La prova della qualità di chiamato all’eredità può essere data anche con la dichiarazione sostitutiva di atto notorio

Cass. civ. Sez. II, 31 maggio 2019, n. 15026
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 3256-2016 proposto da:
L.R.R., R.E., R.A., Ri.Em., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA BUCCARI 3, presso lo studio dell’avvocato EMILIO RINALDI, anche quale difensore di se stesso che rappresenta e difende gli altri ricorrenti giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
PICCOLA OPERA DIVINA PROVVIDENZA DON ORIONE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TACITO 39, presso lo studio dell’avvocato GIULIO FAVINO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARMINE PUNZI giusta procura a margine del controricorso;
– ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 3901/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 25/06/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/01/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Udito il Pubblico Ministero nella persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE ALESSANDRO che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e per l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato;
udito l’Avvocato Emilio Rinaldi per i ricorrenti e l’Avvocato Antonio D’Alessio per delega dell’Avvocato Carmine Punzi per la controricorrente.

Svolgimento del processo
R.E. e R.M. con citazione del 7 aprile 2006 convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma la — chiedendo, nell’asserita qualità di parenti di sesto grado del de cuius, R.G., la risoluzione della disposizione testamentaria gravante sull’istituzione di erede in favore della convenuta, la quale prevedeva la creazione, presso l’abitazione del de cuius, a cura della stessa convenuta, di una casa di riposo per vecchi professionisti, di preferenza ingegneri, con intestazione della medesima ai genitori del testatore.
Assumevano che l’erede beneficiata non si era attivata per l’adempimento dell’onere, nonostante fosse decorso un considerevole tempo dall’apertura della successione (risalente al 1967), così che andava disposta la risoluzione della previsione modale, ovvero ne andava dichiarata la nullità. Nella resistenza della convenuta, interrottosi il giudizio per il decesso dell’attore R.M., e subentrati i suoi eredi, L.R., Ri.Em. e R.A., il Tribunale con la sentenza n. 17729 del 14 maggio 2009 ha rigettato la domanda, rilevando che gli istanti non avevano dimostrato l’inesistenza di altri successibili di grado poziore al loro, assumendo altresì che l’azione di risoluzione era prescritta.
Avverso tale sentenza hanno proposto appello gli attori e, sempre nella resistenza della Piccola Opera della Divina Provvidenza di Don Orione, la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 3901 del 25 giugno 2015, ha rigettato l’appello, condannando gli appellanti anche al rimborso delle spese del giudizio di secondo grado.
Dopo avere dato atto della novità, e conseguente inammissibilità della domanda di risarcimento del danno derivante dal depauperamento del patrimonio ereditario per effetto di alienazioni poste in essere dalla convenuta nel corso degli anni, rilevava che legittimati a richiedere la risoluzione nonché la nullità della disposizione testamentaria modale sono solo coloro destinati a subentrare nella posizione giuridica dell’onerato inadempiente.
Gli appellanti non avevano fornito la prova di essere i parenti legittimi del testatore di grado più stretto, non avendo dimostrato l’assenza di parenti di grado poziore, il che escludeva che fossero legittimati ad agire.
Analogo difetto di legittimazione era riscontrato anche per la domanda di adempimento dell’onere testamentario, atteso che la stessa compete non agli eredi in quanto tali, ma ai prossimi congiunti, stante l’esigenza con tale azione di soddisfare un interesse morale dello stesso testatore che in realtà si trasferisce ai prossimi congiunti.
Ne derivava che, poiché vi era la prova dell’esistenza di parenti legittimi del defunto di grado più prossimo rispetto a quello (sesto) vantato dagli appellanti, questi ultimi erano privi di legittimazione ad agire.
Era del pari disatteso il secondo motivo di appello concernente la liquidazione delle spese di lite, come operata dal Tribunale, in quanto il mezzo di impugnazione non specificava le ragioni in base alle quali la liquidazione sarebbe dovuta avvenire sulla scorta di uno scaglione diverso da quello riferibile al valore della domanda attorea, che era stato individuato in citazione nell’importo dei beni immobili caduti in successione (comprensivi di quelli già alienati per oltre diciotto milioni di Euro, e di quelli residui, di valore pari ad oltre ventuno milioni di Euro, senza considerare la redditività degli immobili stessi). Nemmeno fondata era la contestazione circa l’insussistenza della soccombenza, in quanto alcune delle domande attoree erano state reputate assorbite.
