La quantificazione del danno subito dal figlio per la totale assenza della figura paterna

Cass. Civ., Sez. III, Ord., 12 maggio 2022, n. 15148; Pres. Travaglino, Rel. Cons. Condello
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – rel. Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8398/2019 R.G. proposto da:
C.L., rappresentato e difeso, giusta procura in calce al ricorso, dall’avv. C.S., e dall’avv. R.P., nonchè
dall’avv. P. S., ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultima in Roma;
– ricorrente –
contro
CA.MI., e CA.IV., rappresentati e difesi, come da procura in calce al controricorso, dagli avv.ti A.
A., e S. A., ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avv. N. B., in Roma;
– controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Brescia n. 1984/2018, pubblicata il 20 dicembre 2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22 marzo 2022 dal Consigliere
Dott.ssa Pasqualina A. P. Condello.
Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Brescia – nel giudizio promosso da Ca.Mi. e Ca.Iv. nei confronti di C.L.,
avente ad oggetto la domanda di condanna di quest’ultimo, padre naturale del primo, al risarcimento
del danno, patrimoniale e non, per violazione degli obblighi familiari di mantenimento ed assistenza
del figlio, nonchè la domanda di condanna alla restituzione in favore di Ca.Iv. delle somme dalla
stessa anticipate per il mantenimento del figlio dalla nascita fino al compimento del diciottesimo anno
di età in parziale riforma della decisione di primo grado, che aveva respinto le domande di Ca.Mi. e
condannato C.L. al pagamento, in favore di Ca.Iv., della somma di Euro 50.000,00, oltre interessi
nella misura legale, ha condannato C.L. a pagare in favore di Ca.Mi. la somma di Euro 150.000,00,
comprensiva degli interessi maturati, e a favore di Ca.Iv. l’ulteriore somma di Euro 83.600,00 a titolo
di rimborso delle spese anticipate dalla stessa per il mantenimento del figlio, oltre interessi dalla data
della domanda, respingendo ogni altra domanda, oltre che al rimborso delle spese di lite del grado
d’appello, da compensarsi nella misura di un quarto in ragione della parziale soccombenza.
2. In particolare, i giudici di secondo grado hanno affermato che il primo motivo di gravame, avente
ad oggetto il capo della sentenza con il quale si respingeva la domanda risarcitoria svolta da Ca.Iv.,
non poteva essere accolto, “in assenza di rapporti familiari o comunque di concreta dimostrazione di
danni specifici ulteriori, rispetto a quelli causati dall’appellato al figlio”, ed hanno, invece,
parzialmente accolto il secondo, il terzo ed il quarto motivo, riconoscendo che “l’assenza della figura
paterna” aveva senza dubbio comportato un grave pregiudizio per il figlio, privato sin da bambino
del sostegno morale e delle cure materiali necessarie ad una serena crescita, e che ciascun genitore
era tenuto al mantenimento, all’educazione, all’istruzione ed all’assistenza morale dei figli, anche se
uno solo dei genitori aveva riconosciuto il figlio alla nascita; con la ulteriore precisazione che il
disinteresse mostrato dal genitore nei confronti del figlio, se da un lato integrava gli estremi di una
grave violazione dei doveri di cura ed assistenza morale da parte del genitore stesso, dall’altro non
poteva che provocare una profonda lesione di tutti i diritti del figlio nascenti dal rapporto di filiazione.
Facendo ricorso alla valutazione equitativa di cui dell’art. 1226 c.c., i giudici di appello hanno poi
quantificato il danno subito dal figlio in Euro 150.000,00, somma comprensiva degli interessi
compensativi maturati, tenuto conto della durata dell’inadempimento e dell’assenza di qualsiasi
giustificazione da parte dell’appellato, il quale, pur essendo a conoscenza della nascita del figlio,
aveva mostrato totale disinteresse nei suoi confronti ed omesso di contribuire al suo mantenimento.
