La violazione dell’obbligo di convivenza va contestata in assenza di giusta causa.

Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., 18 settembre 2019, n. 23284
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13307-2018 proposto da:
G.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ATTILIO REGOLO 19, presso lo studio
dell’avvocato GIUSEPPE LIPERA, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
C.N.M.C.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 176/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 25/01/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 09/07/2019 dal
Consigliere Relatore Dott. TRICOMI LAURA.
Svolgimento del processo
CHE: Il ricorso per cassazione è stato proposto da G.C. nei confronti di C.N.M.C. avverso la
sentenza della Corte di appello di Catania, in epigrafe indicata, che, in sentenza di separazione
personale, rigettando l’appello principale e l’appello incidentale, per quanto interessa al presente
giudizio, aveva confermato la pronuncia di addebito nei confronti di G. e la previsione a suo carico
di un assegno di mantenimento a favore della moglie.
Il ricorso consta di tre motivi corredato da memoria. La controparte è rimasta intimata.
Sono stati ritenuti sussistenti i presupposti per la trattazione camerale ex art. 380 bis c.p.c.
Motivi della decisione
CHE:
1.1. Con il primo motivo si denuncia l’erronea applicazione dell’art. 151 c.c., comma 2.
A parere del ricorrente la Corte territoriale, errando, avrebbe basato l’accertamento compiuto in
motivazione, in merito all’addebito, esclusivamente sulla circostanza del suo allontanamento della
casa coniugale, senza tenere conto nè dell’insussistenza di un rapporto di causalità tra detto
allontanamento e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza nè dell’assenza di
comportamenti contrari ai doveri coniugali posti in essere dal medesimo (fol. 5 del ricorso).
Assume che dagli atti processuali era emerso che la fine dell’unione coniugale era da ascriversi ad
incompatibilità caratteriali.
Quindi sostiene che la Corte catanese avrebbe, altresì errato nel non rilevare che la prova della
violazione dei doveri coniugali da parte del marito e del rapporto di causalità tra l’allontanamento ed
il verificarsi dell’intollerabilità della ulteriore convivenza era onere della C., limitandosi ad
affermare che G. non aveva fornito la prova che l’allontanamento era dovuto a giusta causa.
1.2. Il motivo è infondato.
1.3. Come già è stato affermato da questa Corte la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola
violazione dei doveri posti dall’art. 143 c.c. a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario
accertare se tale violazione, lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata una situazione di
intollerabilità della convivenza, abbia, viceversa, assunto efficacia causale nel determinarsi della
crisi del rapporto coniugale. L’apprezzamento circa la responsabilità di uno o di entrambi i coniugi
nel determinarsi della intollerabilità della convivenza è istituzionalmente riservato al giudice di
merito (Cass. n. 18074/2014; Cass. n. 4550/2011). In tema di onere della prova, questa Corte ha
affermato che grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza degli obblighi nascenti dal
matrimonio, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la
sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di
chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda provare le circostanze su cui
l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata violazione (ex
multis, Cass. n. 14591/2019, Cass. n. 3923/2018).
1.4. Tanto premesso, va tuttavia rimarcato che l’onere della prova si connota in maniera specifica ed
autonoma in relazione alla dedotta violazione degli obblighi ed al nesso di causalità.
Quanto al primo profilo, alla stregua dei principi richiamati, va affermato che nel caso in cui sia
dedotta la violazione dell’obbligo coniugale di convivenza, la prova dell’avvenuto allontanamento
dal domicilio coniugale, a cura del coniuge che lo denuncia, è sufficiente ad integrare la fattispecie
ai sensi dell’art. 146 c.c., comma 1, a meno che il coniuge che si è allontanato non provi che ciò sia
avvenuto per giusta causa.
Pertanto, correttamente la Corte di appello, stante il carattere incontestato dell’allontanamento
denunciato, ha ritenuto sussistere la violazione del dovere coniugale da parte del G., sulla
considerazione che questi aveva sostenuto che alla data del suo allontanamento la crisi coniugale
era già scoppiata e che l’allontanamento era una conseguenza dell’intollerabilità della prosecuzione
della convivenza, senza tuttavia fornire alcuna prova di ciò che aveva prospettato come “giusta
causa”, ma affermandolo solo labialmente (fol. 4 della sentenza): tale statuizione non risulta
nemmeno impugnata, tale non potendosi ritenere l’affermazione contenuta in ricorso, secondo la
quale dagli atti sarebbe emerso che la crisi coniugale era da ascrivere a differenze caratteriali, attesa
la assoluta genericità e mancanza di specificità della stessa (fol. 6 del ricorso).
Passando all’esame del profilo probatorio concernente il nesso di causalità, va confermato che,
anche in caso di allontanamento e di richiesta di addebito, spetta al richiedente, e non all’altro
coniuge, provare non solo l’allontanamento dalla casa coniugale, ma anche il nesso di causalità tra
detto comportamento e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (cfr. Cass. n.
14591/2019, Cass. n. 3923/2018, Cass. n. 3194/2017, Cass. n. 19328/2015), tuttavia nulla osta a che
tale prova sia anche di tipo logico o presuntivo.
