La costrizione della moglie a sopportare la presenza di una concubina integra reato ex art 570 bis c.p.

Cass. pen. Sez. VI, Sent. 6 agosto 2019, n. 35677 – Pres. Petitti, Rel. Vigna
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. COSTANZO Angelo – Consigliere –
Dott. RICCIARELLI Massimo – Consigliere –
Dott. ROSATI Martino – Consigliere –
Dott. VIGNA Maria S. – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
G.G., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 11/01/2018 della CORTE APPELLO di CALTANISSETTA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MARIA SABINA VIGNA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. ANGELILLIS CIRO, che ha
concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
udito il difensore, avvocato TICINO LUIGI del foro di ENNA oggi nominato avvocato di fiducia di
G.G., che ha insistito nell’accoglimento dei motivi di ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Caltanissetta, in riforma della sentenza emessa
dal Tribunale di Enna il 17/02/2015, ha ridotto la pena inflitta a G.G. per il reato di maltrattamenti
ai danni della moglie ad anni due e mesi tre di reclusione.
Si contesta all’imputato di avere maltrattato la moglie Gu.Ca.Ma., umiliandola e costringendola a
tollerare una convivenza more uxorio sotto lo stesso tetto con altra donna, minacciandola,
percuotendola e lesinandole il denaro per fare fronte ad esigenze primarie; così rendendole la vita
particolarmente penosa e dolorosa. I fatti sono contestati dal 2009 “ad oggi” e quindi al momento
della richiesta di rinvio a giudizio del Pubblico ministero nel 2012.
2. Avverso la sentenza ricorre per cassazione G.G., a mezzo del difensore di fiducia, deducendo i
seguenti motivi:
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del reato di cui all’art.
572 c.p.
La persona offesa non è stata in grado di riferire alcun episodio specifico di ingiurie, minacce o
violenza, limitandosi ad affermare di essere stata trattata male in alcune occasioni e di avere
ricevuto qualche schiaffo.
L’imputato era andato a vivere con altra donna in autonomo appartamento chiedendo anche la
separazione dalla moglie, “la quale però aveva opposto un netto rifiuto. Il figlio ha riferito che
all’interno dell’immobile vi erano appartamenti con accessi autonomi, cioè porte diverse collegate
da una scala comune; tale specificazione rende insostenibile l’accusa relativa alla umiliazione
nascente da una convivenza more uxorio sotto lo stesso tetto.
G. viveva in una condizione di estremo disagio e in tale situazione faceva vivere la famiglia ma non
ha posto in essere comportamenti idonei a imporre alla moglie un regime di vita vessatorio,
mortificante e insostenibile.
2.2. Violazione di legge in relazione all’art. 192 c.p.p. e violazione del principio del “al di là di ogni
ragionevole dubbio”.
La Corte di appello non ha fatto altro che confermare le risultanze acquisite in primo grado senza
vagliare i motivi di appello.
2.3. Violazione di legge in relazione agli artt. 516, 517, 521 e 522 c.p.p. per avere la Corte di
appello posto a base della condanna fatti e circostanze che esulano dal periodo in contestazione
(come la convivenza con una donna di nazionalità marocchina).
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito indicate.
2. Il tre motivi articolati dal ricorrente – con i quali il predetto eccepisce sostanzialmente la
violazione di legge ed il vizio di motivazione in punto di valutazione della sussistenza degli estremi
del reato di maltrattamenti – possono essere esaminati congiuntamente, posto che nessuno di essi
sfugge alla censura di inammissibilità.
2.1. In primo luogo, va posto in evidenza come tali censure costituiscano mera replica delle
doglianze già dedotte in appello e non si confrontino con le puntuali risposte fornite dalla Corte
territoriale in merito alle specifiche doglianze mosse con l’atto d’appello. Secondo i consolidati
principi espressi da questa Corte, ciò rende inammissibili i motivi per difetto di specificità,
risultando soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica
argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Cass. Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e
altri, Rv. 243838).
2.2. In secondo luogo, deve essere rilevato come detti motivi si traducano in una confutazione delle
argomentate valutazioni ai giudici di merito e quindi nella prospettazione di una delibazione
alternativa delle emergenze dell’istruttoria dibattimentale. Il che, secondo il costante orientamento
di questa Corte, rende inammissibile il ricorso per cassazione, in quanto fondato su argomentazioni
che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno
dei vizi logici tassativamente previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E), riguardanti la
motivazione del giudice di merito in ordine alla ricostruzione del fatto (Cass. Sez. 6, n. 43963 del
30/09/2013, P.C., Basile e altri, Rv. 258153).
Ed invero, a fronte di una plausibile ricostruzione della vicenda, come descritta in narrativa, sui
precisi riferimenti probatori operati dai giudici di merito, in questa sede, non è ammessa alcuna
incursione nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti,
dovendosi, come detto, la Corte di legittimità limitare a ripercorrere l’iter argomentativo svolto dal
giudice di merito per verificarne la completezza e la insussistenza di vizi logici ictu oculi
percepibili, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni
processuali (ex plurimis Cass. Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).
