Nell’attuale comunità sociale il sentimento di compassione o pietà è incompatibile con la condotta di omicidio del familiare

Cass. pen. Sez. I, 7 novembre 2018, n. 50378
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
B.V., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 06/04/2017 della CORTE ASSISE APPELLO di FIRENZE;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere MICHELE BIANCHI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. TAMPIERI Luca, che ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso;
udito il difensore l’avvocato BECHELLI LAPO del foro di FIRENZE che conclude per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza pronunciata in data 6.4.2017 la Corte di assise di appello di Firenze ha confermato la sentenza pronunciata in data 3.3.2016 dalla Corte di assise di Firenze che aveva ritenuto B.V. colpevole del reato di omicidio volontario e lo aveva condannato alla pena di anni sei e mesi sei di reclusione.
L’imputazione riguarda l’omicidio volontario, con, tre colpi di pistola, di T.M., moglie dell’imputato, gravemente ammalata e ricoverata all’ospedale di (OMISSIS); fatto commesso il (OMISSIS).
Le sentenze di merito hanno, pacificamente, accertato il fatto sulla base delle testimonianze di chi, ricoverato nella medesima stanza della vittima, aveva visto l’imputato sparare tre colpi di pistola contro la moglie, distesa nel suo letto, circostanza che lo stesso imputato aveva poi riconosciuto a dibattimento.
Sulla base degli esiti delle perizie psichiatriche, disposte con incidente probatorio e quindi a dibattimento, è stato ritenuto che l’imputato, al momento del fatto, si trovasse in condizione di diminuita capacità di intendere.
Sono state riconosciute anche le attenuanti generiche e l’attenuante per l’avvenuto risarcimento del danno, considerate prevalenti sull’aggravante del rapporto di coniugio.
Non è stata riconosciuta l’attenuante di cuiall’art. 62 c.p., n. 1, richiesta con l’atto di appello.
2. Il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione, denunciando violazione di legge e difetto di motivazione in ordine al mancato riconoscimento della attenuante di cuiall’art. 62 c.p., n. 1.
Quanto alla motivazione, il secondo motivo ne sostiene la sostanziale assenza, per aver la sentenza di appello valorizzato le osservazioni dei periti dott. T. e P. per sostenere che la deliberazione omicidiaria fosse stata motivata dal fatto che l’imputato, con il ricovero della moglie in ospedale, ne aveva perso il controllo.
Inoltre, il giudice di appello avrebbe escluso il riconoscimento, nella collettività, di particolare valore morale alla scelta di far cessare le sofferenze altrui dipendenti da una condizione patologica irreversibile, solo sulla base di una controversa, in ambito sociale, discussione circa la liceità della eutanasia.
La censura di violazione di legge viene svolta, dal primo motivo di ricorso, con riferimento, da una parte, alla esclusione che il fatto fosse stato determinato solo da motivi altruistici, giustificata dalla compresenza di motivi, definiti di natura egoistica, connessi alla perdita di controllo sulla moglie, a seguito del ricovero in ospedale, e, dall’altra, alla esclusione del particolare rilievo morale della scelta di interrompere le insopportabili sofferenze altrui, motivata dal mezzo utilizzato e dalle controversie nel dibattito sulla liceità della eutanasia.
Motivi della decisione
Il ricorso propone motivi da ritenere infondati, e va quindi respinto.
1. La questione giuridica proposta dal ricorso riguarda il riconoscimento, nella vicenda di cui trattasi della attenuante per aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale, sia sotto il profilo della motivazione che in ordine alla corretta applicazione della norma di cuiall’art. 62 c.p., n. 1.
Si deve dar conto di quanto accertato, sul punto, dalle sentenze di merito.
1.1. La sentenza di primo grado ha riconosciuto che l’imputato aveva agito con l’intenzione di porre fine alle sofferenze della moglie, da tempo malata di morbo di Alzheimer con una progressione sempre più invalidante sino al punto da rendere necessario il ricovero in ospedale, non essendo più sufficienti le cure domiciliari prestate direttamente dall’imputato.
L’individuazione di un motivo definibile come “altruistico” è incontroversa, risultando dalla complessiva condotta, antecedente e successiva, dell’imputato, il quale si era sempre preso cura della moglie, non aveva tenuto nascosto il grave gesto compiuto, ed aveva sempre spiegato la sua azione con la constatazione della condizione irreversibile della malattia della moglie, sottratta anche al conforto costituito dal trovarsi tra le mura domestiche.