In relazione ai motivi che investivano l’apprezzamento dell’esistenza di parenti di grado più vicino a quello vantato dagli appellanti, la decisione d’appello rilevava che era onere degli stessi attori fornire la prova dell’inesistenza di parenti di grado viciniore, osservando altresì che in realtà l’esistenza di parenti aventi tale grado risultava da una precedente azione esercitata in giudizio nei confronti della convenuta, come emergeva anche dalla rinuncia alla stessa di cui all’atto del 13 dicembre 1981, alla quale aveva fatto richiamo il Tribunale.
Infine, era fondato anche il quinto motivo di appello che verteva sulla prescrizione, dovendosi reputare che nella specie la stessa andava fatta decorrere dalla data di apertura della successione (19 febbraio 1967) ovvero dalla data di accettazione dell’eredità da parte della convenuta (1969), occorrendo comunque considerare che l’azione intentata dagli altri eredi e conclusa con la rinuncia del 1981 avrebbe dovuto indurre gli appellanti a considerare la volontà dell’ente beneficiario di non dare corso alle disposizioni testamentarie (e ciò anche a tacere del fatto che la documentazione prodotta dimostrava le attività poste in essere dalla Opera Pia al fine di dare attuazione all’onere testamentario).
Per la cassazione di tale sentenza propongono ricorso R.E., L.R., Ri.Em. e R.A., sulla base di quattordici motivi.
Resiste con controricorso la Piccola Opera della Divina Provvidenza di Don Orione, che a sua volta propone ricorso incidentale condizionato affidato ad un motivo.
I ricorrenti principali hanno resistito con controricorso al ricorso incidentale.
Entrambe le parti hanno depositato memorie exart. 378 c.p.c.in prossimità dell’udienza.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza nella parte relativa alla disamina dell’eccezione di prescrizione, essendosi disatteso in maniera implicita il motivo di appello con il quale si denunciava la nullità dell’eccezione di prescrizione stante la mancata indicazione da parte della convenuta della data di decorrenza, e ciò ai sensidell’art. 112 c.p.c.,art. 132 c.p.c., n. 4,art. 156 c.p.c., comma 2,art. 118 disp. att. c.p.c.,artt. 24 e 111 Cost..
Si deduce che secondo i principi affermati da questa Corte, è onere della parte che eccepisce la prescrizione indicare il momento di decorrenza della stessa, laddove nel caso in esame nella comparsa di risposta in primo grado tale indicazione era stata del tutto omessa, essendo stata oggetto di integrazione solo nella comparsa di risposta in appello, e peraltro in maniera del tutto generica.
Il secondo motivo deduce, sempre in relazione all’accoglimento dell’eccezione di prescrizione, la violazione e falsa applicazione degliartt. 2934 e 2935 c.c., in quanto la Corte d’Appello avrebbe riscontrato la prescrizione facendo riferimento a ben tre distinte date di decorrenza della stessa (data di apertura della successione, data di accettazione dell’eredità da parte della convenuta, data della rinuncia alla precedente azione intentata da altri parenti del R.).
Il terzo motivo di ricorso lamenta la nullità dello stesso capo di sentenza per la violazione degliartt. 132 e 156 c.p.c.,art. 118 disp. att. c.p.c.eartt. 24 e 111 Cost.per la motivazione apparente e comunque perplessa, quanto all’individuazione della data di decorrenza della prescrizione.
Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazionedell’art. 2938 c.c., nonché degliartt. 112 e 183 c.p.c.in quanto la Corte d’Appello avrebbe individuato il dies a quo della prescrizione in momenti non indicati dalla parte eccipiente, che si era limitata a far riferimento alla data di apertura della successione ed alla successiva data di autorizzazione dell’erede testamentaria all’accettazione dell’eredità.
Il quinto motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 648, 1218 e 1453 e ss. c.c.,artt. 2697 e 2935 c.c., in quanto la Corte d’appello ha fatto decorrere la prescrizione da un momento in cui il diritto azionato non poteva essere fatto valere.
Infatti, al momento dell’apertura della successione, in mancanza di accettazione, non poteva reclamarsi da parte della convenuta l’adempimento dell’onere apposto alla sua istituzione, mentre in relazione alla diversa data di accettazione dell’eredità, occorreva tenere conto della complessità delle attività necessarie a dare attuazione alla volontà del de cuius, attesa anche l’assenza di un termine assegnato dal de cuius per l’adempimento dell’onere.
Infine, quanto alla data della conclusione della precedente controversia, doveva escludersi che sussistesse la certezza dell’inadempimento definitivo della controparte, tale da imporre già a quel momento di dover agire per la risoluzione.
Il sesto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degliartt. 2697, 565 e 572 c.c.eart. 113 c.p.c., comma 1 per avere la Corte d’Appello sostenuto che fosse onere degli appellanti provare l’inesistenza di parenti di grado viciniore.
