Usucapione. Il possesso ultraventennale può essere provato dall’accordo di separazione personale

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 27 maggio 2022, n. 17230; Pres. Cristiano, Rel. Cons. Vannucci

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –
Dott. VANNUCCI Marco – rel. Consigliere –
Dott. FERRO Massimo – Consigliere –
Dott. VELLA Paola – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 25130/2017 proposto da:
Curatela del fallimento della (OMISSIS) s.a.s. (OMISSIS) e del socio illimitatamente responsabile
M.M., in persona del curatore pro tempore (autorizzato alla proposizione del ricorso con Decreto
emesso il 29 settembre 2017 dal giudice delegato a tali fallimenti), elettivamente domiciliata in Roma,
presso lo studio dell’avvocato A. V., rappresentata e difesa dall’avvocato N. per procura speciale
estesa in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
P.G., elettivamente domiciliata in Roma, presso lo studio dell’avvocato E. M. A., che la rappresenta
e difende unitamente all’avvocato M. C., per procura speciale estesa a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1425/2017 emessa dalla Corte di appello di Firenze il 16 giugno 2017;
viste le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
DE MATTEIS Stanislao, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio dell’8 marzo 2021 dal Consigliere Dott.
Marco Vannucci.
Svolgimento del processo
1. Alla luce del contenuto degli scritti difensivi delle parti (anche riproduttivi dei contenuti degli atti
e documenti acquisiti al giudizio di merito), sono fra costoro incontroversi i seguenti fatti: il
(OMISSIS) i coniugi M.M. e P.G. comperarono, in comunione, la proprietà di immobile sito in
(OMISSIS); il (OMISSIS) venne fra tali coniugi perfezionato accordo di separazione personale,
omologato dal Tribunale di Firenze, con cui, per quanto qui interessa, M. cedette alla moglie la quota
ideale di proprietà di tale immobile, pari alla metà dell’intero, di cui egli era titolare; il 17 luglio 2014
il Tribunale di Firenze dichiarò il fallimento della (OMISSIS) s.a.s. (OMISSIS) e, in estensione, di
M.M. in quanto socio accomandatario; l’accordo di separazione personale sopra indicato venne
trascritto solo il 26 agosto 2014; P. adì il Tribunale di Firenze per far accertare il proprio diritto di
proprietà esclusiva dell’immobile per effetto dell’accordo di separazione “o comunque” per effetto di
intervenuta usucapione; la curatela del fallimento resistette a tali domande deducendo che l’accordo
di separazione personale non era opponibile alla massa dei creditori del fallito M. in quanto trascritto
successivamente alla pronuncia del suo fallimento e che la domanda di acquisto della proprietà
dell’immobile per effetto di usucapione era inammissibile perchè l’accordo di separazione personale
era valido titolo per l’acquisto della proprietà della quota ideale di proprietà del fallito; il Tribunale di
Firenze rigettò le domande di P..
2. Adita da P., la Corte di appello di Firenze, con sentenza emessa il 16 giugno 2017, in riforma della
sentenza di primo grado: accertò che P. era proprietaria esclusiva dell’immobile per effetto di
usucapione ventennale anche nei confronti del fallimento di M.; condannò la curatela del fallimento
a rimborsare all’appellante le spese del giudizio di primo grado e di quello di appello nella misura
nella sentenza stessa liquidata.
2.1 La motivazione di tale decisione può essere così riassunta: l’appellante possedeva in esclusiva il
bene fin dal 1993; tale possesso esclusivo era da lei esercitato uti dominus, “in quanto deve presumersi
conforme al contenuto del titolo derivativo costituito dalle condizioni della separazione omologata”;
la proprietà è diritto dal contenuto autodeterminato, con la conseguenza che la deduzione del suo
acquisto a titolo originario “non si pone in contraddizione con l’acquisto a titolo derivativo” e che
sono “irrilevanti” i modi di acquisto di tale diritto; l’avvenuta dichiarazione di fallimento del
disponente M. non costituisce fatto idoneo a interrompere il possesso ad usucapionem dell’appellante.
3. La curatela del fallimento della (OMISSIS) s.a.s. (OMISSIS) e del socio illimitatamente
responsabile M.M. chiede la cassazione di tale sentenza con ricorso contenente tre motivi di
impugnazione, assistiti da memoria.
