Vanno restituite le somme relative ad un prestito personale effettuato dall’ex partner, poichè non sono riconducibili alle spese sostenute per la vita di coppia che come tali non sono ripetibili.

Cass. del 15 Maggio 2018, n. 11766
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. S.F. ricorre per cassazione, sulla base di quattro motivi, avverso la sentenza n.
1526/14 del 17 giugno 2014 della Corte di Appello di Bologna, che – riformando la
sentenza pronunciata dal Tribunale di Ravenna n. 25/08 del 20 maggio 2008, in
accoglimento del gravame proposto da P.E. – ha condannato l’odierna ricorrente sia
a pagare al predetto P., a titolo di regresso ex art. 1950 c.c., la somma di Euro
5.388,15 (oltre interessi, nella misura legale, dal 22 gennaio 2007 al saldo), sia a
restituirgli, ciò che qui interessa, un prestito dal primo erogatole nella misura di
Euro 37.500,00.
2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di aver intrattenuto, per circa sei
anni (dal 1998 al 2004), una convivenza more uxorio con il P., cimentandosi anche
in una comune attività imprenditoriale per il sostentamento della vita di coppia, con
scelta caduta su un negozio di abbigliamento, per la cui apertura veniva stipulato –
in data 4 novembre 2000 – un mutuo chirografario, sottoscritto da entrambi i
conviventi, ma in relazione al quale il P. rilasciava pure duplice garanzia
fideiussoria.
Assume, dunque, l’odierna ricorrente che ambedue i conviventi si sarebbero
occupati, con le stesse mansioni e pari capacità di gestione, dell’esercizio
commerciale suddetto, contribuendo, inoltre, economicamente alla vita di coppia
nei limiti delle proprie risorse.
Terminata la relazione affettiva nel giugno 2004, la S. ed il P. – secondo quanto si
legge sempre nel ricorso – cedevano ad un terzo acquirente, nei primi mesi del
2005, l’attività commerciale creata, senza che nessuna pretesa economica, in
occasione dell’operazione di vendita, fosse avanzata dal P..
Radicato da quest’ultimo un giudizio cautelare per la tutela del suo diritto,
ritenendo il P. che la S. fosse propria debitrice in forza delle fideiussioni da esso
prestate, oltre che in virtù di prestiti personali ammontanti ad Euro 37.500,00,
denegata la richiesta cautelare, l’adito Tribunale respingeva anche l’azione volta
all’accertamento del diritto dell’attore sia a rimanere indenne e manlevato da
qualsivoglia conseguenza pregiudizievole derivante dalle fideiussioni prestate (o, in
subordine, ad ottenere la ripetizione di tutte le somme che, per effetto delle stesse,
fosse stato tenuto a pagare), sia ad ottenere la restituzione dei prestiti effettuati.
Proposto appello dal P., la Corte felsinea, in accoglimento del gravame, provvedeva
nei termini sopra riassunti, e ciò sul rilievo dell’inesistenza, nel caso di specie, degli
“estremi per l’accertamento di una società di fatto” tra le parti, ovvero “per
affermare l’esistenza di una comunione di fatto dal punto di vista patrimoniale
estesa anche a rapporti estranei all’instaurata convivenza”.
Inoltre, quanto alla prima domanda attorea, la sentenza oggi impugnata
sottolineava che “la veste di fideiussore del P. ha un formale riscontro documentale
che non è possibile superare sulla base di considerazioni meramente indiziarie”.
Con particolare riferimento, poi, alla domanda di restituzione del prestito, la stessa
veniva accolta sulla base di un prospetto contabile, recante “l’indicazione dei soldi
resi ad E. e da dare ad E.”, dandosi atto come siffatta scrittura fosse stata
“sottoscritta dalla S.” (che provvedeva al riconoscimento di “sottoscrizione e
contenuto” della stessa, in occasione dell’interrogatorio formale), evenienza che ne
avrebbe avvalorato “la natura di atto formale e di riconoscimento di debito e non
meramente contabile”.
3. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna ha proposto ricorso per
cassazione la S., sulla base – come detto di quattro motivi.
3.1. Con il primo motivo, si deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), –
“violazione degli artt. 1324, 1362 e 1963 c.c., e 2697 c.c., nonchè degli artt. 113 e 115
c.p.c.”, sul rilievo che sarebbero stati disattesi “i criteri ermeneutici di
interpretazione indicati dall’art. 1362 c.c. e ss.”, nonchè per essere stata “omessa la
ricostruzione della volontà delle parti”, oltre che per essere stato “posto a
fondamento della decisione una prova non proposta dalle parti”.
In particolare, si assume che il summenzionato prospetto contabile consisterebbe in
“un foglio non sottoscritto, contenente confusi dati numerici, nemmeno sommati
algebricamente e comunque interpretati senza essere posti in relazione al
comportamento delle parti e alla loro volontà”.
Più esattamente, la “completa assenza di sottoscrizione”, comporterebbe che il
giudice di appello, “in violazione di quanto imposto dall’art. 115 c.p.c.”, avrebbe
“posto a fondamento della propria decisione un documento inesistente, mai offerto
in produzione dalle parti”. Inoltre, la decisione impugnata avrebbe riconosciuto
“valore ricognitivo ad un calcolo (tot. Euro 37.500,00) che non ha neppure alcuna
connessione con i dati numerici che lo precedono, sommando algebricamente i
quali si giunge ad un risultato differente e pure inferiore”. Infine, si nega che “da
detto documento possa trasparire “una specifica intenzione ricognitiva” a favore del
P.”, atteso che – secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità – per
l’applicazione dell’art. 1988 c.c., sarebbe “necessaria la consapevolezza del
riconoscimento desunta da una dichiarazione univoca, tale da escludere che la
relativa dichiarazione possa avere finalità diverse o che il riconoscimento resti
condizionato da elementi estranei alla volontà del debitore.
Con specifico riferimento a tale ultimo profilo di doglianza, va rimarcato come la
ricorrente censuri la sentenza impugnata giacchè avrebbe “omesso di considerare”
che la dichiarazione de qua era “riferita ad un’attività gestita in comune dalle parti”
(il negozio di abbigliamento), come sarebbe stato agevole accertare sulla base di una
serie di dati, idonei a rivelare la effettiva volontà delle parti, e la cui mancata
valorizzazione integrerebbe, dunque, violazione dei criteri ermeneutici indicati dalla
legge. Rileverebbero, infatti, in tal senso: la disponibilità, da parte del P., del conto
corrente intestato alla ditta S.F., avendo delega completa ad operare su di esso, con
potere di emissione di assegni; la conduzione e definizione, sempre ad opera del
medesimo, degli accordi per la cessione a terzi dell’azienda; l’espresso consenso,
manifestato, per iscritto, a tale operazione, senza avanzare alcuna rivendicazione in
merito a propri asseriti crediti verso la S.; la fattiva ed assidua presenza del P. nella
gestione dell’esercizio commerciale.
3.2. Il secondo motivo, sempre prospettato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n.
3), ipotizza “violazione e falsa applicazione degli artt. 1987 e 1988 c.c.”,
segnatamente laddove la sentenza impugnata ha ritenuto che il suddetto prospetto
contabile fosse “di per sè fonte di obbligazione di pagamento”, così omettendo ogni
accertamento sul rapporto in cui detta dichiarazione risultava intervenuta.