In parte qua la decisione gravata ha confermato quanto statuito dal Tribunale trascurando che le norme in materia di successione legittima attribuiscono la vocazione ereditaria a tutti i parenti, sebbene con la graduazione prevista dalla stessa legge.
L’esistenza di parenti di grado più prossimo a quello vantato dagli attori costituisce una condizione ostativa dell’accoglimento della domanda, il cui onere probatorio incombeva sulla convenuta, non potendosi quindi esigere che i ricorrenti dovessero altresì farsi carico di dimostrare l’inesistenza di tali parenti di grado poziore.
Il settimo motivo lamenta la violazione e falsa applicazionedell’art. 167 c.p.c., comma 1,artt. 101 e 112 c.p.c.eart. 116 c.p.c., comma 2 edell’art. 2697 c.c., per avere la Corte considerato come una contestazione di un fatto (l’inesistenza di altri parenti) quella invece di un diritto, in quanto la convenuta nella comparsa di risposta non aveva contestato l’assenza di parenti di grado poziore, ma si era limitata a dedurre che gli attori fossero privi di legittimazione, con la conseguenza che la circostanza della assenza di altri parenti era ormai al di fuori del thema probandum.
L’ottavo motivo denuncia la nullità parziale della sentenza per violazionedell’art. 112 c.p.c.eart. 132 c.p.c., n. 4,art. 156 c.p.c., comma 2,art. 118 disp. att. c.p.c.,artt. 24 e 111 Cost.per motivazione apparente in ordine al contenuto della contestazione sollevata dalla convenuta, in quanto non ha adeguatamente illustrato in quale parte della sua tesi difensiva la convenuta avesse contestato il fatto che non vi fossero parenti di grado più vicino a quello vantato dai ricorrenti.
Il nono motivo lamenta la violazione e falsa applicazione degliartt. 2697 e 2702 c.c.,artt. 101 e 214 c.p.c.,artt. 24 e 111 Cost., laddove la Corte d’Appello ha attribuito valenza probatoria ad uno scritto proveniente da soggetti estranei al giudizio senza altri elementi di convincimento.
La sentenza gravata ha, infatti, reputato che fosse stata offerta la prova dell’esistenza di parenti di grado poziore sulla scorta della rinunzia agli atti del precedente giudizio recante la data del 13 dicembre 1981 (rectius 15 dicembre 1981), la quale però contiene unicamente delle dichiarazioni rese da soggetti estranei al presente giudizio, sicché non poteva fondare di per sé sola il convincimento del giudice circa la prova dell’effettiva veridicità di quanto dichiarato.
Il decimo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione degliartt. 449, 451 e 452 c.c.in quanto la Corte d’Appello ha utilizzato come prova di convincimento circa l’esistenza del rapporto di parentela un atto diverso dagli atti di stato civile. L’undicesimo motivo lamenta la violazione e falsa applicazionedell’art. 456 c.c.,art. 457 c.c., comma 2,artt. 459, 476, 565 e 572 c.c.in quanto la Corte d’Appello ha attribuito la qualità di eredi legittimi a soggetti che non potevano rivestirla attesa la natura testamentaria della successione.
Poiché il testamento redatto dal de cuius aveva attribuito alla Opera Pia la qualità di erede universale, non poteva essere invocata dai parenti, ancorché di grado più vicino a quello vantato da parte degli attori, una chiamata alla successione, essendo quindi del tutto irrilevante la loro eventuale accettazione tacita.
Il dodicesimo motivo denuncia la nullità parziale della sentenza per la violazionedell’art. 112 c.p.c.,artt. 24 e 111 Cost.per l’omessa pronuncia sul motivo di appello con il quale si sosteneva che la valutazione circa l’esistenza di parenti di grado viciniore andasse effettuata non già alla data di apertura della successione, ma alla diversa data di proposizione della domanda.
Il tredicesimo motivo denuncia la nullità parziale della sentenza per motivazione apparente nonché per violazione e falsa applicazione degliartt. 74, 76, 77, 572 e 2697 c.c.eart. 115 c.p.c., comma 1, per avere la Corte d’Appello affermato l’esistenza di parenti di grado più prossimo a quello dei ricorrenti, senza conoscere né accertare quale fosse effettivamente tale grado e sulla base di un documento che non contiene alcuna indicazione al riguardo, come appunto la dichiarazione di rinuncia del 1981.