Hanno, poi, accolto la domanda di rimborso delle spese di mantenimento del figlio, avanzata da
Ca.Iv., considerando esiguo l’importo di Euro 50.000,00 liquidato con la sentenza di primo grado, in
ragione delle condizioni economiche del padre descritte dagli appellanti e non contestate dal C., e
“congrua e coerente con la quantificazione di un ordinario contributo di mantenimento al coniuge non
convivente” la maggiore somma richiesta, maggiorata di interessi decorrenti dalla data di deposito
della domanda giudiziale (ossia dal 1 ottobre 2012).
3. Avverso la suddetta pronuncia, C.L. propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui
resistono Ca.Ma. e Ca.Iv. con controricorso.
La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis, comma 1, c.p.c.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso C.L. lamenta la “violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e
116 c.p.c., degli artt. 2043 e 1226 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: per carenza di
prova del danno occorso al figlio CA.MI., per carenza di enunciazione e/o adozione di validi criteri,
ai fini della incrementata liquidazione del danno, sempre in via equitativa”. Richiamando la sentenza
di questa Corte n. 2084 del 30 gennaio 2014, sostiene che la motivazione della decisione impugnata
sia meramente apparente, in quanto il riconosciuto danno patrimoniale è privo di qualsiasi
giustificazione ed esprime l’esercizio di un potere che, seppure ancorato all’equità correttiva ed
integrativa, risulta del tutto arbitrario e non suscettibile di verifica.
2. Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando la “violazione e falsa applicazione, in relazione
all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per illogicità e contraddittorietà
della motivazione in ordine all’avvenuta giudiziale rideterminazione dell’entità del rimborso statuito
in favore di Ca.Iv.”, si duole che la Corte d’appello, in maniera contraddittoria, da un lato, abbia
affermato che la domanda di rimborso di Euro 86.400,00 “appare congrua ed in detto ammontare
deve essere riconosciuto il contributo di mantenimento” e, dall’altro, statuisca la condanna al
pagamento “dell’ulteriore somma di Euro 83.600,00 a titolo di rimborso delle spese anticipate dalla
madre per il mantenimento del figlio”, non consentendo in tal modo di comprendere quale sia
l’importo complessivamente liquidato.
Evidenzia, sul punto, che la controricorrente in primo grado aveva avanzato domanda di restituzione
della somma di Euro 86.400,00, omettendo qualsiasi allegazione volta a giustificare l’importo
richiesto, per poi riproporre la medesima domanda in appello; in assenza di qualsiasi elemento di
prova atto a ricostruire la condizione economica dei genitori, i giudici di appello erano pervenuti alla
pronuncia di condanna indicata in dispositivo, omettendo di illustrare le ragioni per le quali avevano
riconosciuto un significativo incremento della somma già liquidata in primo grado e di chiarire come
dovesse essere interpretata la pronuncia di condanna al pagamento “dell’ulteriore somma di Euro
83.600,00”, a fronte delle richieste formulate da Ca.Iv. e dell’importo già versato (Euro 50.000,00) in
adempimento della sentenza di primo grado.
3. La prima censura è infondata.
3.1. Anche a scopo di completezza espositiva, è opportuno premettere che la Corte di appello ha
accertato che l’odierno ricorrente, la cui paternità era stata accertata giudizialmente, non ha adempiuto
al proprio obbligo di mantenere, istruire ed educare il figlio e che il disinteresse mostrato nei confronti
di questo, oltre ad integrare una grave violazione dei doveri di cura e assistenza morale, ha
inevitabilmente provocato una grave lesione dei diritti del figlio nascenti dal rapporto di filiazione, e
ciò a prescindere dal fatto che l’altro genitore lo abbia riconosciuto alla nascita e provveduto in via
esclusiva al suo mantenimento, restando fermo comunque il dovere dell’altro genitore, anche per il
periodo che precede la sentenza dichiarativa della paternità, di ottemperare ai propri doveri (Cass.,
sez. 1, 22/11/2013, n. 26205, Cass., sez. 1, 10/04/2012, n. 5652).
