Maltrattamenti in famiglia e percosse: quando non sussiste il difetto di correlazione tra accusa

Cass. Pen., Sez. V, Sent., 13 agosto 2021, n. 31665;

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SABEONE Gerardo – Presidente – Dott. SCARLINI Enrico V. S. – Consigliere – Dott. CALASELICE Barbara – Consigliere – Dott. BORRELLI Paola – Consigliere – Dott. BRANCACCIO Matilde – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da: M.A.D., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 12/09/2018 della CORTE APPELLO di LECCE; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MATILDE BIRANCACCIO; udito il Sostituto Procuratore Generale Dr. LOCATELLI GIUSEPPE che ha concluso chiedendo
l’inammissibilità del ricorso; udito il difensore di parte civile, l’avv. M., che si associa alle conclusioni del PG e deposita
conclusioni e nota spese; udito, altresì, l’avv. G., in difesa dell’imputato, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con la decisione in epigrafe, la Corte d’Appello di Lecce ha confermato la sentenza del Tribunale
di Lecce del 1.12.2016, con cui M.A. è stato condannato, in relazione a due episodi di percosse nei
confronti della moglie R.F.M., alla pena di quattro mesi di reclusione, pena sospesa
condizionalmente, subordinandola al risarcimento dei danni in favore della parte civile nel termine di
60 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza; risarcimento danni cui pure l’imputato è stato
condannato, nella misura di 3000 Euro oltre accessori di legge.
L’imputazione di percosse continuate è stata ritenuta, sin dalla sentenza di primo grado, contestata “in
fatto”, all’interno del capo riferito al reato di maltrattamenti in famiglia, delitto dal quale, invece,
l’imputato è stato assolto, così come si è dichiarato con detta pronuncia il non doversi procedere nei
confronti dell’imputato quanto al reato di lesioni perchè, esclusa l’aggravante di cui all’art. 585 c.p.,
l’azione penale non poteva essere iniziata per tardività della querela. Il ricorrente avrebbe percosso la moglie, sbattendole contro, volontariamente e di proposito, l’uscio
della porta della stanza di casa (la mansarda) dove egli si trovava, al momento dell’apertura. 2. Ha proposto ricorso l’imputato, tramite il difensore avv. R., deducendo due motivi di censura. 2.1. Il primo argomento eccepito si duole della violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., per difetto di
correlazione tra accusa e sentenza, nonchè del vizio di motivazione manifestamente illogica,
riproponendo le ragioni già formulate nell’analogo motivo d’appello e lamentando come il giudice di
secondo grado abbia omesso di rilevare la nullità della sentenza e di disporre la trasmissione degli
atti al pubblico ministero. Il ricorrente, in sintesi, ritiene del tutto fuori fuoco ipotizzare – come invece hanno fatto i giudici di
merito – che nella contestazione del reato di cui all’art. 572 c.p., in relazione alla quale vi è stata
assoluzione in primo grado, si possano ritrovare gli elementi di fatto per potersi sostenere la
sostanziale imputazione nei suoi confronti per i reati di percosse continuate: mancano la descrizione
materiale delle condotte, nonchè l’indicazione del luogo e la collocazione temporale degli episodi in
relazione ai quali vi è stata condanna; nè si può sostenere che sia sufficiente a garantire il diritto di
difendersi compiutamente in relazione ad un’imputazione di reato ai sensi dell’art. 581 c.p.). il
generico inciso contenuto nel capo A alle “diverse occasioni” in cui il ricorrente avrebbe “picchiato”
la moglie. Vi sarebbe, dunque, rapporto di eterogeneità tra imputazione e reato ritenuto in sentenza (si cita Sez.
