Precisazioni sul congedo parentale

Cass. Civ., Sez. lavoro, Ord., 02 Novembre 2020, n. 24206
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3469/2015 proposto da:
D.T.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TIRSO 90, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI PATRIZI, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO DI STASI;
– ricorrente –
contro
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MACERATA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 552/2014 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 07/08/2014, R.G.N. 279/2014;
Il P.M. ha depositato conclusioni scritte.
Svolgimento del processo
Che:
1. D.T.B., avendo fruito nell’anno 2006 di un periodo di congedo ai sensi dell’art. 42, comma 5, per necessità di assistere il figlio minore malato di leucemia, ha agito giudizialmente per ottenere il riconoscimento delle quote di tredicesima maturate nel medesimo periodo e degli interessi e rivalutazione su altri importi retributivi pagati in ritardo e relativi sempre a tale periodo, oltre al risarcimento del danno, quantificato in Euro 100 mila, in ragione di tali ritardi e per non averle la P.A. dato notizia, durante la sua assenza, della data della prova orale di un concorso interno e del fatto che il datore di lavoro stava contattando i soggetti utilmente collocati in graduatoria per la firma del contratto, notizie da essa avuto soltanto da alcuni colleghi;
la Corte d’Appello, riformando parzialmente la sentenza di totale di rigetto emessa in primo grado dal Tribunale di Macerata, ha riconosciuto il diritto alla maggior somma tra interessi e rivalutazione per i pregressi tardivi pagamenti ed ha invece disatteso la pretesa inerente alle quote di tredicesima, sul presupposto che il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 43, comma 2 pur prima delle modifiche alla disciplina apportate dal D.Lgs. n. 119 del 2011, richiamando le disposizioni di cui all’art. 34, comma 5, escludeva dal computo della mensilità aggiuntiva i periodi di congedo parentale.
2. la D.T. ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, cui l’Università di Macerata ha resistito con controricorso;
il Pubblico Ministero ha depositato nota scritta con la quale ha insistito per il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
Che:
1. con il primo motivo (punto 1 lett. a) la ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 42, comma 5 nella versione previgente rispetto alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 119 del 2011, art. 4, comma 1, lett. b), sottolineando come la norma non rinviasse all’art. 34, comma 5, ma alle regole sulla corresponsione dell’indennità di maternità e quindi all’art. 22, che a propria volta riconosceva il diritto alla considerazione del periodo di congedo per il calcolo della tredicesima, anche perchè altrimenti (secondo motivo: punto 1 lett. b) si sarebbe realizzato un trattamento discriminatorio, in pregiudizio della situazione di disabilità, oltre che una disparità di trattamento, suscettibile di rilievo sotto il profilo del diritto di eguaglianza, rispetto al caso del congedo (c.d. obbligatorio) per maternità;
1.1 i motivi sono infondati;
1.2 iniziando dai profili letterali, è intanto pacifico che, ratione temporis, non trovi applicazione il comma 5-quinquies aggiunto nel 2011 all’art. 42 e secondo il quale “il periodo di cui al comma 5 (e dunque il periodo di congedo parentale per assistenza a congiunti disabili, n.d.r.) non rileva ai fini della maturazione delle ferie, della tredicesima mensilità e del trattamento di fine rapporto”;
tuttavia, il ragionamento della Corte territoriale è testualmente corretto rispetto alla precedente formulazione delle norme, in quanto il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 43, comma 2 nel regolare (così la rubrica) il “trattamento economico e normativo” degli istituti di cui al capo V, ovverosia (così l’intestazione del Capo) dei “riposi, permessi e congedi”, mentre dedicava il comma 1 espressamente a riposi e permessi, non poneva delimitazioni quanto alla disciplina di rinvio all’art. 34, comma 5 (ovverosia al trattamento dei congedi parentali) contenuta nel comma 2, la quale andava dunque riferita anche ai congedi regolati nell’art. 42, comma 5, in quanto norma facente appunto parte di quello stesso Capo;
anche perchè la previsione dell’art. 42, comma 5, come in allora vigente, secondo cui “l’indennità è corrisposta dal datore di lavoro secondo le modalità previste per la corresponsione dei trattamenti economici di maternità” non può riferirsi alla portata giuridica ed economica complessiva dell’istituto ed alle ricadute sulla tredicesima, che è cosa in sè diversa dalla disciplina della corresponsione, cui soltanto la norma andava riferita nel senso che essa sarebbe stata a carico del datore di lavoro, tra l’altro senza il recupero previdenziale di seguito parimenti regolato solo con riferimento al datore di lavoro privato;
1.3 si deve d’altra parte anche considerare che, secondo l’interpretazione invalsa, permessi e riposi riconnessi alle situazioni di disabilità dei congiunti, per quanto si sottraggano in generale alle regole di non computabilità per ferie e tredicesima quando fruiti autonomamente (Cass. 7 giugno 2017, n. 14187; Cass. 7 luglio 2014, n. 15435), in ragione essenzialmente della loro limitata durata, ricadono invece nella disciplina di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 43, comma 2 e art. 34, comma 5, allorquando essi si cumulino con i congedi e contribuiscano a determinare assenze di lunga durata (in senso analogo il parere n. 3389 del 9/11/2005 del Consiglio di Stato richiamato anche da Cass. 14187/2017 cit.); tale interpretazione si salda ed è coerente con quanto qui ritenuto rispetto ai congedi per assistenza a congiunti disabili, anch’essi suscettibili di lunga durata e quindi di una regolazione meno favorevole sotto il profilo degli istituti accessori;
1.4 neppure è condivisibile la prospettazione di una possibile illegittimità costituzionale della previsione, per disparità di trattamento rispetto al caso delle assenze per maternità c.d. obbligatorie, le quali, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 22, comma 3 non producono effetti riduttivi sulle ferie e la tredicesima;
