Adozione di un figlio minore consentita solo in presenza di fatti gravi indicativi dello stato di abbandono

Cass. Civ., Sez. Unite, sent., 17 novembre 2021, n. 35110 – Pres. Cassano, Cons. Rel. Valitutti
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21425/2020 proposto da:
M.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SALARIA 53, presso lo studio dell’avvocato
MANUELA MACCARONI, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
G.R., nella qualità di curatrice speciale della minore A.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
IPPOLITO NIEVO 61, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPINA MENICUCCI, che la rappresenta
e difende;
– controricorrente –
A.E.S.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI VAL TELLINA 87, presso lo studio
dell’avvocato FRANCESCA MASSI, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
G.R., nella qualità di curatrice speciale della minore A.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
IPPOLITO NIEVO 61, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPINA MENICUCCI, che la rappresenta
e difende;
– controricorrente all’incidentale –
e contro
M.C., PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA,
SINDACO DEL COMUNE DI (OMISSIS), nella qualità di Tutore della minore A.S., AMBASCIATA
DELLA REPUBBLICA DELLA (OMISSIS) IN ITALIA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 3913/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 04/08/2020;
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/10/2021 dal Presidente
ANTONIO VALITUTTI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale FRANCESCA CERONI, il quale chiede
che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione vogliano accogliere i ricorsi.
Svolgimento del processo
1. Con decreto del 28 novembre 2017, il Tribunale per i minorenni di Roma, su ricorso della Procura
della Repubblica presso lo stesso ufficio, a seguito del riscontro di reiterati atti di violenza e di
maltrattamenti posti in essere da A.E.S.A., cittadino moldavo, nei confronti della moglie M.C., del
pari moldava, e dei di lei figli nati da precedente matrimonio, nonchè dell’atteggiamento di totale
sottomissione tenuto dalla medesima, sospendeva la responsabilità genitoriale di entrambi sulla
minore S., unica figlia della coppia, e sugli altri tre figli della M.. Il Tribunale nominava tutore
provvisorio il sindaco di (OMISSIS), stabiliva la cessazione dei rapporti tra il padre e la figlia,
incaricava i Servizi Sociali di disporre un accertamento urgente sulla situazione dei minori,
autorizzandoli ad effettuare l’allontanamento urgente degli stessi in caso di grave pregiudizio, e
disponeva accertamenti sulla salute psico-fisica dei minori medesimi, nonchè sulla personalità dell’
A. e della M..

1.1. Con successivo decreto del 13 novembre 2018, il Tribunale per i minorenni apriva la procedura
per lo stato di abbandono della piccola Syria, confermava la sospensione dalla responsabilità
genitoriale di entrambi i genitori e la nomina del tutore provvisorio, e nominava l’avv. G.R. quale
5. Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del primo e secondo motivo, chiedendo
confermarsi la giurisdizione del giudice italiano, e per l’accoglimento del terzo e quarto motivo del
ricorso principale, nonchè del primo, terzo e quarto motivo del ricorso incidentale, inammissibili il
secondo ed il quinto.

Motivi della decisione
1. Queste Sezioni Unite sono state investite, dall’ordinanza di rimessione, dell’esame della questione
pregiudiziale di giurisdizione, costituente oggetto del secondo motivo del ricorso principale, con il
quale – denunciando la violazione della L. 13 maggio 1995, n. 218, art. 40, in relazione all’art. 360
c.p.c., comma 1, nn. 1 e 3 – M.C. si duole del fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto sussistente la
giurisdizione, in materia, del giudice italiano.

1.1. Deduce, al riguardo, la ricorrente che “allo stato degli atti non vi era alcuna possibilità di
giurisdizione italiana”, dal momento che la piccola S., cittadina moldava, non era affatto in stato di
abbandono in Italia. Tanto si desumerebbe – a parere della istante dalle stesse relazioni dei Servizi
sociali, che avrebbero evidenziato come, già prima del suo collocamento nella casa famiglia, “la
minore frequentava l’asilo ed erano soddisfatti tutti i suoi bisogni primari, salvo affermare
genericamente che presentava delle grosse carenze”.

1.2. Ne deriverebbe che, essendo l’accertamento dello stato di abbandono “presupposto
imprescindibile per la dichiarazione dello stato di adottabilità”, ai sensi della L. n. 184 del 1983, artt.
8 e 15, l’assoluta genericità delle presunte “grosse carenze” che la bambina moldava avrebbe rivelato
prima del suo collocamento in casa famiglia, evidenziando l’insussistenza di uno stato di abbandono
della medesima, avrebbe dovuto indurre il Tribunale per i minorenni di Roma a non emettere la
pronuncia dichiarativa dello stato di adottabilità della piccola S. e, di conseguenza, ad escludere la
sussistenza della giurisdizione italiana. Ed invero, a norma della L. n. 218 del 1995, art. 40, comma
1, citato dalla stessa Corte territoriale, “i giudici italiani hanno giurisdizione in materia di adozione
allorchè: a) (…); b) l’adottando è un minore in stato di abbandono in Italia”.

