Responsabilità medica: al paziente provare che non avrebbe fatto l’intervento

Corte di Cassazione, sez. III Civile
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ordinanza 15 gennaio – 26 maggio 2020, n. 9887
Presidente Armano – Relatore Olivieri
Fatti di causa
Con sentenza in data 27. 6.2018 n. 3166 la Corte d’appello di Milano ha rigettato l’appello proposto
da (omissis), e confermato la decisione di prime cure che aveva ritenuto infondata la pretesa
risarcitoria avanzata dal predetto nei confronti di (omissis) s.p.a. e del medico (omissis) il quale
aveva raccolto il consenso informato dell’(omissis), affetto da “pseudoartrosi post traumatica dello
scafoide con impotenza funzionale del polso destro su base algica”, prospettandogli la soluzione
dell’intervento chirurgico di “emicarpectomia prossimale del polso” che avrebbe garantito un
possibile miglioramento dell’articolazione e della sintomatologia dolorosa, la preservazione dal
processo degenerativo con il rischio – accettato dal paziente – della perdita del 30% di funzionalità
dell’articolazione del polso. Il Giudice di appello ha rilevato che all’intervento chirurgico, eseguito
correttamente senza errori tecnici, ed al trattamento post-operatorio conforme ai protocolli, era
purtroppo seguita accanto ad una riduzione della algia anche una perdita complessiva della
funzionalità del polso di circa il 68-70%, ma che la doglianza del danneggiato, volta a contestare la
inesattezza della informazione sui rischi e l’invalido consenso prestato quale presupposto della
richiesta risarcitoria, non aveva fondamento in quanto i CC.TT.UU. aveva accertato che il paziente,
prima dell’intervento, soffriva di una riduzione funzionale di circa 33 pari ad 1/3 (valutato come 12-
13% grado di IP) e che dopo l’intervento chirurgico la riduzione di funzionalità era pari a circa il
67/68%, cioè di quasi a 2/3 (valutato come 17-18% grado di IP), sicché l’incremento corrispondeva
a poco più della riduzione di funzionalità prospettata dal medico in sede di acquisizione del
consenso informato (34% invece che 30%), non potendo convenirsi con l’assunto del danneggiato
secondo cui il sanitario avrebbe fatto riferimento alla riduzione massima in assoluto e non alla
riduzione ulteriore – rispetto al preesistente stato invalidante -, in quanto si sarebbe pervenuti al
paradosso che il rischio, ove verificatosi, avrebbe prodotto addirittura un miglioramento dello stato
pregresso.
La sentenza di appello, notificata in data 28.6.2018, è stata ritualmente impugnata per cassazione da
(omissis) con ricorso affidato a quattro motivi ai quali resistono con un unico controricorso
(omissis) s.p.a ed il medico.
Ragioni della decisione
Primo motivo: violazione art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia su motivo di gravame;
Secondo motivo: violazione degli artt. 13 e 32 Cost.;
I motivi, formulati in via di subordinazione alternativa (ove non si ravvisi il vizio di omessa
pronuncia, allora la pronuncia deve intendersi viziata per “error juris”) sono scarsamente
comprensibili e difettano del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 e 4.
Sostiene il ricorrente che la Corte d’appello, nell’esaminare il secondo motivo di gravame, non
avrebbe deciso in ordine alla critica mossa alla decisione di primo grado relativa alla mancanza di
“esaustività” del consenso informato.
In subordine deduce che l’avere il Giudice territoriale negato rilevanza all’errore commesso dal
medico nel dare una informazione eccessivamente ottimistica, determinerebbe una violazione del
diritto ad ottenere il ristoro per il danno conseguente alla violazione del diritto alla
autodeterminazione.
