L’omessa diagnosi della malattia è fonte di risarcimento del danno subito dai familiari del paziente

Cass. civ. Sez. III, 4 novembre 2019, n. 28220
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 5667-2017 proposto da:
T.B., in proprio e quale erede di G.V. e di T.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EMILIO DE’ CAVALIERI 11, presso lo studio dell’avvocato ALDO FONTANELLI, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
UNIVERSITA’ CATTOLICA DEL SACRO CUORE, in persona del Rettore e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE, 38, presso lo studio dell’avvocato PIERFILIPPO COLETTI, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
B.F.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 4556/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/07/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/07/2019 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE Alessandro, che ha concluso per accoglimento motivo 3;
udito l’Avvocato FONTANELLI ALDO;
udito l’Avvocato COLETTI PIERFILIPPO;
Svolgimento del processo
G.V., il marito T.A. e i figli T.R. e B. convennero in giudizio l’Università Cattolica del Sacro Cuore e il prof. B.F., primario dell’Istituto di Cardiologica del Policlinico Universitario Gemelli, chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti alla mancata diagnosi di un’endocardite infettiva da cui era risultata affetta la G. al momento in cui era stata dimessa dal Policlinico dopo un intervento di valvuloplastica mitralica percutanea; dedussero che la tardiva diagnosi aveva comportato un progressivo peggioramento delle condizioni di salute della paziente, con necessità di numerosi ricoveri ospedalieri, nel corso dei quali era stato effettuato un intervento invasivo (a cuore aperto) di sostituzione della valvola mitralica ed era stata eseguita una tracheotomia; precisarono che la G. aveva avuto bisogno di assistenza costante, sia domiciliare che presso le strutture sanitarie in cui era stata ricoverata, e che all’inabilità temporanea (protrattasi per tredici mesi) era residuata una invalidità permanente del 50%; aggiunsero che la malattia e l’invalidità della congiunta avevano determinato un gravissimo turbamento e un mutamento delle abitudini di vita della famiglia T..
I convenuti si costituirono in giudizio contestando le domande attoree.
Deceduta in corso di causa la G., gli altri attori proseguirono il giudizio anche in qualità di eredi della congiunta.
Espletata una consulenza medico-legale, il Tribunale di Roma accertò la responsabilità del B. e quella della struttura ospedaliera e accolse la domanda svolta iure hereditatis, liquidando un importo di poco superiore a 50.000,00 Euro; respinse, invece, le domande proposte dai T. iure proprio.
La Corte di Appello di Roma, confermato l’accertamento di responsabilità, ha riconosciuto ai T. l’ulteriore risarcimento di Euro 3.772,20 a titolo di rimborso di spese mediche, rigettando -per il resto-le loro richieste.
Ha proposto ricorso per cassazione T.B., in proprio e quale erede di G.V. e di T.A., affidandosi a tre motivi; hanno resistito, con unico controricorso illustrato da memoria, l’Università Cattolica del Sacro Cuore e B.F..
Motivi della decisione
1. Il primo motivo denuncia “violazione e falsa applicazionedell’art. 2059 c.c.in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”: i ricorrenti contestano la quantificazione del danno biologico (per invalidità permanente e per inabilità temporanea assoluta e parziale) assumendo che la Corte di merito non ha tenuto conto che la c.t.u. aveva errato nell’affermare che l’insufficienza renale cronica era in parte presente al momento del primo intervento e non aveva considerato fra i postumi la ridotta efficienza della pompa cardiaca e il maggior danno valvolare.
1.1. Il motivo è inammissibile in quanto non deduce effettivamente alcun error iuris in cui la Corte sarebbe incorsa in relazione all’applicazionedell’art. 2059 c.c., ma si limita a prospettare un vizio motivazionale secondo il paradigma del vecchio testodell’art. 360 c.p.c., n. 5, che non è più applicabile ratione temporis; peraltro, quand’anche volesse intendersi la censura come proposta ai sensi del testo novellato della norma, la censura risulterebbe comunque infondata, giacché – per un verso – la Corte ha mostrato di avere esaminato i risultati della relazione di c.t.u. e – per altro verso – non è deducibile sotto la specie dell’omesso esame di un fatto decisivo la mera difformità fra gli accertamenti e le valutazioni compiute dalla c.t.u. (recepita dalla sentenza impugnata) e le conclusioni di una consulenza tecnica di parte.
