ACCORDI NEL CORSO DELLA VITA FAMILIARE

Di Gianfranco Dosi
I Gli accordi “nel corso della vita familiare” come regola del regime primario
L’art. 144 del codice civile (Indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia) prescrive al primo comma la regola che” I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia”. E al secondo comma prevede che “A ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare l’indirizzo con¬cordato”.
Questa norma fa parte del regime primario della famiglia. Non sono ammesse prevaricazioni o posizioni di supremazia. La modalità per scegliere come vivere va concordata e non imposta. La distanza è quindi enorme dal testo che la norma aveva prima della riforma del 1975 allorché si pre¬vedeva che “Il marito è il capo della famiglia… la moglie è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”.
La regola dell’accordo è posta a presidio del principio di parità e di uguaglianza. Non interessa al legislatore il contenuto dell’accordo, quanto piuttosto il metodo.
Trovare un accordo non è, però, sempre una cosa facile. Il codice viene incontro a questo rischio soltanto se il disaccordo concerne questioni di una certa rilevanza.
L’art. 145 c.c. – per il caso in cui i coniugi non riescano a trovare un accordo su “affari essenziali” – prevede, infatti, che “…ciascuno dei coniugi può chiedere, senza formalità, l’intervento del giudice il quale, sentite le opinioni espresse dai coniugi e, per quanto opportuno, dai figli conviventi che abbiano compiuto il sedicesimo anno, tenta di raggiungere una soluzione concordata. Ove questa non sia possibile e il disaccordo concerna la fissazione della residenza o altri affari essenziali, il giudice, qualora ne sia richiesto espressamente e congiuntamente dai coniugi, adotta, con provve¬dimento non impugnabile, la soluzione che ritiene più adeguata alle esigenze dell’unità e della vita della famiglia”. Un meccanismo di intervento giudiziario molto debole, di modestissima plausibilità e pressoché sconosciuto nella prassi.
Per le unioni civili l’art. 1, comma 12, della legge 20 maggio 2016, n. 76 prevede simmetricamente che “le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato”.
Non viene espressamente richiamato per le unioni civili l’art. 145 c.c. e quindi per tali unioni non trova applicazione il procedimento sopra descritto per i coniugi. Più che ragioni ideologiche è ve¬rosimilmente la pressoché inesistente prassi applicativa della norma ad aver convinto il legislatore a non prevedere l’applicazione di questa norma nella legge sulle unioni civili del 2016. Anche per quanto previsto nel comma 20 di tale legge – che esclude l’applicazione delle norme del codice civile non espressamente richiamate – l’applicabilità quindi del procedimento di cui all’art. 145 c.c. è esclusa per le unioni civili, con ciò confermandosi il principio generale che sostanzialmente nega l’intervento giudiziario in corso di rapporto, ammettendolo solo in caso del venir meno della vita in comune.
Il regime primario del matrimonio e dell’unione civile prevede, quindi, come modalità di relazione tra le parti in corso di rapporto quella dell’accordo.
Nei rapporti di convivenza – ugualmente regolamentati dalla legge 20 maggio 2016, n. 76 – la regola dell’accordo non è indicata per quanto attiene ai rapporti di natura personale in corso di rapporto, ma non si vede quale possa essere altrimenti il principio che accompagna la vita di cop¬pia se non quella del concordare l’indirizzo comune. E d’altro lato nessuno ha mai dubitato che la regola dell’accordo sia l’unica regola possibile per disciplinare i rapporti tra le persone che vivono insieme. Il legislatore ha avvertito l’esigenza di indicare la regola dell’accordo per i coniugi (e poi simmetricamente per le unioni civili) solo per rafforzare quel principio di uguaglianza e di parità nel matrimonio che il testo dell’art. 144 c.c. prima della riforma del diritto di famiglia del 1975 negava indicando sotto la rubrica di “potestà maritale” la regola che “il marito è capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”. Venuti meno questi principi di asimme¬tricità nella coppia che si unisce per un progetto di vita in comune, l’unica regola plausibile diventa quella dell’accordo tra persone in condizioni di parità.
Ne deriva che la regola dell’accordo fa parte del regime primario del matrimonio, dell’unione civile e della convivenza di fatto perché costituisce l’unica regola ipotizzabile nelle relazioni personali di natura familiare.
II La natura personale degli accordi “nel corso della vita familiare”
Gli “accordi nel corso della vita familiare” attengono all’indirizzo della vita familiare quando si vive insieme. In sostanza a tutto ciò che concerne le scelte della vita in comune.
La regola dell’accordo si riflette, naturalmente, anche nell’ambito della disciplina dei regimi pa¬trimoniali del matrimonio, dell’unione civile e della stessa convivenza di fatto in cui si fa espres¬samente rinvio al regime di comunione dei beni quale possibile contenuto del “contratto di con¬vivenza” (art. 1, commi 50 – 63, legge 20 maggio 2016, n. 76). Pur, però, presupponendo una decisione concordata, gli accordi sul regime patrimoniale (scelta della convenzione matrimoniale o della convenzione patrimoniale nell’unione civile o la scelta della comunione dei beni quale regime nei contratti di convivenza) hanno natura contrattuale e sono estranei alla presente trattazione. Si parla della negozialità contrattuale in altra parte.
Non si devono poi neanche confondere gli “accordi nel corso della vita familiare” che concernono la vita di coppia nella famiglia unita, con gli accordi personali e patrimoniali in vista della crisi di coppia oppure raggiunti nel corso della crisi. Da un punto di vista strutturale si tratta di accordi che hanno la medesima natura negoziale, ma da un punto di vista funzionale sono completamente diversi perché sono orientati non a disciplinare la vita in comune ma a risolvere, in via preventiva o successiva, la crisi di coppia. Non è, ugualmente, in questa sede che si tratterà di questi accordi.
Gli “accordi nel corso della vita familiare” tra coniugi o partner di cui si parla in questa sede hanno sostanzialmente contenuto personale (per esempio la scelta della residenza comune, la scelta di dove trascorrere le vacanze, le scelte sulle attività o relative alle necessità dei figli) con la pre¬cisazione che la natura personale dell’accordo non viene meno se il suo contenuto presuppone conseguenze patrimoniali, come avviene per le decisioni sugli investimenti o sui rapporti bancari o sugli acquisti dei beni familiari o sulle modalità di contribuzione alle esigenze comuni. Il contenuto (talvolta necessariamente) con conseguenze patrimoniali non fa, insomma, venir meno la natura di accordo personale “nel corso della vita familiare”.
La caratteristica degli accordi nella vita familiare è quella di presupporre l’unità della vita familiare. Si tratta quindi di accordi presi nella vita di tutti i giorni per disciplinare il ménage di coppia anche nei rapporti con i terzi.
III Gli accordi concernenti la residenza della famiglia
Come si è visto l’art. 144 c.c. prevede che “I coniugi… fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia”. La legge stessa, quindi, individua come uno degli accordi più rilevanti dei coniugi quello alla scelta della residenza familiare. Anzi, per es¬sere più precisi, quello relativo alla scelta dell’abitazione familiare, dal momento che è pacifico che due coniugi possano anche avere una residenza diversa: quello che conta è l’abitazione comune (coabitazione) come chiariscono molte decisioni tra cui Cass. civ. Sez. V, 28 giugno 2016, n. 13335; Cass. civ. Sez. V, 23 dicembre 2015, n. 25889; Cass. civ. Sez. V, 28 gennaio 2009, n. 2109, Commiss. Trib. Reg. Campania Salerno Sez. IX, 28 marzo 2007, n. 232, Cass. civ. Sez. V, 8 settembre 2003, n. 13085 dove si afferma, in sostanza, che la coabitazione con il coniuge costituisce un elemento adeguato a soddisfare il requisito della residenza ai fini tributari, in quanto ciò che conta non è tanto la residenza dei singoli coniugi, quanto quella della famiglia; in¬fatti, l’art. 144 c.c., secondo il quale i coniugi fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa (che è una esplicitazione ed una attuazione della più ampia tutela che l’art. 29 Cost. assegna alla famiglia), mentre da una parte riconosce che i coniugi possano avere delle esigenze diverse ai fini della residenza individuale, dall’altra tende a privilegiare le esigenze della famiglia, quale soggetto autonomo rispetto ai coniugi.
Una volta fissata la residenza della famiglia in un certo posto anche le modifiche della residenza o le scelte che comunque incidono sull’abitazione dovrebbero essere concordate. Sennonché, come tra breve si dirà, la giurisprudenza non riconosce natura negoziale, e perciò vincolante nei rapporti interni, agli accordi di cui all’art. 144 c.c. ammettendo quindi la loro violazione.
Il problema è particolarmente grave allorché l’abitazione in cui i coniugi decidono di abitare è di proprietà di uno dei due soltanto. Che potere ha il coniuge non proprietario sull’abitazione di pro¬prietà dell’altro? E in particolare, come può, il coniuge non proprietario impedire che il coniuge proprietario possa disporre a suo piacimento della proprietà per esempio decidendo di alienar¬la, magari poco prima della separazione in previsione dell’eventuale assegnazione dell’abitazione all’altro coniuge?
La risposta della giurisprudenza su questo aspetto è piuttosto deludente.