Proprio la decisione invocata dal ricorrente ha sottolineato la specificità di tale fattispecie, laddove
chiarisce che “Diversa peraltro è la situazione, nella specie dedotta, dell’allontanamento del coniuge
dalla casa coniugale, che, se non assistito da una giusta causa, costituisce violazione dell’obbligo di
convivenza: viene meno in tal senso da parte del richiedente l’obbligo di provare il rapporto di
causalità tra la violazione e l’intollerabilità della convivenza; sarà l’altra parte a dover provare la
giusta causa dell’allontanamento, che potrebbe consistere in un comportamento negativo del
coniuge o magari in un accordo tra i due coniugi per dare vita, almeno temporaneamente, ad una
separazione di fatto, in attesa di una successiva formalizzazione.”.” (così testualmente, Cass. n.
25966 del 15/12/2016): tale pronuncia appare intesa a valorizzare una prova di tipo logico e
presuntivo da valutarsi sulla scorta del complesso compendio probatorio riveniente dall’attività
istruttoria, e la decisione impugnata appare in linea con detti principi.
Nella specie la Corte d’appello innanzi tutto ha dato riscontro al fatto che il giudizio di separazione,
proposto dalla C., era stato introdotto due anni dopo l’abbandono del tetto coniugale da parte del G.,
di guisa che non poteva ricorrere la fattispecie disciplinata dall’art. 146 c.c., comma 2; quindi ha
accertato il verificarsi della violazione del dovere di coabitazione e l’assenza di una giusta causa,
rimarcando che dal complessivo compendio probatorio non era emerso alcun elemento idoneo a
comprovare l’esistenza di pregresse cause di crisi coniugale, argomento con cui si era difeso proprio
G. adducendolo come “giusta causa”, e sulla scorta di questi plurimi elementi ha escluso che
potesse essere riformata la pronuncia di addebito pronunciata in primo grado, con accertamento di
merito che risulta insindacabile in sede di legittimità, ove non censurato sul piano motivazionale nei
limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
2.1. Con il secondo motivo ci si duole dell’erronea applicazione dell’art. 156 c.c. in merito al
riconoscimento dell’assegno di mantenimento a favore della moglie, sostenendo che la Corte
territoriale non avrebbe preso in considerazione le capacità reddituali della moglie, rivenienti da
proprietà immobiliari ed attività lavorativa, ed il peggioramento delle proprie capacità reddituali,
rivenienti da riduzione progressiva del reddito, patologie che gli avevano impedito
temporaneamente l’attività lavorativa, nonchè del tenore di vita modesto goduto durante il
matrimonio.
2.2. Il motivo è inammissibile.
Premesso che la Corte ha accertato le condizioni economiche delle parti ed ha espressamente
escluso che fosse stata fornita la prova dell’attività lavorativa svolta dalla moglie presso l’hotel
(OMISSIS), la censura, avanzata come violazione di legge, lamenta sostanzialmente ed
inammissibilmente l’errato accertamento in fatto in ordine alle condizioni economiche delle parti,
poste a base della statuizione impugnata, che vorrebbe sovvertire; in disparte da ciò, va osservato
che non è precisato nemmeno quando le circostanze indicate siano state sottoposte ai giudici di
merito.
V’è da aggiungere che la statuizione sull’addebito richiesto a carico del marito, contrariamente a
quanto prospetta il ricorrente in memoria, è inidonea ad incidere sul riconoscimento dell’assegno di
mantenimento in favore della moglie, atteso che la pronuncia di addebito incide sui rapporti
patrimoniali con la perdita del diritto al mantenimento ex art. 156 c.c., comma 1, solo in danno della
parte a carico del quale l’addebito sia pronunciato.
3.1. Con il terzo motivo ci si duole della violazione dell’art. 91 c.p.c. per avere la Corte territoriale
confermato la condanna al pagamento dei due terzi delle spese di giudizio per i due gradi della fase
di merito pur essendo egli risultato parzialmente vittorioso e, per altro verso, riscontrandosi una
soccombenza reciproca.
3.2. Il motivo è inammissibile in quanto la valutazione delle proporzioni della soccombenza
reciproca e dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, ovvero la
determinazione delle quote in cui le spese processuali debbano eventualmente ripartirsi o
compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del
giudice di merito, e restano perciò sottratte al sindacato di legittimità, essendo questo limitato ad
accertare soltanto che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere
poste a carico della parte totalmente vittoriosa, come già affermato da questa Corte anche con la
decisione erroneamente invocata dal ricorrente (cfr. Cass. n. 1629 del 23/01/2018; Cass. n. 2149 del
31/01/2014).
4. In conclusione, il ricorso va rigettato, infondato il primo motivo ed inammissibili i motivi
secondo e terzo, avendo condiviso il Collegio la proposta del relatore, anche alla luce della memoria
depositata dal ricorrente.
Non si provvede sulle spese di giudizio per il mancato svolgimento di attività difensive della
controparte.
Va disposto che siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati nell’ordinanza, a
norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
Sussistono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
– Dichiara inammissibile il ricorso;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52;
– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 9 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2019