2. Il motivo è infondato.

2.1. In via pregiudiziale, va rilevato che sull’ammissibilità dell’intervento in appello dell’Ambasciata
della Repubblica della (OMISSIS) – che ha diritto di essere avvisata dell’adozione di provvedimenti
in materia di tutela dei minori e di status personale, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 2, comma
7, – deve ritenersi formato il giudicato formale, preclusivo del riesame della medesima questione in
sede di legittimità, nell’ambito dello stesso giudizio. Nessuna delle parti ricorrenti ha, difatti,
impugnato l’implicita pronuncia della Corte territoriale la quale – men che dichiarare
l’inammissibilità di tale intervento – si è, per contro, pronunciata sulla questione di giurisdizione
proposta dal terzo interventore, in tal modo implicitamente ritenendone legittimo l’intervento.

2.1.1. Al riguardo va ribadito il principio secondo cui la statuizione su una questione di rito (nella
specie l’intervento in giudizio di un terzo) – sebbene non sia idonea a produrre gli effetti del giudicato
sostanziale, ai sensi dell’art. 2909 c.c., – dà luogo a giudicato formale (art. 324 c.p.c.), con effetto
preclusivo del riesame della medesima questione, laddove detta statuizione non sia stata impugnata
da alcuna delle parti, ancorchè limitatamente al rapporto processuale nel cui ambito la statuizione
medesima sia stata emanata (Cass., 16/04/2019, n. 10641; Cass., 22/10/2020, n. 23130; Cass.,
09/09/2021, n. 24371).

2.1.2. In tal modo, la questione di giurisdizione è stata veicolata nel giudizio di appello, aprendo la
strada al riesame della stessa in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 37 c.p.c..

2.2. Nel merito, la Corte d’appello – disattendendo la contestazione della giurisdizione italiana,
mossa dal terzo intervenuto – ha affermato che, trattandosi di minore in stato di abbandono in Italia,
a norma della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 40, – la giurisdizione italiana era stata correttamente
affermata dal Tribunale per i minorenni. Avverso tale pronuncia pregiudiziale la M. ha proposto,
quindi, il secondo motivo del ricorso principale, con il quale la ricorrente denuncia la violazione
della disposizione succitata.

2.2.1. Orbene, va osservato, al riguardo, che la disciplina dell’adozione, contenuta all’interno della
legge italiana di diritto internazionale privato (L. 31 maggio 1995, n. 218, artt. 38 – 41), si inserisce nel
quadro della più complessa regolamentazione dell’istituto, disposta dalla L. 4 maggio 1983, n. 184,
così come modificata dalla L. 31 dicembre 1998, n. 476, e dalla L. 28 marzo 2001, n. 149.
L’applicazione delle norme di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 3841, richiede pertanto – come osservato
in dottrina – una necessaria opera interpretativa di coordinamento con la disciplina complessiva
della materia.

2.2.2. In proposito va anzitutto rilevato che l’art. 38 regola in primis – sul piano della disciplina legale
– gli aspetti, classificati in dottrina come requisiti soggettivi (come il legame matrimoniale degli
adottanti, la differenza di età tra adottante e adottato) ed oggettivi (come lo stato di abbandono del
minore, l’affidamento preadottivo), che valgono come condizioni necessarie affinchè il
procedimento di adozione possa iniziare e come elementi costitutivi (ad esempio, il presupposto
negativo della mancanza di qualità di figlio naturale di uno degli adottanti in capo all’adottando),
cui l’ordinamento individuato dalla norma di conflitto riconduce la possibilità di emanazione
dell’atto di adozione.

E’ prevista, inoltre, una disposizione speciale, relativamente ai consensi richiesti per l’adozione (art.
38, comma 2).

2.3. Alcune incertezze si sono poste, peraltro, con specifico riferimento all’istituto – la cui
applicazione viene in rilievo nel caso di specie – concernente la dichiarazione di adottabilità del
minore, prevista dalla L. n. 184 del 1983, artt. 8 e 15. Siffatta dichiarazione, pronunciata dal Tribunale
per i minorenni, costituisce invero, per l’ordinamento italiano, un presupposto speciale
dell’adozione, avendo essa carattere preliminare rispetto al procedimento destinato a sfociare nella
pronuncia finale di adozione di un minore. Di talchè a taluni interpreti non è sembrato agevole
individuare la legge applicabile alla dichiarazione di adottabilità, giacchè, nel momento in cui essa
viene posta in essere, non è ancora possibile conoscere l’identità dei futuri adottanti.

2.4. E’, tuttavia, evidente che la soluzione del problema è resa possibile dalla menzionata necessità
di interpretare la legge sul diritto internazionale privato in coordinamento con la normativa italiana
sull’adozione. Viene in rilievo, al riguardo, la L. n. 184 del 1983, art. 37 bis, a tenore del quale “al
minore straniero che si trova nello Stato in situazione di abbandono si applica la legge italiana in
materia di adozione, di affidamento e di provvedimenti necessari in caso di urgenza”. Il richiamo
della legge italiana alla fattispecie della dichiarazione di adottabilità di minori stranieri che si trovino
in Italia in situazione di abbandono (L. n. 184 del 1983, art. 8), che si evince dall’ampio tenore letterale
della norma, segna, pertanto, il punto di raccordo tra la normativa nazionale ed il diritto
internazionale privato, ed altresì tra la legge applicabile e la giurisdizione in materia, atteso che tale
situazione di abbandono è ricompresa nella giurisdizione dei giudici italiani, secondo quanto
prevede la L. n. 218 del 1995, art. 40.