3.2. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte l’obbligo del genitore naturale di concorrere
al mantenimento del figlio nasce proprio al momento della sua nascita, anche se la procreazione sia
stata successivamente accertata con sentenza (Cass., sez. 1, 22/11/2013, n. 26205, Cass., sez. 1,
10/04/2012, n. 5652; Cass., sez. 1, 20/12/2011, n. 27653; Cass., sez. 1, 3/11/2006, n. 23596),
producendo la sentenza dichiarativa della filiazione naturale gli effetti del riconoscimento e
comportando per il genitore, ai sensi dell’art. 261 c.c., tutti i doveri propri della procreazione
legittima, incluso quello del mantenimento ai sensi dell’art. 148 c.c.
3.3. L’obbligazione, come si è chiarito (Cass., sez. 6-3, 16/02/2015, n. 3079), trova la sua ragione
giustificatrice nello status di genitore, la cui efficacia retroattiva è datata appunto al momento della
nascita del figlio (fra le molte conformi, Cass., sez. 1, 6/11/2009 n. 23630), per cui l’obbligo dei
genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde
da qualsiasi domanda giudiziale. Con la ulteriore conseguenza che, anche nell’ipotesi in cui al
momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere
per intero al suo mantenimento, per ciò stesso non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il
periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale,
proprio perchè il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato, nei confronti di
entrambi i genitori, è sorto fin dalla sua nascita (Cass., sez. 1, 22/11/2013, n. 26205; Cass., sez. 1,
10/4/2012, n. 5652; Cass., sez. 1, 14/05/2003, n. 7386).
3.4. La decisione impugnata si pone, dunque, in linea con la giurisprudenza di legittimità che,
enucleando la nozione di illecito endofamiliare, ritiene che la violazione dei relativi doveri non trovi
la sua sanzione, necessariamente e soltanto, nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, ma
comporta che la relativa violazione, nell’ipotesi in cui provochi la lesione di diritti costituzionalmente
protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’autonoma azione volta al
risarcimento dei danni non patrimoniali, ai sensi dell’art. 2059 c.c., come reinterpretato alla luce dei
principi recentemente e ripetutamente affermati da questa stessa Corte in tema di danni alla persona
(Cass., sez. 3, 17/01/2018, n. 901; Cass., sez. 3, 27/03/2018, n. 7513; Cass., sez. 3, 31/01/2019, n.
2788; Cass., sez. 3, 11/11/2019, n. 28989; Cass., sez. 3, 29/09/2021, n. 26301) all’indomani della
modifica degli artt. 138 e 139 C.d.A. ad opera della L. 4 agosto 2017, n. 124 (cd. “legge di stabilità”).
Difatti, all’esito dell’esame del materiale probatorio acquisito, accertato che il C. aveva omesso di
onorare i propri doveri di genitore, la Corte di merito ha correttamente ritenuto sussistente il danno
lamentato da Ca.Mi. e risarcibile il relativo pregiudizio, in conseguenza della lesione di diritti
inviolabili (o fondamentali) della persona, oggetto di tutela costituzionale (artt. 2 e 30 Cost.).
3.5. Ai fini della quantificazione del danno patrimoniale e non patrimoniale subito dal figlio per la
totale assenza della figura paterna, i giudici di merito hanno legittimamente fatto ricorso al criterio
equitativo per determinarne l’importo, non altrimenti quantificabile nel suo preciso ammontare.
Al riguardo, va rammentato che “l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice
di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità”, ma solo a
condizione che “la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà,
indicando il processo logico e valutativo seguito” (Cass., sez. 3, 13/10/2017, n. 24070; in senso
conforme, Cass., sez. 1, 15/03/2016, n. 5090). Si è, in particolare, precisato che, al fine di evitare che
la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo, è necessario che il giudice
indichi, almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i
criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in
ordine al quantum (Cass., sez. L, 31/01/2018, n. 2327), dovendosi ritenere censurabili le liquidazioni
basate su criteri “manifestamente incongrui rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o
macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza” (Cass., sez. 3, 25/05/2017, n. 13153; Cass.,
sez. 2, 22/02/2018, n. 4310).
