PROVA DELLA PROPRIETÀ IN REGIME DI SEPARAZIONE DEI BENI

Di Gianfranco Dosi

I. Il quadro giuridico di riferimento: l’art. 219 c.c.
II. La tutela del coniuge non proprietario
III. La prova della proprietà dei beni
IV. La disciplina dei conti correnti bancari cointestati tra coniugi
V. Fruizione comune e comproprietà di un bene mobile
I Il quadro giuridico di riferimento
Nell’ambito delle norme che disciplinano il regime patrimoniale della separazione dei beni l’art. 219 c.c. (prova della proprietà dei beni) prevede che
Il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro la proprietà esclusiva di un bene.
I beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di pro¬prietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi.
La disposizione trova applicazione anche alle unioni civili (art. 1, comma 13, legge 20 maggio 2016, n. 76) laddove i partner scelgano il regime della separazione dei beni, ma non alle convi¬venze di fatto in cui i conviventi sono in situazione di reciproca autonomia patrimoniale e in cui semmai, con l’adozione di un contratto di convivenza, il regime patrimoniale potrebbe essere solo quello della comunione dei beni.
Il senso della norma è quello di rendere possibile tra i coniugi (ed anche nelle controversie eredi¬tarie), senza alcuna limitazione, la prova della proprietà di beni mobili nel corso della vita matri¬moniale e, soprattutto, al momento della cessazione del regime quando può porsi un problema di riacquisizione delle proprietà di rispettiva pertinenza ovvero di divisione dei beni comuni.
Al momento del matrimonio oppure nel corso della vita coniugale avvengono da parte di ciascuno acquisti che nel regime di separazione, in linea di principio, restano di proprietà di chi li effettua.
Del regime di separazione dei beni – che oggi costituisce statisticamente il regime patrimoniale più diffuso nelle famiglie coniugali – sono sopravvissute nel codice civile, dopo la riforma del 75, soltanto quattro norme1
1 Cfr la voce SEPARAZIONE DEI BENI : l’art. 215 che esplicita il meccanismo distributivo su cui il regime si fonda (ciascun coniuge conserva la titolarità esclusiva dei beni che acquista durante il matrimonio); l’art. 217 che disciplina l’amministrazione e il godimento dei beni acquistati; l’art. 218 che assimila le obbligazioni del coniuge che partecipa al godimento delle proprietà dell’altro a quelle dell’usufrut¬tuario e, infine, l’art. 219 che detta la disciplina della prova nel contenzioso sulla proprietà dei beni.
Quindi i coniugi possono scegliere il regime della separazione dei beni. Se non effettuano alcuna scelta rimarranno nel regime legale della comunione dei beni (art. 159 c.c.).
Gli acquisti quindi che ciascun coniuge effettua in regime di separazione dei beni, rimangono di esclusiva proprietà del coniuge acquirente. Il bene, invece, acquistato e pagato da entrambi i co¬niugi, entra naturalmente in comunione ordinaria.
Il regime di separazione dei beni comporta, perciò, in linea di principio, l’esclusiva proprietà dei beni in capo al coniuge che li acquista. Correttamente quindi l’art. 217 c.c. prevede che il coniuge titolare della proprietà del bene “ha il godimento e l’amministrazione dei beni di cui è titolare”. Titolo di proprietà e diritti di godimento e di amministrazione coincidono.
II La tutela del coniuge non proprietario
Il regime di separazione dei beni sembra porre il coniuge proprietario in una condizione di potere assoluto. La legge gli attribuisce infatti la proprietà, il godimento e l’amministrazione dei beni ci cui è proprietario (art. 217 c.c.).