Il quattordicesimo motivo denuncia infine la violazione e falsa applicazione delD.M. n. 55 del 2014,art.5, dellaL. n. 247 del 2012,art.13, comma 6e dell’art. 2233 c.c. in quanto la Corte d’Appello ha liquidato le spese di lite sulla base di un’erronea determinazione del valore della controversia.
I giudici di appello avrebbero liquidato le spese applicando lo scaglione di valore tra 16 e 32 milioni di Euro, tenuto conto del fatto che trattavasi di una pronuncia di rigetto.
Si adduce, in senso contrario che la domanda aveva ad oggetto la risoluzione della disposizione testamentaria per inadempimento dell’onere nonché una correlata domanda risarcitoria.
La prima domanda era però di valore indeterminabile, mentre per la seconda, poiché la somma attribuita a titolo di risarcimento era pari a zero, non poteva tenersi conto dell’importo richiesto.
Anche la ulteriormente correlata domanda risarcitoria presentava un valore indeterminato, con la conseguenza che la liquidazione doveva avvenire considerando la causa di valore indeterminabile, atteso anche il principio matematico per cui cumulando una causa di valore determinato ad una di valore indeterminato si ottiene sempre un valore indeterminato.
1.1 L’unico motivo di ricorso incidentale condizionato denuncia l’omessa disamina di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti rappresentato dal mancato esame della contestazione circa la titolarità da parte degli attori di un valido rapporto di parentela.
Si rileva che la nozione di parentela non può prescindere dall’esistenza di un vincolo legittimo, il che porta ad escludere dal novero dei parenti quei soggetti legati da meri rapporti di consanguineità, generati al di fuori del matrimonio. Nella specie gli attori avevano dedotto di essere figli di R.E., a sua volta figlio di R.A., figlio di R.G.B., figlio di R.P. che però era il padre di R.C., padre del de cuius.
Poiché R.E. padre degli attori è figlio naturale di R.A., e poiché il matrimonio tra R.E. e M.G. è stato dichiarato nullo dal Tribunale ecclesiastico, ne consegue che non esiste un rapporto di parentela suscettibile di far includere gli istanti tra i soggetti legittimati a vantare diritti successori.
2. In limine litis deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del controricorso sollevata nelle memorie exart. 378 c.p.c.dai ricorrenti sul presupposto del conferimento della procura speciale da parte dell’Economo Generale, in contrasto con quanto previsto dall’art. 638p.3 del codex iuris canonici che per i soggetti sottoposti alla disciplina di tale codice prevede, secondo il testo risultante dalla traduzione riportata nella stessa memoria che “per la validità dell’alienazione e di qualunque negozio da cui la situazione patrimoniale della persona giuridica potrebbe subire detrimento si richiede la licenza scritta rilasciata dal superiore competente con il consenso del suo consiglio”.
Si deduce che nella fattispecie il conferimento dell’incarico difensivo agli odierni patrocinatori della controricorrente poiché prevede la contemporanea assunzione di un onere economico implica la conclusione di un negozio idoneo potenzialmente a portare detrimento all’ente, essendo quindi necessario il consenso del Superiore Generale, la cui assenza rende invalidi la procura ed il sottostante mandato difensivo.
Rileva il Collegio che non appare più applicabile alla vicenda de qua la precedente giurisprudenza di questa Corte che in passato aveva affermato che (cfr. ex multis Cass. S.U. n. 6918/1983) le autorizzazioni canoniche o governative, richieste affinché gli enti ecclesiastici possano stare in giudizio, sono rivolte esclusivamente ad assicurare esigenze di tutela degli enti medesimi, sicché la loro mancanza, integrando una nullità relativa, può essere fatta valere soltanto dall’ente interessato. (conf Cass. n. 2989/81, Cass. n. 2512/70), atteso che si tratta di orientamento maturato in un diverso contesto normativo.
Alla fattispecie è invece destinata a trovare applicazione la nuova disciplina di cui allaL. n. 222 del 1985,art.18(adottata all’esito della revisione dei Patti Lateranensi) che recita che “Ai fini dell’invalidità o inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici non possono essere opposte a terzi. che non ne fossero a conoscenza, le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l’omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche”.
Tale nuova disposizione normativa è stata intesa nel senso che (cfr. Cass. n. 2117/2015) gli amministratori di beni ecclesiastici, in mancanza del permesso scritto del superiore competente, non possono validamente compiere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, impegnando l’ente con riguardo ad un negozio (nella specie, un contratto preliminare di vendita immobiliare) idoneo a procurare allo stesso un detrimento patrimoniale, essendo la limitazione del diritto canonico opponibile anche ai terzi.