Del problema si è occupata – a quanto consta – una sola decisioni secondo cui “non è configurabile, in costanza di matrimonio, alcun potere in capo al coniuge non proprietario sull’immobile adibito a residenza familiare di appartenenza esclusiva dell’altro, ove questi intenda, senza il consenso del primo, alienare il bene e trasferire altrove l’abitazione della famiglia; nonostante che l’atto di disposizione concretizzi la violazione di un preesistente accordo” (Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 1992, n. 5415)
La vicenda riguardava un coniuge di Torino il quale aveva deciso unilateralmente di trasferire la residenza in un’altra zona della città che riteneva più signorile rispetto a quella in cui era ubicata la casa familiare di sua esclusiva proprietà. La moglie si rivolse al tribunale chiedendo un provvedi¬mento che dichiarasse che il marito non aveva il potere di compiere questa operazione, in quanto assunto in violazione dell’accordo con cui la residenza della famiglia era stata stabilita altrove ancorché in abitazione di proprietà del marito. Il Tribunale rigetto la richiesta e ugualmente fece la Corte d’appello. La Corte di cassazione confermò il rigetto della domanda della moglie “in quanto al coniuge non proprietario non compete nessun diritto reale su tali beni, neppure in caso di sepa¬razione coniugale e di assegnazione della casa familiare… ed egli non ha alcun potere di impedire al coniuge proprietario di porre in essere atti di disposizione dei beni di sua proprietà esclusiva”.
Tuttavia la Corte aggiunse, a quanto detto, una considerazione importante, affermando che il principio non vale allorché l’atto di alienazione consegue alla concreta violazione degli obblighi di assistenza economico-materiale della famiglia incombenti sul coniuge proprietario o costituisce addirittura situazione di un disegno preordinato a sottrarsi alla loro osservanza; casi che potreb¬bero legittimare i familiari suoi creditori all’esercizio di azioni cautelari o di conservazione della garanzia patrimoniale.
Pertanto al di fuori dei casi in cui si verifica questa violazione dei doveri di reciproca assistenza morale e materiale (quando, per esempio, il coniuge proprietario intende frustrare il diritto all’as¬segnazione della casa coniugale all’altro in sede di separazione) il coniuge non proprietario non può impedire al coniuge proprietario della casa familiare di sottrarla al godimento comune, ven¬dendola a terzi, violando l’accordo in base al quale in quella abitazione i coniugi avevano fissato la loro residenza familiare.
Il codice civile francese all’art. 215 prescrive, al contrario, che gli sposi non possono l’uno senza il consenso dell’altro, disporre dei diritti sulla casa familiare e sui mobili che l’arredano.
Il codice civile tedesco ugualmente alla sezione 1365 prevede che il coniuge può vendere la sua proprietà solo con il consenso dell’altro.
Il nostro codice civile non contiene una norma del genere, né la giurisprudenza ha saputo elabora¬re finora un principio difforme da quello derivante dalle semplici regole della proprietà.
IV Gli accordi relativi ai figli
Gli accordi relativi ai figli hanno la medesima natura di tutti gli altri accordi “nella vita familiare”.
L’art. 144 c.c. si riferisce certamente anche agli accordi che concernono l’educazione dei figli e le scelte che concernono la loro socializzazione.
Anzi proprio il riferimento al fatto che gli accordi sulla educazione e sulla socializzazione dei figli possono poi essere attuati da ciascun genitore separatamente – sul modello indicato nell’art. 144 c.c. – dà senso all’affidamento condiviso dei figli in sede di separazione, che altro non è il condivi¬dere qualcosa che poi ciascuno si impegna ad attuare separatamente nel rapporto con il figlio. In ciò l’affidamento condiviso si differenzia dal suo progenitore che era l’affidamento congiunto che dava l’impressione lessicale di essere un accordo da attuare sempre congiuntamente.
Agli accordi sui figli si riferisce nella famiglia unita – e quindi non in ambito di separazione e divor¬zio – l’art. 316 c.c. che attribuisce ad entrambi i genitori la responsabilità genitoriale “che è eserci¬tata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore”.
La stessa norma prevede che “in caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascu¬no dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei. Il giudice, sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio”.
Come si vede, in presenza di un contrasto sui figli, il codice civile è addirittura più prudente di quanto non avvenga allorché il disaccordo concerne i coniugi e i loro “affari essenziali” di famiglia. Infatti il giudice nel caso di cui all’art. 316 c.c. si limita a suggerire e a indicare il genitore che do¬vrà prendere una decisione, non può neanche emettere quei provvedimenti non coercibili previsti nell’art. 145 c.c. di cui in caso di disaccordo tra i coniugi si è parlato sopra.
L’art. 145 e l’art. 316 del codice civile sono le due uniche norme che prevedono un qualche in¬tervento del giudice nella famiglia unita. In entrambi i casi si tratta di interventi tesi a sanare un disaccordo ma che sono così oggettivamente deboli da essere quasi inutili.
D’altro lato nella prassi sono quasi inesistenti i procedimenti attivati nei tribunali sulla base di entrambe le norme indicate.
Il tema degli accordi sui figli è trattato in giurisprudenza soprattutto con riguardo alla necessità di applicazione della regola primaria della condivisione della responsabilità genitoriale sia nel cor¬so della vita in comune che in sede di separazione della coppia genitoriale. L’art. 144 c.c. viene proprio indicato come principio che presiede anche alla condivisione delle responsabilità sui figli, nel senso che la regola dell’accordo vale anche per ciò che riguarda l’adempimento delle funzioni genitoriali. Per esempio Cass. civ. Sez. I, 26 marzo 2015, n. 6132 afferma che le decisioni dei genitori riguardanti il figlio minore, compresa la scelta della sua residenza, non devono tenere conto degli interessi dei genitori, ma esclusivamente dell’interesse del minore stesso, anche nei casi in cui questo possa eventualmente coincidere, in via di fatto, con quello di uno dei genitori affidatari che non abbia rispettato il metodo di accordo in tema di indirizzo della vita familiare fis¬sato dall’art. 144 c.c., applicabile anche per la scelta della residenza del figlio affidato ad entrambi i genitori in modo condiviso dopo la separazione tra i coniugi o l’interruzione della convivenza tra i genitori non coniugati.
In passato Cass. civ. Sez. I, 2 settembre 2005, n. 17710 aveva espressamente affermato che l’art. 144 c.c., nel prevedere l’obbligo per i coniugi di concordare tra di loro l’indirizzo della vita fa¬miliare, si riferisce anche alle scelte educative e agli interventi diretti a risolvere i problemi dei figli.
V La violazione degli accordi come causa di addebito della separazione
Benché, come tra breve si dirà, agli accordi nel corso della vita familiare la giurisprudenza non attribuisce valore negoziale, quanto meno si ammette che disattendere un accordo possa costituire motivo di addebito della separazione.
Secondo l’art. 151, secondo comma, c.c. l’addebito della separazione presuppone un “comporta¬mento contrario ai doveri che nascono dal matrimonio”.
In senso generale tutto il regime primario della famiglia può essere considerato un insieme di obbligazioni coniugali e genitoriali, come ha per esempio, affermato Trib. Vicenza Sez. II, 21 febbraio 2013 secondo cui in tema di separazione personale dei coniugi, il presupposto per l’ac¬coglimento della domanda di addebito è, ai sensi dell’art. 151, comma 2°, c.c., un comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio e dunque la violazione cosciente e volontaria di uno dei doveri reciproci dei coniugi previsti con l’elencazione non tassativa dagli artt. 143, 144 e 145 c.c., ovvero dei doveri nei confronti della prole, di cui agli artt. 147 e 148 c.c., ovvero ancora più in generale, la violazione del principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, sancito dall’art. 29 comma 2° della Costituzione.
Ugualmente Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2013, n. 17199 afferma che non può costituire moti¬vo di addebito della separazione la circostanza che uno dei coniugi abbia voluto dedicarsi ad una occupazione più o meno remunerativa ed impegnativa, al fine di affermare la propria personalità anche al di fuori dell’ambito strettamente domestico, purché tale decisione non comporti una vio¬lazione dell’ampio dovere di collaborazione gravante su entrambi i coniugi, in quanto contrastante con l’indirizzo della vita familiare da essi concordato prima o dopo il matrimonio, e non pregiudichi l’unità della famiglia, in quanto incompatibile con l’adempimento dei fondamentali doveri coniugali e familiari.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 3 ottobre 2008, n. 24574 ove in sede di separazione venga dedotto come motivo di addebito il mancato accordo sulla fissazione della residenza familiare, il giudice di merito, al fine di valutare i motivi del disaccordo, deve tenere presente che l’art. 144 cod. civ. rimette la scelta relativa alla volontà concordata di entrambi i coniugi, con la conseguenza che questa non deve soddisfare solo le esigenze economiche e professionali del marito, ma deve so¬prattutto salvaguardare le esigenze di entrambi i coniugi e quelle preminenti della serenità della famiglia. In applicazione del predetto principio, la Corte ha cassato la sentenza del giudice di me¬rito, che aveva tenuto conto unicamente delle esigenze economiche e lavorative prospettate dal marito, omettendo di valutare quelle, offerte dalla moglie.
Per Cass. civ. Sez. I, 6 febbraio 2003, n. 1744 il trasferimento del domicilio del coniuge po¬trebbe comportare l’addebito della separazione qualora la violazione del dovere di fissare concor¬demente la residenza familiare anziché essere la causa del disintegrarsi del consorzio familiare ne sia uno degli effetti, mentre per App. Cagliari, 12 novembre 2004 non può essere parificato ad un accordo coniugale ex art. 144 c.c. l’informale proposito per il futuro di spostare la residenza familiare, la cui realizzazione sia subordinata alla concreta fattibilità e convenienza; il mancato rispetto di un tale accordo non costituisce dunque violazione di uno specifico dovere matrimoniale, e non può essere motivo di addebito della separazione.
VI Ha senso interrogarsi sulla natura negoziale o non negoziale degli accordi?
Ci si chiede, negli studi intorno agli accordi “nel corso della vita familiare”, se essi abbiano o meno natura negoziale, nel senso se tali manifestazioni di volontà siano o meno vincolanti tra le parti.
Va chiarito che pur costituendo gli accordi in questione atti di autoregolamentazione di interessi privati, ad essi non appare semplice la trasposizione di concetti e di regole elaborate in tema di contratti. E ciò sia perché non è pensabile cristallizzare in accordi stabili (pacta sunt servanda) gli accordi relativi ad una vita in comune che evolve, sia perché, quando anche si ritenesse di poterli ancorare ad una clausola rebus sic stantibus, la natura negoziale diventerebbe una finzione perché consentirebbe sempre il recesso dall’accordo. Insomma che accordo è un’intesa che può essere sempre disattesa?