Le sentenze di merito hanno, peraltro, osservato che al menzionato fine “altruistico” si era accompagnato anche un fine collegato a esigenze personali: il ricovero in ospedale aveva sottratto la vittima alle cure esclusive del marito, che così vedeva alterato un fattore di equilibrio psicologico personale; inoltre, il protrarsi delle sofferenze della moglie determinava sofferenza morale anche per l’imputato.
Dunque, i giudici del merito hanno ritenuto che l’imputato avesse agito, uccidendo la moglie, anche per eliminare un fattore – la grave sofferenza della moglie in ospedale – che determinava anche una sua personale sofferenza, e quindi per conseguire una condizione di maggior benessere.
1.2. Le sentenze di merito hanno aggiunto che in ordine alla scelta di sopprimere la vita di un proprio caro in condizioni di sofferenza fisica totale ed irreversibile non vi era da parte della comunità sociale un riconoscimento di particolare valore morale.
Sul punto, si è osservato che dibattuta è la liceità della eutanasia, ancora non consentita dall’ordinamento e che non è mai emerso che la coscienza sociale avesse approvato le particolari modalità operative scelte dall’imputato: l’utilizzo di arma da fuoco in una camera di ospedale.
2. Il Collegio ritiene che la motivazione data dalle sentenze di merito non sia censurabile in termini tali da configurare il particolare vizio definitodall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).
La sentenza di appello, in conformità a quanto già osservato dal primo giudice, ha preso in esame gli aspetti di fatto rilevanti nel giudizio sulla sussistenza della attenuante, giungendo ad escludere, con argomenti logicamente incensurabili e collegati al compendio probatorio acquisito, sia l’esclusività del fine ” altruistico”, sia il particolare valore morale di quel fine ” altruistico”.
Il secondo motivo di ricorso, in realtà, si risolve in una lettura alternativa del compendio probatorio, senza alcuna specifica censura di manifesta illogicità, contraddittorietà od apparenza della motivazione della sentenza impugnata.
3. Il primo motivo di ricorso sostiene che i giudici di merito avrebbero, nell’escludere la sussistenza dell’attenuante, non correttamente interpretato la norma di cuiall’art. 62 c.p., n. 1.
Quanto al requisito soggettivo della finalità ” altruistica” dell’azione, il motivo censura il giudizio che ha ritenuto necessario, per la sussistenza del requisito, che tale fine fosse stato l’unico ed esclusivo.
Quanto al requisito oggettivo del riconoscimento del valore morale dell’azione, il ricorso contesta la legittimità del rilievo, negativo, dato alle modalità dell’azione e alla controversia circa l’efficacia scriminante dell’eutanasia, questione del tutto distinta da quella relativa alla sussistenza dell’attenuante in parola.
3.1. Il Collegio osserva che la attenuante in esame dà rilievo, al fine di diminuire la pena, ai motivi dell’azione, qualora essi siano qualificabili come ” di particolare valore morale o sociale”.
E’ dunque necessario, da una parte, accertare i motivi dell’azione, con un vaglio che concerne il profilo soggettivo e quindi la personale valutazione compiuta dal reo nel determinarsi a commettere il reato.
Nella presente vicenda assume un particolare rilievo il giudizio circa la compresenza, nella sfera soggettiva del reo, di una pluralità di motivazioni.
Va inoltre compiuta la verifica circa il riconoscimento da parte della comunità sociale di un particolare valore al motivo che aveva determinato il reo al reato.
Il riferimento, operato dalla norma, al rilievo ” morale o sociale” del valore riconosciuto consente di apprezzare sia i valori attinenti più direttamente la sfera personale che i cd. valori sociali.
Nel caso in esame vengono in rilievo motivi attinenti la sfera personale (della vittima e del reo), e dunque si deve verificare il particolare valore morale dei motivi dell’azione.
Tale giudizio va compiuto con riferimento agli orientamenti che la comunità sociale esprime, siano essi codificati in disposizioni normative come anche in comportamenti che, per la loro ripetizione, possano essere considerati espressione di un diffuso e comune sentire.
Si deve aggiungere che il giudizio deve riguardare il motivo determinante in relazione con l’azione, di tal che si possa affermare che secondo la coscienza sociale è, o meno, di particolare valore morale perseguire quel fine con quella determinata azione.
3.2. Quanto alla sfera soggettiva, e dunque ai motivi che hanno determinato l’imputato all’azione omicida, le sentenze di merito hanno riconosciuto che B.V. aveva agito per far cessare le sofferenze fisiche, sempre più invalidanti ed irreversibili, della moglie.
Gli atti difensivi assimilano tale finalità al sentimento di pietà, inteso come comprensione delle sofferenze altrui.