L’applicazione rigida delle regole della proprietà potrebbe quindi condurre nelle relazioni coniugali a risultati iniqui, se solo si riflette sulla circostanza che il coniuge non proprietario finirebbe per non avere alcuna tutela rispetto ai poteri del proprietario ovvero anche solo di godimento e di ammini¬strazione esercitati dal coniuge proprietario. Forse che il coniuge non proprietario non sia titolare di nulla solo perché non ha acquistato un certo bene fruito da entrambi? O che debba subire tutte le decisioni dell’altro sui beni goduti da entrambi? Il coniuge proprietario può fare tutto quello che vuole sui beni di cui ha la titolarità esclusiva? O ci sono dei limiti? Può, per esempio, il coniuge proprietario decidere di vendere la casa familiare di cui ha la proprietà anche senza il consenso dell’altro coniuge? Può vendere tutti i mobili di casa sul semplice presupposto che, avendoli acqui¬stati con denaro proprio, ne ha la esclusiva proprietà?
Un potere assoluto del coniuge proprietario potrebbe porsi potenzialmente in grave conflitto con le regole della solidarietà coniugale e cioè dell’obbligo di entrambi i coniugi “di contribuire ai bisogni della famiglia” (art. 143 c.c..). Per questo motivo si ritiene pacificamente che il regime primario della solidarietà coniugale (espresso nelle regole fondamentali degli articoli 143 e 144 del codice civile) non può non permeare anche il regime secondario di tipo patrimoniale, in particolare so¬prattutto della separazione dei beni (considerato che il regime di comunione legale esprime certa¬mente un potenziale di compartecipazione più accentuato).
Per questo motivo in dottrina si ritiene giustamente – a commento di questo regime patrimoniale – che non può certo negarsi il potere di godimento del bene comune al coniuge non proprietario e che il bene acquistato per esigenze comuni o di fruizione comune, ovvero acquistato in base ad un accordo tra i coniugi, non possa che essere considerato appartenente ad entrambi.
In altri ordinamenti (Francia, Germania) il coniuge proprietario non può vendere la casa familiare o i mobili che l’arredano senza il consenso del coniuge non proprietario che la abiti insieme. Il nostro sistema giuridico non prevede una limitazione del genere.
La giurisprudenza si è occupata del problema del potere assoluto del coniuge proprietario affer¬mando che la condotta del coniuge che dispone o intende disporre dei beni di sua proprietà esclu¬siva senza tener conto del parere e dei desideri dell’altro coniuge potrebbe dare spazio all’addebito della separazione ma non a poteri di carattere inibitorio dell’altro coniuge, neppure se si configu¬rasse una violazione di un accordo dei coniugi, ad eccezione dei casi però in cui l’atto costituisca una violazione dell’obbligo di contribuzione o di quelli della solidarietà coniugale o costituisca addi¬rittura espediente per sottrarsi a tali regole (Cass. sez. I, 7 maggio 1992, n. 5415 che non ha ravvisato questa violazione in un caso in cui il marito aveva espresso la volontà di trasferire in un quartiere ritenuto più adatto la casa coniugale di sua proprietà).
III La prova della proprietà dei beni
L’art. 219 c.c. costituisce uno dei correttivi legali al potere assoluto del coniuge proprietario. Il primo comma della norma, ai fini della presunzione di comproprietà indicata nel secondo comma, consente ad un coniuge di provare con ogni mezzo – e quindi senza alcuna delle limitazioni previste dal codice di procedura civile – di essere proprietario di un particolare bene. Perciò la norma viene considerata una deroga espressa agli articoli 2721 e seguenti c.c. e all’art. 2729, co. 2, c.c. (che in materia di prova dei contratti stabiliscono limiti alla testimonianza e alla prova per presunzioni).
La norma si riferisce naturalmente alle controversie su beni mobili (Cass. civ. Sez. I, 2 agosto 2013, n. 18554; Cass. civ. Sez. Unite, 23 aprile 1982, n. 2494) ed intende agevolare la prova in tali controversie proprio in ragione del principio, collegato al regime primario di solidarietà, di comune fruizione dei beni acquistati da un coniuge nel corso del matrimonio. Pertanto è volta principalmen¬te a derogare alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione dei beni mobili.