Dalla lettura del secondo motivo di appello, interamente trascritto a pag. 1314 del ricorso, risulta
che l’appellante, dopo avere premesso di essersi recato il 9.8.2010 presso l’Istituto sanitario ed aver
ricevuto assicurazioni, dal medico Dott. S., che la patologia di cui era affetto dal 2004 (inveterata
psedudoartrosi post traumatica dello scafoide, con riduzione dell’articolazione del polso dx pari ad
1/3 della mobilità complessiva: patologia a decorso ingravescente a causa dei processi degenerativi
osteocartilaginei) avrebbe potuto ottenere benefici qualora si fosse sottoposto all’intervento di
“emicarpectomia prossimale polso”, lamentava che il medico gli aveva prospettato una soluzione
migliorativa eccessivamente ottimistica, atteso che l’esito dell’intervento non era stato quello
sperato, essendo stato indotto il paziente a credere in un diverso risultato, più favorevole: la visita
del medico, pertanto, era stata “errata, oltremodo ottimistica, e non adeguatamente spiegata” e la
informazione era stata lacunosa ed errata ed ha fornito una prospettiva in termini di efficacia
eccessivamente ottimistica per il caso specifico”. In relazione a ciò doveva ritenersi accertata la
violazione del diritto alla autodeterminazione del paziente, essendo invalido il consenso prestato, in
quanto bene avrebbe potuto lo stesso:
1- preferire di subire il progressivo inevitabile peggioramento della patologia piuttosto che incorrere
nel rischio poi verificatosi di una ulteriore riduzione della mobilità;
2- scegliere di differire il tempo dell’intervento;
3- rivolgersi ad altro sanitario.
Il primo motivo è infondato
La Corte d’appello ha, infatti, preso in esame il secondo motivo di gravame individuando
correttamente quale parametro di valutazione la “comunicazione” sottoscritta dal medico in data
9.8.2010 (anno erroneamente indicato in sentenza nel 2012) evidenziando come dalla stessa
emergessero plurimi scopi affidati all’intervento, tra i quali anche la diminuzione della
sintomatologia algica ed il contrasto alla progressione degenerativa della patologia, obiettivi questi
raggiunti a seguito della operazione chirurgica. Il Giudice territoriale ha quindi definito il thema
controversum relativo al contenuto informativo, individuandolo nell’errore – prospettato
dall’appellante – commesso dal medico nella determinazione della percentuale di rischio di
insuccesso, errore che – con accertamento in fatto – ha escluso, ritenendo che la rappresentazione di
un possibile peggioramento della mobilità del 30% era da considerarsi adeguata e non
imprudentemente sottostimata, atteso che l’ulteriore aggravamento non poteva che intendersi
riferita alla preesistente condizione invalidante dell’(omissis), diversamente opinando non vi
sarebbe stato alcun rischio peggiorativo, venendo sostanzialmente a coincidere la riduzione di
mobilità del 30% con il difetto di mobilità del polso pari ad 1/3 che già affliggeva il paziente.
Nel secondo motivo di gravame, non è dato individuare altri ambiti di indagine pretermessi dalla
Corte d’appello, laddove ad una generica doglianza dell’“eccessivo ottimismo” manifestato dal
medico (espressione mutuata peraltro dalle valutazioni espresse dai CC.TT.UU. nominati in primo
grado) non viene fatto seguito – ad eccezione della questione interpretativa sulla percentuale di
rischio di un esito peggiorativo in termini di mobilità del polso ad altri specifici e puntuali elementi
di critica alla sentenza di prime cure per la ritenuta esclusione di un inadempimento colpevole
all’obbligo informativo da parte del medico, diffondendosi l’appellante sulla individuazione delle
scelte a cui aveva dovuto ingiustamente rinunciare, a causa dell’asserito inadempimento del medico,
sottoponendosi ad un trattamento non supportato da idoneo consenso.
Se dunque non è dato ravvisare alcuna omissione di pronuncia della Corte territoriale in merito al
secondo motivo di gravame, osserva il Collegio che la censura subordinata di vizio inerente
l’attività di giudizio non è assistita dai requisiti minimi di ammissibilità.
I principi di diritto enucleati in materia di consenso infornato da questa Corte (da ultimo cfr. Corte
cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 9996 del 10/04/2019) possono così riassumersi:
– in tema di attività medico-chirurgica, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione
sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al
trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova
fondamento diretto nei principi degli artt. 2 e 13 COst., e art. 32 Cost., comma 2.
