Procedimento minorile e protrazione delle misure cautelari oltre i termini consentiti dalla legge

Cass. Civ., Sez. Unite, Sent., 19 novembre 2021, n. 35460; Pres. Cassano, Rel. Cons. Napolitano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9933/2021 proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato
in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– ricorrente –
contro
C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio dell’avvocato G. N., che lo rappresenta e
difende unitamente all’avvocato M. S.;
– resistente –
e contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimato –
avverso la sentenza n. 22/2021 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA,
depositata il 05/03/2021;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/10/2021 dal Consigliere LUCIO
NAPOLITANO;
lette le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale RENATO FINOCCHI GHERSI, il quale chiede
che la Corte accolga il primo motivo del ricorso e rigetti il secondo.
Svolgimento del processo
Con atto del 10 dicembre 2018, all’esito di attività ispettiva ordinaria, il Ministro della Giustizia ha
esercitato l’azione disciplinare nei confronti del Dott. C.C., all’epoca giudice presso il Tribunale per i
minorenni di Roma, in relazione a due fatti di rilievo disciplinare.
Egli era incolpato dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art.1, e art. 2, lett. a) e g),
per avere – nell’esercizio delle funzioni di Giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i
Minorenni, in conseguenza dell’omessa previsione ed adozione di un efficace sistema di controllo e
continuo monitoraggio dei termini delle misure cautelari in atto nei procedimento a lui assegnati –
violato i doveri di diligenza e correttezza, determinando l’indebita protrazione delle misure coercitive
in atto nei confronti di due minori: relativamente al primo addebito, per l’indebita protrazione, per
giorni dieci, della misura della permanenza in casa applicata a G.M., minore degli anni sedici; quanto
al secondo addebito, per l’indebita protrazione per giorni sedici della misura cautelare della
permanenza in comunità applicata a R.I., anch’egli minore di sedici anni.
In particolare, relativamente al procedimento penale riguardante il minore G.M., era contestato al
Dott. C., sebbene gli fossero pervenuti in data 8 ottobre 2012 la richiesta di giudizio immediato ed il
fascicolo processuale, di avere omesso di provvedere tempestivamente su tale richiesta e di avervi
provveduto solo il primo dicembre 2012; nonchè di avere omesso di rilevare che la misura in atto
aveva perso efficacia alla data del 13 novembre 2012, senza intraprendere in proposito alcuna
iniziativa, fino a che, in data 25 novembre 2012, altro magistrato provvedeva alla scarcerazione del
G..
Quanto al procedimento penale riguardante l’altro minore R., era in particolare contestato al Dott. C.
di avere erroneamente fissato il termine della misura al 4 novembre 2013 anzichè al 19 ottobre 2013
e di non avere provveduto tempestivamente in ordine alla richiesta di giudizio immediato, sebbene la
richiesta gli fosse pervenuta in data prossima al 9 ottobre 2013, senza intraprendere alcuna iniziativa
fino al 5 novembre 2013, allorquando ne disponeva la scarcerazione.
La Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con sentenza n. 22/2021,
depositata il 5 marzo 2021, in relazione ai due gruppi di addebiti, assolse il Dott. C. dagli addebiti a
lui ascritti, con riferimento alle incolpazioni di cui all’art. 2, lett. a), del succitato decreto, per essere
rimasti esclusi gli addebiti; quanto, invece, alle incolpazioni di cui all’art. 2, lett. g), dello stesso
decreto, per essere i fatti di scarsa rilevanza, in relazione al medesimo D.Lgs. n. 109 del 2006, art.3-
bis. Avverso la succitata sentenza il Ministro della Giustizia pro tempore ed il Ministero dallo stesso
rappresentato ricorrono per cassazione dinanzi a queste Sezioni Unite civili in forza di due motivi,
entrambi affidati a diversi ordini di censura.
Il Dott. C. resiste con atto di costituzione.
Fissata la trattazione del ricorso per l’udienza pubblica del 19 ottobre 2021, essa si è quindi svolta in
camera di consiglio, D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, ex art. 23, comma 8 bis, quale inserito dall’art. 6,
della Legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176 e del D.L. 23 luglio 2021, n. 105, art. 7,
convertito, con modificazioni, dalla L. 16 settembre 2021, n. 126, senza l’intervento del Procuratore
Generale e dei difensori delle parti, non essendo stata formulata da nessuno degli interessati richiesta
di discussione orale.
Il Procuratore Generale ha presentato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto accogliersi il ricorso
in relazione al primo motivo, rigettato il secondo.