4. La Signora P. resiste con controricorso.
5. Il Pubblico Ministero ha depositato memoria con cui ha chiesto il rigetto il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo, complesso, motivo il ricorrente deduce che la sentenza impugnata è caratterizzata da
violazione degli artt. 99, 112 e 115 c.p.c., dell’art. 1158 c.c., nonchè da “erronea motivazione in
relazione all’art. 360, n. 5, rispetto all’applicazione della L. Fall., art. 45, per avere la Corte di Appello
trascurato le conseguenze giuridiche decisive della problematica relativa all’inefficacia rispetto ai
creditori delle formalità eseguite successivamente alla sentenza di dichiarazione di fallimento”, in
quanto: a) P. appellò la sentenza di primo grado chiedendo in primo luogo l’accertamento della quota
ideale di proprietà, pari alla metà dell’intero, dell’immobile sopra indicato e, solo in via subordinata,
l’accertamento del suo diritto di proprietà dello stesso immobile per usucapione, con la conseguenza
che il mancato rispetto da parte del giudice di appello della sequenza delle domande proposte
comporta violazione dell’art. 112 c.p.c.; b) il presupposto per l’acquisto della proprietà di bene per
usucapione (art. 1158 c.c.) è costituito dal non essere il possessore di buona fede proprietario del bene
medesimo, mentre P. era già proprietaria dell’immobile per effetto dell’acquisto a titolo derivativo
costituito dalla compravendita del (OMISSIS) e dal valido accordo di separazione personale fra
coniugi del (OMISSIS), con la conseguenza che essa non poteva acquistare per usucapione la
proprietà dell’immobile, anche perchè l’acquisto, a titolo derivativo, della proprietà di bene non
comporta anche, in presenza di titolo valido, l’acquisto del relativo possesso; c) “l’esistenza e la
validità del titolo derivativo, per effetto delle norme dell’art. 2644 c.c., e L. Fall., art. 45, esclude ogni
ipotesi di acquisto a titolo originario”, con la conseguenza che la sentenza di appello ha ignorato la
questione relativa all’inefficacia nei confronti dei creditori del fallito della trascrizione dell’accordo
di separazione in quanto eseguita dopo la dichiarazione di fallimento e, da un lato, “non si possono
sanare con l’usucapione le conseguenze della mancata trascrizione di un atto valido, che sia in sè
incapace di produrre effetti verso i terzi, in quanto la sua trascrizione è intervenuta dopo la genesi di
un vincolo di indisponibilità del bene oggetto dell’atto valido” e, dall’altro, “non si può applicare
l’istituto dell’usucapione, nel momento in cui il fatto genetico affermato dall’attore posto come fatto
costitutivo del suo diritto, sia un titolo derivativo”.
2. Il motivo pone due questioni: la prima, di natura solo processuale, riguarda la pronuncia giudiziale
su domanda che si assume essere stata proposta in via subordinata (nella specie, acquisto della
proprietà di bene immobile per usucapione) senza il preventivo esame di quella che si afferma essere
stata avanzata in via principale (nella specie, acquisto di quota ideale, pari alla metà dell’intero, di
proprietà dello stesso bene per effetto di accordo di separazione consensuale intervenuto prima della
dichiarazione di fallimento del disponente ma trascritto dopo tale evento); la seconda, anche di diritto
sostanziale, attiene alla compatibilità fra domanda di accertamento di proprietà di bene per effetto di
acquisto a titolo derivativo e domanda di accertamento dello stesso diritto per effetto di usucapione e
alla refluenza sul regime proprietario del bene del precetto di cui alla L. Fall., art. 45.
2.1 La prima censura è manifestamente infondata perchè sostanzialmente priva di oggetto.
Essa infatti ha il suo esclusivo presupposto nel, dedotto, vincolo di subordinazione fra le due domande
di accertamento in discorso a esse impresso da P. con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado.
Così però non è.
Risulta infatti dal contenuto delle conclusioni della citazione introduttiva del giudizio di primo grado,
riprodotte nel ricorso (pag. 3), che P. chiese “accogliere la domanda attrice e per gli effetti: accertare
il diritto di piena proprietà o comunque l’intervenuta usucapione del medesimo in favore dell’attrice”
dell’immobile in questione.
Le due domande di accertamento di proprietà, rispettivamente fondate su acquisti a titolo derivativo
(compravendita e assegnazione in sede di separazione consensuale) o a titolo originario (usucapione)
furono chiaramente proposte come del resto dedotto in questa sede dalla controricorrente – in via fra
loro alternativa; sì che costituisce un fuor d’opera l’affermazione della curatela ricorrente di violazione
da parte del giudice di appello dell’art. 112 c.p.c.
