Il danno da perdita di congiunto non può essere diminuito dall’essere il danneggiato persona straniera e non convivente

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA-3 CIVILE
Ordinanza 15 febbraio 2018, n. 3767
Presidente Amendola
Relatore Rossetti
Fatti di causa
1. Nel 2009 P.M.E.M., P.V.C., C.P.L., P.T.E., P.N.A. e I. convennero dinanzi al Tribunale
di Milano S.P. , C.G. e la Fondiaria-SAI s.p.a. (che in seguito muterà ragione sociale in
UnipolSai s.p.a.) esponendo:
-) di essere, rispettivamente, moglie, figli, madre e fratelli di P.V.;
-) l’(omissis) P.V. venne investito da un autocarro condotto da S.P., di proprietà di C.G. ed
assicurato dalla UnipolSai;
-) in conseguenza dell’investimento P.V. perse la vita.
Gli attori chiesero pertanto la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni
rispettivamente patiti.
2. Con sentenza 26.2.2014 n. 2785 il Tribunale rigettò la domanda.
Con sentenza 24.7.2015 n. 3223 la Corte d’appello di Milano, in accoglimento parziale del
gravame proposto dai soccombenti, ha:
(-) rigettato la domanda proposta dalla madre e dai fratelli della vittima, ritenendo non
provata una “effettiva compromissione di un rapporto affettivo in essere al momento del
fatto”;
(-) accolto la domanda di risarcimento proposta dalla moglie e dai figli della vittima,
addossando tuttavia a quest’ultima un concorso di colpa del 50%;
(-) ritenuto che il danno non patrimoniale patito dalla moglie e dai figli della vittima
dovesse essere “ragguagliato alla realtà socioeconomica in cui vivono i soggetti
danneggiati”; sicché, accertato che gli attori risiedevano tutti in Romania, ha ridotto del
30% il risarcimento che avrebbe altrimenti liquidato a persone residenti in Italia.
3. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da tutti i congiunti della vittima,
con ricorso fondato su tre motivi.
Ha resistito la UnipolSai con controricorso illustrato da memoria.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo i ricorrenti assumono, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., che la Corte
d’appello avrebbe violato gli artt. 2043 e 1223 c.c., per avere ridotto il risarcimento in
considerazione del loro luogo di residenza, ovvero la Romania.
1.2. La società UnipolSai ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, sostenendo che esso
sarebbe irrispettoso dei precetti di cui all’art. 366, nn. 3 e 6, c.p.c..
Tale eccezione è infondata.
Quanto alla esposizione dei fatti (richiesta dall’art. 366, n. 3, c.p.c.), essi sono chiaramente
riassunti alle pp. 4 e 5 del ricorso, ove si dà conto dell’evento mortale, della proposizione
della domanda di risarcimento, e del contenuto della sentenza appellata (trascritto anche
alle pp. 6 e 7). Quanto all’onere di indicazione degli atti su cui il ricorso si fonda (richiesto
dall’art. 366, n. 6, c.p.c.), nel nostro caso v’era ben poco da indicare, posto che il primo
motivo di ricorso pose una questione di puro diritto: ovvero se il risarcimento del danno
debba o no variare in funzione del luogo di residenza del danneggiato.
1.3. Nel merito, il ricorso è fondato.
Questa Corte, infatti, ha già ripetutamente affermato che “la realtà socioeconomica nella
quale vive la vittima d’un fatto illecito è del tutto irrilevante ai fini della liquidazione del
danno aquiliano” (così Sez. 3, Sentenza n. 7932 del 18/05/2012; nello stesso senso Sez. 3,
Sentenza n. 12146 del 14/06/2016; Sez. 3, Sentenza n. 12221 del 12/6/2015; Sez. 3,
Sentenza n. 24201 del 13/11/2014).
Alle motivazioni poste a fondamento di tale consolidato orientamento sarà dunque
sufficiente, in questa sede, richiamarsi.