Tanto il ricorrente Ministro della Giustizia quanto il resistente hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo parte ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 109
del 2006, art.1, comma 1, e art. 2, comma 1, lett. a), nonchè mancanza, contraddittorietà e/o manifesta
illogicità della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c, comma 1, lett. b) ed e), nella parte in cui
la sentenza impugnata ha escluso la sussistenza dei rispettivi addebiti contestati in relazione al D.Lgs.
n. 109 del 2006, lett. a), sul presupposto, erroneamente affermato dalla sentenza impugnata, che le
misure della permanenza in casa e del collocamento in comunità previste per gli imputati minori non
hanno natura custodiale e come tali, in mancanza di ulteriori specifici elementi non possono ritenersi
suscettibili, in caso d’indebita loro protrazione nel tempo, di causare un danno ai minori che l’hanno
rispettivamente subita.
2. Con il secondo motivo parte ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n.
109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. g), e art. 3 bis, nonchè mancanza, contraddittorietà e/o manifesta
illogicità della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, lett. b) ed e), nella parte in cui
la sentenza impugnata, nel ritenere la scarsa rilevanza dei fatti contestati al magistrato relativamente
alle condotte riconducibili all’illecito disciplinare di cui al citato D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma
1, lett. g), non ha fatto corretta applicazione dei principi affermati in materia da queste Sezioni Unite,
incorrendo, in ogni caso, nel vizio d’illogicità della motivazione resa al riguardo.
3. Il primo motivo è fondato.
3.1. La sentenza impugnata ha escluso la stessa sussistenza degli addebiti in relazione a ciascuna delle
incolpazioni di cui alla lett. a) dell’art. 2, del D.Lgs. n. 109 del 2006, sostanzialmente affermando che
la violazione dei propri doveri in cui il magistrato è incorso in relazione al protrarsi oltre i termini
massimi consentiti dalla legge delle misure rispettivamente adottate nei confronti di ciascun minore
non abbia in concreto recato loro un ingiusto danno: ciò in forza dell’affermazione secondo cui “sia
il collocamento in comunità, che la misura della permanenza a casa, non potendo essere considerate
misure di natura “custodiale” che determinano la privazione della libertà personale del minore, non
possono neppure ex se, in carenza di ulteriori specifici elementi, essere considerate come misure
capaci, in caso di protrazione, di cagionare un danno, attesa peraltro la presenza della necessaria
adesione della parte al progetto rieducativo”, a tal fine richiamando un precedente della stessa Sezione
disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura (sentenza n. 56 del 2020), in cui, con
riferimento alla misura cautelare del collocamento in comunità, se ne era evidenziata “la natura non
coercitiva – contenitiva di essa, ma più propriamente “rieducativa”, con la conseguente impossibilità
di parificazione con la custodia cautelare”.
3.2. Tale assunto non può essere condiviso.
Di là dal richiamo, evidenziato come non pertinente dalle conclusioni scritte rese dal Procuratore
Generale, alla citata sentenza n. 56/2020 della Sezione disciplinare del CSM, ove non era stata esclusa
la sussistenza dell’addebito in relazione alla fattispecie di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. a),
ma si era ritenuta la condotta disciplinare irrilevante ai sensi dell’art. 3 bis, del citato decreto, la
sentenza impugnata muove dal presupposto che nelle fattispecie in esame non vi possa essere stata
lesione del bene della libertà personale di ciascuno dei due minori perchè le misure cautelari della
permanenza in casa e del collocamento in comunità resterebbero connotate da una preminente
funzione rieducativa, tanto da presupporre l’adesione ad esse della parte.
3.3. Sennonchè l’incidenza delle sopra indicate misure, specifiche del processo penale a carico degli
imputati minorenni, di cui rispettivamente all’art. 21 ed all’art 22, del D.P.R. 22 settembre 1988, n.
448, in senso limitativo della libertà personale di chi ne è destinatario, non è revocabile in dubbio.
3.3.1. Premesso che, diversamente da quanto dedotto nell’impugnata pronuncia, esse non richiedono
un’espressa adesione da parte di chi debba esserne destinatario, va rilevato come in primo luogo la
stessa sedes materiae – essendo le misure in oggetto disciplinate nel Capo II riguardante i
“Provvedimenti in materia di libertà personale” – confermi la loro natura limitativa di detto bene
oggetto di tutela costituzionale.
Il minore al quale sia applicata la misura della permanenza presso la propria abitazione o altro luogo
di privata dimora non se ne può allontanare se non a ciò autorizzato dal giudice (D.P.R. n. 448 del
1988, art. 21, comma 2) ed è considerato (ai sensi del comma 4, della citata norma), in stato di custodia
cautelare, sia pure “ai soli fini del computo della durata massima della misura, a decorrere dal
momento in cui la misura è eseguita ovvero dal momento dell’arresto, del fermo e
dell’accompagnamento”, ed “mi periodo di permanenza in casa è computato nella pena da eseguire, a
norma dell’art. 657 c.p.p.”.