6, n. 54457 del 2016) e l’imputato non ha avuto modo di difendersi adeguatamente in seguito alla
riqualificazione del fatto, nè gli è stato consentito di chiedere, eventualmente, di essere ammesso
all’istituto della messa alla prova previsto dall’art. 168-bis c.p. 2.2. Il secondo motivo di censura eccepisce violazione di legge in relazione agli artt. 192, 530 e 533
c.p.p., nonchè all’art. 581 c.p. ed inoltre vizio di manifesta illogicità della motivazione quanto
all’affermazione di responsabilità del ricorrente, fondata su una valutazione di attendibilità della
persona offesa che si contesta in radice e sulla presenza di riscontri alle dichiarazioni di costei,
riscontri che invece sarebbero inesistenti. Il ricorso analizza la prova dichiarativa nel dettaglio, riportandone brani parziali, e deduce
travisamento di essa, quanto meno nella mancata considerazione di alcune testimonianze favorevoli,
volte a sostenere l’instabilità psichica della persona offesa (quella dell’assistente sociale P.) ovvero a
negare che il ricorrente abbia mai usato violenza contro la moglie (si fa riferimento alle dichiarazioni
del figlio della coppia M.- R.). Infine, si contesta anche la configurabilità del reato di percosse dal punto di vista della condotta
oggettiva e soggettiva, avuto riguardo ai due episodi enucleati dai giudici di merito e riferiti
all’aggressione del ricorrente, consistita nell’apertura violenta della porta della mansarda di casa ove
egli si trovava, facendola sbattere appositamente contro la persona offesa che attendeva dietro di essa. Mancherebbe la volontarietà dell’azione del percuotere e tutto sarebbe sorto da mera accidentalità. 2.3. Il terzo motivo di ricorso eccepisce vizio di motivazione quanto al diniego delle circostanze
attenuanti generiche, fondato sulla gravità del reato commesso, elemento valutativo già impiegato ai
fini della commisurazione della sanzione e, quindi, utilizzato due volte illegittimamente (in
violazione, si sostiene, del ne bis in idem). 3. Il Sostituto Procuratore Generale Dr. Giuseppe Locatelli ha chiesto, con requisitoria scritta,
l’inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è complessivamente infondato e deve essere, pertanto, rigettato.
2. Il primo motivo propone una questione in astratto meritevole di attenzione ma priva di pregio nella
fattispecie in esame. In generale, occorre analizzare l’eccezione difensiva sulle basi logico-giuridiche tracciate dalle
Sezioni Unite nella sentenza Sez. U, n. 36551 del 15/7/2010, Carelli, Rv. 248051, con la quale è stato
chiarito come, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento
del fatto, occorra una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta
nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza
sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa. Le Sezioni Unite hanno, altresì, indicato parametri sostanzialistici per l’indagine volta ad accertare la
violazione del principio suddetto, che non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente
letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la
violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a
trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione. Non rileva, pertanto, il mutamento che riguardi profili marginali, non essenziali per l’integrazione del
reato e sui quali l’imputato abbia avuto modo di difendersi nel corso del processo (Sez. 2, n. 17565
del 15/3/2017, Beretti, Rv. 269569). Da un punto di vista della verifica di compatibilità convenzionale del principio di correlazione tra
accusa e sentenza, la giurisprudenza di legittimità ha poi segnalato che la diversa qualificazione del
fatto effettuata dal giudice di appello non determina alcuna compressione o limitazione del diritto al
contraddittorio, anche alla luce dei criteri stabiliti dalla Corte EDU con la sentenza Drassich c. Italia
del 11 dicembre 2007, essendo consentito all’imputato di contestarla nel merito con il ricorso per
cassazione e tenuto conto della prevedibilità del mutamento e dell’attuazione del contraddittorio (cfr.,
tra le molte, Sez. 6, n. 422 del 19/11/2019, dep. 2020, Petittoni, Rv. 278093). Orbene, al di là dell’evidente omogeneità tra la contestazione concreta di atti persecutori e il delitto