Tuttavia ad escludere la invalidità della procura e del sottostante mandato difensivo conferito dalla convenuta ai difensori nominati in questa sede è l’impossibilità di ricondurre tali atti alle ipotesi per le quali a mente del menzionato canone 683 p.3 si imponga la licenza scritta del superiore competente. Infatti, in disparte l’espresso riferimento all’applicabilità della norma ad atti negoziali, ciò che appare carente nella fattispecie è la ricorrenza del pericolo di potenziale detrimento derivante dall’incarico defensionale de quo, atteso che, una volta esclusa la ricorrenza di un’ipotesi di alienazione, atteso l’esito della lite nei precedenti gradi di giudizio, che ha visto sempre vittoriosa la Piccola Opera della Provvidenza, che in tal modo si è assicurata la stabilità degli effetti successori in suo favore, anche la difesa nel giudizio di legittimità appare funzionale alla salvaguardia di un interesse preminentemente conservativo che non consente di ravvisare la potenziale dannosità dell’incarico.
Né vale addurre che dal conferimento del mandato scaturirebbero oneri economici, nella specie corrispondente ai compensi dovuti ai difensori, perché ad opinare in questo modo qualsiasi attività negoziale che preveda la nascita di un’obbligazione, ancorché a carattere corrispettivo a carico dell’ente ecclesiastico dovrebbe essere sottoposta alla licenza scritta del superiore competente, e ciò in evidente contrasto con quanto prevede la stessa regola di diritto canonico che richiede che l’attività negoziale, quando non abbia carattere traslativo di diritti dell’ente, debba essere autorizzata dal superiore solo se l’ente possa subire un detrimento da intendersi come un pregiudizio che ecceda la semplice insorgenza di un’obbligazione a carattere corrispettivo.
3. Ritiene il Collegio che l’ordine logico delle questioni imponga la previa disamina dei motivi che investono direttamente la titolarità del diritto in capo ai ricorrenti di poter far valere l’invalidità ovvero la risoluzione o l’adempimento dell’onere testamentario (atteso che ove venisse confermata la valutazione resa sul punto dalla Corte d’Appello, risulterebbero assorbiti i motivi di ricorso che attengono invece al riscontro della maturata prescrizione, relativa peraltro alla sola domanda di risoluzione exart. 648 c.c.).
In tal senso appare possibile, attesa l’evidente connessione, la disamina congiunta del sesto, settimo, ottavo, nono, decimo e tredicesimo motivo di ricorso.
I giudici di appello hanno ritenuto, con affermazione in diritto che non risulta essere censurata con i motivi proposti, che la risoluzione o la nullità della disposizione testamentaria modale possano essere richieste solo da coloro che sono destinati a subentrare nella posizione giuridica dell’onerato inadempiente, aggiungendo specificamente che non può farsi distinzione tra azione di nullità ed azione di risoluzione.
Da tale premessa hanno quindi tratto la conclusione che gli attori erano privi di legittimazione.
Oltre a sottolineare che mancava la prova dell’assenza di eredi di grado più prossimo rispetto a quello invocato dai ricorrenti (sesto), a pag. 6 della sentenza hanno altresì affermato che sussisteva per converso la prova, adeguatamente valorizzata dal Tribunale, dell’esistenza di eredi di grado viciniore al de cuius, affermazione questa che risulta ribadita anche alla pag. 7, alla fine del paragrafo 4.1.1, dove si precisa che esistendo la prova di congiunti di grado più prossimo, gli attori non potevano ritenersi legittimati, in quanto non portatori dell’interesse che il testatore intendeva perseguire (cfr. Cass. n. 2306/1975 nonché Cass. n. 4936/1980, cui anche da ultimo Cass. n. 4444/2016 che ribadisce che anche l’azione di adempimento compete, oltre che ai beneficiari dell’onere, ai prossimi congiunti, in quanto tutori degli interessi più strettamente connessi alla persona del defunto).
La questione concernente la prova della qualità di erede e del relativo grado risulta poi esaminata anche nel paragrafo 4.3 della sentenza, ma accanto all’affermazione secondo cui sarebbe onere di chi agisce in giudizio quale erede dimostrare anche l’inesistenza di eredi di grado poziore (in quanto elemento costitutivo della pretesa), al successivo paragrafo 4.4 si precisa che “l’esistenza di parenti di grado più vicino risulta dall’azione esercitata in giudizio nei confronti del Don Orione, quale risulta dalla rinuncia all’azione agli atti di giudizio del 13 dicembre 1981 (rectius 15 dicembre 1981), debitamente richiamata nella sentenza impugnata” (valga solo ricordare che la sentenza del Tribunale, nella parte riportata nella ricostruzione dei fatti di causa operata dai giudici di appello, riferiva di una domanda proposta da una serie di soggetti iure hereditatis nei confronti della stessa convenuta con atto di citazione del 24-28 maggio 1968, aggiungendo che tale giudizio formò oggetto di rinuncia con la detta dichiarazione del 15 dicembre 1981, sottoscritta da alcuni degli originari attori ed aventi causa, nella dichiarata e confermata qualità di attuali ed esclusivi aventi causa dell’ing. R.G., sicché “l’introduzione di quel giudizio e la successiva transazione, atti compiuti manifestamente iure hereditario, fanno venire meno in radice una legittimazione attiva degli odierni attori ed intervenuti per le azioni da essi proposte”).