Pertanto il problema della natura di tali accordi si risolve nel verificare non tanto quale sia la loro natura (se negoziale e cioè di fatto vincolante o meno) ma nel verificare se vi siano strumenti che consentano l’attuazione coattiva dell’accordo. Ove non vi siano strumenti di coercibilità dell’accor¬do saremmo in presenza di intese non coercibili e che non potrebbero di fatto costituire il presup¬posto per un’azione da parte della parte inadempiente.
Come ora si dirà tali intese sulla vita familiare hanno una debolissima rilevanza interna tra le parti e un pressoché generale non riconoscimento di rilevanza esterna tanto che la giurisprudenza ha applicato nella stragrande maggioranza delle vicende di cui si è occupata il principio che l’obbliga¬zione assunta da un coniuge, in attuazione di accordi “nella vita familiare”, non pone l’altro coniuge nella veste di debitore solidale, difettando una deroga rispetto alla regola generale secondo cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi, salvo che vi sia la prova che il partner contraente abbia conferito all’altro, in forma espressa o tacita, una procura a rappresentarlo, ovvero quando sia configurabile una situazione tale da far ritenere, che l’obbligazione sia stata assunta anche in nome dell’altro partner.
VII La debole rilevanza interna degli accordi “nel corso della vita familiare”
Gli accordi nella vita familiare hanno innanzitutto una loro rilevanza interna, nel senso che tali accordi valgono certamente tra le parti. Come detto, però, si tratta di accordi sulla parola. La loro attuazione dipende da ciascuna delle parti. Nessuna norma giuridica attribuisce loro cogenza. Solo il contratto ha giuridica forza di legge tra le parti. Per questo gli accordi “nel corso della vita fami¬liare” sono accordi “deboli”, perché non hanno sanzione in caso di inosservanza.
Non esistono nel sistema giuridico vigente strumenti che consentono l’attuazione coattiva degli accordi di natura personale. La loro attuazione è demandata all’onore delle parti. Se una parte non rispetta l’accordo di natura personale l’altra non può nulla se non liberarsi dal rapporto.
L’art. 144 c.c. è quindi una norma programmatica del modo con cui le parti del rapporto familiare devono condurre il loro rapporto; ma è una norma debole perché non prevede alcuna sanzione. Ed è anche incerto se la violazione di accordi “sulla vita familiare” possa di per sé essere messa a fondamento di un addebito della separazione. Tra i doveri coniugali indicati nell’art. 143 c.c. non vi è, infatti, quello di attuare l’indirizzo concordato, anche se la norma di cui all’art. 144 è pur sempre norma di regime primario.
Non sono previsti nemmeno per i coniugi strumenti di intervento giudiziario in caso di violazione di un accordo personale. L’art. 145 c.c. – al quale si accennato all’inizio – non è di per sé strutturato per sanzionare la violazione di un accordo ma soltanto per risolvere un disaccordo, per lo più non su tutto ma solo su “affari essenziali”. Una specie di intervento minimo finalizzato a consentire alla coppia di risolvere momenti di crisi salvando il rapporto. L’art. 145 c.c. prevede infatti che in caso di disaccordo sulla fissazione della residenza comune o su altri affari essenziali ciascuna delle parti può ricorrere al giudice il quale potrebbe imporre “con provvedimento non impugnabile la soluzione che ritiene più adeguata alle esigenze dell’unità e della vita della famiglia”. S’intende, la norma in questione viene letta in genere come attributiva di un potere di richiedere l’intervento del giudice allorché vi sia la violazione di un accordo, ma certamente non attribuisce al giudice il potere di dare per forza esecuzione all’accordo che le parti avevano preso.
Molto chiara sulla incoercibilità delle intese raggiunte ai sensi dell’art. 144 c.c. è la sopra richiama¬ta Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 1992, n. 5415 dove si chiarisce, peraltro, che perfino il provve¬dimento del giudice ex art. 145 c.c. è di per sé insuscettibile di coercizione, in quanto privo di ef¬ficacia esecutiva. Si legge nella motivazione relativamente al tema della incoercibilità dell’accordo “a prescindere dalla considerazione che l’esigenza del rispetto di tale intesa, quando essa non ten¬desse anche alla difesa di interessi essenziali degli altri membri della famiglia, non potrebbe mai di per sé prevalere sugli eventuali interessi essenziali – sopravvenuti o preesistenti – del coniuge che vuole discostarsene, bisogna ritenere che, in ogni caso, qualunque sia la rilevanza degli interessi coinvolti, il rispetto dell’intesa coniugale non può mai essere imposto al coniuge recedente, posto che dalla costrizione all’osservanza di un’intesa non più accettata, potrebbe scaturire un senso di intollerabilità della convivenza, nocivo allo steso permanere dell’unità familiare”. Posto, quindi, che gli accordi personali “nel corso della vita familiare” sono accordi incoercibili si comprende come soltanto a ciascuna parte spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato (art. 144, secondo comma, c.c.; art. 1, comma 12 legge 20 maggio 2016, n. 76).
Ne deriva una rilevanza tipicamente interna nel senso che non si configura in linea generale un po¬tere dei terzi (estranei all’accordo) né di pretendere l’adempimento di quell’accordo né di fondarvi qualche ragione creditoria.
VIII Le condizioni in base alle quali gli accordi “nel corso della vita familiare” possono avere rilevanza esterna
Il sistema intorno al quale ruota la disciplina degli accordi “nel corso della vita familiare” prevede che in relazione agli accordi presi ciascuna delle parti possa poi darvi autonoma attuazione. Così si esprimono sia il codice civile per quanto concerne i coniugi (art. 144, comma 2, c.c.) sia la legge 20 maggio 2016, n. 76 (art. 1, comma 12). Si è detto che è del tutto ragionevole considerare esi¬stente anche per i conviventi di fatto una regola simmetrica a quella indicata.
Pertanto ciascuna parte può contrarre autonomamente specifiche obbligazioni al fine di dare attua¬zione agli accordi presi con il proprio partner.
Potrà il creditore, in caso di inadempimento, pretendere la soddisfazione del credito anche dal partner che non ha contratto l’obbligazione? È proprio questo il tema della rilevanza esterna dell’accordo.
Nella stragrande maggioranza dei casi – come si è sopra detto – la giurisprudenza ha applicato il principio che l’obbligazione assunta da un coniuge, per soddisfare bisogni familiari, non pone l’altro coniuge nella veste di debitore solidale, difettando una deroga rispetto alla regola generale secondo cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi, salvo che vi sia la prova che il partner contraente abbia conferito all’altro coniuge, in forma espressa o tacita, una procura a rappresen¬tarlo, ovvero quando sia configurabile una situazione tale da far ritenere, che l’obbligazione sia stata assunta anche in nome dell’altro partner.
Molteplici sono le vicende trattate in giurisprudenza.
In Cass. civ. Sez. III, 6 ottobre 2004, n. 19947 si tratta il caso di due coniugi che si erano accordati per effettuare un trasloco di mobili in altra abitazione. La moglie materialmente aveva preso accordi con il traslocatore, restando poi inadempiente rispetto al pagamento del dovuto. Il traslocatore si rivolgeva quindi per il pagamento al marito della donna, il quale costituendosi ecce¬piva “la propria carenza di legittimazione passiva, atteso che il contratto descritto nella citazione introduttiva era stato stipulato dalla moglie”. Chiedeva in sostanza l’applicazione della regola di cui all’art. 1372, secondo comma, c.c. secondo cui “il contratto non produce effetti risetto ai terzi”. Il tribunale accoglieva la domanda del traslocatore ma la Corte d’appello riformava la decisione “at¬teso che unico stipulante del contratto era la moglie e che non esisteva alcuna prova che quest’ul¬tima avesse agito come mandataria rappresentante del marito”. La Corte di cassazione confermava la decisione affermando in sostanza che anche con riferimento alle obbligazioni assunte nell’inte¬resse della famiglia, il coniuge non contraente è responsabile personalmente solo nei casi in cui abbia conferito all’altro coniuge, in forma espressa o tacita, una procura a rappresentarlo, ovvero quando sia configurabile una situazione tale da far ritenere, alla stregua del principio dell’apparen¬za giuridica, che l’obbligazione sia stata assunta in suo nome.
Anche in tutte le altre vicende di cui si è occupata la giurisprudenza si è negato, con la stessa motivazione, che gli accordi tra coniugi abbiano rilevanza esterna, salvo che vi sia la prova che il partner contraente abbia conferito all’altro coniuge, in forma espressa o tacita, una procura a rap¬presentarlo, ovvero quando sia configurabile una situazione tale da far ritenere, che l’obbligazione sia stata assunta anche in nome dell’altro partner.
In un’altra vicenda – di cui si è occupata Cass. civ. Sez. III, 15 febbraio 2007, n. 3471 una donna aveva chiesto al fratello e alla moglie di lui la restituzione di un importo notevole prestato al fratello per alcuni lavori di ristrutturazione dell’abitazione familiare in cui egli e la moglie vi¬vevano in regime di comunione dei beni. Sia il tribunale che la Corte d’appello condannavano il solo fratello alla restituzione dell’importo. La donna ricorreva per cassazione ma il ricorso veniva rigettato. Nella sentenza si legge che “nella disciplina del diritto di famiglia, introdotta dalla legge 19 maggio 1975, n. 151, l’obbligazione assunta da un coniuge, per soddisfare bisogni familiari, non pone l’altro coniuge nella veste di debitore solidale, difettando una deroga rispetto alla regola generale secondo cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi, ma rimane salva l’ipotesi in cui si possa ritenere che, per il principio dell’apparenza, il contraente che ha contrattato con uno dei due coniugi dovesse fare ragionevole affidamento che questi agisse anche in nome e per conto dell’altro coniuge.