1.4. Le deduzioni in senso contrario svolte dalla difesa della UnipolSai nel controricorso
(pp. 5-7) e nella memoria (pp. 2-5) non possono essere condivise.
Tali deduzioni sono quattro, e sono così riassumibili:
(a) il risarcimento del danno non patrimoniale ha lo scopo di compensare la vittima del
dolore sofferto con utilità sostitutive; esso dunque dovrà essere tanto minore, quanto
minore sarà il costo necessario per procacciarsi tali utilità;
(b) la Corte di giustizia UE, con la sentenza 10.12.2015, in causa C-350/14, Lazar, ha
affermato che il danno patito dai prossimi congiunti di una persona deceduta in
conseguenza di un fatto illecito costituisce una “conseguenza indiretta” di quest’ultimo, ai
sensi dell’art. 4, paragrafo 1, del Regolamento (CE) n. 864/2007 del Parlamento Europeo e
del Consiglio, dell’11 luglio 2007, sulla legge applicabile alle obbligazioni
extracontrattuali (“Roma II”); da questo rilievo la controricorrente vorrebbe trarre la
conclusione che nella liquidazione del danno si dovrebbe tenere conto del luogo in cui le
conseguenze indirette del danno si sono verificate;
(c) “più solidi”, rispetto all’orientamento recente di questa Corte, si sarebbero dovuti
ritenere gli argomenti posti a fondamento del contrario orientamento espresso da Sez. 3,
Sentenza n. 1637 del 14/02/2000; al contrario, gli argomenti posti a fondamento
dell’orientamento più recente sarebbero “privi di adeguato approfondimento”, ed in
particolare erronea sarebbe l’affermazione secondo cui il luogo dove la vittima spenderà il
suo denaro è estraneo all’illecito, perché la misura del risarcimento “non riguarda l’illecito
in sé”;
(d) non ridurre il risarcimento ai danneggiati residenti in Paesi poveri -questa la tesi della
UnipolSai – “costituirebbe una burla per gli italiani”, perché “si concede tutto agli stranieri
e niente, nella condizione inversa, viene dato agli italiani”.
Dopo avere esposto queste tesi, la controricorrente formula istanza affinché il presente
ricorso venga rimesso al Primo Presidente, affinché ne disponga l’assegnazione alle
Sezioni Unite.
1.5. L’argomento riassunto sub (a) nel 5 che precede non può essere condiviso.
Può ammettersi che il risarcimento del danno non patrimoniale abbia una funzione
compensativa, ma da ciò non discende affatto che il pretium doloris sia funzione della
residenza del danneggiato. Ciò sia per una ragione giuridica, sia per una ragione logica.
1.5.1. La ragione giuridica è che nella stima di ogni danno non patrimoniale si deve tenere
conto delle conseguenze dell’illecito, come si desume dall’art. 1223 c.c..
Le conseguenze risarcibili dell’illecito consistono nei pregiudizi che la vittima, in assenza
del fatto illecito, avrebbe evitato.
I pregiudizi risarcibili vanno stimati in base alla natura ed alla consistenza dell’interesse
che li sottende: quel che un tempo si definiva l’id quod interest, secondo la celebre
espressione usata dall’imperatore Giustiniano nell’epistola al prefetto del pretorio
Giovanni (Codex Iustiniani, VII, XLVII, De sententiis), e che una noto economista definì
“ofelimità “.
Se questa è la nozione di “danno” per la nostra legge, il risarcimento che lo monetizza non
potrà mai variare in funzione della residenza del danneggiato:
– sia perché il luogo dove la vittima vive non è una “conseguenza” del fatto illecito;
– sia perché tra le “conseguenze” del danno non rientra l’impiego che la vittima farà del
denaro dell’offensore;
– sia perché un risarcimento in denaro non necessariamente è destinato ad essere speso:
esso potrebbe essere tesaurizzato od investito, ed in questi casi non è affatto vero che nei
Paesi più ricchi il capitale investito sia remunerato più proficuamente che nei Paesi poveri
(ma anzi è vero spesso il contrario, noto essendo che i Paesi meno sviluppati, per attrarre
capitali, emettono titoli del debito pubblico remunerati con interessi ben maggiori di quelli
offerti dalle economie più solide);
– sia, infine, perché col pagamento del risarcimento l’obbligazione si estingue, e tutto quel
che avviene dopo è un post factum giuridicamente irrilevante. Che il creditore-danneggiato
tesaurizzi il suo denaro, lo spenda, lo doni o lo disperda, queste sono circostanze
giuridicamente irrilevanti. Al diritto, e tanto meno al giudice, non interessa quel che il
creditore farà col suo denaro, interessa di che natura ed entità fu il pregiudizio causato dal
fatto illecito.