Atteso il tenore delle motivazioni spese sul punto dal giudice di appello, che non appaiono suscettibili di configurare il vizio di nullità della sentenza per difetto di motivazione, ovvero per motivazione perplessa irrimediabilmente contraddittoria (come richiesto dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite a seguito della riforma di cuiall’art. 360 c.p.c., comma 1, novellato n. 5 cfr. Cass. SS.UU. nn. 8053-8054/2014), risulta evidente come in effetti la decisione gravata, ancorché contenga l’affermazione censurata con il sesto, settimo ed ottavo motivo in punto di corretta ripartizione dell’onere della prova circa la presenza di eredi di grado più prossimo, tenuto conto anche dell’atteggiamento difensivo della controparte, abbia però affermato che era stata fornita la prova in concreto dell’esistenza dei detti parenti.
Anche laddove si dovesse ritenere erroneamente affermata la regola di riparto dell’onere della prova quanto alla circostanza dedotta in ricorso, e si escludesse che la contestazione compiuta dalla convenuta nella comparsa di risposta in primo grado imponesse effettivamente di reputare la circostanza contestata e quindi necessitante di prova (in realtà la lettura di tale atto, al punto 2. denota come la contestazione della legittimazione attiva fosse accompagnata dalla specificazione che a detta della controricorrente non era stata fornita la prova della discendenza dal de cuius e del grado di parentela con lo stesso, investendo quindi specifici fatti, essendo ricollegata al punto 3. al richiamo alla precedente vicenda giudiziaria iniziata nel 1968, che aveva visto parti attive soggetti qualificatisi a loro volta come eredi, ben potendosi ritenere incensurabile alla luce di tali elementi l’affermazione del giudice di appello secondo cui l’ente ecclesiastico aveva sempre contestato la legittimazione degli attori), il rigetto della domanda attorea resterebbe comunque supportato dalla diversa affermazione circa il fatto che fosse stata offerta effettivamente la prova dell’esistenza di eredi di grado poziore.
Di ciò risulta peraltro consapevole anche parte ricorrente che appunto mira ad inficiare la correttezza di tale valutazione con il nono, il decimo ed il tredicesimo motivo, che tuttavia non possono essere accolti.
Quanto alla modalità con la quale fornire la prova della qualità di erede legittimo, proprio alla luce di quanto affermato da Cass. S.U. n. 12065/2014, sebbene la modalità preferibile sia quella del ricorso agli atti dello stati civile, lo stesso ragionamento sposato dalla sentenza ora citata, in riferimento alla possibilità che anche una dichiarazione sostituiva di atto notorio possa contribuire a formare il convincimento del giudice alla luce dell’atteggiamento della controparte, impone di ritenere che non viga un principio di esclusività della detta prova, rappresentata dagli atti dello stato civile, ma che invece sia possibile fornire la dimostrazione della qualità di erede (rectius di chiamato) anche tramite elementi probatori diversi, purché sottoposti al prudente apprezzamento del giudice (cfr. altresì Cass. n. 7276/2006, per l’ipotesi di assenza degli atti dello stato civile).
Tornando al caso in esame, l’errore di prospettiva nel quale si pongono le censure dei ricorrenti è quello di guardare alla valutazione di congruità dell’apprezzamento degli elementi istruttori operata dal giudice di merito avuto riguardo al solo contenuto dell’atto di rinuncia del 15 dicembre 1981 (il cui testo risulta trascritto a pag. 28 del ricorso), trascurando però di considerare, come si rileva dai brani della motivazione della sentenza d’appello sopra riportati, anche nella parte in cui fa rinvio al contenuto della sentenza del Tribunale – cui dichiara di aderire – che in realtà l’affermazione circa la prova dell’esistenza di parenti di grado più prossimo si fonda sulla complessiva valutazione delle vicende giudiziarie intraprese con la citazione del 1968, vicende poi conclusesi tra le parti ivi coinvolte con il richiamato atto di rinuncia.