Sul concetto di apparenza però la Corte è molto severa. Afferma infatti nella decisione in questione che “il principio dell’apparenza del diritto postula, da un lato, uno stato di fatto non corrispon¬dente allo stato di diritto e, dall’altro, il ragionevole convincimento del terzo, derivante da errore scusabile, che lo stato di fatto rispecchi la realtà giuridica, per cui egli facendo affidamento su una situazione giuridica non vera, ma solo apparente, e comportandosi in aderenza a essa, ha diritto di contare sulla manifestazione apparente, sebbene non conforme alla realtà. Sono, pertanto, necessarie, in ogni singolo caso, la buona fede del terzo e la ragionevolezza dell’affidamento, non essendo invocabile il principio in questione da chi versi in colpa per avere omesso di accertare, in contrasto con la stessa legge e con le norme di comune prudenza, la realtà delle cose, affidandosi alla mera apparenza”.
Nella vicenda trattata da Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1990, n. 6118 il marito aveva acquistato alcuni beni mobili di un certo valore e pretendeva che il prezzo venisse pagato anche dalla moglie assumendo che l’obbligazione era stata contratta nell’interesse della famiglia. I giudici di merito gli avevamo dato torto ed egli ricorreva per Cassazione ma il ricorso veniva rigettato sostenendosi che “fatta salva la responsabilità sussidiaria specificamente disposta dall’art. 190 c. c. per i debiti gravanti sulla comunione, tanto in regime di comunione legale che di separazione dei beni solo il coniuge che abbia personalmente stipulato l’obbligazione per contribuire al soddisfacimento dei bisogni della famiglia (nella specie, acquisto di beni mobili) risponde del debito contratto”.
La Corte si chiede se qualunque sia il regime patrimoniale del matrimonio – ed al di là quindi dell’eventuale coinvolgimento dei beni della comunione e della responsabilità sussidiaria ex art. 190 – esista o meno la regola per cui il coniuge del contraente sarebbe solidalmente responsabile della obbligazione assunta nell’interesse della famiglia per il solo fatto di essere coniuge e dunque, sarebbe tenuto all’adempimento integrale dell’obbligazione, di tale adempimento rispondendo con tutto il suo patrimonio a norma dell’art. 2740 cod. civ.
Il legislatore – afferma la Corte – non ha dettato alcuna norma in proposito. Non vi è nel nostro sistema positivo una regola che, come quella contenuta nell’art. 220 del cod. civ. francese, intro¬duca la solidarietà passiva del coniuge non stipulante per le obbligazioni assunte dall’altro coniuge per soddisfare i bisogni della famiglia.
Effettivamente l’art. 220 del codice civile francese prevede che il contratto relativo alle necessità della famiglia e dei figli stipulato da un coniuge obbliga anche l’altro in via solidale. E la sezione 1357 del codice civile tedesco ammette ciascun coniuge a contrarre obbligazioni con terzi al fine di provvedere ai bisogni della famiglia anche vincolando l’altro coniuge.
La giurisprudenza italiana non ha saputo affermare la solidarietà relativamente alle obbligazioni contratte con terzi da un solo coniuge ancorché tali contratti siano stati l’attuazione di accordi presi con l’altro coniuge.
In Cass. civ. Sez. III, 8 gennaio 1998, n. 87 si conferma la decisione del giudice di merito aveva accertato che il marito separato, pur non avendo partecipato alle trattative intercorse tra la moglie ed il gestore di uno stabilimento balneare, per il rinnovo della locazione stagionale di una cabina e di una tenda da sole, che da molti anni erano adoperate dalla moglie stessa e dalla figlia minore, da tempo aderiva di fatto a tale utilizzo, così inducendo il ragionevole affidamento del gestore, e da tale accertamento ha desunto che egli doveva ritenersi solidalmente obbligato con la moglie per le relative obbligazioni, individuando ulteriore conferma della sussistenza dell’obbli¬gazione solidale nel comportamento tenuto dal marito che non aveva contestato la richiesta del gestore ed aveva peraltro contestualmente promesso di pagare. La Cassazione afferma quindi che in base al concreto interesse delle parti, può essere considerato parte sostanziale di un rapporto anche il coniuge rimasto apparentemente estraneo alla contrattazione, con conseguente sua re¬sponsabilità solidale per le obbligazioni assunte dall’altro coniuge.
In giurisprudenza è quindi consolidato l’orientamento in base al quale dei debiti personalmente assunti da un coniuge (potremmo oggi dire, di una parte del consorzio familiare: coniuge, partner dello stesso sesso o convivente di fatto) per soddisfare i bisogni della famiglia non risponde pure il coniuge di quest’ultimo, salvo quando, determinandosi così la responsabilità di entrambi, qualora il coniuge che ha contrattato con i terzi, abbia all’uopo ricevuto esplicita o tacita procura, ovvero qualora, in base al principio (non della mera apparenza, ma) dell’affidamento ragionevole dei terzi e della loro conseguente tutela, sia da ritenere, “per facta concludentia”, che il coniuge contraente abbia agito non soltanto in proprio, ma anche in nome del coniuge (Cass. civ. Sez. II, 7 luglio 1995, n. 7501: Cass. civ. Sez. II, 28 aprile 1992, n. 5063; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1990, n. 6118).
Per quanto concerne l’”apparenza” è evidente che non costituiscono sufficienti e decisivi elemen¬ti lo stato di coniugato (o di partner) dell’acquirente e la natura dei beni acquistati. Il principio dell’apparenza giuridica o dell’affidamento postula il concorso di due condizioni: a) uno stato di fatto apparente non corrispondente all’effettiva situazione giuridica; b) il convincimento dei terzi, derivante da errore scusabile e come tale immune da colpa, che lo stato di fatto apparente rispec¬chi la realtà giuridica
Non è sempre stato questo l’orientamento della giurisprudenza.
Cass. civ. Sez. II, 25 luglio 1992, n. 8995 – in una vicenda concernente cure dentistiche per i figli – ebbe ad affermare che pur dovendosi riconoscere, in linea generale, che solo il coniuge che abbia personalmente stipulato l’obbligazione per contribuire al soddisfacimento dei bisogni della famiglia risponde del debito contratto, non si può non far deroga a tale principio, allorché l’obbli¬gazione riguardi un bisogno primario della famiglia quale quello della salute dei suoi componenti, ed allorché a ciò si aggiunga il profilo dell’affidamento, ingenerato dagli stessi coniugi con il loro comportamento, che l’obbligazione sia stata contratta anche per conto del coniuge non stipulante; in tal caso i coniugi sono obbligati in via solidale.
Insomma, l’obbligo imposto dall’art. 147 c.c. ad entrambi i genitori di mantenere, educare ed istruire la prole comune si riverbera secondo questa decisione nei rapporti esterni, con la conse¬guenza che, ove trattasi di obbligazioni derivanti dal soddisfacimento di esigenze primarie della famiglia, quali, in particolare, la cura della salute, deve riconoscersi il potere dell’uno e dell’altro coniuge, con efficacia verso i terzi (creditori), in virtù di un mandato tacito, di compiere gli atti occorrenti e di assumere le correlative obbligazioni con effetti vincolanti per entrambi, in deroga al principio secondo cui soltanto il coniuge che ha personalmente stipulato l’obbligazione, risponde del debito contratto (nella specie, trattasi di obbligazione contratta da uno dei genitori per inevi¬tabili prestazioni sanitarie erogate da un professionista alla moglie ed ai figli minori della coppia).
Ancora in passato per esempio Cass. civ. Sez. I, 23 settembre 1986, n. 5709 aveva affermato che “al soddisfacimento di obbligazioni a contenuto pecuniario, assunte dalla moglie per provve¬dere alle esigenze di famiglia, resta impegnato anche il patrimonio del marito, per il potere che in tale campo deve riconoscersi alla moglie di rappresentare il marito in virtù di una tacita procura, per quanto attiene al buon andamento della società familiare nonché per il correlativo dovere del marito di sopperire alle relative esigenze”. Nella vicenda si trattava di grandi quantitativi di merce di generi alimentari, detersivi, biancheria acquistati in un certo periodo in un negozio dalla mo¬glie e che in passato il marito aveva sempre periodicamente saldato. Più che su questo aspetto il ragionamento della Corte di cassazione era però fondato sul fatto in sé che per il soddisfacimento di obbligazioni a contenuto pecuniario, assunte dalla moglie per provvedere ad esigenze della fa¬miglia, resta sempre impegnato anche il patrimonio del marito, sia sotto il profilo soggettivo (per il potere che in tale campo deve riconoscersi alla moglie di rappresentare il marito in virtù di una tacita procura per quanto attiene al buon andamento della società famigliare), sia sotto il profilo oggettivo (per il dovere spettante al marito per la sua qualità di capo del nucleo famigliare di prov¬vedere al soddisfacimento delle esigenze di quest’ultimo).
La tesi della “procura tacita” è stata però in seguito rifiutata dalla prevalente giurisprudenza.
IX La rilevanza esterna dei contratti di convivenza
Lo strumento giuridico principale con cui si potrebbe garantire la rilevanza esterna di un accordo è la sua pubblicità in generale – per esempio attraverso la trascrizione – che lo potrebbe rendere opponibile erga omnes. Non tutti gli accordi possono però essere trascritti in quanto il sistema giuridico è fondato sul principio di tipicità della trascrizione, nel senso che possono essere trascritti e perciò resi opponibili erga omnes solo gli atti che la legge individua come trascrivibili. Tra questi non vi sono gli accordi “nel corso della vita familiare” salvo, naturalmente, che non si estrinse¬chino attraverso atti soggetti a pubblicità. Così per esempio se due coniugi intendono concordare l’apposizione di un vincolo di destinazione su un immobile a beneficio di un interesse familiare lo potranno fare attraverso un atto pubblico trascrivibile (art. 2645-ter c.c.).