– la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi
di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui
grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi
all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto
all’autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito
un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile
gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute. Pertanto, nell’ipotesi di omissione od
inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute ma che abbia impedito
l’accesso ad altri più accurati accertamenti, la lesione del diritto all’autodeterminazione sarà
risarcibile ove siano derivate conseguenze dannose di natura non patrimoniale, quali sofferenze
soggettive e limitazione della libertà di disporre di se stessi, salva la possibilità della prova contraria
– le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del
diritto all’autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la
preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un
consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava
l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il
presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd.
vicinanza della prova), essendo, il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico,
eventualità non rientrante nell’id quod plerumque accidit; al riguardo la prova può essere fornita
con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo
configurabile un danno risarcibile “in re ipsa” derivante esclusivamente dall’omessa informazione.
Orbene tra gli elementi costitutivi della fattispecie del diritto al risarcimento del danno per lesione
del diritto alla autoderminazione cagionata dalla inesatta od incompleta informazione del medico
volta ad acquisire la – valida e consapevole – manifestazione di consenso del paziente, non può
prescindersi dalla prova che la condotta di quest’ultimo, se correttamente informato, sarebbe stata
certamente diversa, ossia che avrebbe certamente rifiutato di sottoporsi all’intervento chirurgico: ed
infatti “la omessa informazione assume di per sé carattere neutro sul piano eziologico, in quanto la
rilevanza causale dell’inadempimento viene a dipendere indissolubilmente dalla alternativa
“consenso/dissenso” che qualifica detta omissione, laddove, in caso di presunto consenso,
l’inadempimento, pur esistente, risulterebbe privo di alcuna incidenza deterministica sul risultato
infausto dell’intervento, in quanto comunque voluto dal paziente; diversamente, in caso di presunto
dissenso, assumendo invece efficienza causale sul risultato pregiudizievole, in quanto l’intervento
terapeutico non sarebbe stato eseguito – e l’esito infausto non si sarebbe verificato – non essendo
stato voluto dal paziente. La allegazione dei fatti dimostrativi della opzione “a monte” che il
paziente avrebbe esercitato viene, quindi, a costituire elemento integrante dell’onere della prova del
nesso eziologico tra l’inadempimento e l’evento dannoso, che in applicazione dell’ordinario criterio
di riparto ex art. 2697 c.c., comma 1, compete ai danneggiati….” (cfr. Corte Cass. Sez. 3 -,
Ordinanza n. 19199 del 19/07/2018, in motivazione).
Ed indipendentemente, pertanto, da eventuali ulteriori profili di incompletezza della informazione
(non sarebbe stato accertato il grado di invalidità preesistente e quindi il paziente non poteva
valutare la “differenza” peggiorativa in caso di verificazione del rischio prospettato; non era stato
specificato che l’intervento “non era risolutivo ma era demolitivo”) indicati nel motivo di ricorso
per cassazione – ma dei quali peraltro non risulta nè viene allegato dal ricorrente che fossero stati
dedotti nei gradi di merito – appare evidente come la censura in esame risulti priva dei connotati
della specificità, non avendo il ricorrente neppure indicate se e quali prove fossero state richieste di
acquisire o raccolte nei precedenti gradi di giudizio dirette ad accertare – mediante giudizio
controfattuale “ora per allora” – che egli, qualora avesse inteso che il rischio di insuccesso avrebbe
potuto produrre una ulteriore limitazione di mobilità, pur riducendo la sintomatologia algica ed
impedendo l’evoluzione del fenomeno degenerativo osteoarticolare, avrebbe sicuramente rifiutato
di sottoporsi all’intervento di emicarpectomia prossimale.
In difetto di tale indicazione la censura risulta carente del requisito di specificità ex art. 366 c.p.c.,
comma 1, n. 4 e non supera il vaglio di ammissibilità.
Terzo motivo: violazione art. 112 c.p.c. nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Assume il ricorrente che il danno lamentato non riguardava l’errata esecuzione dell’intervento
chirurgico nè quello derivato dalla riduzione della funzionalità del polso conseguitone, bensì si
incentrava esclusivamente nel danno derivato dalla violazione del diritto alla autodeterminazione
per la insufficiente informazione.
Il motivo è del tutto inconferente oltre che scarsamente intelligibile.