1.5.2. Erronea giuridicamente, la tesi propugnata dalla società controricorrente diviene
paradossale dal punto di vista della logica formale. Se, infatti, dalla natura compensativa
del risarcimento si fa discendere la pretesa di variarlo in funzione della residenza
dell’avente diritto, ne seguirebbe che:
(a) la regola dovrebbe valere anche in bonam partem, con la conseguenza che il creditore
potrebbe artificiosamente trasferirsi in Paesi dall’elevato reddito pro capite, per pretendere
un risarcimento maggiore;
(b) se il risarcimento dovesse davvero variare in funzione della quantità di beni materiali
che, con esso, il creditore intende acquistare, si perverrebbe all’assurdo che il prodigo
andrebbe risarcito più dell’avaro (perché il secondo non comprerebbe mai nulla), e lo
stoico meno dell’epicureo (posto che solo per il secondo il “sommo bene” è la
soddisfazione dei bisogni materiali);
(c) se davvero il risarcimento dovesse variare in funzione della quantità di beni materiali
che, con esso, il creditore può acquistare, si perverrebbe all’assurdo che a parità di
sofferenza il risarcimento dovrebbe essere più elevato in tempi di rialzo generalizzato dei
prezzi, e più modesto in epoche di stagnazione economica; e dovrebbe essere più elevato
se la vittima fosse appassionata di automobili di pregio, e meno se la vittima fosse
appassionata di piante e fiori.
L’evidente insostenibilità di tali conclusioni rende palese, in virtù del principio della
reductio ad absurdum, l’inaccettabilità della premessa su cui esse si fondano: e cioè che la
residenza della vittima incida sulla misura del risarcimento del danno.
1.6. L’argomento riassunto sub (b) al 5 1.4 che precede (ovvero il decisum di Corte di
giustizia UE, con la sentenza 10.12.2015, in causa C350/14, Lazar) è irrilevante ai nostri
fini.
Con la ricordata decisione la Corte di Lussemburgo ha stabilito quale debba essere la legge
regolatrice del risarcimento del danno nel caso di fatti illeciti avvenuti in uno Stato
membro, e consistiti nella morte d’una persona avente parenti in un altro Stato membro.
La Corte Europea, dunque, non s’è affatto occupata dei criteri di monetizzazione del
risarcimento, né del resto avrebbe potuto farlo, essendo quest’ultima materia riservata alla
legislazione degli Stati membri, e sottratta alla competenza comunitaria.
1.7. L’argomento riassunto sub (c) al § 1.4 che precede (ovvero la preferibilità degli
argomenti sostenuti da questa Corte nella sentenza n. 1637/00, cit., rispetto a quelli
affermati dall’orientamento più recente) non è pertinente ai nostri fini.
Con la sentenza appena ricordata questa Corte cassò, per difetto di motivazione ex art. 360,
n. 5, c.p.c., la decisione di merito che, liquidando 50 milioni di lire ad una donna per la
perdita del figlio diciassettenne, aveva giustificato tale importo con riferimento alla “realtà
socioeconomica” dove viveva la danneggiata (cioè la città di Chieti).
Questa Corte osservò in quel caso, nella motivazione della sentenza 1637/00, che la
variazione del risarcimento in funzione della realtà socioeconomica dove viva il
danneggiato potrebbe teoricamente essere condivisibile per aumentare il risarcimento (e
non per ridurlo), ma nel caso di specie il giudice di merito non aveva spiegato attraverso
quale calcolo era pervenuto a determinare la misura base del risarcimento, e poi il suo
aumento.
