturali, ma sussiste anche nei riguardi di una persona convivente more uxorio, perché anche in tal caso viene tra le parti a crearsi quel rapporto stabile di comunità familiare che il legislatore ha ritenuto di dover tutelare.
Cass. pen. Sez. III, 15 marzo 1985 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Rientrano nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non soltanto le percosse, le minacce, le ingiurie e le privazioni imposte ai familiari, ma anche gli atti di scherno, di disprezzo, di umiliazione, di vilipendio e di asservimento tali da cagionare durevole sofferenza morale (nella specie: è stato ritenuto configurabile il delitto di cui all’art. 572 c. p. nel comportamento del marito che costringa la moglie a sopportare congiunzioni carnali con sua sorella nella casa coniugale).
Cass. pen., 21 giugno 1984 (Riv. Pen., 1985, 600)
Il reato di maltrattamenti familiari sussiste quando l’agente sottoponga il soggetto passivo ad una serie di soffe¬renze fisiche e morali in modo che i singoli atti vessatori siano uniti tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo) quanto dalla coscienza e volontà (elemento soggettivo) di porre in essere tali atti; è da escludere quindi che sporadici episodi di violenza, del tutto occasionali, possano integrare una abituale condotta vessato¬ria, tale da integrare il reato in esame.
Cass. pen., 21 giugno 1983 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla condanna per il delitto di maltrattamenti commessa con abuso di potere o con abuso della professione con¬segue, ai sensi dell’art. 31 cod. pen., l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione sanitaria.
Cass. pen. Sez. V, 9 giugno 1983 (Giust. Pen., 1985, II, 472)
Nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia rientrano non soltanto le percosse, le minacce, le ingiurie e le privazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di scherno, di disprezzo, di umiliazione, di vilipendio e di asservimento che cagionano durevole sofferenza morale; fra tali ultimi atti che consistono in sofferenze morali vere e proprie debbono farsi rientrare anche i tentativi e le azioni diretti ad ottenere pratiche sessuali contro natura, sempre s’intende che essi atti non realizzino, per difetto di un qualche elemento, le ipotesi delittuose di cui agli art. 519 e 521 c. p. e sempreché essi si rivelino come manifestazioni consapevoli di recare o produrre nella vittima offesa, disprezzo, umiliazione, vilipendio o asservimento e che la vittima stessa finisca per subirli al di fuori e al di là di uno specifico fatto di violenza, ma nell’ambito delle complessive sofferenze infertegli.
Cass. pen. Sez. I, 15 maggio 1982 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel reato di cui all’art. 572 c. p. restano assorbiti soltanto quelli di percosse e di minacce, i quali sono elementi costitutivi della violenza fisica o morale propria del delitto di maltrattamenti; per tutti gli altri reati si ha concorso e non assorbimento, qualora il bene giuridico offeso non riguardi l’assistenza familiare (fattispecie in cui la su¬prema corte ha affermato la sussistenza del concorso tra il delitto di maltrattamenti e quello di violenza privata consistito in un episodio di lesività carnale commesso dall’imputato in danno della moglie).
Cass. pen. Sez. VI, 4 maggio 1982 (Riv. Pen., 1983, 622)
Il delitto di maltrattamenti e quello di lesioni possono concorrere materialmente tra loro, poiché le lesioni per¬sonali volontarie non costituiscono sempre elemento essenziale del delitto di maltrattamenti; pertanto il delitto di lesioni non può essere assorbito da quello di maltrattamenti secondo la disciplina del reato complesso, ma configurano un reato autonomo.
Cass. pen. Sez. VI, 29 aprile 1980 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cessazione del rapporto di convivenza non influisce sulla configurabilità del reato di maltrattamenti in fami¬glia, la cui consumazione può aver luogo anche nei confronti di persona non convivente con l’imputato quando essa sia unita all’agente da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione; il reato pertanto sussiste anche nei confronti della moglie la cui convivenza sia cessata legittimamente in seguito alla proposizione della domanda di separazione.
La cessazione del rapporto di convivenza non influisce nella configurabilità del reato di maltrattamenti in fami¬glia, la cui consumazione può aver luogo anche nei confronti di persona non convivente con l’imputato quando essa sia unita all’agente da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione (nella specie: era stato ritenuto sus¬sistente il reato commesso dal marito nei confronti della moglie legalmente separata e con lui non coabitante).
Cass. pen. Sez. I, 29 giugno 1977 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il carattere distintivo tra le incriminazioni previste dall’art. 571 e dall’ art. 572 c.p. consiste nel fatto che la prima è punibile a titolo di dolo generico ed implica l’uso di mezzi o modi di trattamento sempre e di per se stessi illeciti, mentre la seconda postula l’eccesso nell’uso di mezzi giuridicamente leciti, che, tramutando l’uso in abuso, lo fa diventare illecito; inoltre, il reato di cui all’art. 571 c.p. è qualificato da un dolo specifico che si concreta nell’avere agito nell’esercizio dello “ius corrigendi”, cioè al particolare fine correttivo.