di percosse ritenuto in sentenza, che della prima è stato ritenuto una componente essenziale, deve
essere evidenziato, in generale, come le percosse siano ritenute da sempre una delle possibili modalità
di manifestazione dei maltrattamenti, normalmente realizzate dall’autore delle vessazioni familiari
abituali insieme ad altre condotte, anch’esse configurabili come reati autonomi, fatta salva
l’unificazione logico-giuridica nell’epifenomenologia delittuosa sanzionata complessivamente
dall’art. 572 c.p., (cfr. Sez. 6, n. 6126 del 9/10/2018, dep. 2019, C., Rv. 275033, in cui la Corte
scompone il reato unico di maltrattamenti in singoli episodi sporadici di percosse, minacce e ingiurie,
qualora questi ultimi non siano idonei a costituire una persistente azione vessatoria; Sez. 1, n. 8618
del 12/2/1996, Adamo, Rv. 205754; cfr. altresì Sez. 6, n. 44700 del 8/10/2013, P., Rv. 256962). Più esplicitamente si è affermato, per quel che rileva in questa sede, che il reato di maltrattamenti in
famiglia assorbe i delitti di percosse e minacce, anche gravi (ma non quello di lesioni, attesa la diversa
obiettività giuridica dei reati: Sez. 6, n. 13898 del 28/3/2012, S., Rv. 252585; Sez. 2, n. 15571 del
13/12/2012, dep. 2013, Di Blasi, Rv. 255780; Sez. 1, n. 7043 del 9/11/2005, dep. 2006, Taheri, Rv.
234047). L’assorbimento dei delitti di percosse e minacce è condizionato, peraltro, al fatto che tali
comportamenti siano stati contestati come finalizzati al maltrattamento, poichè essi, a queste
condizioni, costituiscono elementi essenziali della violenza fisica o morale propria della fattispecie
prevista dall’art. 572 c.p., (Sez. 6, n. 33091 del 19/6/2003, Jardas, Rv. 226443). Deve, pertanto, ritenersi che correttamente, nel caso di specie, le percosse non erano state inizialmente
contestate in via autonoma, in quanto ricomprese nello schema legale del reato necessariamente
abituale di maltrattamenti che le assorbiva; successivamente, risolta con un’assoluzione la questione
della sussistenza o meno del delitto previsto dall’art. 572 c.p., si sono riespanse le possibilità di
configurare la fattispecie di percosse, ritenendone i presupposti. L’eccezione difensiva, alla luce di quanto sin qui esposto, non può trovare accoglimento. Già il
giudice d’appello – cui l’imputato ha formulato analoga censura, essendo stata operata la
riqualificazione giuridica con la sentenza di primo grado – ha correttamente ritenuto che la
contestazione per il reato di maltrattamenti inglobasse in sè quella, in fatto, degli episodi singoli di
percosse commessi dal ricorrente ai danni della moglie, sicchè, una volta esclusa la fattispecie di reato
prevista dall’art. 572 c.p., si è nuovamente svelata l’autonomia di singole componenti di condotta
prima assorbite dalla figura di reato complesso. Più precisamente, la sentenza impugnata dà atto di come, nell’originario capo d’imputazione, la
descrizione della condotta di maltrattamenti faccia specifico riferimento alle percosse poste in essere
dall’imputato nei confronti della moglie in diverse circostanze, delineando il periodo temporale in cui
dette percosse sono state ricomprese (fra il 10.4.2014, data in cui alla persona offesa venivano
diagnosticate anche lesioni, egualmente inserite nella contestazione delittuosa, ed il mese di giugno
2015, giorno sino al quale si sarebbero protratti i maltrattamenti). Anche l’istruttoria dibattimentale, per quanto espressamente chiarito dal provvedimento di secondo
grado, ha fatto richiamo, in maniera esplicita, agli episodi di percosse, oggetto della prova dichiarativa
costituita dall’esame di alcuni testimoni, nonchè di quella documentale, con rilievi fotografici
acquisiti in atti. Dunque, appare evidente la coerenza della contestazione di reato in relazione alla quale è intervenuta
condanna nel merito con il principio di correlazione dettato dall’art. 521 c.p.p.: le percosse hanno
costituito parte integrante dell’imputazione formale e sono state al centro dell’istruttoria
dibattimentale, in tal modo consentendo all’imputato una piena conoscenza delle accuse per le quali