Sul presupposto secondo cui “la promessa di pagamento e la ricognizione di debito
non costituiscono promesse unilaterali ai sensi dell’art. 1987 c.c., e dunque non
sono fonti di obbligazioni”, essendo la “loro efficacia limitata al tema della prova del
rapporto fondamentale che ne costituisce l’oggetto”, producendo solo una
“inversione dell’onere probatorio circa l’esistenza dell’obbligazione sottostante”, la
ricorrente censura la sentenza impugnata perchè avrebbe disatteso tali principi. In
base ad essi, si ipotizza nel ricorso, il riconoscimento del debito “comporta
unicamente l’inversione dell’onere della prova”, e ciò “in quanto la sua esistenza,
estensione, validità ed efficacia dipende dalla prova del rapporto obbligatorio in cui
interviene”. Orbene, nel caso di specie, la Corte di Appello di Bologna avrebbe
“completamente omesso l’accertamento del rapporto sottostante alla ritenuta
ricognizione”, e ciò “prescindendo dai “legami” esistenti tra le parti”, ed in
particolare “omettendo ogni opportuno accertamento” con riguardo alla
“comunione di fatto dal punto di vista patrimoniale”, esistente tra i conviventi more
uxorio ed “estesa anche ai rapporti estranei all’instaurata convivenza”.
3.3. Il terzo motivo è, invece, proposto simultaneamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,
comma 1, nn. 3) e 5), denunciandosi, da un lato, violazione e falsa applicazione
dell’art. 2034 c.c., e art. 430 c.c., comma 2, nonchè, dall’altro, l’omesso esame circa
un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero
“l’esistenza di obbligazioni naturali” a carico del P., statuendo erroneamente la
Corte felisinea il diritto dello stesso a ripetere quanto pagato in forza del loro
adempimento.
Si censura il fatto che il giudice di appello, nell’ambito di un’interpretazione
riduttiva dei doveri morali e sociali ravvisabili nelle relazioni more uxorio, avrebbe
erroneamente escluso che i versamenti di somme da parte del P. potessero
costituire adempimento di detti obblighi, disattendendo quella giurisprudenza di
legittimità che nega il diritto del convivente di ripetere le eventuali attribuzioni
patrimoniali effettuate nel corso o in relazione alla convivenza.
La sentenza impugnata, inoltre, non avrebbe ritenuto opportuno valutare
l’adeguatezza delle elargizioni rispetto alle consistenze patrimoniali del P. e della S.,
“limitandosi a vedere il rapporto tra le parti come una sterile interazione tra un
soggetto creditore e un soggetto debitore”, mentre il primo “contribuiva alla
gestione del negozio assiduamente e fattivamente”, giovandosi anche dei suoi ricavi.
3.4. Infine, il quarto motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), –
censura la sentenza impugnata per avere “completamente omesso di accertare
l’esistenza di una comunione di fatto” tra i due conviventi more uxorio, essendo
mancato nel ragionamento del giudice di seconde cure ogni riferimento a dati che lo
hanno indotto ad una simile conclusione.
4. Ha proposto controricorso P.E., per resistere all’avversaria impugnazione.
In punto di fatto, il controricorrente precisa che il documento prodotto nel presente
giudizio dalla S. (il prospetto contabile), del quale ella contesta l’idoneità a
costituire ricognizione di debito, in ragione, tra l’altro, dell’assenza di sottoscrizione,
costituirebbe solo l’estratto di un più ampio documento già presente agli atti dei due
gradi di merito del presente giudizio. Si tratterebbe, infatti, solo della prima di tre
complessive pagine dell’agenda su cui l’odierna ricorrente teneva la propria
contabilità, l’ultima delle quali recante non solo la sottoscrizione dell’interessata,
ma anche la stampigliatura della data in cui fu trasmessa via fax al commercialista.
Ciò premesso, e non senza ulteriormente precisare come controparte non abbia
“mai confutato esistenza ed ammontare delle elargizioni ricevute dal P., essendosi
limitata unicamente a contestare la natura di prestito”, l’odierno controricorrente
ribadisce come la S., nel corso dell’interrogatorio formale effettuato nel primo grado
di giudizio, abbia confermato il contenuto e la sottoscrizione del documento de quo.
Evidenzia, inoltre, che contrariamente a quanto sostenuto nell’avversario ricorso –
la somma algebrica degli importi indicati nel predetto documento (Euro 37.622,73)
corrisponde, sostanzialmente, a quella cifra di Euro 37.500,00 per la cui ripetizione
esso P. ha agito in giudizio, al netto di un piccolo arrotondamento al ribasso.