D’altro canto, siffatta conclusione – in punto legge applicabile è rafforzata dalla L. n. 218 del 1995,
art. 38, comma 1, ultima parte, laddove dispone che “si applica il diritto italiano quando è richiesta
al giudice italiano l’adozione di un minore, idonea ad attribuirgli lo stato di figlio”.

2.5. Ad analogo risultato – sul piano della individuazione della legge applicabile e della conseguente
giurisdizione in materia – si perverrebbe, peraltro, seguendo l’altra soluzione suggerita, in via
alternativa, in dottrina, e cioè considerando la dichiarazione di adottabilità come un istituto di
protezione dei minori cui si applicherebbe, pertanto, la legge di residenza abituale del minore in
base a quanto dispone la L. n. 218 del 1995, art. 42, che richiama in materia la Convenzione dell’Aja
del 5 ottobre 1961.
L’art. 1 di detta Convenzione, invero, recita: “Le autorità, così giudiziarie come amministrative, dello
Stato di dimora abituale d’un minorenne sono (…) competenti a prendere delle misure per la
protezione della persona o dei beni dello stesso”. Per il che il raccordo tra legge applicabile e
giurisdizione del giudice chiamato ad applicarla riceve, per effetto di tale disposizione dell’art. 42,
un’ulteriore, inequivocabile, conferma. Ed invero, fin dalla rubrica (“giurisdizione e legge applicabile
in materia di protezione dei minori”), ma il raccordo è contenuto anche nello stesso comma 1 della
norma (“la protezione dei minori è in ogni caso regolata dalla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre
1961, sulla competenza delle autorità e sulla legge applicabile in materia di protezione dei minori”),
legge e giurisdizione – per volontà del legislatore – sono fortemente avvinte, sicchè l’una non può
essere disgiunta dall’altra.

2.6. Da tale quadro normativo di riferimento deve, pertanto, desumersi che – ferma restando
l’applicabilità della legge italiana al minore che si trovi nel territorio dello Stato e per il quale sia
richiesta al giudice italiano l’adozione, ovvero uno degli atti a monte, come la dichiarazione di
adottabilità, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 37 bis, della L. n. 218 del 1995, art. 38, comma 1,
ultima parte, nonchè dell’art. 1 della Convenzione dell’Aja del 1961 – la giurisdizione in materia non
può, di conseguenza, che essere attribuita al medesimo giudice italiano, a norma dell’art. 40 della
legge da ultimo citata – la cui violazione è stata censurata dalla ricorrente, con il motivo di ricorso in
esame – ed altresì in forza del menzionato art. 42 della stessa legge.

2.7. A conforto di tale impostazione va rilevato che – nel regime normativo previgente in materia di
adozione nazionale – questa Corte aveva già delineato un chiaro inquadramento della fattispecie
normativa prevista dall’allora art. 37, della L. n. 184 del 1983, ora art. 37 bis della medesima legge. Si
era, per vero, affermato in proposito – e mutatis mutandis i principi affermati conservano la loro
attualità, stante la pressochè totale equivalenza dei due testi – che la L. n. 183 del 1984, art. 37 – ai
sensi del quale nei confronti del minore straniero in stato di abbandono nel territorio dello Stato è
operante la legge italiana in materia di adozione, di affidamento e di provvedimenti necessari in
caso di urgenza – comporta non soltanto, sul piano processuale, la giurisdizione del giudice italiano,
a prescindere dagli elementi di collegamento previsti dalla legislazione interna, ma anche, sul piano
sostanziale, l’assoggettamento del rapporto alla normativa interna, in deroga alle comuni regole di
diritto internazionale privato. Pertanto, qualora il tribunale per i minorenni dia inizio alla procedura
per la dichiarazione di adottabilità di un minore straniero, in relazione allo stato di abbandono in
cui lo stesso si trovi al momento dell’intervento, la circostanza che, successivamente a tale momento,
le autorità del Paese d’origine richiedano il rimpatrio del minore, così come non è idonea ad
escludere la giurisdizione italiana, non fa venir meno l’applicazione al rapporto della legge italiana,
attesi gli stretti collegamenti tra giurisdizione e legge applicabile in materia (Cass., 04/11/1996, n.
9576).

2.8. A nulla rileva, di conseguenza, sul piano della giurisdizione, che nel caso di specie l’autorità
moldava – successivamente all’inizio del procedimento dinanzi al Tribunale per i minorenni di Roma
abbia lamentato di non essere stata in grado di porre in essere il rimpatrio della minore, cittadina
moldava, attesa l’applicabilità alla medesima della legge italiana – in quanto nata e residente in Italia,
ed ivi dichiarata in stato di abbandono – con la conseguente sussistenza della giurisdizione dei
giudice italiano che va, pertanto, riaffermata.

3. Per tali ragioni, il secondo motivo del ricorso principale va, di conseguenza, rigettato, restandone
assorbito il primo, con il quale la istante censura l’omessa comunicazione, all’autorità moldava, del
provvedimento emesso in Italia, concernente la minore A.S..

4. Confermata, pertanto, la giurisdizione del giudice italiano, considerati i profili di novità e di
peculiare importanza che presenta la materia del contendere del presente giudizio, e valutata, altresì,
l’urgenza di provvedere sulla situazione giuridica della suddetta minore straniera, già dichiarata in
stato di adottabilità, queste Sezioni Unite ritengono di esaminare direttamente in questa sede, senza
rimetterne l’esame alla sezione semplice di provenienza, gli altri motivi dei ricorsi principale ed
incidentale, concernenti il merito della vicenda processuale.