infatti, l’astensione obbligatoria per maternità (o, quando prevista in sostituzione di essa, per paternità) si associa ad un evento del tutto unico, quale la sopravvenienza di un figlio ed i corrispondenti diritti vengono fruiti anche se si tratti di figlio disabile, sicchè è palese la diversità di condizioni rispetto al caso del congedo parentale per la mera presenza di figli minori o di quello per assistenza ai disabili;
diversità di situazioni che non consente una censura dell’assetto di sistema quale discrezionalmente impostato dal legislatore, nel cui ambito peraltro i congedi parentali per presenza di figli minori e quelli per assistenza a congiunti disabili, tra loro muniti di più forti elementi di similitudine, sono trattati allo stesso modo;
non vi è pertanto a sollevare alcuna questione di legittimità per contrasto della normativa con l’art. 3 Cost.;
1.5 analogamente non può dirsi fondatamente invocato il verificarsi di una discriminazione;
è indubbio, come dice la Corte territoriale, che la discriminazione possa rivolgersi anche verso persone diverse da quella interessata dal fattore di protezione e che essa ciononostante rilevi se finisca per comportare un trattamento sfavorevole quale effetto della situazione differenziale da proteggere: v. Corte di Giustizia 17 luglio 2008, n. 3030, Coleman, proprio in tema di discriminazione di genitori a causa della disabilità del figlio;
non può poi essere condivisa l’affermazione della Corte territoriale in ordine alla mancanza nel caso di specie di un termine di paragone, ove da intendere nel senso che per ravvisare la discriminazione, debba necessariamente svilupparsi un raffronto rispetto a persone in concreto favorite dall’accaduto;
infatti, quello che conta nel diritto antidiscriminatorio è l’esistenza di un trattamento di sfavore per il discriminato, da misurarsi attraverso una comparazione in astratto rispetto a categorie di persone non interessate dal fattore di protezione che si assume pregiudicato;
la motivazione della sentenza impugnata va dunque corretta in tal senso, aggiungendosi poi, per meglio specificare le ragioni dell’infondatezza del motivo con cui si ripropone la questione, che il termine di paragone, nel caso di specie, non può essere dato da chi, non avendo necessità di congedo, prosegue normalmente nel proprio lavoro; infatti, in tale prospettiva, il genitore del disabile riceve una protezione, potendosi assentare dal lavoro e continuare a ricevere un’indennità pari alla retribuzione mensile, e non una discriminazione;
neppure può essere utilmente invocato il paragone con chi fruisca dei congedi (facoltativi) per altre ragioni parentali diverse dalla disabilità, in quanto come si è visto il trattamento rispetto a questi casi non è disomogeneo, ma identico e quindi non può esservi discriminazione; infine, non può dirsi corretto il raffronto con coloro (madri o, in casi eccezionali, padri) che fruiscono del diritto all’astensione (c.d. obbligatoria) per nascita del figlio e il cui trattamento, come si è detto, consente di considerare il periodo di assenza come utile anche ai fini della tredicesima e delle ferie;
tale situazione, come si disse nel valutare il problema sotto il profilo del diritto di eguaglianza, non è infatti paragonabile a quella di chi fruisca del congedo per disabilità del figlio, perchè nell’astensione obbligatoria opera la specifica salvaguardia di una diversa situazione, data dalla nascita o adozione di un figlio, la quale peraltro trova applicazione anche quando a sopravvenire sia un figlio disabile, a ben vedere quindi destinato anch’esso a restare ricompreso e non escluso da tale tutela;
2. il terzo e quarto motivo (punto 2 lettere a e b) censurano la sentenza impugnata per non avere pronunciato sull’eccezione, proposta con l’atto di appello, di omessa pronuncia da parte del Tribunale rispetto alla domanda risarcitoria e per avere omesso l’esame di un fatto controverso e rilevante ai fini della decisione (art. 360 c.p.c., n. 5), consistente nel complesso di condotte illegittime a cui è conseguito il danno rivendicato; i motivi sono inammissibili;
anche i motivi processuali, quale l’omessa pronuncia, devono rispettare i canoni di specificità propri del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2012, n. 8077);
pertanto, nel denunciare il fatto che il Tribunale non avesse pronunciato sulla domanda risarcitoria, la ricorrente avrebbe dovuto trascrivere e non meramente narrare i contenuti di essa quali espressi nel giudizio di primo grado e trascrivere altresì, almeno per estratto dei passaggi necessari, la motivazione della sentenza del Tribunale, onde far constare sia le deduzioni ed allegazioni tempestivamente svolte a fondamento della pretesa, sia la ricorrenza del vizio denunciato in appello rispetto alla pronuncia di primo grado;
analogo limite inficia anche il motivo formulato sub art. 360 c.p.c., n. 5, che avrebbe parimenti dovuto trovare sostegno nella trascrizione dell’avvenuta allegazione, fin dal primo grado, delle circostanze inerenti ai fatti asseritamente non valutati;
si determina quindi contrasto con le rigorose regole di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., (Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, ai nn. 3, 4 e 6 della stessa disposizione, da cui si desume la necessità che la narrativa e l’argomentazione siano idonee a manifestare piena pregnanza, pertinenza e decisività delle ragioni di critica prospettate, senza necessità per la S.C. di ricercare autonomamente negli atti i corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti (v. ora, sul punto, Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34469);
3. il ricorso va dunque disatteso, ma la novità e complessità delle questioni di diritto inerenti al regime dei congedi per disabilità giustifica la compensazione delle spese anche del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 22 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 2 novembre 2020