Ne segue che:
(a) il decisum di quella sentenza non consistette nell’affermazione d’un principio di diritto,
ma nel rilievo d’un difetto di motivazione, e le argomentazioni giuridiche pur contenute
nella sua motivazione costituiscono un mero obiter dictum;
(b) in quella decisione il richiamo al criterio della “realtà socioeconomica” venne svolto
per ampliare, invece che ridurre, il quantum del risarcimento;
(c) nelle occasioni in cui questa Corte è stata chiamata a stabilire in iure se il risarcimento
possa variare in funzione della residenza della vittima, l’ha recisamente e costantemente
negato.
Sicché, da un lato, non sembra sussistere un vero e proprio contrasto, ove si ponga mente
ai decisa di questa Corte e non alle massime che ne sono state estratte; dall’altro lato,
anche ad ammettere che davvero sia esistito un contrasto, questo sarebbe ormai
definitivamente superato, e ciò rende superfluo sottoporre la questione di cui si discute alle
Sezioni Unite.
1.8. Nell’argomento riassunto sub (d) al § 1.4 che precede (secondo cui il consolidato
orientamento di questa Corte “costituirebbe una burla per gli italiani”, perché “si concede
tutto agli stranieri e niente, nella condizione inversa, viene dato agli italiani”), infine,
questa Corte non riesce a ravvisare alcunché di giuridico.
Sarà dunque sufficiente ricordare come ogni ordinamento giuridico sia superiorem non
recognoscens, sicché la misura del risarcimento da liquidare in Italia non può farsi
dipendere dal quantum liquidato, per il medesimo pregiudizio, in altri Paesi; e che il
risarcimento dei danni derivanti dalla lesione di diritti fondamentali della persona non è
soggetto alla condizione di reciprocità di cui all’art. 16 disp. prel. c.c. (Sez. 3, Sentenza n.
8212 del 04/04/2013).
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., la
violazione degli artt. 1224, 1226, 2056 c.c..
Sostengono che la Corte d’appello, dopo avere liquidato il danno in conto capitale, non ha
provveduto ad accordar loro il danno da mora (c.d. interessi compensativi), così violando
le norme sopra ricordate.
2.2. Il motivo resta assorbito dall’accoglimento del primo e, per quanto si dirà, del terzo
motivo di ricorso.
I ricorrenti infatti lamentano in sostanza (al di là dell’erroneo richiamo all’art. 1224 c.c.,
inapplicabile alle obbligazioni di valore qual è quella avente ad oggetto il risarcimento del
danno da fatto illecito) che non sia stato loro liquidato il danno da mora ex art. 1219 c.c.,
convenzionalmente liquidato in casi simili nella forma dei c.d. interessi compensativi.
Nelle obbligazioni di valore, tuttavia, i cc.dd. interessi compensativi non costituiscono dei
frutti civili, e quindi una obbligazione accessoria rispetto al capitale, ma rappresentano una
delle possibili voci di danno causate dall’illecito, che va accertata e liquidata anche
d’ufficio (ex permultis, da ultimo, Sez. 1 -, Sentenza n. 4028 del 15/02/2017). Pertanto il
giudice di rinvio, dovendo provvedere a liquidare i danni patiti dagli odierni ricorrenti (ex
novo per la madre ed i fratelli della vittima; e previa eliminazione dell’abbattimento
praticato agli altri congiunti per tenere conto della loro realtà socioeconomica), dovrà
necessariamente provvedere, oltre che alla aestimatio, anche alla taxatio del credito
risarcitorio, secondo i criteri stabiliti dalle Sezioni Unite di questa Corte con la nota
sentenza pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995.
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., che la Corte
d’appello avrebbe violato gli artt. 2043, 2059, 2727 c.c.; 115 e 116 c.p.c., nel rigettare la
domanda di risarcimento del danno non patrimoniale proposta dalla madre e dai fratelli
della vittima.