5. Con il terzo e quarto motivo del ricorso principale proposto da M.C., e con il terzo motivo del
ricorso incidentale proposto da A.E.S.A., i ricorrenti denunciano la violazione del’art. 132 c.p.c., art.
111 Cost., L. 4 maggio 1983, n. 184, artt. 1 e 8, nonchè l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio,
in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

5.1. La M. censura la sentenza di appello, sia sul piano motivazionale, sia – con il quarto motivo – sul
piano della violazione di legge, nella quale sarebbe incorsa – ad avviso della esponente la Corte
territoriale. Ed invero, sebbene in rubrica il quarto motivo rechi l’indicazione “omesso esame di fatti
decisivi per il giudizio”, nell’illustrare la censura (p. 23) la ricorrente impugna la sentenza impugnata
anche per avere “la Corte d’appello mal sussunto la fattispecie sotto la L. n. 184 del 1983, artt. 1 e 8”.

5.1.1. La istante si duole del fatto che il giudice di secondo grado abbia fondato l’incapacità
genitoriale della madre della piccola S. – da cui ha tratto, oltre che dalla valutazione negativa della
figura paterna e dalla ritenuta mancanza di figure vicariali, il convincimento che la minore fosse in
stato di abbandono – sulla considerazione che la M. era in stato di soggezione rispetto all’ A., al quale
sarebbe stata del tutto succube. Al punto da indursi a ritirare la denuncia sporta nei confronti del
medesimo, in conseguenza dell’ultima aggressione subita il 15 luglio 2017 presso un supermercato,
in conseguenza della quale la donna aveva riportato un trauma facciale e la deviazione del setto
nasale.

5.1.2. La decisione impugnata si sarebbe, altresì, basata – ad avviso della esponente – su
considerazioni del tutto inconsistenti, sul piano motivazionale, quali la scarsa “capacità di astrazione
e di metacognizione delle proprie condotte da parte della M.”, evidenziata dal centro psicologico
“(OMISSIS)” e dal consulente tecnico di ufficio, nonchè sulle relazioni della casa famiglia dell’11
marzo e del 2 settembre 2019, dalle quali poteva desumersi esclusivamente che la medesima aveva
mostrato “difficoltà a sintonizzarsi sui bisogni della piccola S. ed a stabilire con lei un valido contatto
emotivo (…) con eccessi di intrusività senza lasciar spazio alla bambina, sottoponendola a fastidiose
e non necessarie pratiche di pulizia alle quali la piccola ha inevitabilmente cercato di sottrarsi”.

5.1.3. La Corte non avrebbe, peraltro tenuto conto delle favorevoli considerazioni contenute nella
relazione dei servizi sociali in data 22 giugno 2020, depositata nel giudizio di appello, nè del fatto
che la M. aveva cresciuto da sola altri tre figli (nati dal primo matrimonio), “tutti ragazzi studiosi e
ben educati, perfettamente integrati nel contesto sociale”.

5.1.4. Il giudice di appello avrebbe poi, del tutto genericamente, fatto riferimento ad un preteso
rifiuto della madre di essere inserita con la figlia in una struttura adeguata, erroneamente
svalutando, per contro, il percorso psicologico effettuato dalla M. presso l’ASL, poichè la donna –
secondo il c.t.u. – continuerebbe “a svalutare le condotte vessatorie subite per oltre due anni, a far
vedere la bambina al padre nonostante il divieto”.. Le conclusioni cui è pervenuta la Corte d’appello
finirebbero, in tal modo, per fondarsi – ad avviso della ricorrente – su di una sorta di sillogismo per
cui, laddove in una coppia genitoriale si riscontrino “atteggiamenti di forza da una parte e di
sottomissione dall’altra, legati a fattori culturali”, per ciò solo – e senza una approfondita indagine
su ciascuna delle figure genitoriali – il minore dovrebbe essere sottratto alla famiglia di origine e
dichiarato in stato di adottabilità, poichè in stato di abbandono.

5.1.5. Le statuizioni della sentenza impugnata – a parere della esponente – verrebbero, pertanto, a
tradursi in una violazione della L. n. 184 del 1983, artt. 1 ed 8, giacchè i fatti posti a fondamento della
pronuncia sarebbero inidonei ad essere sussunti nelle disposizioni normative succitate. In tal modo,
la sentenza impugnata concreterebbe una evidente lesione del diritto del minore a vivere nella
propria famiglia di origine, oltre che una violazione del principio – enunciato dalla giurisprudenza
di questa Corte – secondo cui lo stato di abbandono di un minore deve essere fondato su fatti gravi,
ancorati a precisi elementi fattuali, che si rivelino idonei a dimostrare un reale pregiudizio per il
figlio.

5.2. Nel terzo motivo di ricorso incidentale, I’ A. ha ribadito, a sua volta, la necessità che ogni
pronuncia in materia di stato di adottabilità del minore si ispiri al principio della salvaguardia del
prioritario diritto del minore di crescere e di essere educato nella propria famiglia di origine. Per cui,
“a fronte di rilevate situazioni di difficoltà e criticità genitoriale, il recupero della famiglia di origine
è il mezzo preferenziale per garantire la crescita equilibrata del minore, ed impegna le strutture
sociali in misure di sostegno a favore sia del minore che dei genitori”.