Fonte del convincimento del giudice di appello non è il solo atto de quo, ma “l’introduzione di quel giudizio” (pag. 3 della sentenza impugnata che richiama il tenore della decisione di prime cure) o, come poi aggiunto a pag. 9, paragrafo 4.4., l’azione esercitata in giudizio nei confronti del Don Orione, quale risulta dalla rinuncia all’azione agli atti del giudizio.
Le critiche dei ricorrenti, nella parte in cui si concentrano unicamente sulla disamina del contenuto di tale atto di rinuncia, assumendone la carenza di efficacia probatoria nel presente giudizio, in quanto atto proveniente da soggetti terzi, peccano evidentemente del requisito di specificità, in quanto mirano a contestare l’idoneità probatoria di uno solo degli elementi di prova dei quali si è avvalso il provvedimento gravato, che però ha inteso valorizzare tutti gli elementi che comunque emergevano dalla proposizione del preesistente giudizio.
In tale direzione colgono nel segno le osservazioni di cui a pag. 22 del controricorso, laddove si sottolinea la necessità di dover valutare tutti i documenti relativi alla vicenda giudiziaria più risalente nel tempo, ed in tale corretta prospettiva non può non evidenziarsi che, se effettivamente la rinuncia non reca una specifica indicazione del grado di parentela dei rinuncianti, la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Roma nel corso del giudizio di cui sopra (Tribunale Roma n. 14680/1974, presente negli atti di causa), a pag. 9 contiene la specifica affermazione secondo cui era stata offerta prova dagli allora attori di essere parenti del defunto di quarto grado, in quanto figli di fratello o sorella dei genitori del testatore.
Ne deriva che l’accertamento tipicamente riservato al giudice di merito, concernente il corretto apprezzamento delle risultanze istruttorie, non risulta adeguatamente censurato, stante l’erroneo convincimento di parte ricorrente che il giudizio circa la prova positiva dell’esistenza di eredi di grado poziore fosse stata ricavata dalla sola rinuncia, e non anche dal complesso degli elementi probatori ricavabili dalla vicenda giudiziaria che quest’ultima aveva portato a termine.
4. Va disatteso l’undicesimo motivo di ricorso, in quanto si fonda sull’erroneo presupposto che, trattandosi di vicenda che attiene a successione regolata per testamento, non sarebbe dato discorrere di eredi legittimi.
In effetti, tenuto conto proprio dello specifico risultato cui mirava la domanda degli attori, volta appunto a far venir meno la portata del testamento, con la conseguente apertura della successione legittima, e proprio alla luce di quanto sopra precisato circa l’individuazione della legittimazione a promuovere l’azione di risoluzione della disposizione testamentaria gravata da onere, è evidente che, ai fini della verifica della titolarità del diritto azionato in capo agli attori, fosse necessario verificare se gli stessi attori rientravano tra i beneficiari della chiamata successoria ex lege, ancorché la stessa fosse destinata ad operare in via subordinata.
L’individuazione dei chiamati ulteriori e specificamente di quelli dotati di grado poziore tra i soggetti beneficiari della vocazione legittima, costituiva un accertamento necessario ed imprescindibile per valutare la proponibilità della domanda oggetto di causa, dovendosi escludere che il solo fatto che la pur prevalente chiamata testamentaria fosse esitata nell’accettazione dell’eredità da parte dell’erede designata per testamento, non potendosi reputare che tale devoluzione dei beni relitti faccia di per sé perdere la qualità di chiamati a coloro che lo sono in via subordinata (cfr. a conforto di tale conclusione, quanto dettatodall’art. 480 c.c., comma 3, che nel prevedere che per i chiamati ulteriori il termine per accettare l’eredità decorra, in caso di accettazione da parte dei chiamati di grado precedente, solo dal giorno in cui l’acquisto di questi ultimi è venuto meno, presuppone implicitamente che la qualità di chiamato permanga, sebbene non sia sottoposta a prescrizione la peculiare sua estrinsecazione concretantesi nell’accettazione dell’eredità).
5. Anche il dodicesimo motivo deve essere rigettato.
Ed, invero deve innanzi tutto escludersi che ricorra un’ipotesi di omessa pronuncia come denunciato in rubrica, atteso che l’argomento sviluppato nel motivo in esame, lungi dal costituire un autonomo motivo di appello rappresentava una delle argomentazioni che erano state poste a sostegno del motivo di gravame volto a confutare l’affermazione circa il difetto di titolarità del diritto in capo agli attori (in tal senso si riferisce che la questione rappresentava un secondo concorrente profilo di critica alla decisione del Tribunale).