2.3. Ad ogni buon conto, i giudici di merito hanno fornito un’adeguata risposta in ordine a tutti i
profili oggetto di censura, dovendosi a tal fine valutare unitariamente il compendio motivazionale
della sentenza in verifica e di quella appellata cui la prima fa espresso richiamo, in linea con i
consolidati principi espressi da questa Corte secondo cui, ai fini del controllo di legittimità sul vizio
di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo
grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame,
esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed
operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino
nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Cass.
Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595).
2.4. Deve osservarsi che, secondo il costante insegnamento di questa Corte, il delitto di
maltrattamenti in famiglia non è integrato soltanto dalle percosse, lesioni, ingiurie, minacce,
privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di disprezzo e di offesa alla sua
dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, quali ad esempio, come nel caso de quo
la costrizione della moglie a sopportare la presenza di una concubina (Sez. 6, n. 44700 del
08/10/2013, P, Rv. 256962).
2.5. Va, inoltre, sottolineato che il delitto di cui all’art. 572 c.p., è configurabile anche in danno di
persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano
legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla affiliazione (Sez. 6, n. 3087 del 19/12/2017 Rv.
272134; Sez. 6, n. 33882 dell’08/07/2014 Rv. 262078; Sez. 2, n. 30934 del 23/04/2015, Rv.
264661).
La separazione legale e a maggior ragione la separazione di fatto lasciano, infatti, integri i doveri di
reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione.
Pertanto, poiché la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie in questione, la
separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria incida su quei
vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario o della separazione di fatto,
pongono, come nel caso in esame, la parte offesa in posizione psicologica subordinata o comunque
dipendente (Sez. 6, n. 282 del 26/01/1998, Rv. 210838).
2.6. Nel caso in esame la Corte distrettuale, con motivazione immune da vizi logici, ha sottolineato
che dal 2009 – è irrilevante che i giudici di merito a titolo esemplificativo abbiano fatto riferimento
anche a condotte relative a periodi antecedenti – gli atti di offesa alla dignità della parte offesa, di
disprezzo nei confronti della stessa, nonché le violenze fisiche e le minacce sono stati abituali.
Vengono correttamente indicati dai giudici di merito l’iniziale imposizione della convivenza con
altra donna, le continue privazioni economiche imposte alla moglie e al figlio, costretti a recarsi alla
(OMISSIS) per mangiare, a fronte della agiatezza in cui viveva l’imputato con l’amante, la
sottrazione di 175.000 Euro derivanti dalla vendita da parte della parte offesa di un immobile di sua
proprietà, gli atti di violenza fisica e verbale.
2.7. I giudici di merito hanno puntualmente esplicitato le ragioni per le quali le dichiarazioni di
Gu.Ca.Ma. si debbano ritenere credibili, in quanto intrinsecamente attendibili e confortate da
riscontri esterni quali le dichiarazioni del figlio. Le considerazioni svolte sul punto si accordano
perfettamente all’insegnamento espresso da questo giudice di legittimità a Sezioni Unite, secondo
cui le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona
offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di
penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della
credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro
deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le
dichiarazioni di qualsiasi testimone (Cass. Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte ed altri, Rv.
253214).
2.8. Quanto al dolo, deve osservarsi che la giurisprudenza è costante nel ritenere che per la
sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 572 c.p. non è necessario che l’agente
abbia perseguito particolari finalità né il proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o
morali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico cioè la coscienza e
volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo ed abituale (Sez. 6, n.
1067 del 3 luglio 1990, Rv. 186275, Soru); non è, quindi, richiesto un comportamento vessatorio
continuo ed ininterrotto; essendo l’elemento unificatore dei singoli episodi costituito da un dolo
unitario, e pressoché programmatico, che abbraccia e fonde le diverse azioni; esso consiste
nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei
maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di
compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in
essere già altre volte (Sez. 6, n. 468 del 06/11/1991 dep. 20/01/1992 Rv. 188931, Faranda); esso è,
perciò costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che
determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso
di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento dall’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità
fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali
sofferenze.
Di tali principi la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione sottolineando la sussistenza di una
precisa determinazione del ricorrente a sottoporre la moglie a vessazioni morali – e talvolta fisiche –
di accertata offensività.
La circostanza che l’imputato, all’epoca dei fatti, non versasse in adeguate condizioni economiche
viene correttamente ritenuta del tutto irrilevante sotto il profilo del dolo del reato di maltrattamenti.
3. Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
In ragione delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e
considerato che si ravvisano ragioni di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità,
deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro
2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi,
a norma del D.L.gs n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 30 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2019