Quanto, poi, al merito delle censure avanzate dalla ricorrente, il P. sottolinea come
essa insista a sostenere, “per non restituire quanto ricevuto”, che i prestiti ricevuti
“rientrano nell’alveo delle obbligazioni naturali”. Così, tuttavia, non sarebbe,
giacchè “una cosa sono le spese sostenute per le necessità familiari” (delle quali esso
P., difatti, “si è mai sognato di tenere una contabilità analitica e dettagliata durante
il rapporto di convivenza, nè si è mai sognato di chiedere la restituzione dopo)”,
altro, invece, “i prestiti effettuati in favore dell’attività commerciale della S.”.
Infondata, poi, sarebbe la doglianza relativa alla “omissione” in cui la Corte di
Appello sarebbe incorsa quanto all’accertamento delle obbligazioni naturali, giacchè
il giudice di seconde cure avrebbe, piuttosto, espressamente “escluso” qualsiasi
ricostruzione dei rapporti intercorsi tra le parti che richiami il disposto dell’art.
2034 c.c.. Inoltre, si evidenzia come l’odierna ricorrente non abbia “mai offerto il
benchè minimo elemento di prova, atto a far ipotizzare che le somme le fossero
state corrisposte dal P. in adempimento di un’obbligazione naturale”.
Infine, quanto all’omesso esame della questione relativa all’esistenza di una
“comunione di fatto” tra i conviventi more uxorio, il P. – non senza previamente
evidenziare come l’accertamento della stessa non sarebbe stato richiesto da
nessuno, nè in primo nè in secondo grado, costituendo, così, una domanda nuova –
esclude, in ogni caso, che le risultanze istruttorie ne abbiano confermato la
ricorrenza. Si sottolinea, infine, come siffatta tesi non possa – in ogni caso – trovare
giuridico accoglimento, giacchè ciò equivarrebbe ad ipotizzare per i conviventi more
uxorio un “regime di comunione legale “in automatico”, senza neppure la possibilità
di scegliere un diverso regime patrimoniale, a differenza di quanto avviene per i
coniugi”, in disparte ogni altro rilievo circa le conseguente aberranti soprattutto in
termini di incertezza sulla circolazione dei beni derivanti dall’applicazione delle
regole dettate dall’art. 177 c.c..
5. Entrambe le parti hanno presentato memorie ex art. 378 c.p.c., ribadendo quanto
già affermato.
Motivi della decisione
6. Il ricorso è da respingere.
6.1. In particolare, i motivi primo, secondo e terzo – da trattare congiuntamente, in
quanto censurano, sotto diversi angoli visuali, la sentenza impugnata, laddove ha
ritenuto il prospetto contabile inviato dalla S. al proprio commercialista idoneo ad
integrare riconoscimento del debito, ai fini ed agli effetti di cui all’art. 1988 c.c. –
non sono fondati.
6.1.1. In particolare, con il primo motivo si contesta che il documento de quo possa
considerarsi espressivo di uno “specifico intento ricognitivo”, trattandosi di “un
foglio non sottoscritto, contenente confusi dati numerici, nemmeno sommati
algebricamente e comunque interpretati senza essere posti in relazione al
comportamento delle parti e alla loro volontà”.
Proposta la censura in questi termini (e non, invece, lamentando che la
ricognizione, perchè possa spiegare i suoi effetti, deve essere “rimessa direttamente
dall’obbligato al creditore, senza intermediazioni”, cfr. Cass. Sez. 3, sent. 14 febbraio
2012, n. 2104, Rv. 621529-01), la stessa va rigettata.
E ciò non soltanto perchè i dubbi sull’assenza della sottoscrizione e sulla congruità,
dal punto vista algebrico, delle cifre in esso riportate, sono superabili sulla scorta
dei rilievi proposti dal controricorrente P., ma soprattutto in ragione delle
considerazioni che seguono.