Il secondo comma dell’art. 219 c.c. chiarisce la conseguenza di questa deroga. Infatti seguendo i principi tradizionali del processo civile chi non riesce a provare la proprietà di un bene dovrebbe soc¬combere nella causa di rivendica. In questo caso invece, proprio in relazione al condizionamento del regime primario solidaristico, le regole dell’onere della prova subiscono una compressione e il bene di cui non si riesce a provare la proprietà si considera di proprietà indivisa di ciascuno dei coniugi.
Nessuna deroga, invece, l’art. 219 c.c. configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari (Cass. civ. Sez. I, 2 agosto 2013, n. 18554; Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327; Cass. civ. Sez. Unite, 23 aprile 1982, n. 2494) dove peraltro la prova della proprietà risulta da titoli non equivoci. Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale non può provarla né con giuramento né con testimoni, giacché l’ob¬bligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità, da atto scritto, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche, dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto (Cass. civ. Sez. Unite, 23 aprile 1982, n. 2494; Cass. civ. Sez. II, 10 febbraio 1995, n. 1482; Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 1990, n. 2540; Trib. Catania, 11 luglio 1986; Trib. Milano, 19 settembre 1983).
La specifica disposizione che consente tra coniugi di provare senza limitazioni di prova la proprie¬tà di un bene vale naturalmente nei soli rapporti tra coniugi – ovvero tra un coniuge e gli eredi dell’altro ovvero tra gli eredi dell’uno e gli eredi dell’altro – e non nei rapporti con i terzi. La pre¬cisazione è stata fatta molto opportunamente in giurisprudenza dove si è affermato che l’art. 219 c.c. non può essere esteso ai rapporti di ciascun coniuge con i terzi, con la conseguenza – per esempio – che, in tema di opposizione all’esecuzione, il coniuge opponente incontra tutti i limiti di prova previsti dal codice di procedura (Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 1998, n. 6589). Naturalmente il terzo creditore del coniuge può giovarsi della presunzione di comproprietà come se ne potrebbe giovare il coniuge stesso.
IV La disciplina dei conti correnti bancari cointestati tra coniugi
Per quanto concerne i depositi sui conti correnti bancari cointestati la giurisprudenza ha ritenuto che i coniugi intestatari, nei rapporti tra i correntisti e la banca, debbono essere ritenuti creditori o debitori in solido del saldo del conto (in base a quanto prevede espressamente l’art. 1854 c.c.) mentre nei rapporti interni troverà applicazione l’art. 1298, co. 2, c.c. a mente del quale “le parti di ciascuno si presumono uguali se non risulta diversamente” (Cass. civ. 9 settembre 1989, n. 3241; Trib. Verona, 8 aprile 1994) Pertanto qualora si dimostri che il saldo attivo del conto cointestato è dovuto unicamente ai versamenti e alle rimesse di uno dei due coniugi, l’altro nei rapporti interni non potrà avanzare alcuna pretesa. Analogamente è stato deciso nel caso in cui uno dei due coniugi aveva provato di aver egli da solo acquistato con proprio denaro un quan¬titativo di buoni del tesoro depositati in banca (Cass. Civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4327). L’orientamento è stato confermato da un’altra decisione (Cass. civ. Sez. II, 15 febbraio 2010, n. 3479) nella quale, nonostante il raggiungimento della prova circa la partecipazione di entrambi al soddisfacimento delle esigenze familiari e, nello specifico, alla creazione di riserve finanziarie, il coniuge non era stato in grado di dimostrare con esattezza l’entità del proprio contributo e per¬tanto il giudice aveva provveduto alla suddivisione pro quota delle somme di denaro oggetto di controversia. Se questa prova vi fosse stata il coniuge non titolare avrebbe perso ogni diritto sul denaro depositato nel corso della vita familiare.