è intervenuta condanna e il dispiegarsi completo del suo diritto di difesa. Deve affermarsi, pertanto, che non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e
sentenza nell’ipotesi in cui il giudice di merito assolva l’imputato dall’iniziale contestazione di
maltrattamenti, nella quale erano chiaramente ricomprese alcune condotte di percosse, e lo condanni
per queste ultime, in continuazione, ritenendone sussistenti i presupposti di configurabilità; tenuto
conto, altresì, del fatto che le percosse, ove realizzatesi, costituiscono elementi essenziali della
violenza fisica o morale propria della fattispecie prevista dall’art. 572 c.p. 2.1. Quanto all’eccezione relativa alla mancata accessibilità del ricorrente all’istituto di diversion della
messa alla prova, deve essere rilevata la sua genericità e, dunque, la sua inammissibilità. Il ricorrente non spiega di averla formulata con l’atto di appello, nè deduce tantomeno di aver proposto
una riqualificazione, in primo grado, che consentisse di superare l’ostatività del reato inizialmente
contestato, contemporaneamente facendo istanza di ammissione all’istituto di definizione alternativa
del processo previsto dall’art. 168-bis c.p.; sicchè, per quanto consta, l’eccezione viene formulata per
la prima volta dinanzi alla Corte di cassazione. Orbene, a prescindere dalla constatazione della arielasticità della previsione dell’art. 464 bis c.p.p.,
che non consente la richiesta della messa alla prova in un momento successivo all’apertura del
dibattimento, coerentemente all’impostazione codicistica per cui tutti i riti alternativi devono
prevedere termini Ultimi per richiederli (con la possibilità, eventualmente, di ottenere il beneficio
offerto all’imputato in determinati casi in cui la mancata ammissione al rito risulti ingiustificata, giusta
previsione espressa di legge), nel caso di specie, il Collegio ribadisce il condivisibile principio,
recentemente affermato, secondo cui il riconoscimento della diversa qualificazione giuridica del fatto
in dibattimento non legittima l’imputato a proporre tardivamente la richiesta di messa alla prova, in
quanto l’inesatta contestazione del reato non preclude l’accesso al rito speciale, giacchè la messa alla
prova ben può essere avanzata deducendosi l’erronea qualificazione giuridica del fatto (Sez. 6, n.
19673 del 8/4/2021, Amico, Rv. 281161). Ed invero, il giudice, riqualificando l’originaria contestazione ai sensi dell’art. 521 c.p.p., in una
fattispecie rientrante nei limiti edittali di cui all’art. 168-bis c.p., può sospendere il giudizio, con
messa alla prova dell’imputato, solo se questi abbia sollecitato la riqualificazione del fatto e
contestualmente richiesto il beneficio che, pertanto, non può essere concesso d’ufficio (Sez. 3, n. 8982
del 15/12/2019, dep. 2020, Bahir, Rv. 278402). Qualora l’imputato sia stato diligente, dunque, e si sia prefigurato un diverso, più favorevole esito
della contestazione delittuosa mossagli, investendo il giudice della questione sulla corretta
qualificazione giuridica della sua condotta, può essere ammesso al beneficio, alla luce delle modifiche
dell’imputazione che successivamente intervengano nel corso del processo (cfr. la sentenza n. 131 del
2019 in tema di giudizio abbreviato). L’impostazione adottata, come osservato anche dalla sentenza
n. 8982 del 2020 cit., è coerente con le direttrici ermeneutiche tracciate dalle Sezioni Unite in una
pronuncia afferente all’istituto dell’oblazione, che si rivela per molti aspetti affine a quello della messa
alla prova, in ragione dell’effetto estintivo del reato che ne può derivare. Ed infatti, Sez. U, n. 32351 del 26/6/2014, Tamborrino, Rv. 259925 ha stabilito che, nel caso in cui è
contestato un reato per il quale non è consentita l’oblazione ordinaria di cui all’art. 162 c.p. nè quella
speciale prevista dall’art. 162-bis c.p. l’imputato, qualora ritenga che il fatto possa essere
diversamente qualificato in un reato che ammetta l’oblazione, ha l’onere di sollecitare il giudice alla
riqualificazione del fatto e, contestualmente, a formulare istanza di oblazione; con la conseguenza
che, in mancanza di tale espressa richiesta, il diritto a fruire dell’oblazione stessa resta precluso ove