Ugualmente le convenzioni matrimoniali devono essere annotate a margine dell’atto di matrimonio (art. 162 c.c.) acquisendo ex lege, quindi, rilevanza esterna. E altrettanto avviene con la trascri¬zione per esempio dei beni costituiti in fondo patrimoniale o esclusi dalla comunione (art. 2647 c.c.). Con le convenzioni sul regime patrimoniale siamo però fuori quel campo di azione che si è sopra delimitato degli accordi “nel corso della vita familiare” che nella definizione che abbiamo presupposto si riferiscono alle intese di carattere personale di natura programmatica dell’indirizzo familiare ancorché abbiano conseguenze patrimoniali.
La legge 20 maggio 2016, n. 76 prevede per i conviventi un meccanismo di opponibilità erga omnes di taluni loro accordi personali “nel corso della vita familiare” concernenti “l’indicazione della resi¬denza comune”, “le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo”, nonché la scelta del “regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile. (art.1, comma 53) purché inseriti nei contratti di convivenza (art.1, comma 50).
In base al comma 51 “Il contratto di cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico”.
Il comma 52 della legge prevede poi che “ai fini dell’opponibilità ai terzi, il professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione ai sensi del comma 51 deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 [rectius 4] e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”.
Pertanto la pubblicità garantita dall’iscrizione anagrafica dell’eventuale contratto di convivenza stipulato dai conviventi di fatto fa diventare il contratto opponibile erga omnes acquisendo ex lege rilevanza esterna.
Con questa disposizione la legge 76/2016 ha introdotto una ipotesi di pubblicità dichiarativa (sim-metricamente a quella relativa alle convenzioni matrimoniali: Cass. civ. Sez. Unite, 13 ottobre 2009, n. 21658). Si parla di pubblicità dichiarativa allorché la funzione della pubblicità è quella di rendere opponibili ai terzi i fatti di cui si prevede la pubblicità; in questo caso l’inosservanza dell’onere di pubblicità comporta la inopponibilità dei fatti non registrati, a meno che non si provi che i terzi ne erano comunque a conoscenza.
Il contratto di convivenza ha un contenuto limitato e predeterminato dalla legge.
Restano fuori dal “contratto di convivenza” regolamentato dalla nuova legge altri aspetti e cioè gli accordi di reciproco mantenimento o quelli in vista della cessazione della convivenza (diritti e ob¬bligazioni di natura patrimoniale reciproci e previsione di un eventuale sostentamento, s’intende, oggi, a contenuto non deteriore rispetto a quello previsto dalla legge 76/2016) e altre clausole negoziali. Aspetti questi che non possono essere contenuti nel “contratto di convivenza” ma che potrebbero ben essere contenuti con validità obbligatoria tra le parti (salvo la trascrizione degli atti eventualmente previsti), in ulteriori accordi tra conviventi integrativi, e non sostitutivi s’intende, della disciplina inderogabile che la nuova legge introduce a tutela minima dei diritti dei conviventi.
La residenza comune può essere indicata nel contratto di convivenza (ed anzi può anche esserne l’u¬nico elemento ove nulla i conviventi dispongano in ordine al regime patrimoniale) così evitando che possano nascere in seguito problemi relativi alla identificazione del luogo di residenza della coppia.
Mentre è chiaro che cosa si intenda per scelta del regime della comunione dei beni, non altrettanto chiaro è che cosa il legislatore intenda per scelta delle “modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune”. Nemmeno l’art. 143 del codice civile – che per i coniugi individua il regime primario contributivo – parla di “modalità” ma prescrive in via generale che “entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professio¬nale o casalingo a contribuire ai bisogni della famiglia” indicando un obbligo del quale le modalità di attuazione dipenderanno di volta in volta dagli accordi tra i coniugi (art. 144 c.c.).
Indicazione delle “modalità di contribuzione” significa che i conviventi possono rendere opponibili verso terzi le modalità con cui essi si distribuiscono gli oneri economici nella gestione della vita in comune. I conviventi si assumono, perciò, ciascuno una quota dei costi della vita comune. Non si¬gnifica che i conviventi si attribuiscono “obblighi di contribuzione” reciproca, cioè che si assumono obblighi di mantenimento reciproco. In questo senso il contratto di convivenza nella misura in cui – relativamente alle modalità di contribuzione – può contenere queste indicazioni, e solo queste, si allontana dal modello di contratto di convivenza cui si riferisce la prevalente letteratura giuridica.
Pertanto, il riferimento generico alle “modalità di contribuzione” sta a significare che il legislatore non introduce certamente nei rapporti di convivenza un’obbligazione primaria contributiva analoga a quella prevista nell’art. 143 c.c., e quindi non trasforma in obbligazione giuridica quell’obbligazio¬ne naturale (dovere morale e sociale) che è comunque pacificamente riconosciuta tra conviventi, ma semplicemente consente ai conviventi di concordare modalità di “contribuzione alle necessità della vita in comune” per esempio stabilendo che uno dei due si dedichi al lavoro casalingo e l’altro lavori all’esterno, oppure concordando di destinare ad una cassa comune parte dei rispettivi pro¬venti, oppure stabilire che uno dei due paghi l’affitto e l’altro si occupi della gestione economica della casa oppure delle spese mediche o altre modalità. Queste modalità (ed è questo l’interesse della norma) saranno, con la iscrizione anagrafica del contratto di convivenza, opponibili ai terzi.
Quindi se i conviventi pattuiscono nel “contratto di convivenza” che solo uno dei due sia obbligato al pagamento dell’affitto della casa, il proprietario della casa che i conviventi conducono in loca¬zione, potrà pretendere l’affitto dal solo convivente onerato dall’obbligazione. Ai creditori insomma saranno opponibili le modalità prescelte dai conviventi.
Questo aspetto è di grande importanza e inedita delicatezza dal momento che introduce una “rile¬vanza esterna” degli accordi tra conviventi che non c’è oggi neanche per gli accordi tra i coniugi. Gli accordi tra coniugi di cui all’art. 144 del codice civile, infatti, sono rilevanti nei confronti dei creditori solo nella misura in cui – come si è visto – essi abbiano potuto fare affidamento sulla situazione esteriore. Viceversa, essendo gli accordi tra conviventi certificati in un accordo iscritto all’anagrafe (e quindi essendovi in regime di pubblicità) – fermo l’obbligo del convivente debitore (art. 1375 c.c.) di rendere edotto il creditore della condizione di convivenza – il creditore diligente potrà sempre acquisire copia all’anagrafe del contratto di convivenza il cui contenuto sarà sempre a lui opponibile.
Sarà interessante verificare nel tempo se in relazione al contenuto relativo alle “modalità di con-tribuzione” la prassi ammetterà – come potrebbe anche essere ragionevole – che i conviventi possano individuare, inserendole nel contratto di convivenza, altre estrinsecazioni di negozialità relative ai loro rapporti patrimoniali, per esempio attraverso l’uso anche di clausole di natura reale (come trasferimenti di diritti reali anche immobiliari o costituzione di vincoli di destinazione ex art. 2645 ter c.c. ovvero un trust o clausole negoziali simili). In tal caso nel contratto di convivenza verrebbe ad ampliarsi il ventaglio delle “modalità di contribuzione della vita in comune” salvo sempre il divieto (che sembra molto chiaro nella espressione utilizzata dal legislatore) di clausole relative alla contribuzione reciproca in seguito alla cessazione della convivenza. Clausole, tuttavia che se escluse dal contratto di convivenza possono certamente essere oggetto di un “contratto tra conviventi” ma non con contenuto restrittivo rispetto a quanto garantito dalla legge in caso di cessazione della convivenza.
In ogni caso queste ulteriori estrinsecazioni della negozialità tra conviventi inserite nel contratto di convivenza non importano l’indicazione di obbligazioni reciproche di carattere patrimoniale. Le “modalità di contribuzione” sono certamente obbligazioni ma non sono obbligazioni reciproche di mantenimento e cioè non costituiscono quello che è il contenuto storico di quelli che nella prassi notarile e giuridica sono sempre stati chiamati “contratti di convivenza”.
La disposizione di cui all’art. 1, comma 53 della legge 76/2016 secondo cui il contratto può con¬tenere a) l’indicazione della residenza; b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile) è certamente da considerarsi una norma imperativa.
La violazione di una norma imperativa costituisce secondo i principi generali (art. 1418 c.c.) causa di nullità del contratto, ancorché evidentemente il comma 57 non la includa espressamente tra le cause di nullità ivi previste.
Un problema di eccedenza e di contrasto rispetto alla volontà del legislatore si porrà soprattutto per ciò che attiene all’interpretazione dell’espressione “modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune”, dal momento che l’interpretazione della disposizione non è certo agevole, come si è sopra visto, quanto alla delimitazione dei suoi contenuti.
È nullo l’intero contratto o sono nulle solo le clausole eccedenti o contrastanti con la previsione di legge?
Riterrei che possa applicarsi la disposizione dell’art. 1419 c.c. secondo cui “la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i con¬traenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità”.
In base al richiamato comma 51 “Il contratto di cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risolu¬zione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità…”. Pertanto nel comma in questione si prevede espressamente che i conviventi possano sempre modificare il contratto di convivenza con le stesse forme e modalità con cui l’hanno stipulato.
X La rilevanza esterna delle obbligazioni assunte nell’interesse della famiglia da un coniuge in regime di comunione dei beni
Mentre gli accordi nel corso del matrimonio non creano in linea di principio, come si è visto, alcuna solidarietà passiva dei coniugi rispetto alle obbligazioni contratte da uno dei coniugi “in attuazione di un accordo” (art. 144 secondo comma), viceversa nel caso di coniugi in comunione legale ai creditori del coniuge che ha contratto un’obbligazione nell’interesse della famiglia (in esecuzione o meno di un accordo tra coniugi) è riconosciuta la garanzia di poter agire in via sussidiaria (dopo l’escussione dei beni della comunione) sui beni personali anche del coniugi non contraente nella misura della metà del credito. In questa misura si può parlare quindi di rilevanza esterna delle obbligazioni assunte da un coniuge nell’interesse della famiglia.