Difatti, la “liquidazione equitativa, anche nella sua forma cd. “pura”, consiste pur sempre in un
giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno, e cioè in un
giudizio di mediazione tra le probabilità positive e le probabilità negative del danno effettivo nel caso
concreto. Pur giocandovi un ruolo rilevante il potere discrezionale del giudice, essa non può tradursi,
pertanto, in una valutazione arbitraria, in quanto il giudice è chiamato a compiere un ragionevole
apprezzamento di tutte le circostanze che nel caso concreto abbiano potuto avere incidenza positiva
o negativa sull’ammontare del pregiudizio e a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito
a ciascuna di esse, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione
e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento”
(Cass., sez. 3, 13/09/2018, n. 22272).
3.6. Nella vicenda in esame, non è ravvisabile nè assenza di motivazione sui criteri seguiti per la
quantificazione del danno, nè violazione dell’art. 1226 c.c. Infatti, la Corte di merito, dopo avere
posto in evidenza che, in conformità all’orientamento di questa Corte (Cass. n. 26205 del 2013), il
danno subito dal figlio deve essere liquidato in misura proporzionale “…alla maggiore incidenza
dell’assenza della figura paterna durante il periodo cruciale degli anni di sviluppo e crescita… (0-18
anni) e poi in misura decrescente per il periodo successivo… quando ormai la situazione abbandonica
può ritenersi, almeno parzialmente, stabilizzata ed ormai, presumibilmente, quasi metabolizzata o in
fase di progressiva compensazione…”, acclarato che il C. ben sapeva della esistenza del figlio, ha
liquidato il complessivo importo di Euro 150.000,00, somma comprensiva anche del danno non
patrimoniale e degli interessi maturati, tenuto conto della durata dell’inadempimento e della assenza
di qualsiasi ragionevole motivazione che potesse giustificare il comportamento del ricorrente che
aveva omesso di prestare qualsiasi assistenza morale e di contribuire, anche in minima parte, al
mantenimento del figlio, in tal modo riconoscendo la gravità del fatto e della sofferenza procurata al
figlio.
La sentenza impugnata non si pone, quindi, al di fuori dei limiti di cui all’art. 1226 c.c.
4. Neppure merita accoglimento la seconda censura.
4.1. Il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in
violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost., comma 6,), e
dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della
decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione
assunta, di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali
argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare
se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata.
La sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto
di vista grafico o quelle che presentino un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”,
ovvero una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass., sez. U, 7/04/2014,
n. 8053; Cass., sez. U, 3/11/2016, n. 22232), ma anche quelle che contengono una motivazione
meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perchè dietro la
parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da
non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per
pervenire da essi al risultato enunciato” (Cass., sez. U, n. 22232 del 2016 e la giurisprudenza ivi
richiamata).
4.2. La motivazione della sentenza impugnata non rientra in alcuna delle fattispecie patologiche
individuate dagli arresti giurisprudenziali richiamati.
La Corte di merito, infatti, pronunciandosi sulla distinta domanda avanzata da Ca.Iv., che aveva
reiterato in grado di appello la iniziale richiesta di maggior rimborso quantificato in Euro 86.400,00,
ha spiegato che “le condizioni economiche del padre”, descritte dagli appellati e non contestate nel
merito dal C., non consentivano di ritenere giustificato il rimborso nella misura riconosciuta dai
giudici di primo grado, “corrispondente ad un contributo di mantenimento di circa 231 Euro mensili”,
ed ha conseguentemente considerato la domanda di rimborso della Ca. “congrua e coerente con la
quantificazione di un ordinario contributo di mantenimento al coniuge non convivente”, riconoscendo
in suo favore, in dispositivo, l’importo di Euro 83.600,00, oltre interessi dalla data della domanda.
Il percorso argomentativo seguito dai giudici di appello, condivisibile o non esplicita le ragioni poste
a fondamento del decisum, escludendo al contempo la configurabilità di un vizio di ultrapetizione,
dal momento che l’importo liquidato risulta inferiore a quello di Euro 86.400,00 complessivamente
richiesto da Ca.Iv. e sostitutivo del minor importo di Euro 50.000,00, già liquidato in primo grado.
5. Il ricorso deve, quindi, essere rigettato.
Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come
in dispositivo.
Deve, infine, darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002,
art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art.1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di
legittimità che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15
per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115
del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte
del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso,
a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 marzo 2022.
Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2022