Sul punto, infatti, va ribadito che la “ricognizione di debito, come qualsiasi altra
manifestazione di volontà negoziale, può risultare anche da un comportamento
tacito, purchè inequivoco, tale essendo il contegno che nessuno terrebbe se non al
fine di riconoscersi debitore, e senza altro scopo se non quest’ultimo” (Cass. Sez. 3,
sent. 21 luglio 2016, n. 14993, Rv. 641448-01), dovendo inoltre compiersi,
nell’interpretazione dell’atto ricognitivo, “una ricostruzione dell'”intenzione delle
parti” (rilevante sotto il profilo di cui all’art. 1362 cod. civ.) afferente, in via
esclusiva, alla volontà espressa dal dichiarante, e non certamente a quella – peraltro,
del tutto ipotetica del destinatario di quelle dichiarazioni” (Cass. Sez. 3, sent. 1
agosto 2002, n. 11433, Rv. 556500-01). Proprio a tale ultima volontà, per contro,
pretenderebbe di attribuire rilievo la ricorrente, richiamando il contributo del P.
alla gestione della (asseritamente) comune attività imprenditoriale.
Corrobora, d’altra parte, l’esito del rigetto anche il rilievo secondo cui “l’indagine sul
contenuto e sul significato della dichiarazione al fine di stabilire se importino
ricognizione di debito ai sensi dell’art. 1988 c.c., rientra nel potere discrezionale del
giudice di merito” (cfr. Cass. Sez. 1., sent. 1 febbraio 2007, n. 2205, Rv. 595044-01),
potere ormai sindacabile solo entro le strette maglie del “novellato” testo dell’art.
360 c.p.c., comma 1, n. 5).
6.1.2. Ciò premesso, spostando l’analisi dal piano della astratta “idoneità ad
esprimere l’intento ricognitivo”, propria della dichiarazione suddetta, a quello –
evocato dal secondo motivo di ricorso – degli effetti destinati a scaturire da essa,
deve qui ribadirsi come l’odierna ricorrente censuri il fatto che l’astrazione
processuale, conseguente all’avvenuta ricognizione, obbligasse il giudice di appello a
compiere “l’accertamento del rapporto sottostante alla ritenuta ricognizione”, ciò
che il medesimo avrebbe dovuto fare senza poter prescindere “dai “legami” esistenti
tra le parti”, ed in particolare dalla supposta “comunione di fatto” tra i già
conviventi more uxorio.
Ai fini del rigetto del motivo, tuttavia, è sufficiente osservare come la già ricordata
astrazione processuale conseguente alla ricognizione si sostanzi in una “relevatio ab
onere probandi” che dispensa il destinatario della dichiarazione dalla necessità di
provare il rapporto sottostante al debito riconosciuto, che si presume fino a prova
contraria, salvo, appunto, che “la parte da cui provenga dimostri che il rapporto
medesimo non sia stato instaurato, o sia sorto invalidamente” (Cass. Sez. 1, sent. 13
giugno 2014, n. 13506, Rv. 631306-01), ovvero “che esista una condizione o un altro
elemento ad esso attinente che possa comunque incidere sull’obbligazione derivante
dal riconoscimento” (Cass. Sez. 1, sent. 13 ottobre 2016, n. 20689, Rv. 642050-03).
Conseguentemente, non era il giudice a dover accertare quale fosse il rapporto
sottostante, ma essa S. a doverne dimostrare l’inesistenza, l’estinzione o l’invalidità.
6.1.3. Ne deriva, pertanto, che il discorso finisce – di nuovo – con il traslare su di un
ulteriore piano (al quale fa riferimento il terzo motivo di ricorso), ovvero quello
della supposta erroneità della decisione impugnata nell’escludere che i versamenti
di somme da parte del P. potessero costituire adempimento di obbligazioni naturali
verso la convivente S..
Nondimeno, anche questo motivo è destinato al rigetto.