Le sentenze di merito parlano di finalità o matrice altruistica, per rappresentare la direzione della volontà del reo a porre fine alle sofferenze fisiche della moglie.
La sentenza impugnata, in senso conforme a quanto ritenuto dal primo giudice, ha ritenuto che la compresenza, nella psiche del reo, di finalità “egoistiche” comportasse la insussistenza, nel determinismo soggettivo dell’azione, di un motivo qualificabile come di valore morale.
Ora, sul punto le censure del ricorrente sono fondate.
Le sentenze di merito, con un vaglio approfondito che ha utilizzato gli apporti scientifici acquisiti con le perizie sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato, hanno individuato, tra i motivi dell’azione, anche la finalità di benessere personale del reo, non più in grado, psicologicamente, di partecipare alle sofferenze fisiche della moglie, costretta in ambiente ospedaliero.
Tale accertamento è congruamente motivato e dunque si può ritenere provato che nel formarsi della volontà omicida abbia influito sia il fine di far cessare le sofferenze fisiche della moglie che quello di porre fine ad una situazione che determinava sofferenza anche per il reo.
Peraltro, si tratta di motivi che traggono origine dalla vicinanza affettiva del B. verso la moglie, sentimento che lo aveva sorretto nella assistenza finché la moglie era rimasta a casa e che, nella mutata condizione del ricovero ospedaliero, gli faceva sentire non più sopportabile la condizione in cui la moglie era venuta a trovarsi.
La giurisprudenza che ritiene necessario che il fine di rilievo morale sia esclusivo esprime l’esigenza di dare rilievo, ai fini dell’attenuante, al motivo che sia stato la causa del reato, e non anche al motivo che sia stato presente, ma non determinante nella deliberazione criminosa.
Nel caso in esame vi è un accertamento che individua nella partecipazione soggettiva dell’imputato alle sofferenze della moglie il motivo che aveva fatto sorgere, nella particolare condizione del ricovero e della gravità irreversibile della patologia, la decisione omicida.
Le sentenze di merito hanno evidenziato l’ambivalenza di tale motivo, ma ciò non toglie che nella psiche dell’imputato è stata la compassione rispetto alla malattia della moglie a determinare il reo all’omicidio.
3.3. I motivi di ricorso proposti in relazione al giudizio sul requisito oggettivo dell’attenuante non sono fondati.
Il ricorso propone una critica agli argomenti valorizzati dai giudici di merito per negare che sia riconosciuto valore morale alla condotta dell’imputato e deduce che, secondo il sentire diffuso della comunità sociale, la partecipazione all’altrui sofferenza può essere vissuto, in casi estremi, anche con la soppressione della vita sofferente.
Il Collegio osserva che la nozione di compassione rappresentata in ricorso è attualmente applicata con riguardo agli animali di compagnia, rispetto ai quali è usuale, e ritenuta espressione di civiltà, la pratica di determinarne farmacologicamente la morte in caso di malattie non curabili.
Nei confronti degli esseri umani, invece, operano i principi espressi dalla Carta costituzionale, finalizzati alla solidarietà e alla tutela della salute.
Ne consegue che la nozione di compassione, cui il sentire comune riconosce un altissimo valore morale, rimane segnata dal superiore principio del rispetto della vita umana, che è il criterio della moralità dell’agire.
Del tutto distinto è il dibattito culturale sui limiti al trattamento di fine vita e sul rilievo del consenso del malato, fondato sul principio costituzionale del divieto di trattamenti sanitari obbligatori.
Le sentenze di merito hanno osservato che nella coscienza sociale è ancora dibattuto il tema della eutanasia, e che comunque è chiaro il ripudio di condotte, come quella posta in essere dall’imputato, connotate da violenza mediante uso di arma da fuoco, e in un luogo pubblico.
Si tratta di argomenti non decisivi, ma significativi del perdurante rifiuto, nella coscienza sociale, di condotte caratterizzate da violenza su persona indifesa.
Il Collegio quindi ritiene che la sentenza impugnata abbia fatto corretta applicazione al caso concreto della norma di cuiall’art. 62 c.p., n. 1, dovendosi affermare il principio secondo cui “Nella attuale coscienza sociale il sentimento di compassione o di pietà è incompatibile con la condotta di soppressione della vita umana verso la quale si prova il sentimento medesimo. Non può quindi essere ritenuta di particolare valore morale la condotta di omicidio di persona che si trovi in condizioni di grave ed irreversibile sofferenza fisica”.
4. Va dunque pronunciato il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.