Il che dimostra – essendo palese la mortificazione della tutela verso il coniuge più debole non titolare della proprietà – come vi siano ancora zone d’ombra nell’applicazione dei principi solida¬ristici primari (articoli 143 e 144 c.c.) al regime della separazione dei beni. Per questo motivo la giurisprudenza – anche se non sempre in passato in modo lineare2
2 Cfr la voce CONTO CORRENTE BANCARIO COINTESTATO – ammette il coniuge non proprietario a provare l’eventuale liberalità indiretta della cointestazione (Cass. civ. Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4682; Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809; Cass. civ. Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983; Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552; Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010; Trib. Palermo, sez. I, 9 luglio 2001).
V Fruizione comune e comproprietà di un bene mobile
Sempre nell’ottica di tutela del coniuge non proprietario, si deve qui affrontare un problema parti¬colare che potrebbe offrire rilevante protezione nella situazione in cui uno dei coniugi (per esempio la moglie casalinga) non abbia alcun provento che gli consenta di acquistare beni e che, al momen¬to, del conflitto potrebbe, conseguentemente, trovarsi nella assoluta impossibilità di dimostrare di aver acquistato qualcosa.
La questione che si intende affrontare non è, naturalmente, se la fruizione comune di un bene possa comportare l’acquisto della proprietà di quel bene, dal momento che la fruizione comune non costituisce un modo di acquisto della proprietà, ma se l’acquisto da parte un coniuge di un bene destinato all’uso comune possa essere considerato donazione indiretta all’altro coniuge della comproprietà di quel bene.
Naturalmente se due coniugi si trovano in regime di comunione legale è evidente che l’acquisto di un bene (mobile o immobile) effettuato da un coniuge determina l’acquisizione di quel bene alla comunione (art. 177 lett. a c.c.) fatti salvi gli acquisti di beni personali alle condizioni previste (art. 179 c.c.).
Se però i coniugi sono in regime di separazione non c’è una norma che disponga la stessa cosa e l’acquisto di un bene da parte di un coniuge non determina quindi a vantaggio dell’altro l’effetto comunione.
Ipotizzando che solo uno dei coniugi in regime di separazione disponga di proventi, l’altro non sarà mai proprietario di nulla. Ed è proprio questa situazione che potrebbe determinare una condizione di iniquità al termine del regime patrimoniale non potendo il coniuge privo di proventi rivendicare oggettivamente la proprietà di nulla (salvo quanto acquistato per donazione o successione), non avendo mai avuto proventi per acquistare direttamente alcunché.
Questa iniquità può essere superata facendo ricorso all’istituto della donazione indiretta relativa¬mente ai beni di fruizione comune.
Va premesso che ovviamente la donazione (diretta) formale (art. 769 c.c.) tra coniugi è piena¬mente ammissibile. Inoltre un coniuge, al di fuori del contratto formale di donazione, può sempre provare che l’altro gli ha donato direttamente un bene (per esempio nelle forme della liberalità d’uso di cui al secondo comma dell’art. 770 c.c. o della donazione di modico valore di cui all’art. 783 c.c.). Si pensi al marito che regala alla moglie un computer, un orologio o una bicicletta. In questi casi la moglie ai sensi dell’art. 219 c.c. è ammessa certamente a provare che il bene è di sua proprietà. La moglie potrebbe anche provare, però, che un bene mobile acquistato con i proventi del marito e fruito da entrambi nel corso della vita matrimoniale sia in comproprietà in seguito a donazione indiretta del bene comune (come i beni destinati ad arredo della casa comune). Quale altro spirito, se non quello di liberalità, potrebbe animare nel corso della vita familiare un coniuge nell’acquisto di un bene da fruire in comune?
Esattamente come si potrebbe dimostrare – come sopra detto – che il denaro immesso dal marito nel conto cointestato venga considerata una donazione indiretta.
L’istituto dell’usucapione non sarebbe invocabile in quanto la tolleranza nell’uso di un bene (evi¬dente soprattutto tra coniugi e parenti) è notoriamente ostativa all’usucapione di quel bene.