La solidarietà passiva tra coniugi che manca nell’art. 144 secondo comma c.c. riemerge nell’art. 186 c.c. per i coniugi in comunione legale.
Il regime di comunione dei beni, in mancanza di diversa convenzione, è il regime legale del matrimo¬nio (art. 159 c.c.) e dell’unione civile (art. 1, comma 13, legge 20 maggio 2016, n. 76) e può costi¬tuire il regime patrimoniale dei conviventi di fatto (art 1, comma 50, legge 20 maggio 2016, n. 76).
Ebbene, in regime di comunione (a differenza di quanto avviene in regime di separazione dei beni o in situazione di autonomia patrimoniale dei conviventi) è prevista una particolare rilevanza esterna degli accordi tra le parti e delle obbligazioni contratte anche separatamente nell’interesse della famiglia che si traduce nel fatto che al creditore della comunione è riconosciuta una garanzia parziaria e sussidiaria sui beni della parte non stipulante.
Tutto ciò è previsto, come detto, negli articoli 186 e seguenti del codice civile.
L’art. 186 in particolare prevede infatti che i beni della comunione rispondono non solo di ogni obbligazione contratta congiuntamente ma anche di ogni obbligazione contratta dalle parti (coniu¬gi, parti dell’unione civile, conviventi di fatto) anche separatamente nell’interesse della famiglia. L’art. 190 dispone poi che i creditori possono agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuna delle parti nella misura della metà del credito, quando i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti su di essi gravanti.
Il che significa in sostanza che le obbligazioni contratte separatamente dalle parti dell’interesse della famiglia, in genere attuative di accordi tra le parti (ma anche ove non lo fossero) hanno una particolare rilevanza esterna consistente nel fatto che il creditore della comunione è creditore anche della parte non stipulante potendo rivalersi in via sussidiaria sui beni di entrambe le parti.
I richiamati articoli da 186 e 190 del codice civile – dettati per il regime di comunione dei beni – presuppongono l’esistenza di beni in comunione e rispettivamente dispongono sulla specifica fun¬zione di tali beni e, quando essi non siano sufficienti, di quelli personali dei coniugi.
Si parte da un presupposto: che i beni in comunione rispondono delle spese per il mantenimento della famiglia ed in specie di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell’in¬teresse della famiglia (art. 186). Qui siamo in presenza di una tipica rilevanza esterna dell’obbliga¬zione contratta separatamente da un coniuge nell’interesse della famiglia. Rilevanza, cioè, anche nei confronti del coniuge non stipulante dell’atto compiuto dall’altro coniuge in attuazione di un ac¬cordo (ma, come detto, anche se il coniuge stipulante non dovesse dare attuazione ad un accordo).
Sempre per quelle obbligazioni – contratte anche da uno solo dei coniugi – i creditori possono agire in via sussidiaria sui beni personali dei coniugi (anche di quello non stipulante), nella misura della metà del credito, quando i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti su di essa gravanti.
La ratio della disposizione è evidente. Afferma in proposito Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1990, n. 6118 che ex art. 177 lettera a) oggetto della comunione sono gli acquisti compiuti dai coniugi anche separatamente, dunque anche i beni per l’acquisto dei quali uno dei coniugi ha assunto obbligazioni, separatamente. I beni divenuti oggetto della comunione sono destinati prima o poi a divenire proprietà individuale di uno dei due coniugi, a divisione avvenuta che può avvenire non solo a seguito di divorzio o separazione dei coniugi, ma anche per mutamento convenzionale del regime patrimoniale. Pare dunque logico che il legislatore abbia istituito un regime di responsabi¬lità (parziaria e sussidiaria) a carico dei beni individuali dei coniugi, e dunque anche del coniuge non stipulante, per l’adempimento di obbligazioni assunte per l’acquisto di beni che sono entrati a far parte della comunione. Questi beni, infatti sono goduti ed amministrati da entrambi nel corso della vigenza della comunione ma soprattutto sono potenzialmente destinati a divenire proprietà individuale di uno o dell’altro dei coniugi, senza che sia rilevante in sede di divisione che dei due avesse a suo tempo acquistato quel bene.
È dunque una disciplina in funzione del regime di comunione dei beni e che non interferisce affatto sulla regola generale per cui debitore, responsabile con tutti i suoi beni ex art. 2740 cod. civ. è soltanto colui che, stipulando il contratto, si è assunto personalmente, nei confronti dell’altro stipulante, l’obbligo di adempiere la relativa obbligazione.
Il creditore che volesse agire anche nei confronti del coniuge dello stipulante deve dimostrare non solo che il convenuto è coniuge dello stipulante e che l’obbligazione era nell’interesse della fami¬glia, ma anche che i beni della comunione non sono sufficienti e, soprattutto, che l’unico debitore principale, il coniuge stipulante, non ha lui adempiuto l’obbligazione, contrattualmente a suo, ed esclusivamente suo, carico.
In regime di comunione dei beni è prevista una forma di garanzia parziaria e sussidiaria dei beni del coniuge non stipulante, in funzione del regime proprio e cioè in specie del fatto che quel coniu¬ge è destinato ad acquisire in proprio una parte dei beni della comunione, dunque anche di quelli acquistati mediante stipulazione individuale dell’altro coniuge. In regime di separazione dei beni, codesta garanzia non c’è, proprio perché chi acquista assumendosi obbligazioni, acquista per sé, dunque lui solo è sempre responsabile, con i soli suoi beni.
Tuttavia – e sta qui la differenza con quanto si è detto in ordine alla responsbailità dell’altro coniu¬ge nei confronti dei creditori di atti attuativi di accordi “nel corso della vita familiare” ex art. 144 c.c.- in nessuno dei due casi, vigendo l’uno o l’altro regime, è previsto che il coniuge dello stipu¬lante possa essere chiamato come obbligato solidale, per l’adempimento dell’intera obbligazione con tutto il suo patrimonio. Coniuge obbligato è solo il coniuge stipulante.
Ecco la differenza tra gli atti attuativi di accordi nel regime di cui all’art. 144 c.c. e gli atti attuativi o meno di accordi nel regime della comunione dei beni. Nel primo caso (art. 144 c.c.) l’atto asseri¬tamente attuativo dell’accordo ha rilevanza (esterna) nei confronti del creditore alla condizione che egli dimostri di aver fatto ragionevole affidamento sul fatto che il coniuge stipulante abbia agito anche in nome e per conto dell’altro coniuge. Nel secondo caso (beni in comunione) il creditore che volesse agire anche nei confronti del coniuge dello stipulante deve dimostrare soltanto che il convenuto è coniuge dello stipulante, che l’obbligazione era nell’interesse della famiglia, che i beni della comunione non sono sufficienti e che l’unico debitore principale, il coniuge stipulante, non ha adempiuto l’obbligazione, contrattualmente a suo carico.

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. V, 28 giugno 2016, n. 13335 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema d’imposta di registro e dei relativi benefici per l’acquisto della prima casa, il requisito della residenza va riferito alla famiglia, per cui ove l’immobile acquistato sia adibito a tale destinazione non rileva la diversa resi¬denza di uno dei coniugi in regime di comunione legale, essendo gli stessi tenuti non ad una comune sede ana¬grafica, ma alla coabitazione; va, tuttavia, accertata l’effettiva destinazione a residenza principale della famiglia e, cioè, la coabitazione dei coniugi nell’immobile, non essendo sufficiente che uno solo di essi abbia trasferito la sua residenza nel relativo comune di ubicazione.
Cass. civ. Sez. V, 23 dicembre 2015, n. 25889 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il requisito della residenza, ai fini dell’agevolazione “prima casa”, va riferito alla famiglia, per cui, ove l’immobile acquistato venga adibito a residenza della famiglia, non rileva la diversa residenza del coniuge di chi ha acqui¬stato in regime di comunione; in particolare, i coniugi non sono tenuti ad una comune residenza anagrafica, ma reciprocamente alla coabitazione. Quindi, una interpretazione della legge tributaria conforme ai principi del diritto di famiglia induce a considerare che la coabitazione con il coniuge costituisce un elemento adeguato a soddisfare il requisito della residenza ai fini tributari, in quanto ciò che conta non è tanto la residenza dei singoli coniugi, quanto quella della famiglia. Infatti, l’art. 144 c.c., secondo il quale i coniugi fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa (che è una esplicitazione ed una attuazione della più ampia tutela che l’art. 29 Cost. assegna alla famiglia), mentre da una parte riconosce che i coniugi possano avere delle esigenze diverse ai fini della residenza individuale, dall’altra tende a privilegiare le esigenze della famiglia, quale soggetto autonomo rispetto ai coniugi. Pertanto, anche la norma tributaria va letta ed applicata nel senso che diventa prevalente l’interesse della famiglia rispetto a quello dei singoli coniugi, per cui il metro di valutazione dei requisiti per ottenere il beneficio deve essere diverso in considerazione della presenza di un’altra entità, quale la famiglia.