5.2.1. La Corte d’appello non avrebbe, per contro, esplicitato in cosa si sostanzierebbe lo stato di
abbandono di S., in realtà insussistente, nè avrebbe individuato alcun concreto pregiudizio per la
minore, in caso di reinserimento nella sua famiglia di origine. Di più, gli operatori incaricati che si
erano, a vario titolo, occupati della vicenda, le cui relazioni sarebbero state acriticamente recepite
dalla Corte, “si erano limitati a sottolineare l’opposività della coppia, (…) senza, tuttavia, mai
proporre alcun percorso di sostegno anche terapeutico volto a superare le rilevate criticità”. La
pronuncia impugnata si sarebbe, pertanto, risolta in un “giudizio apodittico”, che non avrebbe tenuto
conto dell’interesse prioritario del minore affermato anche dalla giurisprudenza Europea – di essere
allevato nella propria famiglia di origine.

5.2.2. Per quanto concerne, poi, la valutazione negativa formulata con riferimento alla figura paterna,
l’ A. deduce che – secondo quanto accertato dal Centro (OMISSIS) – l’aggressività rivelata dal
medesimo, scaturita dall’interesse delle istituzioni per il suo nucleo familiare, vissuto dal medesimo
come una forma di indebita ingerenza, costituirebbe un fenomeno “transitorio, occasionale, di scarsa
importanza e non ripetibile”.

Inoltre, tenuto conto anche della funzione rieducativa della pena, che peraltro era stata irrogata per
fatti pregressi, non andava in alcun modo sopravvalutata da parte della Corte d’appello – che, invece,
avrebbe fondato solo su di essa il giudizio negativo sulla capacità genitoriale dell’ A. – la condanna
del ricorrente “in via definitiva, a seguito del patteggiamento in appello, per il reato di
maltrattamenti in famiglia”, senza “alcun approfondimento in riferimento alla situazione presente”,
e senza tenere conto del fatto che “alcuna violenza era mai stata rivolta nei confronti della bambina”.

5.2.3. Nè, d’altro canto, l’istante sarebbe stato mai avviato, neppure in primo grado, verso alcun
percorso terapeutico. Ciò nondimeno, il medesimo avrebbe, di propria iniziativa, intrapreso un
percorso privato per cercare di porre rimedio alla sua aggressività, senza che, peraltro, di tale
circostanza abbiano tenuto conto nè il Tribunale nè la Corte d’appello.

5.3. Il terzo e quarto motivo di ricorso principale ed il terzo motivo di ricorso incidentale,
limitatamente alla contestata sussistenza di uno stato di abbandono della minore, sono fondati.

5.3.1. Sul piano normativo, invero, le disposizioni della L. n. 184 del 1983, artt. 1 e 8, esprimono
l’esigenza che l’adozione del minore, recidendo ogni legame con la famiglia di origine, costituisca
una misura eccezionale (una “extrema ratio”) cui è possibile ricorrere, non già per consentirgli di
essere accolto in un contesto più favorevole, così sottraendolo alle cure dei suoi genitori biologici,
ma solo quando si siano dimostrate impraticabili le altre misure, positive e negative, anche di
carattere assistenziale, volte a favorire il ricongiungimento con i genitori biologici, ai fini della tutela
del superiore interesse del figlio. Il ricorso alla dichiarazione di adottabilità di un figlio minore è
consentito, pertanto, solo in presenza di “fatti gravi”, indicativi, in modo certo, dello stato di
abbandono, morale e materiale, che devono essere “specificamente dimostrati in concreto”, senza
possibilità di dare ingresso a giudizi sommari di incapacità genitoriale, seppure espressi da esperti
della materia, non basati su “precisi elementi fattuali”, idonei a dimostrare un reale pregiudizio per
il figlio e di cui il giudice di merito deve dare conto.

Ai fini dell’accertamento dello stato di abbandono quale presupposto della dichiarazione di
adottabilità, non basta, pertanto, che risultino insufficienze o malattie mentali, anche permanenti, o
comportamenti patologici dei genitori, essendo necessario accertare la capacità genitoriale in
concreto di ciascuno di loro, a tal fine verificando l’esistenza di comportamenti pregiudizievoli per
la crescita equilibrata e serena dei figli e tenendo conto della positiva volontà dei genitori di recupero
del rapporto con essi (Cass. 14/04/2016, n. 7391).

5.3.2. Lo stato di abbandono che giustifica la dichiarazione di adottabilità ricorre, quindi, nelle sole
ipotesi nelle quali entrambi i genitori non siano in grado di assicurare al minore quel minimo di cure
materiali, calore affettivo, aiuto psicologico indispensabili per lo sviluppo e la formazione della sua
personalità e la situazione non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio, tale essendo
quella inidonea per la sua durata a pregiudicare il corretto sviluppo psicofisico del minore (Cass.,
28/03/2002, n. 4503; Cass., 28/04/2008, n. 10809; Cass., 21/06/2018, n. 16357; Cass., 23/04/2019, n.
11171). Il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine, considerata
l’ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è – per vero – espressamente tutelato
dalla L. n. 184 del 1983, art. 1. Ne consegue che il giudice di merito deve, prioritariamente, tentare
un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare e, solo
quando, a seguito del fallimento del tentativo, risulti impossibile prevedere il recupero delle capacità
genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto
familiare, è legittima la dichiarazione dello stato di adottabilità (Cass., 27/09/2017, n. 22589; Cass.,
26/03/2015, n. 6137).