PROVA DELLA PROPRIETÀ IN REGIME DI SEPARAZIONE DEI BENI
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4682 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei contestatari – può essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia verificata l’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointesta¬zione, altro scopo che quello della liberalità. Nella donazione indiretta la liberalità si realizza, anziché attraverso il negozio tipico di donazione, mediante il compimento di uno o più atti che, conservando la forma e la causa che è ad essi propria, realizzano, in via indiretta, l’effetto dell’arricchimento del destinatario, sicché l’intenzione di donare emerge non già, in via diretta, dall’atto o dagli atti utilizzati, ma solo, in via indiretta, dall’esame, neces¬sariamente rigoroso, di tutte le circostanze di fatto del singolo caso, nei limiti in cui risultino tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio da chi ne abbia interesse.
Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto (art. 1854 c.c.) sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto (art. 1298 c.c., comma 2), ma tale presunzione da luogo soltanto all’inversione dell’o¬nere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa.
L’animus donandi non può essere riconosciuto sulla sola base della cointestazione di un conto corrente. Il giudice deve motivare sullo spirito di liberalità che assiste ogni versamento.
Cass. civ. Sez. I, 2 agosto 2013, n. 18554 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 219 cod. civ. – riconoscendo al coniuge di poter provare con ogni mezzo, nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene, ed aggiungendo che quelli di cui nessuno di essi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa, per pari quota, di entrambi – riguarda essenzialmente le controversie relative a beni mobili, ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel secondo comma, alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna eccezione configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari. Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge, che alleghi l’interposizione reale, non può provarla con giuramento, nè con testimoni, giacché l’obbligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, a pena di nullità, da atto scritto, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche, dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto.
Cass. civ. Sez. II, 15 febbraio 2010, n. 3479 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In applicazione dell’art. 219 c.c. i beni mobili – ivi comprese le somme di denaro – di cui ciascun coniuge non può dimostrare la proprietà esclusiva devono essere, in sede di separazione, divisi pro quota. Qualora, quindi, nonostante il raggiungimento della prova circa la partecipazione di entrambi al soddisfacimento delle esigenze familiari e, nello specifico, alla creazione di riserve finanziarie, il coniuge non sia in grado di dimostrare con esattezza l’entità del proprio contributo, il giudice, sulla scorta del mancato superamento di detta presunzione semplice di comproprietà, non potrà che provvedere nel senso di una divisione pro quota delle somme di denaro oggetto di controversia.
Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010 (Famiglia e Diritto, 2010, 7, 709, nota di CORDIANO)
La cointestazione di un conto corrente bancario, relativa a somme già depositate e originariamente appartenenti ad uno dei cointestatari, non costituisce donazione indiretta, se non venga provata l’esistenza della funzione do¬nativa, nella specie integrata da un atto di rinuncia alle pretese di rendicontazione e di restituzione delle somme prelevate, che indichi una dismissione dei diritti sorretta da un intento liberale.
Cass. civ. Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La possibilità che costituisca donazione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della coin¬testazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari – può sussistere solo quando sia verificata l’esistenza dell’”animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.
Trib. Palermo, sez. I, 9 luglio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di un cospicuo patrimonio mobiliare del marito in favore della moglie dimostra indiscutibilmen¬te l’intento liberale di attribuire, non fittiziamente o artificiosamente, ma piuttosto in via stabile e definitiva, al¬meno la metà degli importi investiti in fondi alla comunione legale dei coniugi; e pertanto le domande restitutorie avanzate dagli attori vanno disattese in quanto si dimostrano contrarie a diritto oltre che alla morale corrente (nella specie il marito pretendeva, dopo che il matrimonio stava definitivamente naufragando, la restituzione di quanto in precedenza era stato messo a totale disposizione della moglie).
Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552 (Giur. It., 2001, 757, nota di DIMARTINO)
Dalla cointestazione di un contratto di deposito in custodia e amministrazione di titoli al portatore non discende la comproprietà dei titoli acquistati con denaro appartenente ad uno solo dei cointestatari, tranne che le circostanze del caso concreto rivelino in maniera univoca la volontà delle parti di realizzare una donazione.