Ne consegue che non è dato discorrere di omessa pronuncia exart. 112 c.p.c., in quanto nella redazione della motivazione della sentenza, il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, essendo necessario e sufficiente che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con il percorso argomentativo seguito (Cass. n. 24542/2009; Cass. n. 25509/2014).
Il motivo è comunque infondato nel merito, in quanto l’affermazione dei ricorrenti secondo cui per stabilire chi fossero i parenti di grado viciniore occorreva avere riguardo alla data di proposizione della domanda introduttiva del presente giudizio, e non anche a quella di apertura della successione, oltre a contrastare con il principio secondo cui la qualità di chiamato va individuata in relazione al momento dell’apertura della successione, non si confronta con il contenuto effettivo della sentenza impugnata la quale ha accertato che con l’esercizio della precedente azione giudiziaria da parte dei soggetti ritenuti essere parenti di grado poziore, era stata posta in essere un’attività nella evidente qualità di pretesi eredi, tale da concretare un’accettazione quantomeno tacita, che sebbene inefficace in presenza dell’accettazione posta in essere dall’erede testamentario, sarebbe comunque destinata ad operare ove venisse meno la chiamata testamentaria, assicurando quindi la prevalenza dell’acquisto del titolo di erede in capo agli allora rinunzianti alla lite.
6. Il rigetto dei precedenti motivi, per effetto del quale risulta non più contestabile l’affermazione circa il difetto di legittimazione (rectius titolarità) del diritto di proporre le domande di nullità, risoluzione ed adempimento dell’onere in capo ai ricorrenti, determina altresì l’assorbimento dei motivi da 1 a 5 che investono la diversa affermazione dei giudici di appello secondo cui, ancorché in rifermento alla sola azione di risoluzione, sarebbe comunque maturata la prescrizione del diritto azionato dai ricorrenti (per l’affermazione secondo cui il diritto de quo, distinguendosi dalla petitio hereditatis, è sottoposto alle comuni regole in tema di prescrizione, Cass. n. 11430/1993; Cass. n. 4145/1976).
7. Infine va rigettato anche il quattordicesimo motivo di ricorso in punto di corretta liquidazione delle spese di lite.
Quanto all’assunto di parte ricorrente secondo cui, pur a fronte di una domanda risarcitoria quantificata in oltre 18 milioni di Euro, per i beni venduti dalla convenuta, ed in oltre 21 milioni di Euro per i beni residui (e ciò senza considerare la redditività degli stessi beni) occorrerebbe invece considerare un valore pari a zero, stante il rigetto della domanda risarcitoria, lo stesso contrasta palesemente con la giurisprudenza di questa Corte che anche di recente ha ribadito che (cfr. Cass. n. 28417/2018) in caso di rigetto della domanda, nei giudizi per pagamento di somme o risarcimento di danni, il valore della controversia, ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato a carico dell’attore soccombente, è quello corrispondente alla somma da quest’ultimo domandata, dovendosi seguire soltanto il criterio del “disputatum”, senza che trovi applicazione il correttivo del “decisum” (conf. Cass. n. 25553/2011).
Ne consegue che alla domanda volta a conseguire la risoluzione della disposizione testamentaria, ritenuta di valore indeterminabile viene a cumularsi una domanda di condanna al pagamento di somme o liquidazione danni il cui importo risulta invece determinato.
Da tale considerazione si trae quindi il corollario secondo cui (cfr. Cass. n. 4187/2017) in tema di liquidazione degli onorari di avvocato, il principio per il quale, ove siano state proposte più domande, alcune di valore indeterminabile ed altre di valore determinato, la controversia deve essere ritenuta, nel complesso, di valore indeterminabile, opera solo laddove l’applicazione dello scaglione tariffario previsto per le cause di valore indeterminabile consenta il riconoscimento di compensi superiori rispetto a quelli che deriverebbero facendo applicazione dello scaglione applicabile in ragione del cumulo delle domande di valore determinato (conf. Cass. n. 9975/2016), risultando quindi incensurabile la decisione del giudice di appello di procedere alla liquidazione delle spese di lite sulla scorta dello scaglione di valore e secondo le indicazioni di cui a pag. 10 della sentenza gravata.
8. Il ricorso principale deve quindi essere rigettato, e ciò determina l’assorbimento del ricorso incidentale, espressamente qualificato come condizionato.
9. Le spese seguono la soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.
10. Poiché il ricorso principale è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti principali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la loro impugnazione.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale; condanna i ricorrenti principali, in solido tra loro, al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 15.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti principali del contributo unificato dovuto per i rispettivi ricorsi a norma dell’art. 1 bis, stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 17 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2019