Il motivo è inconferente perché la Corte d’appello ha individuato correttamente l’oggetto della
controversia nella dedotta violazione dell’obbligo di fornire una informazione corretta, ritenuta
errata secondo il danneggiato con riferimento alla entità del rischio derivante dalla pur corretta
esecuzione dell’intervento. Esclusa la decettività della informazione, e ritenuto non infirmato il
consenso prestato dal paziente, la Corte d’appello alcuna ulteriore indagine era tenuto a svolgere in
ordine ai pregiudizi subiti dal paziente in conseguenza dell’impedimento ad effettuare scelte
alternative rispetto a quella di sottoporsi alla esecuzione dell’intervento.
Il motivo non appare chiaramente identificabile nella critica svolta alla sentenza di appello in
quanto nella esposizione:
a) si viene a confondere “danno e lesione del diritto” nonché violazione del diritto di
autodeterminazione con violazione del diritto alla salute: altro è infatti la condotta violativa del
diritto alla autodeterminazione, altro la violazione del diritto alla salute; altro ancora i diversi danniconseguenza
che derivano dalla violazione dei due diritti. La sovrapposizione dei diversi piani
operata dal ricorrente appare del tutto evidente laddove nel trascrivere il motivo di appello si ascrive
alla categoria unitaria “…danni/lesioni…” le conseguenze derivate dalla inesatta informazione,
identificandole nei danni-conseguenza “morali e biologici” correlati invece alla esecuzione
dell’intervento (sofferenza psichica patita in ragione dell’intervento e della successiva
convalescenza; pregiudizio subito per l’attività chirurgica demolitoria che ha ulteriormente ridotto
la funzionalità del polso), od ancora laddove si qualifica erroneamente come danno-conseguenza la
“contrazione della libertà di disporre” che individua invece l’”evento-lesivo” del diritto alla
autodeterminazione;
b) non è dato in ogni caso individuare in quale omissione di pronuncia sia incorsa la Corte
d’appello, che ha esaminato proprio la questione della corretta informazione, sostenendo che il
rischio comunicato dal medico ed accettato dal paziente corrispondeva a quello poi verificatosi.
Quarto motivo: omesso esame fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Il ricorrente impugna la sentenza di appello, sostenendo che non erano stati affatto considerati “fatti
decisivi” che venivano indicati nella assicurazione data dal medico, nella comunicazione del
9.8.2010, che tra gli scopi dell’intervento vi era quello anche del “miglioramento dell’articolarità
attualmente molto limitata”: secondo il ricorrente tale scopo era incompatibile con la indicazione
del rischio di un peggioramento del deficit iniziale, sicché la possibilità della perdita della
funzionalità del 30% doveva considerarsi “in termini assoluti” e non come eventuale rischio di
“incremento” della invalidità preesistente i CC.TT.UU. avevano riferito che la previsione di
miglioramento formulata dal medico era stata “assolutamente ottimistica” e dunque non era corretta
ed aveva ingenerato convincimenti erronei nel paziente.
Il motivo è inammissibile, in quanto, da un lato, viene fatto riferimento al contenuto di un
documento (comunicazione 9.8.2010) che il Giudice di appello ha esaminato e valutato, sicché la
critica trascende i limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, venendo ad impingere sulla attività
valutativa di merito delle risultanze istruttorie, non sindacabile in sede di legittimità (la Corte
territoriale ha valutato il contenuto informativo della comunicazione ed ha ritenuto in base al
proprio convincimento che la indicazione di un rischio di insuccesso quantificato percentualmente
in termini di ulteriore invalidità, era idonea a consentire al paziente una adeguata ponderazione
nella scelta).
Dall’altro lato non potendo confondersi quello che è un giudizio valutativo degli ausiliari con un
“fatto storico”, tanto meno “decisivo”, che soltanto può veicolare il motivo di ricorso per “errore di
fatto” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dovendo intendersi per “fatto” esclusivamente un
accadimento in senso storico-naturalistico.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la parte soccombente va condannata ala rifusione
delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
– Condanna il ricorrente al pagamento in favore dei contro-ricorrenti, delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del
15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
– Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del
2012, art. 1 comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il
versamento, se e nella misura dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
– Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di
informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione
elettronica, sia omessa la indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di (omissis)
riportati nella sentenza.