2.2 La seconda censura è infondata.
Su di essa la sentenza impugnata ha dato specifica risposta, affermando la compatibilità fra le due
domande di accertamento sul rilievo del contenuto autodeterminato del diritto di proprietà che ne
costituisce l’oggetto e concludendo per l’avvenuto acquisto di tale diritto per effetto di usucapione
ventennale avveratasi prima della dichiarazione di fallimento del disponente; così, implicitamente,
affermando la non sussistenza del presupposto di applicabilità della citata disposizione della legge
fallimentare.
È in primo luogo da premettere la proponibilità della domanda di acquisto della proprietà immobiliare
per usucapione nei confronti della curatela del fallimento, atteso il carattere di acquisto a titolo
originario che, con essa, si intende far verificare; a ciò non risultando di ostacolo L. Fall., art. 42 e
45, in quanto la prima di tali disposizioni, limitandosi a porre il vincolo di indisponibilità sui beni
del fallito – con equiparazione del fallimento al pignoramento – non può essere riferita a fatti
acquisitivi di diritti reali tipici (che si assumono) già compiuti e produttivi di effetti in capo al fallito,
mente, mentre la seconda, a sua volta, avendo riguardo espressamente – in applicazione della stessa
regola posta, per l’esecuzione individuale, dall’art. 2914 c.c., – alle condizioni di opponibilità, al
fallimento, di atti, è del tutto estranea all’ipotesi in esame, non essendo configurabile, a carico di chi
agisca per conseguire l’accertamento dell’usucapione, alcun onere di pubblicità, posto che l’art. 2651
c.c., si limita a disporre al riguardo una forma di “trascrizione” (della sentenza e non anche della
domanda) la quale è priva di effetti sostanziali e limitata a rendere più efficiente il sistema
pubblicitario (in questo senso, cfr. Cass. n. 13184 del 1999; cfr. anche, in motivazione, Cass. n. 17605
del 2015).
Costituisce, poi, principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, quello secondo cui la
proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei c.d. diritti
“autodeterminati”, individuati, cioè, sulla base della sola indicazione del relativo contenuto sì come
rappresentato dal bene che ne forma l’oggetto, con la conseguenza che la causa petendi delle relative
azioni giudiziarie si identifica con i diritti stessi e non con il relativo titolo – contratto, successione
ereditaria, usucapione, ecc. – che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non ha, dunque,
alcuna funzione di specificazione della domanda, essendo, viceversa, necessario ai soli fini della
prova (in questo senso, cfr., fra le molte: Cass. n. 22591 del 2020; Cass. n. 23565 del 2019; Cass. n.
22598 del 2010; Cass. n. 3192 del 2003; Cass. n. 18370 del 2002; Cass. n. 5894 del 2001; Cass. n.
11521 del 1999; Cass. n. 1682 del 1991; Cass. n. 4354 del 1980).
È poi vero che la norma recata dall’art. 1143 c.c. (secondo cui quando il possessore attuale vanti un
titolo a fondamento del suo possesso si presume che esso abbia posseduto dalla data del titolo), è
ispirata alla considerazione che normalmente l’acquisto della proprietà o di un diritto reale in base ad
un titolo comporta anche l’acquisto del possesso, talché non è dettata per l’usucapione ventennale
(come quella di specie) perchè in relazione a questo istituto la sussistenza del titolo a fondamento del
possesso non avrebbe alcun significato, non avendo il possessore munito di titolo concretamente
idoneo (e, quindi, valido) alcuna necessità di invocare l’usucapione ai fini della prova del dominio o
di altro diritto reale (in questo senso, cfr.: Cass. n. 19501 del 2015; Cass. n. 1899 del 2011; Cass. n.
9134 del 1993).
È però altrettanto vero che in determinate circostanze, come quella di specie (in cui vi è titolo valido
astrattamente inopponibile alla massa dei creditori del disponente fallito), il titolo ben può rilevare,
facendo presumere che il possesso necessario all’usucapione ventennale abbia avuto inizio alla data
del titolo inopponibile alla curatela del fallimento (arg. da Cass. n. 17605 del 2015 che cassò la
sentenza di appello in quanto non aveva ammesso la prova per testimoni relativa alla usucapione
formulata da soggetto munito di titolo di acquisto della proprietà di immobile non opponibile alla
massa dei creditori dell’alienante fallito perchè non trascritto prima della dichiarazione di fallimento).