2. Il secondo motivo deduce “violazione e falsa applicazionedell’art. 2059 c.c.in relazione agliartt. 2, 29 e 30 Cost.e dell’art. 360, comma 1, n. 5, per insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”: i ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale richiesto dal marito e dai figli della G. in ragione dello sconvolgimento delle loro abitudini di vita conseguente alla necessità di assistere la congiunta sia durante la malattia che nel periodo successivo, in cui la G. era risultata affetta da postumi gravemente invalidanti; contestano l’affermazione secondo cui gli attori avrebbero soltanto allegato, ma non provato il danno, lamentando la mancata ammissione delle prove orali (richieste in primo grado e reiterate in sede di appello) e invocando anche l’applicazione di criteri presuntivi consentiti dalla natura del legame familiare; evidenziano come la Corte abbia contraddittoriamente escluso il risarcimento del danno anche in riferimento alla assistenza prestata durante i ricoveri ospedalieri che pure ha ritenuto provata.
2.1. Al riguardo, la Corte di Appello ha affermato che “il prospettato grave stato di salute, che avrebbe reso la donna del tutto dipendente dai familiari, non è compatibile con i postumi accertati dal ctu” e che, “in ogni caso, si tratta di un’assistenza familiare, per quanto faticosa sul piano psicologico, evidentemente condivisa ed avvenuta principalmente durante i ricoveri ospedalieri”.
2.2. Il motivo è fondato.
Secondo i principi consolidati di questa Corte, il risarcimento del danno non patrimoniale può spettare anche ai prossimi congiunti della vittima di lesioni personali invalidanti, “non essendo ostativo il dispostodell’art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso (Cass., S.U. n. 9556/2002; conformi, ex multis, Cass. n. 8827/2003 e Cass. n. 11001/2003);
E’ pacifico, altresì, che “la prova del danno non patrimoniale, patito dai prossimi congiunti di persona resa invalida dall’altrui illecito, può essere desunta anche soltanto dalla gravità delle lesioni, sempre che l’esistenza del danno non patrimoniale sia stata debitamente allegata nell’atto introduttivo del giudizio” (Cass. n. 2228/2012) e che “il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di persona lesa in modo non lieve dall’altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva, che deve essere cercata anche d’ufficio, se la parte abbia dedotto e provato i fatti noti dai quali il giudice, sulla base di un ragionamento logico-deduttivo, può trarre le conseguenze per risalire al fatto ignorato” (Cass. n. 17058/2017; cfr. anche Cass. n. 2788/2019 e Cass. n. 11212/2019).
Tanto premesso, deve ritenersi che la Corte di merito abbia errato quando ha escluso il danno patito dai congiunti per il fatto che la G. non fosse risultata “del tutto dipendente dai familiari” e quando ha mostrato di ritenere che, per il fatto di rivestire natura “familiare”, l’assistenza prestata (anche durante i ricoveri ospedalieri) non giustificasse il risarcimento del danno; deve considerarsi -al contrario- che anche un’invalidità parzialmente invalidante possa comportare, oltre al dolore per la menomazione del congiunto, anche la necessità di un impegno di assistenza (e, quindi, un apprezzabile mutamento peggiorativo delle abitudini di vita di chi la presti) a carico degli stretti congiunti; né -per altro verso- la circostanza che l’assistenza sia motivata da vincoli di affetto e solidarietà propri dei rapporti familiari vale ad escludere che il congiunto non subisca concreto pregiudizio per la necessità di adattare la propria vita alle sopravvenute esigenze del familiare menomato.