Cass. Civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4327 (Foro It. 2000, I, 2920)
In caso di deposito presso un istituto di credito di titoli al portatore (nella specie: buoni ordinari del Tesoro), cointestato a coniugi in regime di separazione dei beni, i rapporti interni tra i depositanti sono regolati dall’art. 1298, comma 2, c.c., onde il credito si divide in quote uguali solo se non risulti diversamente. Correttamente, pertanto, qualora rimanga accertato che le somme utilizzate per l’acquisto di tali titoli provengono da un conto corrente di corrispondenza intestato ad un solo coniuge, il giudice del merito ritiene quest’ultimo proprietario esclusivo dei titoli.
Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 1998, n. 6589 (Giur. It., 1999, 1170 nota di FRATINI)
Il comma 2 dell’art. 219 c.c. (che, con riferimento alla ipotesi di separazione di beni tra coniugi, sancisce una presunzione semplice di comproprietà per i beni mobili dei quali nessuno di essi sia in grado di dimostrare la proprietà esclusiva), pur non contenendo una esplicita limitazione dell’efficacia della presunzione di comunione ai soli rapporti interni tra i coniugi (a differenza di quanto stabilito al comma 1, contenente un espresso riferimento ai rapporti predetti), va interpretato secondo criteri ermeneutici di tipo logico unitario, non meno che storici, e non consente, pertanto, di estendere gli effetti della presunzione in parola anche ai rapporti di ciascun coniuge con i terzi, con la conseguenza che, in tema di opposizione all’esecuzione, il coniuge opponente incontra tutti i limiti di prova previsti, in linea generale, dall’art. 621 c.p.c. (che esclude, in particolare, l’efficacia probatoria di qualsiasi forma di presunzione).
Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327 (Rivista notarile, 1998, 182)
L’art. 219 c.c. – che riconosce al coniuge la facoltà di provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene (comma 1) ed aggiunge che i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi (comma 2) – concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel comma 2, alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari.
Cass. civ. Sez. II, 10 febbraio 1995, n. 1482 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 219 c.c. (nel testo novellato dalla l. 19 maggio 1975 n. 151) – che riconosce al coniuge la facoltà di provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene (comma 1) ed aggiunge che i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi (comma 2) – concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili, ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel comma 2, alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga congiura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari. Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale non può provarla né con giuramento né con testimoni, giacché l’obbligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità, da atto scritto, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche, dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto.
Trib. Verona, 8 aprile 1994 (Dir. Famiglia, 1995, 558 nota di CONTE)
Se il saldo attivo di un conto corrente bancario cointestato a coniugi in regime di separazione di beni risulta discendere da versamenti effettuati solo dal marito e con somme provenienti dal proprio reddito da lavoro, de¬vesi escludere che l’altro coniuge, casalingo e privo di redditi propri, nel rapporto interno tra correntisti, possa avanzare diritti di partecipazione al saldo predetto.
Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 1992, n. 5415 (Giur. It., 1993, I,1, 1318 nota di FITTANTE)
Non è configurabile, in costanza di matrimonio, alcun potere in capo al coniuge non proprietario sull’immobile adibito a residenza familiare di appartenenza esclusiva dell’altro, ove questi intenda, senza il consenso del primo, alienare il bene e trasferire altrove l’abitazione della famiglia; e ciò anche nell’eventualità in cui l’atto di disposi¬zione concretizzi la violazione di un preesistente accordo.