È dunque condivisibile l’affermazione del Pubblico Ministero, secondo cui l’inopponibilità del titolo
alla massa dei creditori del fallito “non esclude il valore iniziale (e nei confronti di tutti quelli che
potenzialmente subiscono gli effetti dell’usucapione: compreso il curatore del fallimento
dell’alienante) che lo stesso di per sè ha quale mero fatto storico che dimostra (salvo prova contraria)
la data di inizio del possesso da parte dell’acquirente”.
E ciò, senza considerare che la curatela ricorrente non ha specificamente censurato l’affermazione
contenuta nella sentenza impugnata secondo cui il possesso della Signora P. uti domina (anche della
quota ideale di cui il marito era titolare) durava da più di venti anni (data di inizio: (OMISSIS)) prima
della dichiarazione di fallimento (in estensione) del marito (17 luglio 2014) 3. Con il secondo motivo
la sentenza è dalla ricorrente ritenuta nulla, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per assenza
di pronuncia sull’appello incidentale proposto da essa ricorrente per la riforma della sentenza di primo
grado, nella parte in cui ebbe a dichiarare inammissibile la domanda, riconvenzionale, volta a ottenere
la cancellazione della trascrizione, eseguita il 26 agosto 2014, del sopra richiamato accordo del 1993
di separazione consensuale fra i coniugi M. e P., omologato dal Tribunale di Firenze.
4. La censura è inammissibile per mancanza di interesse a proporla, in quanto: il rigetto del primo
motivo di ricorso determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata nella parte in cui
contiene l’accertamento di avvenuto acquisto da parte della Signora P. della proprietà dell’immobile
in discorso per usucapione; la L. Fall., art. 45, afferma l’inefficacia assoluta nei confronti dei creditori
dell’imprenditore fallito delle formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi (fra le quali
è da ricomprendere, ai sensi dell’art. 2657 c.c., il verbale di separazione consensuale fra coniugi,
contenente trasferimenti di proprietà di immobili o di diritti reali sugli stessi, omologato dal tribunale;
in questo senso, cfr.: Cass. n. 10443 del 2019; Cass. n. 27409 del 2019; Cass. n. 4306 del 1997), sì
che per conseguire tale effetto non è appunto necessario cancellare tali formalità, la cui legittimità è
da valutare solo in riferimento alle norme di legge che rispettivamente le governano.
5. Infine, la ricorrente deduce (terzo motivo) che la sentenza ha erroneamente condannato essa
curatela ala pagamento delle spese del giudizio di primo grado e di quello di appello, in quanto,
“stante la mancanza di ogni liquidità in capo alla Curatela per essere essa ammessa a Gratuito
Patrocinio”, gli errori commessi “in relazione al primo ed al secondo motivo di ricorso” debbono
“necessariamente comportare una revisione della pronuncia in ordine alle spese, con conseguente
annullamento del capo relativo a tale condanna”.
6. Premesso che il giudice di appello, allorchè riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve
procedere d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, a un nuovo regolamento
delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della
lite poichè la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad
un criterio unitario e globale (giurisprudenza di legittimità costante; cfr. comunque, per tutte, Cass.
n. 9064 del 2018), il motivo, per come (non linearmente) dedotto è inammissibile, in quanto: sembra
presupporre l’accoglimento dei primi due motivi di ricorso, con conseguente non sussistenza di alcuna
censura specifica relativa al capo della sentenza impugnata relativo alla decisione sulle spese
processuali; l’ammissione della parte soccombente al patrocinio a spese dello Stato non interferisce
punto sul contenuto precettivo della disciplina del codice di rito relativa alla ripartizione fra le parti
delle spese processuali (il patrocinio a spese dello Stato nel processo civile, del D.P.R. n. 115 del
2002, ex art. 74, comma 2, non vale peraltro ad addossare allo Stato anche le spese che la parte
ammessa sia condannata a pagare all’altra parte, risultata vittoriosa; cfr., per tutte: Cass. n. 10053 del
2012; Cass. n. 8388 del 2017).
7. In conclusione: il ricorso deve essere rigettato; la curatela ricorrente, soccombente, deve essere
condannata a rimborsare alla parte vittoriosa le spese da costei anticipate nel presente giudizio di
legittimità nella misura in dispositivo liquidata.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la curatela ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese anticipate
nel presente giudizio, liquidate in Euro 200 per esborsi e in Euro 3.500 per compenso di avvocato,
oltre spese forfetarie pari al 15% di tale compenso, I.V.A. e c.p.A. come per legge.
Dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater,
inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, per il versamento da parte della ricorrente, se
dovuto, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per
l’impugnazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 8 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2022