3.3.2. Non può pertanto, attribuirsi, valenza in senso contrario, come ritenuto invece nella sentenza
impugnata, al non avere il legislatore tipizzato come reato di “evasione” il fatto del minore che
ingiustificatamente si allontani dall’abitazione in cui è tenuto a permanere, tanto più che lo stesso
D.P.R. n. 448 del 1988, art. 21, al comma 5, non lascia comunque in ogni caso priva di effetti la
condotta di colui che si allontani in modo ingiustificato dall’abitazione presso la quale è obbligato a
stare, potendo ad esempio essere adottata dal giudice la diversa misura del collocamento in comunità;
mentre, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 22 del D.P.R. n. 488/1988, “(n)el caso di gravi e ripetute
violazioni delle prescrizioni imposte o di allontanamento ingiustificato dalla comunità, il giudice può
disporre la misura della custodia cautelare, per un tempo non superiore a un mese, qualora si proceda
per un delitto per il quale è prevista la pena della reclusione non inferiore a cinque anni”.
3.3.3. La giurisprudenza penale di questa Corte del resto ha già avuto modo di affermare chiaramente
come “anche la misura cautelare personale della permanenza in casa, come del collocamento in
comunità presentano un rilevante e decisivo carattere o contenuto della limitazione personale del
minore, tale da giustificare di per sè un trattamento comune alle altre misure custodiali” (così,
testualmente, in motivazione, Cass. pen., sez. 2, 29 novembre 2012 – dep. 17 dicembre 2012 – n.
48738; si veda anche Cass. pen., sez. 4, 12 aprile 2017 – dep. 17 luglio 2017- n. 34900), a ciò facendo
conseguire l’interpretazione dell’art. 275 c.p.p., comma 2 bis, inserito dalla L. 8 agosto 1995, n. 332,
art. 4, secondo cui non può essere disposta la misura della custodia cautelare se il giudice ritiene che
con la sentenza penale possa essere concessa la sospensione condizionale della pena, come norma
riferibile anche alle misure della permanenza in casa e del collocamento in comunità previste nel
procedimento minorile (cfr., già, in tal senso, Cass. pen., sez. 2, 12 giugno 2007 – dep. 21 settembre
2007 – n. 35330).
3.4. Pacifici, dunque, gli elementi fattuali come riportati nei rispettivi capi d’incolpazione, quanto agli
addebiti formulati in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. g), la sentenza
impugnata erroneamente ha escluso la stessa sussistenza dell’illecito disciplinare, ritenendo che la
protrazione per alcuni giorni delle rispettive misure cautelari irrogate, in conseguenza dell’omissione
dell’effettuazione del doveroso controllo e dell’adozione di un efficace sistema di monitoraggio sui
termini delle misure cautelari in atto, nel caso del minore R. anche per l’erronea fissazione del termine
della misura cautelare al 4 novembre 2013 anzichè al 19 ottobre 2013, non potesse integrare
l’elemento costitutivo dell’illecito disciplinare di aver arrecato all’uno e all’altro minore un ingiusto
danno in ragione della privazione sofferta alla libertà personale di ciascuno al di fuori dei limiti, anche
temporali, stabiliti dalla legge: ciò alla stregua anche dei principi tradizionalmente affermati da queste
Sezioni Unite che, in tema di privazione della libertà personale di chi è sottoposto ad indagini, hanno
più volte ribadito come tale tipo d’illecito possa ritenersi scriminato solo in presenza di gravissimi
impedimenti all’assolvimento del dovere di garantire il diritto costituzionale alla libertà personale del
soggetto che subisca, per effetto di misura cautelare, la restrizione del diritto medesimo (cfr., tra le
molte, a mero titolo esemplificativo, più di recente, Cass. SU, 23 giugno 2021, n. 17985; Cass. SU,
17 giugno 2021, n. 17333; Cass. SU, 26 giugno 2019, n. 17120; Cass. SU, 6 aprile 2017, n. 8896).
4. Il secondo motivo è invece infondato.
La sentenza impugnata ha ritenuto applicabile, ai capi d’incolpazione riferiti a ciascuna contestazione
di grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, l’esimente di cui al
D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3bis, quale inserito dalla L. 24 ottobre 2006, n. 269, art. 1, comma 3, che
stabilisce che “(I)’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza”.
4.1. Si è chiarito, da parte di queste Sezioni Unite, come la previsione in oggetto costituisca
l’applicazione, sul piano della responsabilità disciplinare, del criterio della necessaria offensività
dell’illecito (cfr., tra le altre, Cass. SU, 31 maggio 2016, n. 11372), rilevandosi come detta esimente
sia applicabile, sia per il suo tenore letterale, sia per la sua collocazione sistematica, a tutte le ipotesi
di illecito disciplinare (cfr., oltre alla già citata Cass. SU n. 17985/21, Cass. SU, 26 marzo 2021, n.