Cass. civ. Sez. I, 26 marzo 2015, n. 6132 (Foro It., 2015, 5, 1, 1 nota di 1543)
Posto che la scelta della residenza del minore va adottata tenendo conto in via esclusiva del suo interesse, il giu¬dice può confermare quella pur illegittimamente ed unilateralmente individuata da uno solo dei genitori, ma che comunque reputi in concreto corrispondente all’interesse del minore medesimo (nella specie, la Suprema corte ha confermato la pronuncia di merito che, pur affidando provvisoriamente il minore, nato fuori dal matrimonio dei genitori, al comune del luogo di residenza, aveva però rigettato la domanda del padre, di ritrasferimento del figlio a Milano da Roma, dove la madre, violando il regime di affido condiviso, lo aveva condotto unilateralmente, e senza la previa autorizzazione del giudice, avendo quel giudice accertato che il minore da un lato si era ormai radicato, da anni, nella capitale, dall’altro che egli non aveva un buon rapporto con il padre, sicché il richiesto ritrasferimento sarebbe stato per lui negativo).
Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2013, n. 17199 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non può costituire motivo di addebito della separazione la circostanza che uno dei coniugi, pur non avendone la necessità, per essere l’altro disposto ad assicurargli con le proprie risorse il mantenimento di un tenore di vita adeguato al livello economico-sociale del nucleo familiare, abbia voluto dedicarsi ad una attività lavorativa retribuita o ad un’altra occupazione più o meno remunerativa ed impegnativa, al fine di affermare la propria per¬sonalità anche al di fuori dell’ambito strettamente domestico, purché tale decisione non comporti una violazione dell’ampio dovere di collaborazione gravante su entrambi i coniugi, in quanto contrastante con l’indirizzo della vita familiare da essi concordato prima o dopo il matrimonio, e non pregiudichi l’unità della famiglia, in quanto incompatibile con l’adempimento dei fondamentali doveri coniugali e familiari.
Trib. Vicenza Sez. II, 21 febbraio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi, il presupposto per l’accoglimento della domanda di addebito è, ai sensi dell’art. 151, comma 2°, c.c., un comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio e dunque la violazione cosciente e volontaria di uno dei doveri reciproci dei coniugi previsti con l’elencazione non tassativa dagli artt. 143, 144 e 145 c.c., ovvero dei doveri nei confronti della prole, di cui agli artt. 147 e 148 c.c., ovvero ancora più in generale, la violazione del principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, sancito dall’art. 29 comma 2° della Costituzione.
Cass. civ. Sez. V, 28 gennaio 2009, n. 2109 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 144 c.c. (rubricato “Indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia”), mentre da una parte riconosce che i coniugi possano avere delle esigenze diverse ai fini della residenza individuale, dall’altra tende a privilegiare le esigenze della famiglia, quale soggetto autonomo rispetto ai coniugi. Pertanto anche la normativa tributaria (in particolare l’art. 2 del D.L. 12 del 1985) va letta ed applicata considerando come primario l’interesse della famiglia rispetto a quello dei singoli coniugi, per cui il metro di valutazione dei requisiti per ottenere il beneficio deve essere diverso in considerazione della presenza di un’altra “entità”, quale la famiglia stessa. Conseguen¬temente, ai fini della fruizione dei benefici fiscali in questione, il requisito della residenza nel comune in cui è ubicato l’immobile deve essere riferito alla famiglia, e pertanto in caso di comunione legale tra coniugi, quel che rileva è che l’immobile acquistato sia destinato a residenza familiare, mentre non assume rilievo, in contrario, la circostanza che uno dei coniugi non abbia la residenza in tale comune.
Cass. civ. Sez. Unite, 13 ottobre 2009, n. 21658 (Fam. Pers. Succ., 2009, 12, 1007). La costituzione del fondo patrimoniale di cui all’art. 167 cod. civ. è soggetta alle disposizioni dell’art. 162 cod. civ., circa le forme delle convenzioni matrimoniali, ivi inclusa quella del quarto comma, che ne condiziona l’opponibilità ai terzi all’annotazione del relativo contratto a margine dell’atto di matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo per gli immobili, ai sensi dell’art. 2647 cod. civ., resta degradata a mera pubblicità-notizia e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato civile, che non ammette deroghe o equipollenti, restando irrilevante la conoscenza che i terzi abbiano acquisito altrimenti della costituzione del fondo.
Cass. civ. Sez. I, 3 ottobre 2008, n. 24574 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di separazione personale, ove venga dedotto come causa di addebitabilità della separazione il man¬cato accordo sulla fissazione della residenza familiare, il giudice di merito, al fine di valutare i motivi del disac¬cordo, deve tenere presente che l’art. 144 cod. civ. rimette la scelta relativa alla volontà concordata di entrambi i coniugi, con la conseguenza che questa non deve soddisfare solo le esigenze economiche e professionali del marito, ma deve soprattutto salvaguardare le esigenze di entrambi i coniugi e quelle preminenti della serenità della famiglia. (In applicazione del predetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza del giudice di merito, che aveva tenuto conto unicamente delle esigenze economiche e lavorative prospettate dal marito, omettendo di valutare quelle, offerte dalla moglie, inerenti al suo stato di gravidanza ed all’imminente maternità).
Trib. Monza Sez. IV, 5 maggio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione tra coniugi, il concetto di affidamento condiviso non corrisponde a quello di cogestione nell’esercizio della potestà sul figlio, bensì a quello di corresponsabilizzazione dei genitori nei compiti e nelle funzioni educative dello stesso, secondo un modello che rispecchi il più possibile, anche nella crisi del rapporto coniugale, la realtà dei rapporti propri della famiglia unita, nell’ambito della quale, come precisato nell’art. 144 c.c., “i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita famigliare…”, mentre “a ciascuno spetta il potere di at¬tuare l’indirizzo concordato”. Pertanto, la caratteristica saliente dell’affidamento condiviso risiede nel fatto che la potestà genitoriale viene esercitata in maniera piena ed autonoma da ciascun genitore nell’ambito di un progetto educativo condiviso, cioè rispondente alla necessità che nei confronti dei figli siano assunte dai genitori posizioni e decisioni il più possibile convergenti, nel rispetto della sfera di autonomia e di riservatezza dell’altro.
Commiss. Trib. Reg. Campania Salerno Sez. IX, 28 marzo 2007, n. 232 (Giur. di Merito, 2007, 5, 1494)
L’agevolazione fiscale prevista per l’acquisto della prima casa nella ipotesi in cui uno solo dei coniugi abbia la residenza nel comune dove è sito l’immobile, spetta per l’intero, sia perché uno degli elementi fisici fondamentali che assicura la formazione ( art. 31 Cost.) e l’unità della famiglia ( art. 29 Cost.) è la proprietà di una casa, sia perché in tal caso viene in evidenza come acquirente di una casa da destinare a residenza del nucleo familiare, e quindi come vero titolare del beneficio fiscale sul piano teorico, non tanto la coppia coniugale, riguardata come marito + moglie, ma “la famiglia” come entità autonoma; e, del resto, dal coordinamento degli artt. 29 e 31 Cost., con l’art. 144 c.c., ai sensi del quale i coniugi “fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa”, si evince chiaramente che il legislatore ha una concezione unitaria della famiglia e della sua residenza, cosicché ognuno di essi la rappresenta nella sua interezza; con la conseguenza che, se uno dei coniugi alla residenza nel comune dov’è sito l’immobile e lo occupa, mentre l’altro coniuge per suoi motivi (ragioni di lavoro, per esempio) non ha spostato la propria residenza in detto comune, la circostanza è ininfluente ai fini della concessione del beneficio fiscale, anche in quanto, se avesse un’influenza negativa, si produrrebbero effetti contrari all’esigenza di assicurare l’unitarietà e la formazione della nuova fami¬glia, e l’interpretazione finirebbe per essere “anticostituzionale”.
Cass. civ. Sez. III, 15 febbraio 2007, n. 3471 (Famiglia e Diritto, 2007, 6, 557 nota di PASCUCCI)
L’obbligazione assunta da un coniuge per soddisfare bisogni familiari non pone l’altro coniuge nella veste di debitore solidale, difettando una deroga rispetto alla regola generale secondo cui il contratto non produce ef¬fetti rispetto ai terzi; il suddetto principio opera indipendentemente dal fatto che i coniugi si trovino in regime di comunione dei beni, essendo la circostanza rilevante solo sotto il diverso profilo dell’invocabilità da parte del creditore della garanzia dei beni della comunione o del coniuge non stipulante, nei casi e nei limiti di cui agli artt. 189 e 190 c.c. Rimane salva l’ipotesi in cui si possa ritenere che, per il principio dell’apparenza, il contraente che ha contrattato con uno dei due coniugi dovesse fare ragionevole affidamento che questi agisse anche in nome e per conto dell’altro coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 2 settembre 2005, n. 17710 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 144 cod. civ., prevedente l’obbligo per i coniugi di concordare tra di loro l’indirizzo della vita familiare, le scelte educative e gli interventi diretti a risolvere i problemi dei figli devono essere adottati d’intesa tra i coniugi. Un atteggiamento unilaterale, sordo alle valutazioni ed alle richieste dell’altro coniuge, a tratti vio¬lento ed eccessivamente rigido, può tradursi, oltre che in una violazione degli obblighi del genitore nei confronti dei figli, anche nella violazione dell’obbligo, nei confronti dell’altro coniuge, di concordare l’indirizzo della vita familiare e, in quanto fonte di angoscia e dolore per il medesimo, nella violazione del dovere di assistenza morale e materiale sancito dall’art. 143 cod. civ.. Ove tale condotta si protragga e persista nel tempo, aprendo una frat¬tura tra un coniuge e i figli ed obbligando l’altro coniuge a schierarsi a difesa di costoro, essa può divenire fonte di intollerabilità della convivenza e rappresentare, in quanto contraria ai doveri che derivano dal matrimonio sia nei confronti del coniuge che dei figli in quanto tali, causa di addebito della separazione ai sensi dell’art. 151, secondo comma, cod. civ.
App. Cagliari, 12 novembre 2004 (Fam. Pers. Succ., 2006, 4, 308 nota di MARONGIU)
Non può essere parificato ad un patto coniugale ex art. 144 c.c. l’informale proposito per il futuro di spostare la residenza familiare, la cui realizzazione sia subordinata alla concreta fattibilità e convenienza. Il mancato rispetto di un tale accordo non costituisce dunque violazione di uno specifico dovere matrimoniale, e non può essere motivo di addebito della separazione.