5.3.3. La normativa Europea, del resto, fornisce indicazioni molto chiare in tal senso. L’art. 7 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (“Rispetto della vita privata e della vita
familiare”) stabilisce che “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare
(…)”. Del pari, l’art. 8 della CEDU (“Diritto al rispetto della vita privata e familiare”) dispone che
“ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (…)”. Ed, al riguardo, la
giurisprudenza sovranazionale si è espressa nel senso che l’accertamento giudiziale in ordine alla
capacità genitoriale deve tendere a risultati quanto più possibile “certi” in ordine all’eventuale
incapacità dei genitori, nell’interesse superiore del minore a vivere nella famiglia di origine. Si è
affermato, altresì, che gli Stati membri devono attivare ogni loro risorsa per consentire al minore di
vivere preferibilmente nella sua famiglia di origine (Corte EDU, 17/04/2021, A.I. c. Italia; Corte EDU,
12/08/2020, E.C. c. Italia; Corte EDU, 10/09/2019, Strand Lobben e altri c. Norvegia; Corte EDU, 21
gennaio 2014, Zhou c/Italia; Corte EDU, 13 ottobre 2015, S. H. c/Italia).

5.3.4.. Nella prospettiva della conservazione dei rapporti con la famiglia di origine, si pone altresì
quel recente indirizzo di legittimità, secondo cui il giudice chiamato a decidere sulla dichiarazione
di adottabilità del minore in stato di abbandono, in applicazione dell’art. 8 CEDU, art. 30 Cost., L. n.
184 del 1983, art. 1, e art. 315 bis c.c., comma 2, deve accertare l’interesse del medesimo a conservare
il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali, costituendo
l’adozione legittimante una “extrema ratio”, cui può pervenirsi nel solo caso in cui non si ravvisi tale
interesse. In questo contesto il modello di adozione in casi particolari di cui alla L. n. 184 del 1983,
art. 44, lett. d), può, ricorrendone i presupposti, costituire una forma di cd. “adozione mite”, idonea
a non recidere del tutto, nell’interesse del minore, il rapporto tra quest’ultimo e la famiglia di origine
(Cass., 25/01/2021, n. 1476; Cass., 13/02/2020, n. 3643).

5.3.5. Ed inoltre, nella medesima prospettiva si inseriscono quelle pronunce che affermano il
medesimo principio, della non disgregazione della famiglia di origine, anche in tema di
immigrazione, ribadendo la sussistenza di un diritto all’unità familiare, secondo la norma
d’indirizzo generale di cui all’art. 3 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti
del fanciullo (ratificata dalla L. n. 176 del 1991, e richiamata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 28),
secondo cui “l’interesse del fanciullo deve essere una considerazione preminente”. Tale disposizione
prescrive, altresì, che gli Stati vigilino affinchè il minore non sia separato dai propri genitori biologici
(Cass., 21/10/2019, n. 26831; Cass., 19/02/2008, n. 4197). Sempre in materia di immigrazione, si è –
dipoi – affermato che il giudice è tenuto a verificare l’esistenza del diritto del cittadino straniero al
ricongiungimento familiare anche nel procedimento di convalida del decreto di accompagnamento
alla frontiera, trattandosi di evenienza potenzialmente ostativa all’esecuzione del provvedimento di
espulsione (Cass., 23/11/2020, n. 26563).

5.3.6. Tale essendo il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, non può revocarsi in
dubbio che, in relazione alle due figure genitoriali, debba pervenirsi ad opposte soluzioni. D’altro
canto, è evidente che la capacità a svolgere il ruolo del genitore non necessariamente sussiste, ed è
riscontrabile, in entrambe le figure genitoriali.

5.3.7. Sotto tale profilo, i due motivi di ricorso della madre devono essere accolti, sia sotto il
menzionato profilo della violazione di legge (L. n. 184 del 1983, artt. 1 e 8), sia sotto il profilo del
vizio di motivazione. Al riguardo, va precisato che, in tema di ricorso per cassazione, la deduzione
del vizio di violazione di legge non determina, per ciò stesso, lo scrutinio della questione
astrattamente evidenziata, sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito
giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, occorrendo che l’accertamento fattuale,
derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal
ricorrente (Cass. Sez. U., 12/11/2020, n. 25573).

5.3.7.1. Nel caso concreto, il substrato fattuale della vicenda quale ricostruito dal giudice di merito –
legittima l’accoglimento del ricorso principale sotto entrambi i profili (vizio di motivazione e
violazione di legge). Come si è, invero, dianzi precisato, l’incapacità a svolgere il ruolo genitoriale
va desunta da fatti gravi, accertati in concreto, prescindendo da insufficienze, debolezze e patologie,
anche a carattere tendenzialmente duraturo ed anche se accertate con l’ausilio di esperti, laddove
non si manifestino in gesti o atti specifici idonei a disvelare l’incapacità del genitore a porsi come
riferimento affettivo ed educativo del minore.