8563; Cass. SU, 10 settembre 2019, n. 22577; Cass. SU, 23 aprile 2012, n. 6327), dovendo il giudice
disciplinare procedere ad un giudizio globale e non atomistico degli elementi sottoposti al suo
giudizio (cfr. anche Cass. SU, 31 marzo 2015, n. 6468), affinchè, con accertamento in concreto ed
effettuato ex post, pur in presenza del perfezionamento della fattispecie tipica, possa escludersi che
sia stato leso o messo in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma, identificabile, per tutte le
ipotesi di illecito disciplinare, con la compromissione dell’immagine del magistrato.
4.2. Il giudizio del giudice disciplinare in ordine all’applicabilità della citata esimente passa, come
queste Sezioni Unite hanno già rilevato (cfr. ancora la citata Cass. SU n. 17985/21) attraverso un
duplice momento valutativo: laddove non vi sia coincidenza tra bene giuridico protetto dalla norma
di tipizzazione dell’illecito disciplinare con quello protetto dal citato art. 3 bis, come nella vicenda
ora all’esame della Corte, il giudizio di scarsa rilevanza del fatto deve tenere conto, innanzitutto, della
lesione arrecata al bene giuridico specifico protetto, solo in seguito, se l’offesa cioè non risulti
apprezzabile in termini di gravità, dovendosi ulteriormente verificare se quel medesimo fatto, idoneo
ad integrare l’illecito disciplinare tipizzato, abbia però determinato un’effettiva compromissione
dell’immagine pubblica del magistrato, risultando applicabile la detta esimente in caso negativo di
entrambe le verifiche (cfr. Cass. SU, 22 novembre 2019, n. 31058).
4.3. Ciò porta, in primo luogo, nella fattispecie in esame, ad escludere, come invece sembra
argomentare la difesa del Ministro ricorrente, che pur richiama, in memoria, la menzionata Cass. n.
17985/21 (riferita, peraltro, a vicenda in cui vi era stata illegittima privazione della libertà personale
dell’imputato per 578 giorni), che in presenza della tipizzazione di un illecito integrato da “grave”
violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, come contestato ai sensi del
D.Lgs. n. 109 del 2006, art.2, comma 1, lett. g), non possa neppure in astratto configurarsi
l’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 3 bis, dello stesso decreto legislativo.
4.4. Ciò posto, il giudizio al quale è pervenuta, la sentenza impugnata nel ritenere che, con riferimento
all’anzidetta contestazione, la condotta dell’incolpato ed il relativo giudizio di responsabilità si
collochino al di sotto della soglia di cui all’art. 3 bis, si pone come l’esito di un percorso argomentativo
correttamente svoltosi attraverso la duplice valutazione sopra menzionata, seguendo alla
considerazione della “limitatissima conseguenza che la violazione di legge ha prodotto”, con
riferimento a ciascun caso di (breve) protrazione delle rispettive misure cautelari oltre i termini
consentiti dalla legge, l’ulteriore considerazione – sulla base di un giudizio globale basato su plurime
circostanze fattuali – che ha portato la Sezione disciplinare ad escludere, con motivazione congrua e
coerente, che in relazione ai fatti addebitati in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, art.2, comma 1,
lett. g), sia derivata la compromissione dell’immagine del magistrato o il prestigio di cui il medesimo
deve godere nell’ambiente in cui lavora, tanto che l’illecito è stato accertato – come in conclusione
osservato dalla sentenza impugnata – “solamente a seguito d’ispezione, non avendo avuto il fatto
alcuna eco nè clamore”.
5. In conclusione il ricorso va accolto limitatamente al primo motivo, dovendo essere rigettato il
secondo.
Per l’effetto la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio per nuovo
esame alla Sezione disciplinare, in diversa composizione, del Consiglio Superiore della Magistratura,
che valuterà quindi, nell’ambito del giudizio ad essa riservato se, come richiesto dall’incolpato in
subordine, anche in relazione agli addebiti contestati con riferimento al D.Lgs. n. 109 del 2006, art.2,
comma 1, lett. a), i fatti aventi rilievo disciplinare ivi ascritti siano suscettibili o meno di essere ritenuti
di scarsa rilevanza ai sensi dell’art. 3 bis, del citato decreto.
6. Avuto riguardo all’esito del giudizio di legittimità, ricorrono i presupposti di legge per disporne
l’integrale compensazione tra parte ricorrente e resistente.
7. Ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, comma 5, e successive modificazioni, in caso di
diffusione della presente sentenza, vanno omesse le generalità e gli altri dati identificativi della parte
e dei minori interessati.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso in relazione al primo motivo, rigettato il secondo.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Sezione disciplinare del
Consiglio Superiore della Magistratura in diversa composizione.
Dichiara compensate le spese del giudizio di legittimità