Se, infatti, è innegabile – come argomenta la ricorrente nel proprio atto di
impugnazione – che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente more uxorio
effettuate nel corso del rapporto configurino l’adempimento di una obbligazione
naturale ex art. 2034 c.c., purchè a condizione che siano rispettati i principi di
proporzionalità e di adeguatezza (cfr. Cass. Sez. 1, sent. 22 gennaio 2014, n. 1277,
Rv. 629802-01; Cass. Sez. 2, sent. 13 marzo 2003, n. 3713, Rv. 651116-01), siffatta
conclusione non giova, di per sè, alla S..
Sarebbe stato, infatti, suo onere dimostrare che gli importi – pari,
complessivamente, a Euro 37.500,00 – risultanti dal documento dalla stessa
sottoscritto (ed indicati, tra l’altro, come “da dare ad E.”), dei quali il P. ha
reclamato la restituzione, fossero proprio quelli corrispondenti, invece, ad
attribuzioni compiute dallo stesso in adempimento degli obblighi nascenti dal
rapporto di convivenza.
Valga, sul punto, rilevare che se il destinatario della dichiarazione ex art. 1988 c.c.,
“stante l’astrazione della causa debendi”, allorchè agisca “per l’adempimento della
obbligazione”, ha soltanto l’onere di provare la ricorrenza della promessa o della
ricognizione di debito, “e non anche la esistenza del rapporto giuridico da cui essa
trae origine”, incombe, invece, all’autore della dichiarazione “l’onere di provare la
inesistenza o la invalidità o l’estinzione del rapporto fondamentale”; di
conseguenza, “è di palmare evidenza che non è sufficiente perchè detto onere possa
dirsi adempiuto, che lo stesso affermi e dimostri che “altro” rapporto fondamentale
è stato estinto”, essendo, invece, indispensabile non tanto la dimostrazione che “in
precedenza esisteva un rapporto di debito e credito e questo, per qualsiasi motivo, si
è estinto, ma che esista coincidenza – concreta tra tale rapporto (di cui è data la
prova) e quello “presunto” per effetto della ricognizione di debito e non (…) una
mera “compatibilità” astratta tra i due titoli” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3,
sent. 23 febbraio 2006, n. 4019, Rv. 587935-01).
6.2. Infine, il quarto motivo è inammissibile.
Esso, a tacer d’altro (ovvero al profilo di “novità” denunciato dal controricorrente,
idoneo a comportare il medesimo esito processuale: cfr., ex multis, Cass. Sez. 1,
sent. 25 ottobre 2017, n. 25319; Rv. 645791-01), si sostanzia nella censura, più che
dell’omesso esame di un “fatto”, della mancata disamina, da parte della Corte
felsinea, della questione giuridica della configurabilità di una “comunione di fatto”
(a somiglianza della comunione patrimoniale tra i coniugi) tra i conviventi more
uxorio.
Così intesa, dunque, la censura non appare idonea ad integrare, neppure
astrattamente, il vizio suscettibile di riconduzione al novellato testo dell’art. 360
c.p.c., comma 1, n. 5), visto che esso deve investire “non una “questione” o un
“punto” della sentenza” (come avvenuto, invece, nel presente caso), “ma un fatto
vero e proprio, e quindi un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè, un fatto
costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo), oppure secondario (cioè, dedotto
in funzione di prova di un fatto principale)”; cfr., da ultimo, in motivazione Cass.
Sez. 1, sent. 8 settembre 2016, n. 17761, R. 641174-01; in senso analogo – sulla
necessità che l’omesso esame investa sempre un “fatto storico, principale o
secondario” – si veda anche Cass. Sez. 6-5, ord. 4 ottobre 2017, n. 23238, Rv.
646308-01.
7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo, ai sensi
del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
8. A carico della ricorrente, rimasta soccombente, sussiste l’obbligo di versare un
ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio
2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e condanna S.F. a rifondere ad P.E. le spese del
presente giudizio, che liquida in Euro 9.600,00, più Euro 200,00 per esborsi e
spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo
introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il
ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della
Corte di Cassazione, il 24 ottobre 2017.
Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2018