5.3.7.2. Nella vicenda processuale in esame, per contro, la sentenza impugnata non contiene
menzione alcuna di comportamenti della madre – in ipotesi – pregiudizievoli per la piccola S., fatta
eccezione per trascurabili forme di insicurezza, emotività, comportamenti “infantili”, tradottisi in
difficoltà a sintonizzarsi pienamente sui bisogni della piccola. I passi della c.t.u. citati nella sentenza
si limitano, infatti, ad evidenziare che “la capacità di astrazione e metacognizione delle proprie
condotte da parte della M. è scarsa anche a causa di un livello cognitivo appena sufficiente”. Ebbene,
sulla base di tale laconica – ed alquanto criptica – conclusione, sulla considerazione di atteggiamenti
tutt’altro che pregiudizievoli per la minore (il farla giocare ed il lavarla spesso), e sul parere, peraltro
espresso in forma ipotetica mediante l’uso del condizionale “(n.d.r. i percorsi di recupero) potrebbero
portare a cambiamenti non rapidi, in quanto percorsi non finalizzati alla cura di un sintomo ma ad
una crescita retrospettiva” e pressochè apodittica, del c.t.u. la Corte territoriale ha concluso per
l’inesistenza dell’incapacità genitoriale della madre.

5.3.7.3. Per converso, manca del tutto un approfondimento in ordine al sostegno realmente offerto
dai Servizi Sociali alla donna, per consentirle un miglioramento della propria attitudine
all’accudimento ed alla crescita della minore, al di là della apodittica ed aspecifica affermazione delle
assistenti sociali, riportata dalla Corte d’appello, di avere offerto alla medesima “una struttura
madre-bambina”, e che la madre avrebbe “rifiutato tutto”. Laddove si tenga conto, poi, del fatto che
l’adozione è “l’extrema ratio”, e che lo Stato – in forza della normativa e della giurisprudenza Europea
succitate – deve fare il possibile per salvaguardare il diritto del minore alla propria famiglia d’origine,
e ove si consideri che la M. è stata ritenuta capace di allevare tre figli da sola, non essendo stati i
medesimi mai dichiarati adottabili, emerge con chiarezza la totale carenza dell’impianto
motivazionale della sentenza impugnata ed il malgoverno delle norme nazionali ed Europee posto
in essere dalla Corte territoriale.

Ed invero, il substrato fattuale della vicenda in esame, quale accertato dalla sentenza impugnata,
non consente di ritenere che la vicenda stessa sia correttamente sussumibile nelle disposizioni della
L. n. 184 del 1983, artt. 1 ed 8, sullo stato di abbandono del minore, presupposto essenziale per la
dichiarazione di adottabilità (art. 15 della stessa legge).

5.3.7.4. Ma vi è di più. La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla
violenza contro le donne e la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul, dell’11
maggio 2011, all’art. 18, stabilisce che gli Stati firmatari si impegnano ad “evitare la vittimizzazione
secondaria”. Essa consiste nel far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima
di un reato, ed è spesso riconducibile alle procedure delle istituzioni susseguenti ad una denuncia,
o comunque all’apertura di un procedimento giurisdizionale. La vittimizzazione secondaria è una
conseguenza spesso sottovalutata proprio nei casi in cui le donne sono vittima di reati di genere, e
l’effetto principale è quello di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della vittima
stessa.

5.3.7.5. Orbene, non è revocabile in dubbio che la procedura di adozione aperta nei confronti
dell’ultima figlia della M. possa, in concreto, tradursi in una forma di “vittimizzazione secondaria”,
in violazione della disposizione internazionale succitata. Il rilievo -in aggiunta a quanto in
precedenza osservato circa la mancanza di fatti specifici rivelatori di una incapacità genitoriale della
donna -assume un rilievo pregnante ai fini della valutazione della non correttezza giuridico-fattuale
della decisione impugnata.

La sentenza della Corte d’appello si fonda, invero, in buona parte sulla “dipendenza” e sulla
“sudditanza” che la M. avrebbe rivelato nei confronti del marito, il quale ha sottoposto la medesima
a violenze e vessazioni continue nel corso della vita coniugale. Tanto da essere stato condannato –
come la stessa pronuncia di appello riferisce – “in via definitiva (…) per il reato di maltrattamenti in
famiglia”, anche in danno dei figli di lei, chiamati ripetutamente “bastardi”, e per “lesioni aggravate”
in danno della donna. Basti considerare gli episodi del 2 giugno e 15 luglio 2017, nell’ultimo dei quali
la medesima riportò un trauma facciale e la deviazione del setto nasale. Ed alla odierna ricorrente è
stato, altresì, addebitato, dalla Corte d’appello, di avere ritirato la denuncia sporta nei confronti del
marito, nell’evidente timore di ulteriori ritorsioni.

5.3.7.6. Ebbene, è di tutta evidenza che una pronuncia di stato di abbandono di una minore non può
essere in alcun caso fondata sullo stato di sudditanza e di assoggettamento in cui vive la madre, per
effetto delle reiterate e gravi violenze subite dal proprio partner. A tanto osta tutta la normativa
sovranazionale succitata che, per effetto del novellato testo dell’art. 117 Cost., comma 1, costituisce
il parametro di legittimità, non soltanto delle decisioni giudiziarie nazionali, ma prima ancora della
normativa nazionale e regionale.