il giudice provveda di ufficio ex art. 521 c.p.p., con la sentenza che definisce il giudizio, ad assegnare
al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe l’applicazione del beneficio. In motivazione, le Sezioni Unite hanno rimarcato la sostanziale differenza che corre tra il caso in cui
il pubblico ministero proceda a modificare la contestazione ex artt. 516 e ss. c.p.p., che pertanto
l’imputato “subisce” e dalla quale sorge il diritto ad essere “restituito nel termine” per l’esercizio del
diritto di chiedere l’oblazione in rapporto alla imputazione modificata, e quello in cui il mutamento
non coinvolga il fatto oggetto del giudizio, ma semplicemente la sua qualificazione giuridica (come
nel caso in esame); tale ultimo profilo, infatti, non è “patrimonio” del pubblico ministero, ma tema di
diritto, sul quale le parti – e il giudice – sono chiamati a misurarsi, nell’ambito e nel quadro di una
prospettiva eminentemente dialettica. La sentenza del supremo collegio ha sottolineato come non venga richiesto all’imputato di
“antevedere” le possibili scelte del giudice in ordine ad una eventuale riqualificazione del fatto, ma
di esercitare il proprio diritto ad una qualificazione giuridica corretta, con le conseguenze che da ciò
possono derivare proprio sul terreno della oblabilità del reato. Le medesime considerazioni possono
essere utilizzate per fondare la regola di principio enunciata dal Collegio in materia di “messa alla
prova”. 3. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato e svolto, nella gran parte, in fatto, secondo
linee di censura non consentite nel giudizio di legittimità. I giudici di merito hanno ricostruito i fatti con compiutezza, dedicando la giusta attenzione alla
verifica di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa e confrontando queste ultime con la
prova dichiarativa ulteriore, molteplice e qualificata. Il tentativo del ricorrente di ridiscuterne gli esiti
in sede di legittimità, peraltro proponendo una sua parziale lettura dei risultati probatori
dibattimentali, parcellizzandoli e prospettandoli solo nella porzione di interesse, non può che essere
ritenuto estraneo al sindacato della Corte di cassazione. Inoltre, il ricorso propone censure aspecifiche che non tengono conto delle motivazioni delle due
sentenze di merito, le quali si saldano tra loro secondo lo schema giustificativo della “doppia
pronuncia conforme”, che pone limiti alla ricorribilità in cassazione deducendo il vizio di
travisamento della prova, come pure propone il ricorrente. Come noto, infatti, in tema di ricorso per cassazione, ai fini della deducibilità del vizio di
“travisamento della prova” – che si risolve nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nella
omessa valutazione della prova esistente agli atti – è necessario che il ricorrente prospetti la decisività
del travisamento o dell’omissione nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica (cfr.,
per tutte, Sez. 6, n. 36512 del 16/10/2020, Villari, Rv. 280117); cosa che non è avvenuta nel caso di
specie. 3.1. Quanto alla questione della configurabilità, dal punto di vista oggettivo, del reato di percosse, in
una fattispecie come quella in esame, da un lato, non può essere ammesso il piano di confronto che,
ancora una volta, si propone di rivalutare nel merito il tessuto di prova, per condurre il Collegio a
ritenere l’accidentalità della condotta con cui il ricorrente ha colpito la moglie, scagliandole contro
l’anta della porta al momento della repentina, ed invece volontaria, apertura violenta. Dall’altro, non vi è dubbio che anche la manomissione violenta della vittima attuata con la
“mediazione” di un oggetto può integrare il reato di percosse (e con ciò si intende rispondere alle
osservazioni difensive formulate in udienza nel corso della discussione). Tale fattispecie, invero, si
configura, secondo il senso anche del lessico comune, quando l’agente “percuota”, e cioè batta, picchi,
colpisca o violentemente comunque manometta l’altrui persona fisica con un pugno, uno schiaffo, un
urto o una spinta, pur quando l’azione venga compiuta con un oggetto contundente (cfr. Sez. 1, n.