Rileva -in altri termini- il fatto che il familiare di una persona lesa dall’altrui condotta illecita può subire uno stato di sofferenza soggettiva e un necessitato mutamento peggiorativo delle abitudini di vita (incidente sul profilo dinamico della propria esistenza): entrambi i pregiudizi debbono essere risarciti, laddove rivestano i caratteri della serietà del danno e della gravità della lesione, senza che possano valere ad escludere la sussistenza del pregiudizio la circostanza che l’invalidità del congiunto non sia totale o il fatto che l’assistenza possa essere stata ripartita fra più familiari (trattandosi di elementi rilevanti al solo fine della quantificazione del danno).
Del pari, la Corte ha errato laddove ha considerato tout court irrilevante la prova orale (“in questo ambito è superflua l’articolazione della prova orale”), senza valutare se la stessa potesse fornire elementi idonei ad apprezzare l’esistenza e l’entità del “sacrificio” imposto dalla malattia ai familiari della G. e, altresì, laddove non ha considerato la possibilità di apprezzare in via presuntiva l’esistenza del danno non patrimoniale pacificamente allegato dagli attori; tanto più che l’esclusione di qualsiasi pregiudizio non risulta congruente, sul piano logico e giuridico, con l’affermazione dell’effettuazione dell’assistenza (“faticosa anche sul piano psicologico, evidentemente condivisa, principalmente durante ricoveri ospedalieri”).
La sentenza va dunque cassata sul punto, con rinvio alla Corte territoriale per un nuovo esame, alla luce dei principi e delle considerazioni che precedono.
3. Col terzo motivo (“violazione e falsa applicazione degliartt. 1228, 1218, 1173 e 1460 c.c.”), i ricorrenti si dolgono del mancato riconoscimento del rimborso delle spese mediche (per 1.896,96 Euro) sostenute per il primo ricovero presso l’Ospedale Gemelli (dal 12 al 25 gennaio 2001), al termine del quale la G. era stata dimessa senza diagnosi di endocardite infettiva; premesse considerazioni sulla natura contrattuale del rapporto intercorso fra la paziente e la struttura, i ricorrenti rilevano che “il diritto al compenso è giuridicamente ed economicamente collegato all’esatto adempimento del professionista”, col corollario che “nel caso in cui la prestazione del professionista non venga eseguita correttamente, il pagamento dei compensi perde la propria ragione giustificativa, quindi, non è dovuto dal cliente”; concludono pertanto che, essendo stato accertato che la prestazione della struttura ospedaliera e dei suoi medici non era stata esattamente adempiuta, la Corte avrebbe dovuto disporre la restituzione di tutte le somme “versate a titolo di compensi e spese per le prestazioni non correttamente eseguite”; aggiungono che non risulta neppure condivisibile la statuizione di compensazione delle spese di lite, in quanto basata sull’erroneo assunto di una “sostanziale soccombenza” dei T..
3.1. Il motivo è inammissibile in quanto non attinge adeguatamente la ratio decidendi che -diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti- è basata sul rilievo che l’errore diagnostico si era verificato “solo in una in una fase successiva” alla prestazione per cui era stata sostenuta la spesa (con adesione, quindi, alla distinzione operata sul punto dai consulenti); il tutto a prescindere dal rilievo che, in ogni caso, la pretesa sarebbe infondata alla luce del principio secondo cui, “nel contratto d’opera intellettuale, qualora il committente non abbia chiesto la risoluzione per inadempimento, ma solo il risarcimento dei danni, il professionista mantiene il diritto al corrispettivo della prestazione eseguita, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela” (Cass. n. 6886/2014; cfr. anche Cass. n. 23820/2010 e Cass. n. 6009/2012): atteso, infatti, che la somma non rimborsata attiene alle spese sostenute per il primo ricovero e che, rispetto ad esso, non risulta proposta alcuna domanda di risoluzione per inadempimento, deve ritenersi che la tutela risarcitoria richiesta dagli attori non potesse estendersi al recupero delle somme versate a titolo di compenso per il primo intervento.
4. La Corte di rinvio provvederà sulle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte, rigettati gli altri motivi, accoglie il secondo, cassa in relazione e rinvia, anche per le spese di lite, alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019