5.3.7.7. D’altro canto, è la stessa Corte d’appello ad evidenziare “l’assoluta incapacità del sig. A. di
offrire alcun valido progetto di vita alla figlia, essendo del tutto privo di capacità empatica, al
contrario prospettandosi in tutta evidenza il suo fermo convincimento di poter imporre a tutti i
membri del nucleo familiare un clima sostenuto dall’intimidazione e inevitabilmente volto
all’annullamento della loro individualità per l’affermazione esclusiva delle sue opinioni e dei suoi
desideri”. E tuttavia, la medesima Corte, non solo non ha in alcun modo tenuto conto di tale
accertamento in fatto dalla stessa operato sulla personalità violenta e prevaricatrice dell’ A., ma ha
addirittura imputato alla M. il fatto di essere in stato di soggezione rispetto al marito, e di avere, per
paura, ritirato la denuncia nei suoi confronti, al punto da fondare anche – e soprattutto – su tali
circostanze la presunta inidoneità della madre a svolgere il ruolo genitoriale.

5.3.7.8. Nella opposta prospettiva della necessità di considerazione nel processdlà situazione in cui
si trova la vittima di, violenze, si è, per contro, posta la giurisprudenza di queste Sezioni Unite,
laddove si è affermato che “da tempo è in atto un fenomeno di emersione e di nuova considerazione
della posizione della persona offesa, negli strumenti internazionali generalmente indicata come
“vittima” all’interno del processo penale, fenomeno sollecitato, da un lato, dall’allarme sociale
provocato dalle varie forme di criminalità violenta via via emergenti (terrorismo, tratta di essere
umani, sfruttamento di minori, violenza contro le donne in cui spesso il reato si consuma in contesti
dove preesistono legami tra la vittima e il suo aggressore), dall’altro, dagli strumenti internazionali
esistenti in materia. L’interesse per la tutela della vittima costituisce da epoca risalente tratto
caratteristico dell’attività delle organizzazioni sovranazionali sia a carattere universale, come l’ONU,
sia a carattere regionale, come il Consiglio d’Europa e l’Unione Europea, e gli strumenti in tali sedi
elaborati svolgono un importante ruolo di sollecitazione e cogenza nei confronti dei legislatori
nazionali tenuti a darvi attuazione” (Cass. Sez. U., 29/91/2016, n. 10959).

5.3.7.9. Alla stregua di tutte le considerazioni suesposte, il terzo e quarto motivo di ricorso principale
ed il terzo motivo di ricorso incidentale, nei limiti dell’affermazione del diritto della minore a vivere
nella famiglia di origine ed alla assenza di un suo stato di abbandono, vanno, pertanto, accolti.

5.4. A diversa conclusione deve, per contro, pervenirsi per il terzo motivo del ricorso incidentale,
nella parte in cui fa valere la presunta capacità genitoriale del padre.

5.4.1. La Corte territoriale ha, invero, con ampia e convincente motivazione – fondata anche sulle
risultanze della c.t.u. evidenziato la avvenuta condanna dell’ A. per gravi reati, la violazione dei
divieto – imposto dal Tribunale per i minorenni – di incontrarsi con la figlia, il menzionato
comportamento violento e prevaricatore dal medesimo tenuto nei confronti della moglie e dei di lei
figli, il rifiuto della stessa bambina di incontrare il padre, il rifiuto di quest’ultimo di intraprendere
un percorso di ravvedimento.

5.4.2. La censura sul punto non merita, pertanto, accoglimento.

6. Dall’accoglimento dei suindicati motivi del ricorso principale e del ricorso incidentale restano
assorbiti gli altri motivi del ricorso incidentale, dovendo demandarsi al giudice di rinvio di
rimodulare, alla luce dei principi esposti, il procedimento, provvedendo all’audizione degli
eventuali affidatari, e valutando anche eventuali figure vicariali, come la sorella maggiorenne della
piccola S. (Cass.,16/02/2018, n. 3915).

7. L’accoglimento del terzo e quarto motivo del ricorso principale e del terzo motivo del ricorso
incidentale, nei limiti suindicati, comporta la cassazione dell’impugnata sentenza, con rinvio alla
Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che dovrà procedere a nuovo esame della vicenda
processuale, facendo applicazione dei seguenti principi di diritto:
“il ricorso alla dichiarazione di adottabilità di un figlio minore, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art.
15, è consentito solo in presenza di fatti gravi, indicativi, in modo certo, dello stato di abbandono,
morale e materiale, a norma dell’art. 8 della stessa legge, che devono essere specificamente
dimostrati in concreto, e dei quali il giudice di merito deve dare conto nella decisione, senza
possibilità di dare ingresso a giudizi sommari di incapacità genitoriale, seppure formulati da esperti
della materia, non basati su precisi elementi fattuali”; “in forza della normativa espressa dall’art. 7
della Carta di Nizza, art. 8 della CEDU e art. 18 della Convenzione di Istanbul, e delle pronunce
della Corte EDU in materia, una pronuncia di stato di abbandono di un minore, ai sensi della L. n.
184 del 1983, art. 8, non può essere in alcun caso fondata sullo stato di sudditanza e di
assoggettamento fisico e psicologico in cui versi uno dei genitori, per effetto delle reiterate e gravi
violenze subite dall’altro”.
8. Il giudice di rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, accoglie il terzo e quarto motivo del ricorso
principale ed il terzo motivo del ricorso incidentale, nei limiti di cui in motivazione; rigetta il secondo
motivo del ricorso principale, assorbito il primo; dichiara assorbiti tutti gli altri motivi del ricorso
incidentale; cassa l’impugnata sentenza con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa
composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Dispone, ai
sensi del D. Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, che in caso di diffusione della presente sentenza si omettano
le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.