Cass. civ. Sez. III, 6 ottobre 2004, n. 19947 (Foro It., 2005, 1, 392)
Anche con riferimento alle obbligazioni assunte nell’interesse della famiglia, il coniuge non contraente è re¬sponsabile personalmente, oltre che nei casi in cui abbia conferito all’altro coniuge, informa espressa o tacita, una procura a rappresentarlo, solo quando sia configurabile una situazione tale da far ritenere, alla stregua del principio dell’apparenza giuridica, che l’obbligazione sia stata assunta in suo nome.
La moglie, di regola, è responsabile in proprio per le obbligazioni da lei contratte nell’interesse della famiglia; il marito, tuttavia, è responsabile delle obbligazioni contratte in suo nome dalla moglie oltre che nei casi in cui egli le abbia conferito, in forma espressa o tacita, una procura a rappresentarlo, tutte le volte in cui sia stata posta in essere una situazione tale da far ritenere, alla stregua del principio dell’apparenza giuridica, che la moglie abbia contratto una determinata obbligazione non già in proprio, ma in nome del marito. (Nella specie, relati¬va al contratto stipulato dalla resistente con un artigiano per un trasloco, la S.C ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la sussistenza di un obbligo del marito, non essendo emerso né che la moglie avesse assunto l’obbligazione in nome del coniuge, né che la stessa avesse da lui ricevuto mandato, né che sussisteva una situazione di apparenza giuridica che facesse ritenere che ella operasse per conto del marito, né infine che fosse emersa una responsabilità del coniuge ai sensi degli artt. 143 e 144 cod. civ. per obbligazioni relative all’indirizzo concordato).
Cass. civ. Sez. V, 8 settembre 2003, n. 13085 (Famiglia e Diritto, 2004, 261 nota di MARELLO)
In tema di imposta di registro e di relativi benefici per l’acquisto della prima casa, il requisito della residenza va riferito alla famiglia; per cui, ove l’immobile acquistato sia adibito a residenza della famiglia, non rileva la diversa residenza del coniuge di chi ha acquistato in regime di comunione.
Cass. civ. Sez. I, 6 febbraio 2003, n. 1744 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
II trasferimento del domicilio del coniuge non comporta l’addebito della separazione qualora la violazione del dovere di fissare concordemente la residenza familiare anziché essere la causa del disintegrarsi del consorzio familiare ne sia uno degli effetti.
Cass. civ. Sez. II, 15 aprile 2002, n. 5420 (Famiglia e Diritto, 2002, 4, 410)
Il sistema delineato dal diritto di famiglia non attribuisce, in costanza di matrimonio, al coniuge non proprietario alcun potere sulla proprietà esclusiva dell’altro coniuge, né gli conferisce il potere di impedirgli il compimento degli atti di disposizione che non condivide, a meno che non si dimostri che tali atti comportino la concreta violazione degli obblighi di assistenza economico – materiale della famiglia incombenti sul coniuge proprietario.
Cass. civ. Sez. III, 8 gennaio 1998, n. 87 (Giust. Civ., 1998, I, 1314)
In base al concreto interesse delle parti, può essere considerato parte sostanziale di un rapporto anche il co¬niuge rimasto apparentemente estraneo alla contrattazione, con conseguente sua responsabilità solidale per le obbligazioni assunte dall’altro coniuge. (Nella specie il giudice di merito ha accertato che il marito separato, pur non avendo partecipato alle trattative intercorse tra la moglie ed il gestore di uno stabilimento balneare, per il rinnovo della locazione stagionale di una cabina e di una tenda da sole, che da molti anni erano adoperate dalla moglie stessa e dalla figlia minore, da tempo aderiva di fatto a tale utilizzo, così inducendo il ragionevole affidamento del gestore, e da tale accertamento ha desunto che egli doveva ritenersi solidalmente obbligato con la moglie per le relative obbligazioni, individuando ulteriore conferma della sussistenza dell’obbligazione solidale nel comportamento tenuto dal marito che non aveva contestato la richiesta del gestore ed aveva contestual¬mente promesso di pagare).
Cass. civ. Sez. II, 7 luglio 1995, n. 7501 (Dir. Famiglia, 1997, 1290 nota di CURTI)
Fermo restando che, di regola, anche in regime di comunione legale, dei debiti personalmente accesi da un co¬niuge per soddisfare i bisogni della famiglia non risponde pure il coniuge di quest’ultimo, a tale principio va fatta eccezione, determinandosi così la responsabilità di entrambi, qualora il coniuge che ha contrattato con i terzi, abbia all’uopo ricevuto esplicita o tacita procura, ovvero qualora, in base al principio (non della mera apparenza, ma) dell’affidamento ragionevole dei terzi e della loro conseguente tutela, sia da ritenere, “per facta concluden¬tia”, che il coniuge contraente abbia agito non soltanto in proprio, ma anche in nome del coniuge.
Cass. civ. Sez. II, 25 luglio 1992, n. 8995 (Dir. Famiglia, 1994, 1, 79 nota di STAGLIANO’)
Pur dovendosi riconoscere, in linea generale, che solo il coniuge che abbia personalmente stipulato l’obbligazione per contribuire al soddisfacimento dei bisogni della famiglia risponde del debito contratto, non si può non far de¬roga a tale principio, allorché l’obbligazione riguardi un bisogno primario della famiglia quale quello della salute dei suoi componenti, ed allorché a ciò si aggiunga il profilo dell’affidamento, ingenerato dagli stessi coniugi con il loro comportamento, che l’obbligazione sia stata contratta anche per conto del coniuge non stipulante; in tal caso i coniugi sono obbligati in via solidale.
L’obbligo imposto dall’art. 147 c.c. ad entrambi i genitori di mantenere, educare ed istruire la prole comune si riverbera secondo questa decisione nei rapporti esterni, con la conseguenza che, ove trattasi di obbligazioni derivanti dal soddisfacimento di esigenze primarie della famiglia, quali, in particolare, la cura della salute, deve riconoscersi il potere dell’uno e dell’altro coniuge, con efficacia verso i terzi (creditori), in virtù di un mandato tacito, di compiere gli atti occorrenti e di assumere le correlative obbligazioni con effetti vincolanti per entrambi, in deroga al principio secondo cui soltanto il coniuge che ha personalmente stipulato l’obbligazione, risponde del debito contratto (nella specie, trattasi di obbligazione contratta da uno dei genitori per inevitabili prestazioni sanitarie erogate da un professionista alla moglie ed ai figli minori della coppia).
Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 1992, n. 5415 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per dirimere i conflitti che insorgono tra i coniugi in relazione ad assunte violazioni delle intese coniugali sull’in¬dirizzo da imprimere alla vita familiare ai sensi dell’art. 144 c. c., la legge prevede un procedimento speciale, disciplinato dall’art. 145 c. c., avente carattere non contenzioso che può chiudersi, se i coniugi raggiungono un accordo, con una conciliazione o con una pronuncia di non luogo a provvedere, o in caso di disaccordo, con un provvedimento che, non avendo natura giurisdizionale, deve equipararsi al pronunciato di un arbitratore ed è di per sé insuscettibile di coercizione, in quanto privo di efficacia esecutiva.
Non è configurabile, in costanza di matrimonio, alcun potere in capo al coniuge non proprietario sull’immobile adibito a residenza familiare di appartenenza esclusiva dell’altro, ove questi intenda, senza il consenso del primo, alienare il bene e trasferire altrove l’abitazione della famiglia; e ciò anche nell’eventualità in cui l’atto di disposi¬zione concretizzi la violazione di un preesistente accordo.
Cass. civ. Sez. II, 28 aprile 1992, n. 5063 (Giur. It., 1993, 1, 1036 nota di CIMEI, CARBONE)
Nell’ipotesi di obbligazione assunta personalmente da uno dei coniugi per contribuire al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, l’altro coniuge non è obbligato solidale per l’adempimento dell’intera obbligazione, poiché, quale che sia il regime patrimoniale prescelto, è da escludere una deroga al principio dell’art. 1372, 2° comma, c.c., per cui il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge.
Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1990, n. 6118 (Foro It., 1991, I, 831 nota di SCANNICCHIO)
Fatta salva la responsabilità sussidiaria specificamente disposta dall’art. 190 c. c. per i debiti gravanti sulla comunione, tanto in regime di comunione legale che di separazione dei beni solo il coniuge che abbia personal¬mente stipulato l’obbligazione per contribuire al soddisfacimento dei bisogni della famiglia (nella specie, acquisto di beni mobili) risponde del debito contratto.
Cass. civ. Sez. I, 23 settembre 1986, n. 5709 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al soddisfacimento di obbligazioni a contenuto pecuniario, assunte dalla moglie per provvedere alle esigenze di famiglia, resta impegnato anche il patrimonio del marito, per il potere che in tale campo deve riconoscersi alla moglie di rappresentare il marito in virtù di una tacita procura, per quanto attiene al buon andamento della società familiare nonché per il correlativo dovere del marito di sopperire alle relative esigenze.
Cass. civ., Sez. I. 9 maggio 1985, n. 2882 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’attività lavorativa, che venga espletata da uno dei coniugi (nella specie: la moglie) senza il gradimento dell’al¬tro, non può di per sé costituire motivo di addebito della separazione, quando oggettivamente non contrasti con i fondamentali obblighi coniugali e familiari; la scelta autonoma dell’attività lavorativa può essere valutata ai fini della suddetta addebitabilità solo ove sia stata intrapresa con il rifiuto di sottostare al metodo dell’accordo, fissato dall’art. 144, c. c. in tema d’indirizzo della vita familiare, in relazione cioè alla violazione dell’ampio dovere di collaborazione gravante su entrambi i coniugi.