9286 del 1/4/1980, Casani, Rv. 145924, che ha fatto l’esempio della “bastonata”, idonea ad integrare
il reato di cui all’art. 581 c.p.). Quando questa Corte regolatrice ha escluso la configurabilità del reato ha avuto riguardo alla
circostanza che una “manomissione” qualsiasi dell’altrui persona, nel senso ampio sopradetto, non si
fosse verificata (come nella fattispecie decisa da Sez. 5, n. 48322 del 2018, in cui l’assenza di energia
fisica diretta dell’agente sulla vittima è stata ritenuta nell’ipotesi di colui il quale, scuotendo una scala,
abbia provocato la caduta della vittima che era collocata su di essa), sul presupposto che la
disposizione normativa richiede un contatto fisico diretto, ancorchè “mediato” da un oggetto
contundente dal punto di vista fisico, tra il soggetto agente e la persona colpita (cfr. Sez. 3, n. 43316
del 30/09/2014, R., Rv. 260988; Sez. 5, n. 38392 del 17/05/2017, Moraldi, Rv. 271122; Sez. 5, n.
4272 del 14/09/2015, dep. 2016, De Angelis, Rv. 265629; Sez. 5, n. 51085 del 13/06/2014,
Battistessa, Rv. 261451). Ed infatti, si configura il reato di percosse nel caso in cui un’energia fisica sia esercitata, in qualsiasi
modo, con violenza e direttamente sulla persona, purchè essa non sia produttiva di malattia
(ricadendosi in tal caso nel reato di lesioni) ovvero purchè essa non si esprima in una manifestazione
di violenza di entità inavvertibile e simbolica, indice dell’esclusivo proposito di arrecare sofferenza
morale o disprezzo (in tale ipotesi configurandosi una condotta di ingiuria, oramai depenalizzata: cfr.,
prima della depenalizzazione, Sez. 3, n. 43316 del 30/9/2014, R., Rv. 260988).8 Diversamente,
sussiste il reato di percosse nell’ipotesi in cui – come accaduto nel caso di specie – l’autore della
condotta colpisca la vittima con l’anta di una porta, volontariamente aprendola con violenza, nella
consapevolezza della presenza di costei dietro di essa. 4. Anche l’ultimo motivo di censura è privo di pregio. Ai fini della determinazione della pena, il giudice può tenere conto più volte del medesimo dato di
fatto sotto differenti profili e per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del “ne bis
in idem” (Sez. 3, n. 17054 del 13/12/2018, dep. 2019, M., Rv. 279504; Sez. 2, n. 24995 del 14/5/2015,
Rechichi, Rv. 264378; Sez. 2, n. 933 del 11/10/2013, dep. 2014, Debbiche, Rv. 258011). 5. Al rigetto del ricorso segue la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali, nonchè
la condanna dell’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente
giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata
dalla Corte d’Appello di Lecce con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,
artt. 82 e 83, disponendo il pagamento in favore dello Stato, secondo quanto stabilito dalle Sezioni
Unite con la pronuncia Sez. U, ord. n. 5464 del 26/9/2019, dep. 2020, De Falco, Rv. 277760. Il Collegio, infatti, rileva che già in sede di pronuncia d’appello la parte civile era ammessa al gratuito
patrocinio e che, dinanzi al Collegio, sono state depositate conclusioni e nota spese. 5.1. Deve essere disposto, altresì, che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma
del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre,
l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla
parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte
d’Appello di Lecce con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e
83, disponendo il pagamento in favore dello Stato. In caso di diffusione del provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma
del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 6 maggio 2021. Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2021.