Il sistema delineato dal diritto di famiglia non attribuisce, in costanza di matrimonio, al coniuge non proprietario alcun potere sulla proprietà esclusiva dell’altro coniuge, né gli conferisce il potere di impedirgli il compimento di atti eventualmente contrari a precedenti intese; ne deriva che la condotta del coniuge che disponga dei beni di sua proprietà esclusiva senza tener conto del parere o dei desideri dell’altro coniuge e degli altri membri della famiglia, può costituire, se del caso, soltanto motivo per addebitargli una eventuale separazione personale, ma non può formare oggetto di un provvedimento giudiziale coercitivo-inibitorio, salvo che gli atti di disposizione comportino la concreta violazione degli obblighi di assistenza economico-materiale della famiglia incombenti sul coniuge proprietario, o costituiscano addirittura attuazione di un disegno preordinato a sottrarsi alla loro osser¬vanza, nel qual caso i familiari, suoi creditori, sono legittimati all’esercizio di azioni cautelari o di conservazione delle garanzie patrimoniali (fattispecie nella quale il marito aveva manifestato l’intenzione di vendere la casa familiare, di sua esclusiva proprietà, per trasferirsi con i familiari in altro alloggio, contro la volontà della moglie).
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 1990, n. 2540 (Arch. Civ., 1990, 782)
L’art. 219 c. c. (nel testo novellato dalla l. 19 maggio 1975, n. 151) – che riconosce al coniuge la facoltà di pro¬vare con ogni mezzo, nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene (primo comma) ed aggiunge che i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi (2° comma) – concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili, ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel 2° comma, alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga configura alla normale disciplina della prova dei con¬tratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari; pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei co¬niugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale non può provarla né con giuramento né con testimoni, giacché l’obbligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità, da atto scritto, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche, dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto.
Cass. civ. Sez. I, 9 luglio 1989, n. 3241 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel conto corrente bancario cointestato a più persone, con facoltà di compiere operazioni anche separatamente, i rapporti interni tra i correntisti sono regolati non dall’art. 1854 c. c., che riguarda i rapporti tra i medesimi e la banca, ma dall’art. 1298, 2° comma, c. c., in base al quale il debito od il credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; pertanto, ove il saldo attivo del conto cointestato a due coniugi risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto di essi (nella specie, trattandosi dell’indennità di buonuscita riscossa con il collocamento a riposo), si deve escludere che l’altro coniuge, nel rapporto interno, possa avanzare diritti sul saldo medesimo.
Trib. Catania, 11 luglio 1986 (Dir. Famiglia, 1987, 228)
Qualora uno dei coniugi alleghi di essere comproprietario di un bene immobile, acquistato dall’altro, per il fatto di avere sborsato metà del denaro impiegato per l’acquisto, egli deduce la sussistenza di una interposizione reale, da dimostrare con atto scritto, essendo consentita la prova testimoniale soltanto nei casi di cui agli art. 2724 e 2725 c. c.; né può farsi ricorso all’art. 219 c. c., che si applica essenzialmente alle controversie relative a beni mobili.
Trib. Milano, 19 settembre 1983 (Dir. Famiglia, 1984, 159)
L’art. 219 c. c., secondo cui il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro la proprietà esclusiva di un bene, si applica soltanto alle controversie relative ai beni mobili, perché la prova della proprietà degli immobili risulta di solito da un titolo non equivoco; ne consegue che, allorquando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo di acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale, non può provarla né con testimoni e neppure con giuramento, giacché l’obbligo dell’interposto di trasmettere il bene all’interponente deve risultare, a pena di nullità, da atto scritto.
Cass. civ. Sez. Unite, 23 aprile 1982, n. 2494 (Foro It., 1982, I, 1895 nota di JANNARELLI)
L’art. 219 cod. civ. (nel testo novellato dalla legge 19 maggio 1975, n. 151) – che riconosce al coniuge la facoltà di “provare con ogni mezzo, nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene” (primo comma) ed aggiun¬ge che “i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi” (secondo comma) – concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili, siccome la prova della proprietà degli immobili risulta di solito da un titolo non equivoco, ed è volto principalmen¬te a derogare, attraverso la presunzione posta nel secondo comma, alla regola generale sull’Onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari. Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale non può provarla né con giuramento, né con testimoni, giacché l’obbligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità, da atto scritto.