Espongono che la Corte d’appello ha rigettato tale domanda sul presupposto che non fosse
provata l’esistenza d’un vincolo affettivo tra la vittima da un lato, la madre ed i fratelli
dell’altro. Sostengono tuttavia che:
(a) l’esistenza di tale vincolo affettivo non era stata contestata dalla società convenuta, che
anzi l’aveva ammessa;
(b) in ogni caso, la semplice esistenza del rapporto di filiazione o di fratellanza era di per
sé idonea a far presumere, ex art. 2727 c.c., l’esistenza d’un vincolo affettivo tra la vittima
da un lato, la madre ed i fratelli dall’altro.
3.2. Il motivo è fondato.
La Corte d’appello ha rigettato la domanda proposta da P.T.E. (madre della vittima),
P.N.A. e I. (fratelli della vittima) affermando che la vittima si era trasferita dalla Romania
in Italia sin dal 1992, e “non vi è prova alcuna del permanere di rapporti con la famiglia di
origine”.
Così giudicando, la Corte d’appello ha addossato ad una madre l’onere di provare di avere
sofferto per la morte d’un figlio, ed altrettanto ha fatto per i fratelli.
3.3. Questa statuizione non è conforme a diritto.
In linea generale, non v’è dubbio che spetti alla vittima d’un fatto illecito dimostrare i fatti
costitutivi della sua pretesa, e di conseguenza l’esistenza del danno.
Tale prova tuttavia può essere fornita anche attraverso presunzioni semplici, ovvero
invocando massime di esperienza e l’id quod plerumque accidit.
Nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), l’esistenza
stessa del rapporto di parentela deve far presumere, secondo l’id quod plerumque accidit,
la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è per comune esperienza è,
di norma, connaturale all’essere umano.
Naturalmente si tratterà pur sempre d’una praesumptio hominis, con la conseguente
possibilità per il convenuto di dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete
dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra la vittima ed il superstite.
Ne consegue che, nel presente giudizio, non spettava alla madre ed ai fratelli della vittima
provare di avere sofferto per la morte del rispettivo figlio e fratello, ma sarebbe stato onere
dei convenuti provare che, nonostante il rapporto di parentela, la morte di P.V. lasciò
indifferente la madre ed i fratelli della vittima.
3.4. La semplice lontananza, tuttavia, non è una circostanza di per sé idonea a far
presumere l’indifferenza d’una madre alla morte del figlio.
Lo insegna la psicologia (dalla quale apprendiamo che la lontananza, in determinati casi,
rafforza i vincoli affettivi, a misura che la mancanza della persona cara acuisce il desiderio
di vederla); lo testimonia la storia (qui gli esempi sono sterminati: dal carteggio di
Abelardo ed Eloisa alle lettere dei condannati a morte della Resistenza); e lo attesta
sinanche il mito: quello di Penelope ed Ulisse non sarebbe certo sopravvissuto intatto per
ventotto secoli, se non rispondesse ad una costante dell’animo umano la conservazione
degli affetti più cari anche a distanza di tempo e di spazio.
La Corte d’appello ha dunque effettivamente violato sia l’art. 2727 c.c., perché ha negato
rilievo ad un fatto di per sé sufficiente a dimostrare l’esistenza del danno (il rapporto di
filiazione e di fratellanza); sia le regole sul riparto dell’onere della prova, addossando agli
attori l’onere di provare l’assenza di fatti impeditivi della propria pretesa.
3.5. La sentenza impugnata va dunque cassata anche su questo punto, in virtù del seguente
principio di diritto cui si atterrà il giudice di rinvio: “L’uccisione di una persona fa
presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori,
al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il
superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali
potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur). Nei casi suddetti è pertanto onere
del convenuto provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che
di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta
al secondo”.
4. Le spese.
Le spese del presente grado di giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
(-) accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso; dichiara assorbito il secondo; cassa la
sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa
composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità