ASSEGNO DI DIVORZIO

di Gianfranco Dosi
I Il presupposto per l’attribuzione dell’assegno di divorzio: non avere mezzi adeguati (o non poterseli procurare per ragioni oggettive)
L’art. 5, comma 6, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 sul divorzio, nel testo modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74 prevede che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla condu¬zione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
Secondo il testo della legge il presupposto legale per l’attribuzione dell’assegno di divorzio è, quindi, il “non avere propri mezzi adeguati” che la norma considera equivalente al “non poterseli procurare per ragioni oggettive”.
È utile ripercorrere brevemente la strada seguita dal legislatore.
Quando fu introdotto il divorzio in Italia (con la legge 1° dicembre 1970, n. 898), l’art. 156 del codice civile (non ancora allora riformato) prevedeva che “il coniuge che non ha colpa nella sepa¬razione personale, conserva i diritti inerenti alla sua qualità di coniuge che non sono incompatibili con lo stato di separazione”. Vi era quindi una sostanziale continuità tra la condizione di coniu¬ge e quella di coniuge separato che lasciava anche sostanzialmente inalterate le obbligazioni di mantenimento sempre che la separazione non fosse stata pronunciata per colpa del coniuge che richiedeva l’assegno (“Il coniuge per colpa del quale è stata pronunziata la separazione non ha diritto che agli alimenti”).
In questo contesto di sostanziale continuità tra vita coniugale e vita post-coniugale si poneva anche l’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio nella parte in cui originariamente prevedeva che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale as¬segno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in una unica soluzione”.
Come si vede si dava per scontato – e ciò appare del tutto comprensibile se si pensa all’epoca in cui la legge vedeva la luce – che anche in sede divorzile sopravvivesse inalterato un diritto alla reci¬proca assistenza economica la cui determinazione veniva ancorata ad una polifunzionalità dell’as¬segno collegata alle ragioni della decisione (funzione risarcitoria collegata all’eventuale addebito della separazione), all’entità dei redditi dei coniugi (funzione cosiddetta assistenziale), all’esigenza di compensare i sacrifici e l’apporto reciproco (funzione cosiddetta compensativa).
Con la riforma del diritto di famiglia del 1975 l’art. 156 del codice civile, nella parte in cui si riferiva all’assegno di mantenimento di separazione, cambiò impostazione rompendo quella continuità tra vita coniugale e post coniugale che, come si è detto, neanche la legge sul divorzio aveva infranto. Il nuovo art. 156 del codice civile veniva riformulato nel senso (nel testo vigente ancora oggi) che il coniuge al quale la separazione non è addebitata ha “diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”. L’entità di questa somministrazione – avverte poi la stessa disposizione – “è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato”.
Fondamentale nell’operazione di cambiamento è l’espressione “qualora egli non abbia adeguati redditi propri” che indica il presupposto di attribuzione dell’assegno di mantenimento. L’assegno è dovuto solo allorché il coniuge richiedente non abbia “adeguati redditi propri”.
A questo nuovo paradigma si adeguò anche la legge sul divorzio con la riforma operata dalla leg¬ge 6 marzo 1987, n. 74 che di fatto parificò nei suoi presupposti l’assegno di divorzio a quello di separazione. Infatti il nuovo art. 5, comma 6, della legge 898/1970 veniva modificato nel 1987 prevedendosi che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della de-cisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”. Anche l’assegno di divorzio, quindi, dal 1987 diventava dovuto al coniuge che lo richiede “quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati”.
Il non avere redditi e mezzi adeguati è diventato così sia in sede di separazione che di divorzio il comune denominatore del diritto al mantenimento. Questo denominatore comune viene indicato in giurisprudenza affermandosi che l’assegno di separazione e divorzile hanno entrambi natura assistenziale, cioè sono destinati a sopperire alla mancanza di mezzi adeguati da parte del coniuge o dell’ex coniuge che richiede l’assegno (per esempio Cass. civ. Sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 1264; Cass. civ. Sez. VI, 13 ottobre 2014, n. 21597; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2013, n. 3398; Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 2013, n. 26491; Cass. civ. Sez. I, 29 febbraio 2008, n. 5434; Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 2005, n. 10344; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2004, n. 2897; Cass. civ. Sez. I, 14 marzo 2000, n. 2920).
II Che significa non avere mezzi adeguati? L’interpretazione che raffronta l’adeguatezza dei mezzi al tenore di vita pregresso
a) L’orientamento che a partire dalle Sezioni Unite del 1990 rapporta al tenore di vita pregresso il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione di chi richiede l’assegno divorzile

Ad interpretare il significato dell’espressione “mezzi adeguati” utilizzata nell’art. 5, sesto comma, della legge sul divorzio (nel testo modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74) si era mossa pron¬tamente la giurisprudenza subito dopo la riforma operata con tale legge.
Due orientamenti si contrapposero immediatamente in questa disputa. Cass. civ. Sez. I, 17 mar¬zo 1989, n. 1322 (Relatore Finocchiaro) aveva ritenuto che sulla base del nuovo dato normativo l’obbligo di un coniuge, di somministrare periodicamente a favore dell’altro coniuge un assegno, in tanto sorge in quanto il coniuge preteso beneficiario sia privo di mezzi adeguati oppure non possa procurarseli per ragioni oggettive. La legge – continua la sentenza – non fornisce la nozione di “mezzi adeguati”. Ritiene il Collegio che con l’aggettivo “adeguato” occorre far capo alla dottrina ed alla giurisprudenza che, nell’interpretare l’espressione equivalente mancanza di “adeguati red¬diti propri” usata in tema di separazione dall’art. 156 c.c. hanno ritenuto che il difetto dei redditi adeguati sussiste quando il coniuge preteso beneficiario dell’assegno non abbia redditi propri che gli consentano il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello che aveva in costanza di ma¬trimonio. Analoga interpretazione può seguirsi in relazione alla formula usata nel novellato somma sesto dell’art. 5 c.c. della legge sul divorzio, non essendovi argomenti per attribuire all’aggettivo “adeguati” una accezione diversa da quella riconosciutagli in sede di separazione personale.
Una interpretazione radicalmente diversa aveva invece successivamente proposto Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1990, n. 1652 (Relatore Senofonte) sostenendo che nel giudizio per l’attribuzione dell’assegno di divorzio, la valutazione relativa all’adeguatezza dei mezzi economici di cui dispone il richiedente deve essere compiuta con riferimento non al tenore di vita da lui goduto durante il matrimonio, ma ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, quale, nei casi singoli, configurato dalla coscienza sociale. È, dunque, l’autonomia economica (o il suo contrario) del richiedente che, nella filosofia della riforma, assume un ruolo decisivo, nel senso che l’altro coniuge tenuto ad “aiutarlo” solo se egli non sia economicamente indipendente e nei limiti, quindi, in cui l’aiuto si renda necessario per sopperire alla carenza dei mezzi conseguente alla dissoluzione del matrimonio. Questa conclusione – chiarisce la sentenza – aderisce, da un lato, ad una ricostru¬zione del sistema che non lascia spazio alla improbabile sopravvivenza di uno “status” economico connesso ad un rapporto personale definitivamente estinto (ma, se fosse vero il contrario, patri¬monialmente indissolubile) e soddisfa, dall’altro, quelle esigenze solidaristiche che trovano non nel suo fittizio prolungamento, ma nella sua cessazione la propria ragione giustificatrice, liberando, ad un tempo, la condizione coniugale da connotazioni marcatamente patrimonialistiche, che, dando per acquisite e fornite di ultrattività posizioni, molte volte, di “pura rendita” (come si esprime la citata relazione parlamentare), oltre a stravolgere l’essenza del matrimonio, ne possono favorire la disgregazione, deresponsabilizzando il beneficiario, e, una volta che questa si sia verificata, as¬solverlo dall’obbligo di attivarsi per realizzare con le proprie risorse la sua personalità e acquisire, cosi, una dignità sociale effettiva e condivisa.
Chiamate a risolvere il contrasto le Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490) lo risolsero aderendo all’interpretazione della prima decisione sopra ricordata e precisan¬do che l’assegno periodico di divorzio – come modellato dalla riforma del 1987 – ha carattere esclu¬sivamente assistenziale, atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rile¬vando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio.
Pertanto dal 1990 è prevalso in giurisprudenza l’orientamento che – parificando di fatto l’assegno di separazione a quello di divorzio1 – rapporta il giudizio di adeguatezza dei redditi al pregresso te¬nore di vita della vita coniugale. La funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio comporta quindi, secondo questo orientamento, che l’attribuzione dell’assegno è da considerare subordinata alla inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante da intendersi come inidoneità a con¬sentirgli la prosecuzione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, senza che, all’uopo, sia necessario accertare la esistenza di un vero proprio stato di bisogno dell’a¬vente diritto (che può ben risultare economicamente autosufficiente), rilevando, per converso, esclusivamente la circostanza dell’apprezzabile deterioramento delle sue condizioni economiche che, in linea generale, vanno ripristinate con riferimento a quelle precedenti alla cessazione del vincolo matrimoniale.
Su questa linea di equiparazione tra assegno di separazione e assegno di divorzio sono molto chiare Cass. civ. Sez. I, 20 febbraio 1991, n. 1809, Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 1993, n. 11326, Cass. civ. Sez. I, 20 dicembre 1995, n. 13017, Cass. civ. Sez. I, 2 luglio 1998, n. 6468, Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2000, n. 412, Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2000, n. 13460, Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2000, n. 4584 secondo cui sostanzialmente l’assegno di divorzio ha la funzione di ripristinare una condizione economica adeguata e quella goduta in costanza di matrimonio, in base ad una valutazione comparativa delle rispettive situazioni del¬le parti, in proporzione delle sostanze dell’obbligato e tenuto conto del carattere assistenziale dell’assegno medesimo.
Secondo questo filone interpretativo il giudice del divorzio deve, dunque, assicurare la conserva¬zione del tenore di vita, goduto in costanza del matrimonio.
1 Sulla costante attribuzione all’assegno di separazione della funzione di garantire il tenore di vita goduto in corso di convivenza matrimoniale cfr la voce ASSEGNO DI SEPARAZIONE
b) In che cosa consiste il “tenore di vita”?
L’obiettivo di garantire il tenore di vita pregresso ha portato la giurisprudenza a concentrarsi sul significato dell’espressione “tenore di vita”.
Nel significato comune di questa espressione ci si riferisce all’insieme delle opportunità che le condizioni economiche offrono alla coppia e alla famiglia. Se le condizioni economiche sono buone sarà buono anche il tenore di vita. Almeno di regola. Il tenore di vita durante la convivenza matri¬moniale è costituito “dalle potenzialità economiche complessive dei coniugi durante il matrimonio”. Questo “tenore di vita” è, nell’interpretazione in questione, l’elemento condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del coniuge richiedente (Cass. civ. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 13026; Cass. civ. Sez. I, 24 aprile 2007, n. 9915; Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2006, n. 20256; Cass. civ. Sez. I, 30 marzo 2005, n. 6712; Cass. civ. Sez. I, 29 marzo 2000, n. 3792; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3490).
Il concetto di tenore di vita fa riferimento e condiziona le spese quotidiane, la scelta della scuola dei figli, la scelta del luogo e del modo delle vacanze, gli acquisti di beni di consumo e di beni voluttuari.
In genere corrisponde alle reali disponibilità dei coniugi, con la conseguenza che ne è agevole la prova (che è, naturalmente, carico della parte richiedente l’assegno: da ultimo Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 30 ottobre 2017, n. 25781 secondo cui la dimostrazione del tenore di vita avuto in costanza del matrimonio e della sua attuale condizione patrimoniale compete al coniuge che richiede l’ assegno e l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive, è da valutarsi in relazione alla situazione esistente nell’attualità e, in particolare, alla possibilità, per il richiedente, di svolgere un’attività lavorativa adeguata alla sua qualifica, posizione sociale e con¬dizioni personali, d’età e di salute).
Il tema della prova ha bisogno, però di qualche precisazione.
Per esempio il tenore di vita di una coppia potrebbe essere inferiore a quello che la coppia si sa¬rebbe potuta permettere (come nelle famiglie in cui si risparmia molto o si decide di investire la maggior parte dei guadagni o anche solo in quelle coppie in cui il coniuge che guadagna per tacca¬gneria o per altri motivi non intende mettere i suoi guadagni a disposizione dell’altro) ovvero po¬trebbe essere un tenore di vita superiore a quello possibile (come nel caso in cui i coniugi ricorrano a numerosi prestiti bancari per sovvenzionare gli acquisti). Se il tenore di vita si dovesse misurare in entrambi i casi con lo stesso metro (che è quello usualmente dei livelli di spesa) nel primo caso (coniugi che conducono un tenore di vita inferiore alle possibilità) si verificherebbe una situazione di svantaggio evidente per il coniuge debole le cui pretese si dovrebbero misurare con il basso tenore di vita imposto nella vita matrimoniale. Nel caso inverso (in cui il tenore di vita della coppia era superiore alle possibilità) ne rimarrebbe svantaggiato il coniuge obbligato che potrebbe essere chiamato a garantire all’altro dopo la separazione un tenore di vita che già in corso di matrimonio era superiore alle possibilità.
Ne deriva che in presenza di un tenore di vita matrimoniale corrispondente alle possibilità dei coniugi è questo il parametro utilizzato dalla giurisprudenza per valutare se il coniuge richiedente l’assegno possa o meno da solo tendenzialmente garantirsi quel tenore di vita.
In presenza di un tenore di vita matrimoniale inferiore alle possibilità si fa riferimento al tenore di vita potenziale che la coppia avrebbe potuto garantirsi (Cass. civ. Sez. I, 30 marzo 2009, n. 7614 dove si legge che la quantificazione dell’assegno deve tenere conto del tenore di vita, anche soltanto potenziale, dei coniugi in costanza di matrimonio, alla luce dei rispettivi redditi personali, senza che possa incidere negativamente il tenore di vita di livello inferiore, rispetto alle possibi¬lità effettive, goduto dai coniugi durante la convivenza) e Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2006, n. 18547 e Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2000, n. 7700; Cass. civ. Sez. I, 26 novembre 1996, n. 10465, nelle quali si afferma, analogamente, che non ha rilievo che, prima della separazione, il coniuge richiedente avesse eventualmente tollerato, subito o – comunque – accettato un tenore di vita più modesto”. Cass. civ. Sez. I, 18 agosto 1994, n. 7437 molto esplicitamente afferma che nel caso in cui “uno dei coniugi, sottraendosi all’obbligo di contribuire, a misura dei propri mezzi economici, alle esigenze globali della coppia (e dei figli), fa vivere l’altro coniuge in ristrettezze o, comunque, non gli assicura un tenore di vita corrispondente a quello che ragionevolmente potreb¬be permettere a sé ed alla sua famiglia, l’altro coniuge, una volta separatosi, può pretendere per il proprio mantenimento un assegno proporzionato alla posizione economica del consorte, indipen¬dentemente dal tenore di vita tollerato prima della separazione”.
Il concetto di tenore di vita potenziale è ripreso spesso anche nella giurisprudenza di merito (per tutte App. Roma Sent., 10 giugno 2009).
Viceversa in presenza di un tenore di vita matrimoniale superiore alle possibilità si fa riferimento ad un concetto di tenore di vita possibile.
III Che significa non avere mezzi adeguati? L’orientamento interpretativo che fa leva sull’indipendenza economica
a) L’orientamento interpretativo che a partire da Cass. 11504/2017 fa leva sul criterio dell’indipendenza economica
La prima sezione della Corte di cassazione nel 2017 ha adottato improvvisamente un criterio di¬verso da quello elaborato dalle Sezioni Unite nel 1990.
Come si è sopra detto, già Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1990, n. 1652 – poi smentita dalle Sezioni Unite del novembre successivo – aveva sostenuto che nel giudizio per l’attribuzione dell’assegno di divorzio, la valutazione relativa all’adeguatezza dei mezzi economici di cui dispone il richiedente deve essere compiuta con riferimento non al tenore di vita da lui goduto durante il matrimonio, ma ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, essendo, dunque, l’autonomia e l’indipendenza economica del richiedente ad assumere un ruolo decisivo, nel senso che l’altro coniuge è tenuto a corrispondere un assegno solo se egli non sia economicamente indipendente e nei limiti, quindi, in cui l’aiuto si renda necessario per sopperire alla carenza dei mezzi conse¬guente alla dissoluzione del matrimonio, in ciò “liberando la condizione coniugale da connotazioni marcatamente patrimonialistiche”.
A questa posizione si è ricollegata Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 secondo cui la valutazione sull’adeguatezza dei mezzi andrebbe individuata non nel raffronto con il tenore di vita pregresso, ma nel raggiungimento dell’autosufficienza e dell’indipendenza economica della parte richiedente.
Il giudizio sull’attribuzione o meno, quindi, dell’assegno divorzile andrebbe informato, secondo questo orientamento al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno degli ex coniugi quali “persone singole”. Il diritto di famiglia diventa, così, diritto dei singoli componenti della fami¬glia. Considerato che questa interpretazione dell’espressione “mezzi adeguati” modifica in modo radicale l’impostazione alla quale si è uniformata la giurisprudenza degli ultimi trent’anni, sarebbe stato certamente opportuno rimettere alle Sezioni Unite la decisione (che la prima sezione ritiene espressamente di non dover fare dato il lungo lasso di tempo dalla sentenza da cui si discosta) anziché creare un precedente che potrebbe essere smentito da successive pronunce.
Il Tribunale di Milano, nel dichiarare il divorzio tra due coniugi, aveva respinto la domanda di asse¬gno divorzile proposta dalla moglie e la Corte d’appello aveva confermato la decisione, ritenendo non dovuto l’assegno divorzile “non avendo questa dimostrato l’inadeguatezza dei propri redditi ai fini della conservazione del tenore di vita matrimoniale”.
Con il ricorso per cassazione la moglie si doleva di questa valutazione. ma la prima sezione della Cassazione ha ritenuto che la Corte d’appello – pur non avendo fondato la decisione sul raffronto dei mezzi della moglie richiedente con il pregresso tenore di vita della coppia coniugale (in ciò di¬scostandosi dall’orientamento prevalente) – fosse pervenuta a una conclusione conforme a diritto, avendo ritenuto – in definitiva che la richiedente non avesse assolto l’onere di provare la sua non indipendenza economica, all’esito di un giudizio di fatto adeguatamente argomentato, dal quale emerge che la moglie “è imprenditrice, ha un’elevata qualificazione culturale, possiede titoli di alta specializzazione e importanti esperienze professionali anche all’estero e che, in sede di separa¬zione, i coniugi avevano pattuito che nessun assegno di mantenimento fosse dovuto dal marito”.
Si rendeva pertanto necessario, nel confermare la decisione della Corte d’appello, correggerne la motivazione
Hanno sostenuto i giudici della prima sezione della Corte di cassazione che con il divorzio il rap¬porto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi “persone singole”, sia dei loro rapporti economico-patrimoniali (art. 191 c.c., comma 1) e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale (art. 143 c.c., comma 2), fermo ovviamente, in presenza di figli, l’esercizio della respon¬sabilità genitoriale, con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex coniugi (cfr. art. 317 c.c., comma 2, e da artt. 337-bis a 337-octies c.c.).
Da questa premessa – che secondo i giudici non si pone affatto in contrasto con la natura assisten¬ziale dell’assegno divorzile che viene anzi riaffermata e confermata – deriva che il diritto all’asse¬gno di divorzio è sempre condizionato dal previo riconoscimento di esso in base all’accertamento giudiziale della mancanza di “mezzi adeguati” dell’ex coniuge richiedente l’assegno o, comunque, dell’impossibilità dello stesso “di procurarseli per ragioni oggettive” (come precisato nell’art. 5 comma 6 della legge sul divorzio) ma il carattere condizionato del diritto all’assegno di divor¬zio deve fondarsi su una interpretazione dell’espressione “mezzi adeguati” che non crei indebite commistioni tra solidarietà matrimoniale (cui sono collegati i criteri relativi al quantum debeatur dell’assegno) e diritti post-coniugali (collegati al riconoscimento dell’ an debeatur).
A tale proposito si afferma che, “è noto che, sia prima sia dopo le fondamentali sentenze delle Sezioni Unite nn. 11490 e 11492 del 29 novembre 1990, il parametro di riferimento – al quale rapportare l’”adeguatezza-inadeguatezza” dei “mezzi” del richiedente – è stato costantemente individuato da questa Corte nel “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio”. A distanza di quasi ventisette anni, il Collegio ritiene tale orientamento, per le molteplici ragioni che seguono, non più attuale.
A) Il parametro del “tenore di vita” – se applicato anche nella fase dell’an debeatur – collide ra¬dicalmente con la natura stessa dell’istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici: infatti con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale – a differenza di quanto accade con la separazione personale, che lascia in vigore, seppure in forma attenuata, gli obblighi coniugali di cui all’art. 143 cod. civ. -, sicché ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo sia pure limitatamente alla dimensione economica del “tenore di vita matrimoniale” ivi condotto – in una indebita prospettiva, per così dire, di “ultrattività” del vincolo matrimoniale.
B) La scelta di detto parametro implica l’omessa considerazione che il diritto all’assegno di divor¬zio è eventualmente riconosciuto all’ex coniuge richiedente, nella fase dell’an debeatur, esclusi¬vamente come “persona singola” e non già come (ancora) “parte” di un rapporto matrimoniale ormai estinto anche sul piano economico-patrimoniale, avendo il legislatore della riforma del 1987 informato la disciplina dell’assegno di divorzio, sia pure per implicito ma in modo inequivoco, al principio di “autoresponsabilità” economica degli ex coniugi dopo la pronuncia di divorzio.
C) La “necessaria considerazione”, da parte del giudice del divorzio, del preesistente rapporto ma¬trimoniale anche nella sua dimensione economico-patrimoniale (“…il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio…”) è normativamente ed esplicitamente prevista soltanto per l’eventuale fase del giudizio avente ad oggetto la determinazione dell’assegno (quantum debeatur), vale a dire – come già sottolineato – soltanto dopo l’esito positivo della fase precedente (an debeatur), conclusasi cioè con il riconoscimento del diritto all’assegno.
D) Il parametro del “tenore di vita” induce inevitabilmente ma inammissibilmente, come già rile¬vato, una indebita commistione tra le predette due “fasi” del giudizio e tra i relativi accertamenti.
E) Le Sezioni Unite del 1990 si fecero carico della necessità di contemperamento dell’esigenza di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio “inteso come “sistemazione definitiva”, perché il divorzio è stato assorbito dal costume sociale” con l’esigenza di non turbare un costume sociale ancora caratterizzato dalla “attuale esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, an¬che perché sorti in epoca molto anteriore alla riforma”, con ciò spiegando la preferenza accordata ad un indirizzo interpretativo che “meno traumaticamente rompe(sse) con la passata tradizione” (così ancora la sentenza n. 11490 del 1990). Questa esigenza, tuttavia, si è molto attenuata nel corso degli anni, essendo ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del ma¬trimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile (matrimonio che – oggi – è possibile “sciogliere”, previo accordo, con una semplice dichiarazione delle parti all’ufficiale dello stato civile, a norma del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 12, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, art. 1, comma 1). Ed è coerente con questo approdo sociale e legisla¬tivo l’orientamento di questa Corte, secondo cui la formazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge beneficiario dell’assegno divorzile è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una eventuale cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale da parte dell’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo (cfr. le sentenze nn. 6855 del 2015 e 2466 del 2016). In proposito, un’interpretazione delle norme sull’assegno divorzile che producano l’effetto di procrastinare a tempo indeterminato il momento della recisione degli effetti economico-patrimoniali del vincolo coniugale, può tradursi in un ostacolo alla costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare, in violazione di un diritto fondamentale dell’individuo (cfr. Cass. n. 6289/2014) che è ricompreso tra quelli riconosciu¬ti dalla Cedu (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 9). Si deve quindi ritenere che non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale. L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’as¬segno divorzile come detto – non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione – esclu¬sivamente – assistenziale dell’assegno divorzile.
F) Al di là delle diverse opinioni che si possono avere sulla rilevanza ermeneutica dei lavori pre¬paratori della L. n. 74 del 1987 (che inserì nell’art. 5 il fondamentale riferimento alla mancanza di “mezzi adeguati” e alla “impossibilità di procurarseli”) in senso innovativo (come sosteneva una parte della dottrina che imputava alla giurisprudenza precedente di avere favorito una concezione patrimonialistica della condizione coniugale) o sostanzialmente conservativo del precedente asset¬to (si legga in tal senso il brano della sentenza delle Sezioni Unite n. 11490/1990 che considerava non giustificato “l’abbandono di quella parte dei criteri interpretativi adottati in passato per il giu¬dizio sull’esistenza del diritto all’assegno”), non v’è dubbio che chiara era la volontà del legislatore del 1987 di evitare che il giudizio sulla “adeguatezza dei mezzi” fosse riferito “alle condizioni del soggetto pagante” anziché “alle necessità del soggetto creditore”: ciò costituiva “un profilo sul quale, al di là di quelle che possono essere le convinzioni personali del relatore, qui irrilevanti, si è realizzata la convergenza della Commissione” (cfr. intervento del relatore, sen. N. Lipari, in Assemblea del Senato, 17 febbraio 1987, 561a sed. pom., resoconto stenografico, pag. 23). Nel giudizio sull’an debeatur, infatti, non possono rientrare valutazioni di tipo comparativo tra le con¬dizioni economiche degli ex coniugi, dovendosi avere riguardo esclusivamente alle condizioni del soggetto richiedente l’assegno successivamente al divorzio.
Le osservazioni critiche sinora esposte – si legge nella sentenza – non sono scalfite: a) né dalla sentenza della Corte costituzionale n. 11 del 2015, che ha sostanzialmente recepito l’orientamen¬to in questa sede non condiviso, senza peraltro prendere posizione sulla sostanza delle censure formulate dal giudice rimettente, riducendo quella sollevata ad una mera questione di “erronea interpretazione” della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, e omettendo di considerare che, in una precedente occasione, nell’escludere la completa equiparabilità del trattamento economico del coniuge divorziato a quello del coniuge separato, aveva affermato che “(….) basterebbe rilevare che per il divorziato l’assegno di mantenimento non è correlato al tenore di vita matrimoniale” (sentenza n. 472 del 1989, n. 3 del Considerato in diritto); b) e neppure dalle disposizioni di cui al comma 9 dello stesso art. 5 – secondo cui: “I coniugi devono presentare all’udienza di comparizio¬ne avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria” -, in quanto il parametro dell’”effettivo tenore di vita” è richiamato esclusivamente al fine dell’accertamento dell’effettiva consistenza reddituale e patrimoniale dei coniugi: infatti – se il primo periodo è dettato al solo fine di consentire al presidente del tribunale, nell’udienza di comparizione dei coniugi, di dare su base documentale “i provvedimenti temporanei e urgenti (anche d’ordine economico) che reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e della prole” (art. 4, comma 8) -, il secondo periodo invece, che presuppone la “contestazione” dei documenti prodotti (concernenti i rispettivi redditi e patrimoni), nell’affidare al “tribunale” le relative “indagi¬ni”, cioè l’accertamento di tali componenti economico-fiscali, richiama il parametro dell’”effettivo tenore di vita” al fine, non già del riconoscimento del diritto all’assegno di divorzio al “singolo” ex coniuge che lo fa valere ma, appunto, dell’accertamento circa l’attendibilità di detti documenti e dell’effettiva consistenza dei rispettivi redditi e patrimoni e, quindi, del “giudizio comparativo” da effettuare nella fase del quantum debeatur. È significativo, al riguardo, che il riferimento agli elementi del “reddito” e del “patrimonio” degli ex coniugi è contenuto proprio nella prima parte del comma 6 dell’art. 5 relativa a tale fase del giudizio.
Sulla base di queste considerazioni iniziali la prima sezione della cassazione afferma entra nell’indi¬viduazione di un parametro diverso, che sia coerente con le premesse, affermando che “Il Collegio ritiene che un parametro di riferimento siffatto vada individuato nel raggiungimento dell’”indipen¬denza economica” del richiedente. Se è accertato che quest’ultimo è “economicamente indipen¬dente” o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto 2.
È necessario soffermarsi sul parametro dell’”indipendenza economica”, al quale rapportare l’”adeguatezza-inadeguatezza” dei “mezzi” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio, nonché la “possibilità-impossibilità “per ragioni oggettive”” dello stesso di procurarseli.
Va preliminarmente osservato al riguardo, in coerenza con le premesse e con la stessa nozione di «indipendenza» economica, che: a) il relativo accertamento nella fase dell›an debeatur attiene
2 Si legge in sentenza che “Tale parametro ha, innanzitutto, una espressa base normativa: infatti, esso è tratto dal vigente art. 337-septies, primo comma, cod. civ. – ma era già previsto dall’art. 155-quinquies, comma 1, inserito dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 1, comma 2, – il quale, recante “Disposizioni in favore dei figli mag¬giorenni”, stabilisce, nel primo periodo: “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli mag¬giorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico”. La legittimità del richiamo di questo parametro – e della sua applicazione alla fattispecie in esame – sta, innanzitutto, nell’analogia legis (art. 12, comma 2, primo periodo, delle disposizioni sulla legge in generale) tra tale disciplina e quella dell’assegno di divorzio, in assenza di uno specifico contenuto normativo della nozione di “adeguatezza dei mezzi”, a norma della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, trattandosi in entrambi i casi, mutatis mutandis, di prestazioni eco¬nomiche regolate nell’ambito del diritto di famiglia e dei relativi rapporti.
In secondo luogo, il parametro della “indipendenza economica” – se condiziona negativamente il diritto del figlio maggiorenne alla prestazione (“assegno periodico”) dovuta dai genitori, nonostante le garanzie di uno status filiationis tendenzialmente stabile e permanente (art. 238 cod. civ.) e di una specifica previsione costituzionale (art. 30, comma 1) che riconosce anche allo stesso figlio maggiorenne il diritto al mantenimento, all’istruzione ed alla educazione -, a maggior ragione può essere richiamato ed applicato, quale condizione negativa del diritto all’assegno di divorzio, in una situazione giuridica che, invece, è connotata dalla perdita definitiva dello status di coniuge – quindi, dalla piena riacquisizione dello status individuale di “persona singola” – e dalla mancanza di una garanzia costituzionale specifica volta all’assistenza dell’ex coniuge come tale. Né varrebbe obiettare che l’art. 337-ter c.c., comma 4, n. 2, (corrispondente all’art. 155 c.c., comma 4, n. 2, nel testo sostituito dalla citata L. n. 54 del 2006, art. 1, comma 1) fa riferimento al “tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori”: tale parametro si riferisce esclusivamente al figlio minorenne e ai criteri per la determina¬zione (“quantificazione”) del contributo di “mantenimento”, inteso lato sensu, a garanzia della stabilità e della continuità dello status filiationis, indipendentemente dalle vicende matrimoniali dei genitori.
In terzo luogo, a ben vedere, anche la ratio dell’art. 337-septies c.c., comma 1, – come pure quella della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, alla luce di quanto già osservato (cfr., supra, sub n. 2.2) – è ispirata al principio dell’”autoresponsabilità economica”. A tale riguardo, è estremamente significativo quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 18076 del 2014, che ha escluso l’esistenza di un obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente (nella specie, entrambi ultraquarantenni), ovvero di un diritto all’assegnazione della casa coniugale di proprietà del marito, sul mero presupposto dello stato di disoccupa¬zione dei figli, pur nell’ambito di un contesto di crisi economica e sociale: “(….) La situazione soggettiva fatta valere dal figlio che, rifiutando ingiustificatamente in età avanzata di acquisire l’autonomia economica tramite l’impegno lavorativo, chieda il prolungamento del diritto al mantenimento da parte dei genitori, non è tutelabile perché contrastante con il principio di autoresponsabilità che è legato alla libertà delle scelte esistenziali della persona (….)”.
Tale principio di “autoresponsabilità” vale certamente anche per l’istituto del divorzio, in quanto il divorzio segue normalmente la separazione personale ed è frutto di scelte definitive che ineriscono alla dimensione della libertà della persona ed implicano per ciò stesso l’accettazione da parte di ciascuno degli ex coniugi – irrilevante, sul piano giuridico, se consapevole o no – delle relative conseguenze anche economiche.
Questo principio, inoltre, appartiene al contesto giuridico Europeo, essendo presente da tempo in molte legi¬slazioni dei Paesi dell’Unione, ove è declinato talora in termini rigorosi e radicali che prevedono, come regola generale, la piena autoresponsabilità economica degli ex coniugi, salve limitate – anche nel tempo – eccezioni di ausilio economico, in presenza di specifiche e dimostrate ragioni di solidarietà.
In questa prospettiva, il parametro della “indipendenza economica” è normativamente equivalente a quello di “autosufficienza economica”, come è dimostrato – tenuto conto della derivazione di tale parametro dall’art. 337-septies c.c., comma 1 – dal citato D.L. n. 132 del 2014, art. 12, comma 2, laddove non consente la formaliz¬zazione della separazione consensuale o del divorzio congiunto dinanzi all’ufficiale dello stato civile “in presenza (….) di figli maggiorenni (….) economicamente non autosufficienti”.
esclusivamente alla persona dell’ex coniuge richiedente l’assegno come singolo individuo, cioè senza alcun riferimento al preesistente rapporto matrimoniale; b) soltanto nella fase del quantum debeatur è legittimo procedere ad un “giudizio comparativo” tra le rispettive “posizioni” (lato sensu intese) personali ed economico-patrimoniali degli ex coniugi, secondo gli specifici criteri dettati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per tale fase del giudizio.
Pertanto, devono essere enunciati i seguenti principi di diritto.Il giudice del divorzio, richiesto dell’assegno di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi e dell’ordine progressivo tra le stesse stabilito da tale norma:
• deve verificare, nella fase dell’an debeatur – informata al principio dell’”autoresponsabilità eco¬nomica” di ciascuno degli ex coniugi quali “persone singole”, ed il cui oggetto è costituito esclusi¬vamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o no, del diritto all’assegno di divorzio fatto valere dall’ex coniuge richiedente -, se la domanda di quest’ultimo soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di “mezzi adeguati” o, comunque, impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”), con esclusivo riferimento all’”indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso, desunta dai principali “indici” – salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie – del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge;
• deve “tener conto”, nella fase del quantum debeatur – informata al principio della “solidarietà economica” dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro in quanto “persona” economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), il cui oggetto è costituito esclusivamen¬te dalla determinazione dell’assegno, ed alla quale può accedersi soltanto all’esito positivo della prima fase, conclusasi con il riconoscimento del diritto -, di tutti gli elementi indicati dalla norma (“(….) condizioni dei coniugi, (….) ragioni della decisione, (….) contributo personale ed econo¬mico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, (….) reddito di entrambi (….)”), e “valutare” “tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”, al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno di divorzio; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova (art. 2697 cod. civ.).
b) Gli indici dell’indipendenza economica e la prova
Sempre secondo Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 i principali “indici” – salvo ovvia¬mente altri elementi, che potranno eventualmente rilevare nelle singole fattispecie – per accertare, nella fase di giudizio sull’an debeatur, la sussistenza, o no, dell’indipendenza economica” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio – e, quindi, l’adeguatezza”, o no, dei “mezzi”, nonché la possibilità, o no “per ragioni oggettive”, dello stesso di procurarseli possono essere così individuati:
1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immo¬biliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residen¬za (“dimora abituale”: art. 43 c.c., comma 2) della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione.
Quanto al regime della prova della non “indipendenza economica” dell’ex coniuge che fa valere il diritto all’assegno di divorzio, non v’è dubbio che, secondo la stessa formulazione della dispo¬sizione in esame e secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione del relativo onere, allo stesso spetta allegare, dedurre e dimostrare di “non avere mezzi adeguati” e di “non poterseli procurare per ragioni oggettive”. Tale onere probatorio ha ad oggetto i predetti indici principali, costitutivi del parametro dell’indipendenza economica”, e presuppone tempestive, rituali e perti¬nenti allegazioni e deduzioni da parte del medesimo coniuge, restando fermo, ovviamente, il diritto all’eccezione e alla prova contraria dell’altro (cfr. L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 10).
In particolare, mentre il possesso di redditi e di cespiti patrimoniali formerà normalmente oggetto di prove documentali – salva comunque, in caso di contestazione, la facoltà del giudice di disporre al riguardo indagini officiose, con l’eventuale ausilio della polizia tributaria (L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9) -, soprattutto “le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale” forme¬ranno oggetto di prova che può essere data con ogni mezzo idoneo, anche di natura presuntiva, fermo restando l’onere del richiedente l’assegno di allegare specificamente (e provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell’indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative.
Anche prima dell’ultima decisione sopra richiamata, nell’indicazione di quali siano i redditi e i mezzi da includere nella valutazione di adeguatezza imposta dall’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio (così come dall’art. 156 c.c.) la giurisprudenza aveva espresso molte volte il suo univoco punto di vista.
La giurisprudenza considera rilevante qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica (Cass. civ. Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 223) e quindi le risorse reddituali e patrimoniali di ciascuno dei coniugi, quelle effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e familiari, nonché le rispettive potenzialità economiche (Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11870).
Secondo Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7984 nell’accertamento della capacità economica dell’obbligato, in sede di determinazione dell’assegno divorzile, il giudice del merito non può limi¬tarsi a prendere in considerazione gli introiti collegati allo svolgimento di attività lavorativa o im¬prenditoriale o quelli derivanti dal godimento di trattamenti pensionistici o assistenziali, ma deve estendere la propria indagine all’eventuale titolarità di beni patrimoniali ed attività finanziarie, la cui disponibilità assume rilievo non solo sotto il profilo statico, per l’immobilizzazione di capitali che tali forme di investimento comportano, ma anche sotto il profilo dinamico, per le potenzialità economiche di cui costituiscono indice l’acquisto e la vendita, oltre che per il godimento di redditi diversi da quelli retributivi o pensionistici testimoniato dal loro possesso.
La Cassazione ha ritenuto che i beni acquisiti per successione ereditaria dopo la separazione, ancorché non incidenti sul tenore di vita matrimoniale, possono tuttavia essere presi in considera¬zione ai fini della valutazione della attuale capacità economica del coniuge richiedente (Cass. civ. Sez. VI, 27 maggio 2014, n. 11797).
Già in una lontana decisione (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 1987, n. 170) si affermava molto lucidamente che, riferendosi ai “redditi”, la legge intendeva includervi non solo i redditi da lavo¬ro ma i cespiti patrimoniali, anche attualmente improduttivi, perché in godimento ad altri, o per volontà dello stesso titolare, che intende riservare per le proprie esigenze, nonché tutte le altre utilità suscettibili di valutazione economica come gli aiuti di vario genere, vitto e-o alloggio, forniti al coniuge con carattere di stabilità dal proprio genitore”. Una decisione per certi versi pioneristica.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 17 marzo 1989, n. 1322 – che riporta il contenuto di precedenti lontane decisioni – “La legge non fornisce la nozione di “mezzi adeguati”. Ritiene il Collegio che la parola “mezzi” deve intendersi come comprensiva sia dei redditi che delle sostanze, cioè di cespiti patrimoniali che non producono redditi (Cass. 22 gennaio 1957 n. 191; Cass. 9 luglio 1959 n. 2201; Cass. 15 luglio 1965 n. 1533), ma che attraverso la loro alienazione possono soddisfare i bisogni del loro proprietario.
Secondo Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490 nella valutazione dei redditi si deve tener conto “non solo dei redditi, ma anche dei cespiti patrimoniali e delle altre utilità di cui si può disporre”.
Nell’interpretazione di Cass. civ. Sez. I, 30 gennaio 1992, n. 961 “ai fini dell’accertamento del diritto all’assegno di mantenimento e della sua determinazione, occorre considerare la complessi¬va situazione di ciascuno dei coniugi e quindi, tener conto, oltre che dei redditi in danaro, di ogni altra utilità economicamente valutabile, ivi compresa la disponibilità della casa coniugale, oltreché dell’attitudine al lavoro del beneficiario, onde conservare a questi, se privo di reddito adeguato, il tenore di vita goduto in regime di convivenza.
Nel valutare il presupposto dell’adeguatezza dei redditi, secondo Cass. civ. Sez. I, 26 giugno 1996, n. 5916 “il giudice dovrà tenere conto di ogni tipo di reddito disponibile da parte del richie¬dente, ivi compresi quelli derivanti da elargizioni da parte di familiari che erano in corso durante il matrimonio e che si protraggano in regime di separazione con carattere di regolarità e continuità tali da influire in maniera stabile e certa sul tenore di vita dell’interessato”.
Per Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3490 “deve tenersi conto di ogni tipo di reddito di cia¬scun coniuge, nonché dei cespiti patrimoniali a sua disposizione, in quanto idonei ad influire sul tenore di vita”.
Anche le più recenti decisioni mantengono la stessa impostazione. Così Cass. civ. Sez. I, 2 luglio 2004, n. 12121 ritiene che si debbano considerare i redditi in denaro, ma anche ogni utilità o capacità propria dei coniugi, suscettibile di valutazione economica”; Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2006, n. 18547 ribadisce che si deve “tenere conto non solo dei redditi in denaro ma anche di ogni utilità o capacità dei coniugi suscettibile di valutazione economica”.
Come si è detto anche le elargizioni da parte dei familiari che hanno carattere di stabilità concor¬rono a formare i redditi di cui il giudice deve tener conto nel giudizio di adeguatezza Cass. civ. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 13026; Cass. civ. Sez. I, 26 giugno 1996, n. 5916; Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 1987, n. 170). Di parere contrario sul punto però Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19309.
In materia di attività lavorativa si è anche precisato che “una volta accertata la sussistenza di un elevato tenore di vita in costanza di matrimonio, il giudice di merito, chiamato a valutare l’inadegua¬tezza dei redditi del richiedente, non può limitarsi a considerare il mero dato dello svolgimento, da parte di quest’ultimo, di un’attività lavorativa, ma deve esaminare se i suoi mezzi economici gli con¬sentano di mantenere il tenore di vita precedente” (Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 2012, n. 8862).
In conclusione i “mezzi” e i “redditi propri” di cui il giudice è chiamato a valutare l’adeguatezza, sono in primo luogo i redditi da lavoro dipendente o autonomo, quindi i redditi e i cespiti patrimo¬niali produttivi o meno di reddito e tutte le altre sostanze e utilità suscettibili di valutazione econo¬mica (tra cui risparmi, partecipazioni societarie, investimenti mobiliari, canoni di locazione perce¬piti) ed anche aiuti di vario genere, quali le elargizioni fornite per esempio con carattere di stabilità dal proprio genitore, in corso durante il matrimonio e che si protraggono in regime di separazione.
Non può, invece, più essere attribuita rilevanza – sulla base del nuovo orientamento sull’adegua¬tezza dei mezzi come condizione di indipendenza economica – a quella giurisprudenza secondo cui l’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontate ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di ma¬trimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto (per tutte Cass. civ. Sez. VI, 27 maggio 2014, n. 11797; Cass. civ. Sez. I, 3 dicembre 2008, n. 28741; Cass. civ. Sez. I, 12 luglio 2007, n. 15611; Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 2002, n. 6541) e nemmeno a quella, come per esempio, Cass. civ. Sez. I, 21 ottobre 2013, n. 23797, Cass. civ. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 13026 ovvero Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21112 o Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5132 secondo cui ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento occorre tener conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chiede l’assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta nel corso della vita matrimoniale.
c) La tenuta del nuovo orientamento nelle decisioni della Corte di cassazione successive a Cass. 11504/2017
Successivamente a Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 altre decisioni di legittimità hanno confermato la stessa linea interpretativa.
Così per esempio Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481 – su cui si tornerà in seguito – se¬condo cui il giudice richiesto della revisione dell’assegno divorzile che incida sulla stessa spettanza del relativo diritto (precedentemente riconosciuto), in ragione della sopravvenienza di giustificati motivi dopo la sentenza che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, deve verificare se tali motivi giustifichino, o meno, la negazione del diritto all’assegno a causa della sopraggiunta “indipendenza o autosufficienza economica” dell’ex coniuge beneficia¬rio, desunta dai seguenti “indici”: possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri “lato sensu” imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), capacità e possibilità effettive di lavoro perso¬nale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), stabile disponibilità di una casa di abitazione, nonché eventualmente altri – rilevanti nelle singole fattispecie – senza, invece, tener conto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; il tutto sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dall’ex coniuge obbligato, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’ex coniuge beneficiario.
Sulla stessa linea Cass. civ. Sez. VI – 1, 29 agosto 2017, n. 20525 secondo cui il diritto all’as¬segno di divorzio, di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, è condizionato dal suo previo riconoscimento in base ad una verifica giudiziale che si articola necessariamente in due fasi, tra loro nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del diritto): una prima fase, concernente l’an debeatur, informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali persone singole ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il quantum debe¬atur, improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso.
Ugualmente Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 ottobre 2017, n. 23602 ribadisce che l’attribuzione dell’assegno divorzile non può essere giustificata dal divario tra le condizioni reddituali delle parti al momento del divorzio, né dal peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente l’asse¬gno rispetto alla situazione (o al tenore) di vita matrimoniale, a tal fine rilevando unicamente la mancanza della indipendenza o autosufficienza economica del richiedente. Nella fase del giudizio concernente l’an debeatur, invero, il richiedente, per il principio di autoresponsabilità economica, è tenuto, quale persona singola, a dimostrare la propria personale condizione di non indipenden¬za o autosufficienza economica. Alle condizioni reddituali dell’altro coniuge (unitamente agli altri elementi, di primario rilievo, indicati dalla norma di cui all’art. 5 della legge n. 898 del 1970), per¬tanto, può aversi riguardo unicamente nella eventuale fase della quantificazione dell’assegno, alla quale è possibile accedere solo nel caso in cui la fase dell’an debeatur si sia conclusa positivamente per il coniuge richiedente l’attribuzione dell’emolumento.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2017, n. 25327 una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione di quello religioso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente, non solo sul piano dello status personale dei coniugi, ormai da conside¬rare “persone singole”, ma, anche, nei loro rapporti economico-patrimoniali ed, in particolare, nel reciproco dovere di assistenza morale e materiale, residuando, solo, una responsabilità economica post coniugale di matrice esclusivamente assistenziale. Se così non fosse, l’eventuale riconosci¬mento del diritto si risolverebbe in una “locupletazione illegittima, in quanto fondata esclusiva¬mente sul fatto della “mera preesistenza” di un rapporto matrimoniale ormai estinto, ed inoltre di durata tendenzialmente sine die”.
L’orientamento è stato confermato anche Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 28 novembre 2017, n. 28326 dove si legge che Il giudice del divorzio, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi: deve verificare, nella fase dell’”an debeatur”, se la domanda dell’ex coniuge richiedente soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di “mezzi adeguati” o, comunque, impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”), non con riguardo ad un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”, ma con esclusivo riferimento all’”indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso.
Secondo Cass. civ. Sez. VI – 1, 5 dicembre 2017, n. 28994 è stato ritenuto conforme alla sentenza n. 11504 del 2017 la pronuncia di riconoscimento dell’assegno divorzile in favore del titolare di un modesto reddito da pensione (euro 400 mensili) non in grado di procurarsi adeguati mezzi per ragioni oggettive in relazione alla sua età (65 anni).
Nella giurisprudenza di merito Trib. Milano Sez. IX, 22 maggio 2017 ha sostenuto che in tema di determinazione dell’ assegno divorzile il presupposto per riconoscere l’ assegno di divorzio non è il raffronto con il pregresso tenore di vita bensì il riferimento all’indipendenza o autosuf¬ficienza economica del richiedente, che può essere desunta dai principali “indici” del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richie¬dente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione.
Sulla stessa linea Trib. Venezia Ordinanza, 24 maggio 2017 secondo cui in tema di assegno divorzile, il parametro relativo al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio è irrilevante per la concessione dell’ assegno divorzile, essendo piuttosto rilevanti altri indici, quali il “posses¬so” di redditi e di patrimonio mobiliare e immobiliare, le “capacità e possibilità effettive” di lavoro personale e “la stabile disponibilità” di un’abitazione.
Successivamente Trib. Milano Sez. IX, 3 ottobre 2017 ha sostenuto che alla luce della com¬plessiva valutazione di tutti gli indici indicati dalla Suprema Corte nella sentenza del 10 maggio 2017, n. 11504, l’assegno divorzile deve comunque essere riconosciuto nelle ipotesi in cui la mo¬glie, all’esito delle risultanze del giudizio, non possa ritenersi economicamente indipendente. (Nel caso di specie il Tribunale riteneva insussistente l’indipendenza economica della moglie in ragione della mancanza di un reddito da lavoro certo e stabile su cui fare affidamento e della ragionevole impossibilità oggettiva, data l’età, di poterselo procurare).
d) Qualche rilievo critico sul nuovo orientamento in attesa della decisione delle Sezioni Unite
In attesa della decisione delle Sezioni Unite a cui la questione è stata portata da un provvedimento del primo presidente della Corte ai sensi dell’art. 376 c.p.c., si è acceso un dibattito in molte sedi sulla plausibilità del nuovo orientamento della prima Sezione della Corte di cassazione e sulla ne¬cessità di chiarire comunque il significato dell’art. 5 comma 6 della legge sul divorzio.
Una proposta di legge (4605/C del 27 luglio 2017) ha proposto di chiarire definitivamente il testo dell’art. 5 della legge 898/70 stabilendo che l’assegno divorzile è “destinato a compensare le di¬sparità che il divorzio crea nelle condizioni di vita dei coniugi”. Tutto ciò in linea con l’orientamento costantemente seguito dalla giurisprudenza da quasi trent’anni (a seguito di Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490 e Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11492) – con l’avallo di Corte Cost. 11 febbraio 2015, n. 11 – secondo cui il diritto all’assegno divorzile trova fondamento e giustificazione nella circostanza che l’ex coniuge richiedente non ha “mezzi adeguati” (art. 5, comma 6, della legge sul divorzio) a mantenere tendenzialmente il tenore di vita goduto nel corso della convivenza matrimoniale.
La prima sezione della Cassazione ha ribaltato questa interpretazione sostenendo che il criterio attributivo e giustificativo del diritto all’assegno divorzile debba essere quello dell’autosufficienza economica del coniuge richiedente. Al criterio della solidarietà post-matrimoniale, viene sostituito quello dell’indipendenza economica (autoresponsabilità), mentre solo in fase di quantificazione dell’assegno sarebbe possibile, secondo linea interpretativa proposta, la valutazione e il recupero degli aspetti compensativi dell’assegno rispetto al contributo dato da ciascun coniuge alla vita ma¬trimoniale (contributo che l’art. 143 c.c., considera equivalente sia quando si esprime nel lavoro professionale sia quando si realizza come lavoro casalingo e di cura dei figli).
La conseguenza paradossale di questa interpretazione è che un coniuge che al momento del divor¬zio abbia (fortunatamente) anche modesto reddito da lavoro ritenuto dal giudice sufficiente per vi¬vere dignitosamente, non avrà diritto all’assegno divorzile adeguato a conservare tendenzialmente il tenore di vita matrimoniale, ancorché nel corso del matrimonio abbia largamente contribuito per scelta comune alla famiglia, ai figli (continuando ad occuparsi di essi dopo il divorzio) e all’accudi¬mento dell’altro coniuge, favorendone così anche il raggiungimento delle aspirazioni professionali.
L’uguaglianza dei coniugi (art. 30 cost.) e l’uguaglianza del lavoro professionale e casalingo (pro¬clamata dall’art. 143 c.c.) vengono neutralizzate al momento del divorzio.
Questa scelta interpretativa è illogica perché se viene evocata l’ultrattività post-matrimoniale della solidarietà coniugale ai fini della quantificazione dell’assegno (quantum debeatur) non si capisce per quale motivo questa stessa solidarietà non debba valere nella valutazione dell’ an debeatur. Se la solidarietà post-matrimoniale ha rilevanza giuridica questo deve avvenire necessariamente sempre (sia in fase di attribuzione che di quantificazione). Era questa l’intuizione logica e ragione¬vole a fondamento della posizione delle Sezioni Unite del 1990.
Il criterio dell’indipendenza economica come criterio di attribuzione dell’assegno potrebbe essere introdotto dal legislatore, ma non dalla giurisprudenza, che peraltro lo ha introdotto solo per il divorzio e non per la separazione (come ha chiarito, concludendo la causa di separazione tra Silvio Berlusconi e la moglie, Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196 nella cui vicenda, però, successivamente, in sede di divorzio, App. Milano Sez. V, 16 novembre 2017 ha revocato il diritto all’assegno di mantenimento sulla base della nuova interpretazione del criterio attributivo dell’assegno divorzile).
Divorzio e separazione sono due modalità giuridiche (sempre più ravvicinate nel tempo) con cui si disciplina la medesima crisi coniugale e non possono avere a fondamento due criteri diversi. Per questo le sentenze della prima sezione introducono altresì un paradosso e una contraddizione inaccettabile nel sistema.
L’età al momento del divorzio è più avanzata rispetto a quella della separazione (in media quindi dopo i 48 anni per gli uomini e dopo i 45 anni per donne). Nel 40% delle separazioni è previsto un assegno per la moglie, solo per lei o anche per i figli (nel 10% delle separazioni per la solo moglie e nel 30% delle separazioni per la moglie e i figli). Nel 30% delle separazioni non è previsto alcun assegno per la moglie. In oltre il 30% delle separazioni è previsto un assegno (a titolo di contributo ordinario) solo per i figli, in genere versato dal padre. Si tratta si percentuali abbastanza stabili nel tempo, che non hanno subito negli ultimi anni variazioni di rilievo.
In conclusione la donna che, in prime nozze, si separa lo fa dopo un periodo medio di 17 anni e dopo un matrimonio che l’ha impegnata per un periodo di età tra i 32 e i 45 anni. Nel 40% dei casi (quindi ad un flusso stabile di oltre 41.000 donne ogni anno) le viene riconosciuto il diritto ad un assegno coniugale. E in una percentuale che va dal 70% al 90% ha anche figli che ha con¬corso a crescere in famiglia e che nella stragrande maggioranza dei casi rimangono con lei dopo la separazione.
Non esistono statistiche sull’entità degli eventuali redditi a disposizione delle 41.000 donne che ogni anno si separano e alle quali viene riconosciuto l’assegno di mantenimento. Può trattarsi di donne che non hanno alcun reddito o di donne che pur avendo mezzi economici li hanno di entità tale da non poter garantire il godimento del pregresso tenore di vita (pacificamente considerato in sede di separazione presupposto di attribuzione dell’assegno). Pertanto non è possibile stimare con sufficiente attendibilità il numero di donne che potrebbero vedersi confermato o meno in sede di divorzio l’assegno.
Il tasso di occupazione femminile (46%: ma 56% al nord e 30% al sud) è più basso di quello dell’uomo e sussistono differenze rilevanti di salario e stipendio tra uomini e donne. Il tasso di occupazione femminile in Europa è più alto raggiungendo mediamente il 60%. Il divario diviene molto elevato, superando i 20 punti, con la Germania e l’Olanda. Nelle coppie che si separano, le donne hanno un tasso di occupazione più alto della media; segno evidente che per la donna il reddito lavorativo influenza la scelta stessa di separarsi.
Il regime di comunione legale può in qualche modo favorire il riequilibrio economico tra coniugi nel corso del matrimonio e al momento della separazione ma il regime della separazione die beni non ha alcun meccanismo di riequilibrio a favore del coniuge più debole.
Nel contesto sopra delineato della attuale condizione femminile in Italia è ineliminabile l’attribu¬zione all’assegno divorzile di una funzione che contenga in sé la valorizzazione del contributo dato dalla moglie alla vita matrimoniale, senza correre il rischio che tale contributo resti annullato dalla ritenuta indipendenza economica. L’indipendenza economica è un elemento che può essere preso in considerazione come elemento di moderazione ma non come presupposto attributivo dell’asse¬gno, perché in tal modo potrebbe seriamente mortificare o vanificare il peso del contributo offerto dalla donna alla vita matrimoniale e della famiglia.
Attualmente la funzione di valorizzazione del contributo in questione è assolta dal criterio di attri¬buzione dell’assegno collegato al pregresso tenore di vita.
Le condizioni e il tenore di vita che due coniugi hanno avuto nel matrimonio sono strettamente dipendenti dal “contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune”.
Perciò, il riferimento al pregresso tenore di vita (cioè alle pregresse condizioni di vita della fami¬glia) quale presupposto per l’attribuzione dell’assegno (di separazione e di divorzio) contiene in sé oggettivamente una carica compensativa che non può essere eliminata (e che, infatti, la stessa prima sezione della Cassazione dichiara di voler confermare per la separazione). La famiglia ha potuto godere di un certo tenore di vita perché entrambi lo hanno reso possibile con il loro contri¬buto personale, professionale o casalingo. Ed anche con il loro sacrificio personale. Le opportunità di cui la famiglia si è avvantaggiata derivano anche dalla divisione del lavoro che i coniugi hanno concordato o accettato. In tanto il lavoro professionale di un coniuge ha potuto garantire un parti¬colare assetto economico in quanto magari il lavoro dell’altro, che si è dedicato (solo o di più) alla casa e ai figli, ha reso possibile quell’assetto.
Dopo 17 anni di matrimonio (questa è la durata media del matrimonio, come si è visto, vissuto da lei nell’arco medio di età tra i 32 e i 45 anni) – quando lui ha 48 anni e lei 45 – come si può pre¬tendere di non considerare questo fattore l’elemento determinante da cui partire per garantire che quel contributo abbia un ragionevole riconoscimento nell’assetto post-matrimoniale? Soprattutto, come si è detto, in assenza di significativi fattori di riequilibrio connessi al regime patrimoniale sia della comunione legale che della separazione dei beni.
La circostanza che vi possano essere nel corso del matrimonio (e anche dopo) situazioni di paras¬sitismo generate dall’approfittamento da parte di un coniuge delle fortune dell’altro è situazione che può trovare ristoro in sede di quantificazione dell’assegno (“fino ad azzerarlo” come ha sempre riconosciuto la giurisprudenza) ma non per cancellare il riferimento alle condizioni di vita nel corso del matrimonio.
Il riferimento alle pregresse condizioni di vita è, dunque, l’unico criterio capace di garantire un punto di partenza equlibrato per decidere l’assetto economico post-matrimoniale. Non ve ne pos¬sono essere altri.
E se questo criterio di riferimento vale per la separazione non può non valere anche per il divorzio. Non vi sono due momenti della crisi o due momenti diversi della condizione femminile, ma un unico momento (al quale il nostro sistema giuridico appresta la duplice sempre più ravvicinata soluzione della separazione e del divorzio.
IV Il problema della revocabilità, in seguito al mutamento della giurisprudenza, dell’assegno passato in giudicato
Il problema è se in base al nuovo orientamento della Corte di cassazione possa essere chiesta la revoca dell’assegno di divorzio attribuito in precedenza sulla base della diversa interpretazione della legge.
In particolare va affrontato il problema se il procedimento di revisione delle condizioni di divorzio ex art. 9 della legge 898/70, possa essere azionato sulla base della sopravvenienza di un orienta¬mento nuovo della giurisprudenza di legittimità.
Una decisione ha dato a questa domanda una risposta sostanzialmente affermativa. Si tratta di Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481 secondo cui il giudice richiesto della revisione dell’assegno divorzile che incida sulla stessa spettanza del relativo diritto (precedentemente rico¬nosciuto), in ragione della sopravvenienza di giustificati motivi dopo la sentenza che abbia pronun¬ciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, deve verificare se tali motivi giustifichino, o meno, la negazione del diritto all’assegno a causa della sopraggiunta “indipendenza o autosufficienza economica” dell’ex coniuge beneficiario, senza, invece, tener conto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Bisogna fare attenzione: non è in sé il nuovo orientamento che determina la possibilità di revoca. Secondo questa decisione, infatti, solo la sopravvenienza di giustificati motivi determina la pos¬sibilità di una richiesta di revoca. Tuttavia una volta verificata l’esistenza delle sopravvenienze, il giudice dovrebbe valutare la domanda di revoca sulla base dei nuovi principi elaborati dalla nuova giurisprudenza.
In altre parole l’ex coniuge obbligato che intenda chiedere la revoca dell’assegno, può farlo solo se sopraggiungono giustificati motivi di revisione, per esempio un aumento dei redditi del bene¬ficiario, ma a questo punto il giudice potrebbe valutare la nuova situazione alla luce del nuovo orientamento e revocare l’assegno se il beneficiario si trova, sulla base dei nuovi parametri una condizione di indipendenza economica (ancorché in condizione di non potersi assicurare il pregres¬so tenore di vita matrimoniale secondo il criterio utilizzato quando gli era stato attribuito il diritto all’assegno divorzile).
a) Il valore delle decisioni della Corte di cassazione
L’attività interpretativa della giurisprudenza nei Paesi di civil law racchiude in sé ineliminabili mo¬menti di creazione del diritto. Tuttavia l’art. 1 delle preleggi non indica tra le fonti del diritto le sen¬tenze dei giudici. Un conto è, però, il valore della sentenza nell’ordinamentale generale e un conto è il valore che le sentenze, specificamente quelle della Corte di cassazione, hanno in ambito giudizia¬rio. In base a quanto dispone l’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario (Attribuzioni della corte suprema di cassazione) “La Corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni…”. Il che comporta che le decisioni della Cassazione sono di fatto vincolanti per i giudici. L’art. 374 c.p.c. Pronuncia a sezioni unite) pone solo una deroga riferibile al rapporto tra una sezione della Corte e le Sezioni unite prescrivendo al quarto comma che “…Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”. Proprio per sottolineare il valore delle decisioni della Corte di cassazione l’art. 360-bis c.p.c. dichiara che il ricorso per cas¬sazione è inammissibile, tra l’altro, “quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”. L’interpretazione delle norme di diritto da parte della Corte di cassazione (nell’esercizio della sua essenziale funzione nomofilattica) determina quello che viene chiamato significativamente “diritto vivente” ed in questi limiti è certamente corretto af¬fermare che le sentenze acquisiscono in senso lato una funzione di creazione delle regole di diritto.
Pertanto un nuovo orientamento interpretativo della Corte di cassazione in una determinata ma¬teria si traduce in una interpretazione in grado di imporsi nell’applicazione al caso concreto come nuova regola di diritto applicabile nei giudizi aventi ad oggetto quella materia.
b) L’applicazione del nuovo orientamento nei procedimenti in corso
Nella legge sul divorzio il diritto di richiedere in corso di causa la modifica dei provvedimenti è pre¬visto nell’art. 4, comma 8, seconda parte della legge 898/1970 dove si legge che “L’ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore a norma dell’art. 177 del codice di procedura civile”. Naturalmente il giudice istruttore ha poi sempre il potere di modificare anche i provvedimenti da lui stesso emessi.
Le ragioni della modifica che viene richiesta in corso di causa non sono rilevanti. Qualsiasi ragione può essere proposta al giudice, ivi compresa quindi quella di adeguare l’assetto economico ad una legge sopravvenuta o ad un nuovo orientamento giurisprudenziale di legittimità. Le norme sopra richiamate non impongono alcuna restrizione. E d’altra parte lo stesso giudice, ove il nuovo orientamento provenisse da decisioni della Corte di cassazione, avrebbe il dovere di applicarne i principi. Ciò premesso, non possono esserci dubbi sul fatto che il nuovo orientamento della giu-risprudenza di legittimità trovi applicazione nei procedimenti in corso, anche d’ufficio, fatta salva l’esistenza dei presupposti e l’assolvimento dell’onere della prova da parte dell’interessato che ne potrebbe essere impedito dalle eventuali preclusioni processuali già intervenute. In tal caso nulla impedirebbe anche d’ufficio al giudice di rimettere la causa sul ruolo per la formazione della prova in ordine ai nuovi presupposti attributivi dell’assegno. Nei procedimenti in corso (in primo grado e in fase di impugnazione), insomma, prima del formarsi del giudicato, è sempre proponibile una richiesta di modifica dei provvedimenti vigenti per adeguarli al nuovo orientamento.
c) Il problema dell’applicabilità del nuovo orientamento dopo il giudicato sull’assegno
Più problematica si presenta, invece, la situazione ove si intendesse fare applicazione del nuovo orientamento dopo il giudicato già formatosi sull’assegno divorzile. Per quanto si dirà, benché la soluzione possa apparire ingiusta, non sembra sussista la possibilità di poter pretendere, attraver¬so un procedimento di modifica delle condizioni di divorzio, l’applicazione del nuovo orientamento. Le ragioni sono connesse sostanzialmente al tema dell’intangibilità del giudicato.
La ratio della regola rebus sic stantibus
La validità rebus sic stantibus di tutti i provvedimenti (s’intende non relativi allo status) ivi compre¬si quelli di natura economica, nel diritto di famiglia è alla base stessa dei principi di modificabilità espressi nell’art. 9 della legge sul divorzio. Il principio costantemente affermato è che la sentenza di divorzio, in relazione alle statuizioni di carattere patrimoniale in essa contenute, passa in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, anche se la sopravvenienza di fatti nuovi, successivi alla sentenza di divorzio, non è di per sé idonea ad incidere direttamente ed immediatamente sulle statuizio-ni di ordine economico da essa recate e a determinarne automaticamente la modifica, essendo al contrario necessario che i “giustificati motivi” sopravvenuti siano esaminati, ai sensi dell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 dal giudice e che questi, valutati detti fatti, rimodelli, in relazione alla nuova situazione, ricorrendone le condizioni di legge, le precedenti statuizioni (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2953; Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17618; Cass. civ. Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 30033; Cass. civ. Sez. I, 9 maggio 2011, n. 10077).
La giurisprudenza considera quali presupposti della domanda di modifica “fatti nuovi sopravve¬nuti”, modificativi della situazione in relazione alla quale il provvedimento era stato adottato o l’accordo su quelle statuizioni era stato stipulato (tra le tante Cass. civ. Sez. VI, 6 giugno 2014, n. 12781; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11488; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321; Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149). La ratio di questa vera e propria deroga all’intangibilità del giudicato, quindi, sta proprio nella necessità che nell’ambito del diritto di famiglia i provvedimenti possano essere costantemen¬te adeguati alla situazione di fatto che li aveva giustificati. Al di là di questo non è, però, ipotizza¬bile una generale modificabilità dei provvedimenti.
L’intangibilità del giudicato
L’art. 2909 c.c. (Cosa giudicata) afferma il principio che l’accertamento contenuto nella sen¬tenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Da un punto di vista sostanziale il giudicato si riferisce all’accertamento contenuto nella sentenza che abbia acquisito l’autorità della cosa giudicata formale, in quanto non sia più soggetta a rego¬lamento di competenza o ad alcuno dei mezzi ordinari di impugnazione (appello, ricorso per cassazione, revocazione per i motivi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5), previsti nell’art. 324 c.p.c. traducendosi in un preciso vincolo giuridico, in forza del quale quell’accertamento fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. La conseguenza di questa preclusione è l’immo¬dificabilità della sentenza.
La formula secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile significa che il giudicato copre non soltanto le ragioni giuridiche fatte valere (giudicato esplicito) ma anche tutte le altre – propo¬nibili sia in via di azione che di eccezione – le quali, sebbene non dedotte specificamente si carat¬terizzano per la comune inerenza ai fatti costitutivi delle pretese anteriormente svolte (giudicato implicito). Questi concetti sono stati affermati in generale (da ultimo da Cass. civ. Sez. III, 20 aprile 2017, n. 9954; Cass. civ. Sez. lavoro, 23 febbraio 2016, n. 3488; Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16824) ma anche spesso in vicende relative proprio all’assegno di divorzio (Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2953; Cass. civ. Sez. I, 1 febbraio 2016, n. 1863; Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2005, n. 17320; Cass. civ. Sez. I, 2 novembre 2004, n. 21049; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1998, n. 1031) dove il principio costantemente affermato è che le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata rebus sic stantibus, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.
Anche l’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale trova un limite nei rapporti esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato (art. 136 Cost. e art. 30 legge 11 marzo 1953, n. 87 secondo cui la norma dichiarata incostituzionale cessa di avere effetti dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione). Come è stato ben ribadito recentemente (Cons. Stato Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 4396; Cons. Stato Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1458) la dichiarazione di illegittimità costituzionale determina la invalidità originaria della legge, sia essa di natura sostanziale, procedimentale o processuale, per contrasto con un precetto costi¬tuzionale, sicché essa elimina la norma con effetto ex tunc, con la conseguenza che essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione della decisione; fermo restando il principio che gli effetti dell’incostituzionalità non si estendono ai diritti quesiti e ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizio¬ni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità.
d) Solo la legge può disporre l’applicazione ai rapporti definiti con il giudicato di una normativa nuova
Quanto sopra detto, circa l’intangibilità del giudicato, trova una conferma anche nella legge 8 feb¬braio 2006 n. 54 sull’affidamento condiviso. L’art. 4 di tale legge (disposizioni finali) prevedeva che “Nei casi in cui il decreto di omologa dei patti di separazione consensuale, la sentenza di separa¬zione giudiziale, di scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia già stata emessa alla data di entrata in vigore della presente legge, ciascuno dei genitori può richiedere, nei modi previsti dall’articolo 710 del codice di procedura civile o dall’articolo 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, l’applicazione delle disposizioni della presente legge”. Questa norma – che si riferisce ai casi in cui era passata in giudicato la sentenza (imprecisa formulazione: “già stata già emessa”) che aveva fatto applicazione dei precedenti criteri di affidamento – ha senso solo se si considera che altrimenti anche la stessa legge nuova non avreb¬be potuto estendere i suoi effetti ai rapporti definiti con decisioni passate in giudicato (ancorché rebus sic stantibus). Anche la giurisprudenza affermò che questa norma non autorizzava a ritenere immediatamente applicabili le disposizioni della nuova legge al passato, non rinvenendosi una dero¬ga al principio generale, sancito dall’art. 11 delle preleggi, della irretroattività della legge, ma che le nuove disposizioni potevano trovare applicazione soltanto attraverso un nuovo procedimento nelle forme previste dall’art. 710 cod. proc. civ. (Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2006, n. 20256; Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24996). Pertanto se non ci fosse stata la legge a preve¬derlo espressamente, la normativa sopravvenuta non avrebbe potuto essere posta a fondamento di un procedimento di revisione delle condizioni di divorzio, ostandovi l’intangibilità giudicato.
e) Il mutamento repentino di giurisprudenza (overruling)
Si ritiene in ambito processualistico che i fatti giuridici (costitutivi, modificativi, impeditivi od estin¬tivi), i quali non sarebbero stati nemmeno “deducibili” (o suscettibili di allegazione e di prova) in un processo, per essere ontologicamente sopravvenuti dopo il maturarsi dell’ultima preclusione utile, non sono “coperti” o “preclusi” da quel giudicato. Ciò premesso ci si può infine porre il problema se l’orientamento nuovo della giurisprudenza possa essere considerato un “fatto” nuovo rilevante ai fini dell’istanza di modifica. La risposta decisamente negativa emerge dall’esame della giurispru¬denza formatasi sul tema dell’overruling.
Il cosiddetto overruling giurisprudenziale ricorre quando si registra una svolta repentina rispetto ad un precedente diritto vivente consolidato che si risolve in una compromissione del diritto di azione e di difesa di una parte. Secondo la giurisprudenza tale situazione ricorre quando il cam¬bio di orientamento ha ad oggetto una norma processuale, quando si tratta di un mutamento imprevedibile e quando esso determina un effetto preclusivo del diritto di azione o difesa. Nel caso del cambiamento relativo ai presupposti attributivi dell’assegno non siamo in presenza di un cambiamento relativo ad una regola processuale. I principi richiamati sono stati elaborati in appli¬cazione dei valori del giusto processo, e tendono ad escludere la validità di un nuovo e improvviso orientamento giurisprudenziale nei confronti della parte che abbia confidato nella consolidata pre¬cedente interpretazione della stessa regola. Secondo Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2011, n. 15144 – che ha precisato e riassunto tutti questi principi – per effetto di essi il comportamento processuale che si era conformato al precedente diritto vivente, va valutato con riferimento alla giurisprudenza vigente al momento dell’atto stesso e non con riferimento a quella nuova. Trattasi di una “soluzione confortata dall’esigenza di non alterare il parallelismo tra legge retroattiva e interpretazione giurisprudenziale retroattiva, per il profilo dei limiti, alla retroagibilità della regola, imposti dal principio di ragionevolezza. Ciò che non è consentito alla legge non può similmente essere consentito alla giurisprudenza”.
La giurisprudenza si è adeguata a questi limiti di rilevanza del cambiamento repentino rispetto al precedente diritto vivente (T.A.R. Abruzzo Pescara Sez. I, 10 agosto 2016, n. 291 secondo cui il giudicato è insensibile ai mutamenti legislativi e giurisprudenziali sopravvenuti; Cass. civ. Sez. VI, 27 luglio 2016, n. 15530, Cass. civ. Sez. II, 11 marzo 2016, n. 4826 e Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2015, n. 22008, Cass. civ. Sez. VI, 9 gennaio 2015, n. 174;
Cass. civ. Sez. Unite, 16 giugno 2014, n. 13676 nelle quali tutte si precisa che in tema di overruling rileva il solo mutamento imprevedibile di un consolidato orientamento giurisprudenziale di una regola del processo, che comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte).
Applicazione nell’ambito del diritto di famiglia è stata fatta da Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25676 secondo cui alla luce del principio costituzionale del giusto processo, non ha rilevanza preclusiva l’errore della parte che, convenuta in un giudizio di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità matrimoniale, abbia tardivamente eccepito, quale situazione ostativa alla delibazione, la convivenza di lunga durata “come coniugi”, facendo affidamento su una giurisprudenza di legittimità, consolidata al momento della sua tempestiva costituzione ma poi travolta da un mutamento interpretativo (dovuto alla sentenza n. 16379 del 2014 delle Sezioni Unite che, innovando quella giurisprudenza, hanno qualificato detta eccezione come in senso stret¬to), che riteneva il relativo fatto rilevabile d’ufficio, dovendo altresì individuarsi nella rimessione in termini lo strumento per ovviare a quell’errore. In seguito, però, con altra decisione (Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26188) la rimessione in termini, sulla stessa questione, non è stata riconosciuta. Da quanto precede deriva che al mutamento improvviso di giurisprudenza viene riconosciuta rilevanza solo se il mutamento riguarda una regola processuale prima consolidata in giurisprudenza e sempre che il mutamento si rivolge in danno (e non a vantaggio) della parte che aveva incolpevolmente confidato nel precedente indirizzo. Sulla base di queste premesse non è possibile attribuire al mutamento di giurisprudenza in ordine ai presupposti attributivi dell’assegno divorzile la forza idonea a giustificare un’istanza di revisione delle condizioni di divorzio.
f) Il nuovo orientamento della giurisprudenza come “motivo giustificato” di revisione?
Come si è ampiamente detto, l’art. 9 della legge sul divorzio al primo comma prevede espressa¬mente che la domanda di revisione possa essere presentata solo “qualora sopravvengano giustifi¬cati motivi dopo la sentenza…”. La giurisprudenza, come anche si è già detto, ha sempre interpre¬tato i giustificati motivi che autorizzano la modifica delle condizioni della separazione come “fatti” nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale i provvedimenti erano stati adottati e che in genere consistono in circostanze sopravvenute che riguardano il peggioramento o il miglioramento dei redditi o della condizione patrimoniale – anche rispetto a nuovi eventi della vita quali la nascita id un figlio, un nuovo matrimonio o altro – e per le quali il giudice deve verifica¬re se, ed in quale misura, abbiano alterato l’equilibrio stabilito in precedenza (Cass. civ. Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 214 e Cass. civ. Sez. VI, 20 giugno 2014, n. 14143; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11487; Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2008, n. 1595; Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17041; Cass. civ. Sez. I, 30 maggio 2007, n. 12687; Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367; Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2003, n. 11720; Cass. civ. Sez. I, 9 dicembre 1993, n. 12125).
Questa impostazione è assolutamente in linea con la ratio della validità rebus sic stantibus delle sentenze o dei provvedimenti camerali di divorzio e con il limite generale di cui si è parlato dell’in¬tangibilità del giudicato. Al di fuori di questi limiti l’attribuzione ad eventi diversi della capacità di violare il giudicato potrebbe essere arbitraria. Pertanto non sarebbe accettabile una ricostru¬zione delle cause giustificative della revisione delle condizioni di divorzio che volesse intrepretare l’espressione “giustificati motivi” (art. 9 della legge sul divorzio) oltre il significato che la giuri¬sprudenza ha fin qui dato a questa espressione. Astrattamente pertanto – e volendo seguire una interpretazione solamente letterale dell’espressione – si potrebbe anche sostenere che un nuovo e diverso orientamento della giurisprudenza potrebbe integrare quei “giustificati motivi” che con¬sentono l’istanza di revisione. Così facendo, però (e dando alla parola “motivi” un senso generico e completamente diverso da quello ristretto di “fatti sopravvenuti”) si finisce per violare e incrinare quei limiti di intangibilità del giudicato che, come si è sopra detto, costituiscono il fondamento del processo civile. Viceversa si deve ribadire che l’unica eccezione all’intangibilità del giudicato nell’ambito del diritto di famiglia è la regola rebus sic stantibus prevista e valida al solo fine di consentire l’adeguamento dei provvedimenti alle circostanze di fatto che modificano i presupposti in base ai quali quei provvedimenti erano stati adottati.
V L’oggettiva impossibilità di procurarsi mezzi adeguati
Vi è un elemento che diversifica ulteriormente in modo radicale l’assegno di separazione e l’asse¬gno di divorzio e cioè il fatto che l’assegno di divorzio non è dovuto, secondo l’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio, quando il coniuge che lo richiede non ha mezzi adeguati “o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
Questo elemento (il non potersi procurare mezzi adeguati per ragioni oggettive) differenzia radi¬calmente nei testi legislativi l’assegno divorzile da quello di separazione (per il quale una preci¬sazione del genere non è indicata). L’assegno di separazione è perciò dovuto allorché il coniuge richiedente non ha redditi o mezzi adeguati (nel caso di separazione a mantenere lo stesso tenore di vita goduto nel corso della convivenza matrimoniale) a prescindere dal fatto che possa o meno procurarseli da solo. Si tratta di una differenza ragionevole, considerato che la separazione può in¬tervenire da un momento all’altro nella vita dei coniugi senza consentire al coniuge debole la pos¬sibilità di riorganizzare immediatamente la propria vita in una direzione di autonomia personale. La capacità di procurarsi da solo redditi e mezzi adeguati in sede di separazione può influire, natural¬mente, sul quantum dell’assegno di separazione ma non sulla valutazione circa la sua spettanza.
Ha espresso in passato molto bene questi principi Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2004, n. 5555 secondo cui il diritto del coniuge separato senza addebito al mantenimento da parte dell’altro è su¬bordinato dall’art. 156 c.c. alla condizione che chi lo pretenda “non abbia adeguati redditi propri”, a differenza di quanto previsto, in materia di divorzio, dall’art. 5, comma sesto, legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, del divorzio, che con¬diziona altresì il diritto al fatto che chi lo pretende non possa procurarseli per ragioni oggettive; ciò in quanto se – ad esempio – prima della separazione i coniugi avevano concordato o, quanto meno, accettato (sia pure soltanto “per facta concludentia”) che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione, atteso che la separazione instaura un regime il quale, a differenza del divorzio, tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matri¬monio compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il tenore e il tipo di i vita di ciascuno dei coniugi, nel senso esattamente che solo con il divorzio, capace di sciogliere a tutti gli effetti il matrimonio, la situazione muta radicalmente, tanto da far residuare tra gli ex coniugi solo un vincolo di solidarietà di tipo preminentemente assistenziale che, in quanto tale, presuppone nell’ex coniuge assistito non solo la mancanza di mezzi economici adeguati, ma anche l’oggettiva impossibilità di procurarseli mettendo altresì a frutto tutte le proprie capacità di lavoro.
Successivamente le stesse precisazioni sono state puntualmente riproposte in giurisprudenza sen¬za soluzione di continuità. Per esempio, tra le tante, si legge in Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18241 che nella disciplina dettata dall’art. 5 della sul divorzio, l’assegno si configura con natura eminentemente assistenziale, essendone condizionata l’attribuzione alla specifica cir¬costanza della mancanza di mezzi adeguati o della impossibilità di procurarseli per ragioni og¬gettive, mentre gli altri criteri costituiti dalle condizioni dei coniugi, dalle ragioni della decisione, dal contributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, dal reddito di entrambi, valutati unitariamente e confrontati alla luce del paradigma della durata del matrimonio, sono destinati ad operare solo se l’accertamento dell’unico elemento attributivo si sia risolto positivamente, e quindi ad incidere unicamente sulla quantificazione dell’assegno stesso.
Gli stessi identici principi sono riaffermati e presupposti in tutte le decisioni della Cassazione sul “tetto massimo” dalla più lontana Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 1998, n. 4809 alla più recente Cass. civ. Sez. I, 5 febbraio 2014 n. 2546 che saranno più oltre esaminate.
In Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2014, n. 6562 si afferma che l’accertamento della capacità la¬vorativa del richiedente, pur attualmente privo di redditi, va condotto non ipoteticamente ed in astratto, ma in termini effettivi e concreti. Nella specie la sentenza di merito, con motivazione ri¬tenuta congrua, aveva rilevato che la richiedente, senza redditi propri, ormai cinquantenne, senza una specifica professionalità, non aveva una reale capacità lavorativa, con conseguente obiettiva difficoltà di reperimento di un lavoro, tenuto anche conto della grave crisi economica.
Recentemente Cass. civ. Sez. VI, 23 ottobre 2015, n. 21670 ha affermato che l’ipotetica ed astratta possibilità lavorativa o di impiego, da parte del coniuge beneficiario, non incide sulla de¬terminazione dell’assegno di divorzio, salvo che il coniuge onerato non fornisca la prova che il be¬neficiario abbia l’effettiva e concreta possibilità di esercitare un’attività lavorativa confacente alle proprie attitudini. Sulla stessa linea si pone Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 30 ottobre 2017, n. 25781 in cui si afferma che l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive, è da valutarsi in relazione alla situazione esistente nell’attualità e, in particolare, alla possibilità, per il richiedente, di svolgere un’attività lavorativa adeguata alla sua qualifica, posizione sociale e condizioni personali, d’età e di salute.
VI I criteri di quantificazione dell’assegno divorzile (autonomia di valutazione e tramonto della teoria del “tetto massimo”)
L’art. 5, comma 6 della legge sul divorzio afferma che il giudice deve tener conto “delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del red¬dito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio” (art. 5 comma 6 della legge divorzio). Si fondono in questa valutazione sul quantum dell’assegno un criterio personale e reddituale (“condizioni dei coniugi”), un criterio risarcitorio (“ragioni della decisione”), un criterio compensativo (“contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune) nonché un criterio di natura temporale (“durata del matrimonio”).
Nonostante la formula molto ampia utilizzata dalla norma il collegamento tra la valutazione sull’an debeatur e la valutazione sul quantum debeatur è stato sistematicamente effettuato dalla giurispru¬denza in una direzione che considera i criteri di quantificazione dell’assegno come criteri di mode¬razione e riduzione dell’importo perequativo dell’assegno e non come criteri capaci di aumentarlo.
L’apripista di questa linea interpretativa – nota come teoria del “tetto massimo” – è stata Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 1998, n. 4809 secondo cui nell’ambito del sistema normativo introdotto con la legge n. 74 del 1987, l’attribuzione dell’assegno di divorzio è indefettibilmente subordinata alla specifica circostanza di fatto della mancanza di mezzi adeguati o dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, essendo gli altri criteri (condizioni dei coniugi; ragioni della decisione; con¬tributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patri-monio nel periodo matrimoniale; reddito di entrambi; durata del rapporto di coniugio) destinati ad operare solo se l’accertamento della predetta (ed unica) circostanza attributiva risulti di segno po¬sitivo. Il giudizio relativo a detto accertamento, articolandosi in due fasi (quella del riconoscimento del diritto in astratto e quella della determinazione in concreto dell’assegno), vede il giudice, nella prima di esse, chiamato a verificare l’esistenza del diritto in relazione all’inadeguatezza dei mezzi (raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello condotto in costanza di matrimonio, onde pro¬cedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare detta inadeguatez¬za, che costituiscono il “tetto massimo” della misura dell’assegno), e, nella seconda (dovendosi procedere alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno stesso), chiamato, poi, alla valutazione ponderata e bilaterale dei vari criteri normativamente stabiliti, che operano come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono, se del caso, addirittura azzerarla in ipotesi estreme, quando, cioè, la conservazione del tenore di vita assicura-to dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione.
Ad usare ancora l’espressione “tetto massimo” – relativamente all’importo astratto necessario a consentire ad un coniuge di mantener lo stesso tenore di vita goduto nel corso del matrimonio – fu poi alcuni anni dopo Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2003, n. 4040 secondo cui in tema di sciogli¬mento del matrimonio e nella disciplina dettata dall’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, l’accertamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matri¬monio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno. Nella seconda fase, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5, che quindi agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, e possono in ipotesi estreme valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione.
Una delle ipotesi di incompatibilità è per esempio l’addebito della separazione. In tal caso poiché in sede divorzile l’addebito non è previsto e ne è ipotizzabile il richiamo solo come “ragione della de¬cisione”, l’eventuale addebito potrebbe costituire elemento per azzerare un assegno astrattamente dovuto in relazione alla inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge che lo richiede.
Seguirono poi moltissime altre decisioni identiche tra cui vanno ricordate Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18241; Cass. civ. Sez. I, 12 luglio 2007, n. 15611; Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2008, n. 593; Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2013, n. 24252 e da ultimo Cass. civ. Sez. I, 5 febbraio 2014 n. 2546. Sostanzialmente analoghi i principi ribaditi in Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11870 e Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19529.
In conclusione l’importo astrattamente idoneo a superare l’inadeguatezza dei redditi non potrà mai essere superato per esigenze di tipo risarcitorio o compensativo ma solo ridotto ed eventualmente azzerato. Si consideri per esempio un coniuge che per moltissimi anni si è dedicato alla vita fami¬liare ed ai figli senza perseguire proprie soddisfazioni di tipo professionale e che al momento del divorzio si trovi sfornito di redditi adeguati. Avrà certamente diritto ad un assegno periodico che possa garantirgli tendenzialmente il tenore di vita goduto nel corso del matrimonio, ma non avrà ri¬conosciuta (al di là dell’assegno periodico) alcuna compensazione dei sacrifici compiuti nel corso del matrimonio, potendo il criterio compensativo solo ridurre l’importo dell’assegno e non aumentarlo.
La questione dell’interpretazione dell’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio era stata portata anche all’attenzione della Corte costituzionale (come ricorda anche Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504) che l’ha risolta – rifacendosi alla giurisprudenza vivente – confermando la validi¬tà della teoria del “tetto massimo”, sostenendo, appunto, che “il parametro del tenore di vita rileva soltanto per determinare in astratto il tetto massimo della misura della prestazione assistenziale, da determinare poi in concreto, caso per caso, con gli altri criteri di diminuzione indicati nell’art. 5 della legge sul divorzio (condizione e reddito dei coniugi, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune, durata del matrimonio, ragioni della decisio¬ne) sino all’eventuale azzeramento” (Corte Cost. 11 febbraio 2015 n. 11).
Nel corso di un giudizio civile di divorzio, il tribunale di Firenze aveva ritenuto rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione la questione di le¬gittimità costituzionale dell’art. 5, sesto comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, come mo¬dificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, nell’interpretazione, secondo cui in presenza di una disparità economica tra coniugi, “l’assegno divorzile … deve necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimo¬nio”. Ad avviso del giudice rimettente, questa interpretazione si porrebbe, infatti, in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto l’assegno di divorzio, pur avendo una finalità meramente assistenziale, finirebbe con l’attribuire l’obbligo di garantire per tutta la vita un tenore di vita agiato in favore del coniuge ritenuto economicamente più debole; con l’art. 2 Cost., sotto il profilo del dovere di solidarietà, in quanto la tutela del coniuge debole non comporterebbe l’obbligo di consentire, ben oltre il contesto matrimoniale, il mantenimento delle medesime condi¬zioni economiche godute durante lo stesso matrimonio; con l’art. 29 Cost., in quanto risulterebbe anacronistico ricondurre l’assegno divorzile al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, senza considerare l’attuale portata del divorzio, della famiglia e del ruolo dei coniugi. Secondo il tribunale di Firenze, il “diritto vivente”, fatto oggetto di censura, violerebbe quindi l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, per la “contraddizione logica” che, quel giudice ravvisa, “fra l’istituto del divorzio, che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio e dei suoi effetti, e la disciplina in questione, che di fatto proietta oltre l’orizzonte matrimoniale il “tenore di vita” in costanza di matrimonio”; contrasterebbe, inoltre, “per eccesso” con il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., e violerebbe, infine, anche l’art. 29 Cost., “esprimendo una concezione “in¬dissolubilista” del matrimonio che appare oggi anacronistica”.
La Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione affermando innanzitutto che l’esisten¬za, presupposta dal tribunale di Firenze, di un “diritto vivente” secondo cui l’assegno divorzile ex art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970 “deve necessariamente garantire al coniuge eco¬nomicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” non trova riscontro nella giurisprudenza, secondo la quale, viceversa, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile. In effetti – ricorda la Corte costituzionale – la Corte di cassazione, in sede di esegesi della normativa impugnata, ha anche di recente, in tal senso, appunto, ribadito il proprio “consolidato orientamento”, secondo il quale il parametro del “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” rileva, bensì, per determinare “in astratto … il tetto massimo della misura dell’assegno” (in termini di tendenziale adeguatezza al fine del mantenimento del tenore di vita pregresso), ma, “in con¬creto”, quel parametro concorre, e va poi bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati nello stesso denunciato art. 5.
La sentenza Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 manda in soffitta anche la teoria del “tetto massimo” perché la valutazione dell’an debeatur deve essere effettuata con criteri comple¬tamente diversi da quelli su cui si fonda la valutazione del quantum debeatur.
Secondo quanto di è detto finora, una volta accertato che il coniuge richiedente non ha redditi “adeguati”, cioè non è economicamente indipendente, il giudice deve valutare il quantum dell’im¬porto dell’assegno periodico divorzile. Per valutare però l’indipendenza economica di un coniuge non può essere utilizzato nessuno degli elementi che poi costituiscono i criteri di valutazione dell’entità dell’importo dell’assegno.
Ulteriore conseguenza importante dei principi affermati da Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 è che i criteri di cui parla l’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio, tra i quali scompare quello perequativo, meno inquinati dalla valutazione storicamente effettuata nella fase dell’an debeatur, tornano ad essere criteri di autonoma valutazione dell’importo dell’assegno recuperando le storiche funzioni si sostegno economico nonché compensativa e risar¬citoria dell’assegno.
VII La convivenza more uxorio del coniuge beneficiario dell’assegno divorzile
La legge sul divorzio all’art. 5, comma 10, prevede che “l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze”.
Nulla prevede nel caso in cui il coniuge beneficiario instauri, invece, una convivenza more uxorio con altra persona.
È stata la giurisprudenza ad occuparsi di questo tema con decisioni che mettono in evidenza tre linee di approfondimento molto chiare.
a) In una prima fase la giurisprudenza ha considerato rilevante la convivenza more uxorio dell’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile nella misura in cui a tale convivenza possa essere col¬legata la riduzione dello stato di bisogno del beneficiario dell’assegno.
Il principio affermato è che le prestazioni di assistenza di tipo coniugale da parte del convivente more uxorio quando di fatto escludono, oppure riducono lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiegano rilievo sulla quantificazione dell’assegno divorzile (Cass. civ. Sez. I, 5 giu¬gno 1997, n. 5024; Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 1993, n. 3720).
A causa della stretta connessione tra convivenza more uxorio e miglioramento economico del convivente beneficiario del mantenimento Cass. civ. Sez. I, 10 agosto 2007, n. 17643 aveva precisato che il diritto all’assegno non può essere automaticamente negato per il fatto che il suo titolare abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona, ma tale convivenza può influire sulla misura dell’assegno riducendone l’importo, ove si dia la prova, da parte dell’ex coniu¬ge onerato, che tale convivenza influisce in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto.
Il principio ha continuato a trovare conferme nella giurisprudenza anche recente. Nella misura in cui si provi che la convivenza more uxorio (con persona per esempio benestante) abbia determi¬nato un miglioramento delle condizioni economiche del convivente titolare dell’assegno divorzile è consentito al giudice ridurre l’assegno di mantenimento che grava sull’obbligato (Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 2010, n. 1096; Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2709; Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18593) oppure addirittura azzerarlo se, in connessione con la convivenza more uxorio, è venuto meno del tutto lo stato di bisogno di chi ne godeva (Cass. civ. Sez. I, 2 giugno 2000, n. 7328 che applica il principio all’assegno di separazione.).
In questa prospettiva interpretativa il presupposto principale è certamente la stabilità della con¬vivenza che deve quindi essere non una convivenza occasionale ma di una certa solidità e durata tale da potersi parlare di famiglia di fatto. Altrimenti la stessa condizione di miglior benessere che ne ricava il convivente titolare dell’assegno sarebbe connotata dall’incertezza e dalla precarietà.
b) In una seconda fase la giurisprudenza cominciò a mettere l’accento non tanto sui benefici eventuali che la convivenza può apportare all’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile, quanto sulla convivenza in sé quale causa di eliminazione (di quiescenza) dell’assegno divorzile.
Ciò avvenne alla fine degli anni Novanta. Fece un certo scalpore una decisione della Corte di cas¬sazione, allora del tutto isolata, in una vicenda in cui la moglie, a seguito della separazione, aveva ottenuto un assegno di mantenimento a carico del marito che era stato, poi, revocato dal giudice di merito, sul presupposto che la donna, successivamente alla separazione, aveva intrattenuto una convivenza sia pure non stabile con altro uomo, a seguito della quale era anche nato un figlio.
La Cassazione annullò la sentenza affermando il principio secondo cui, nel caso in cui alla convi¬venza “more uxorio” siano riconnesse conseguenze giuridiche, al fine di distinguere tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, deve tenersi soprattutto conto del carattere di stabilità che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderla rilevan¬te sotto il profilo giuridico, sia per quanto concerne la tutela dei figli minori, sia per quanto riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati. Sulla base di questo principio la Corte chiese al giudice di rinvio di accertare se la donna ed il suo convivente avessero costituito o meno un’affidabile e stabile famiglia di fatto, trascendente la mera esistenza di rapporti sessuali, così da stabilire se questa nuova unione avesse fatto venire meno il presupposto per la percezione dell’assegno di mantenimento dal marito (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3503).
La decisione restò allora isolata, ma era chiaro che stava nascendo un orientamento che faceva leva sulla diffusione del fenomeno della famiglia di fatto.
In questa prospettiva successivamente Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975) che inda¬gando il concetto di “adeguatezza dei mezzi” del coniuge richiedente l’assegno affermava – sia pure con riferimento all’assegno divorzile – che “fra i fattori capaci di incidere su tale nozione di “adeguatezza” è suscettibile di acquisire rilievo anche la eventuale convivenza “more uxorio”, la quale, quando si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto” (caratterizzata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e dei modelli di vita, in essi compresi anche quello economico) fa sì che la valutazione di una tale “adeguatezza” non possa non registrare una tale evoluzione esi¬stenziale, recidendo – finché duri tale convivenza (e ferma rimanendo in questo caso la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé ove “non compensato” all’interno della convi¬venza) – ogni plausibile connessione con il tenore e con il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza coniugale, ed escludendo – con ciò stesso – ogni presupposto per il riconoscimento, in concreto, dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione degli stessi”.
Per la prima volta si dava rilievo molto esplicito alla famiglia di fatto del coniuge beneficiario del diritto al mantenimento, quale elemento che avrebbe potuto “escludere ogni presupposto per il riconoscimento dell’assegno divorzile”. Il fatto di vivere in una nuova famiglia, in altre parole, ta¬glia ogni collegamento con il tenore di vita goduto nel corso del precedente matrimonio venendo meno la plausibilità di mantenere attraverso l’assegno un collegamento con la precedente vita matrimoniale.
Per alcuni anni non vi furono più decisioni significative sul punto o che richiamavano la decisione di cui si è sopra detto.
Nel 2011 giunse all’attenzione dei giudici della Cassazione una vicenda nella quale la Corte d’ap¬pello di Roma, a modifica di quanto aveva stabilito il tribunale di Roma, aveva concesso un as¬segno divorzile ad una donna che aveva in corso da anni una stabile convivenza more uxorio. La Cassazione annullò la decisione (Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195) ribadendo da un lato il principio secondo cui “la mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé direttamente sull’assegno di mantenimento” ma aggiungendo che ove “tale conviven¬za assuma i connotati di stabilità e continuità, tanto che i conviventi instaurino tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio, la mera convivenza si trasforma in una famiglia di fatto. Ciò implica il venir meno del parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, poiché viene a costituirsi una nuova famiglia, benché solo di fatto. Ne conse¬gue la mancanza di ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso”.
I principi di questa importante decisione sono stati ripresi e ribaditi da Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3923 e Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481, Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845, Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 23 ottobre 2017, n. 25074 nella cui motivazione si sostiene che, in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la sperequazione dei mezzi del coniuge economicamente più debole a fronte delle disponibilità eco¬nomiche dell’altro, che avevano caratterizzato il tenore di vita della coppia in costanza di matrimo¬nio, non giustifica la corresponsione di un assegno divorzile a carico del primo, ove questi instauri una convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia di fatto. Si è precisato che in detta ipotesi il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quiescenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza.
La nozione di famiglia di fatto – continuano le sentenze – richiede, tuttavia, al fine di considerare rescissa – sia pure temporaneamente – ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, che i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio). Si richiede, pertanto, un arricchimento e un potenziamento reciproco della personalità dei conviventi, la trasmissione di valori educativi ai figli, per altro ormai quasi del tutto assimilati a quelli legittimi.
In definitiva – concludono i giudici – in base al richiamato orientamento di questa Corte, non è sufficiente l’instaurazione di un rapporto di mera convivenza, essendo necessario, per il fine che qui interessa, che la stessa assuma i caratteri di una vera e propria famiglia di fatto.
c) In una terza fase, più recentemente Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2015, n. 6855 e Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 febbraio 2016, n. 2466 hanno superato anche l’orientamento che parlava di stato di quiescenza dell’assegno divorzile, ed ha affermato perentoriamente la natura definitiva della perdita dell’assegno divorzile sostenendo che l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esisten¬ziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
VIII La questione della decorrenza dell’assegno di divorzio
La giurisprudenza si è trovata a doversi interrogare su come risolvere il problema della decorrenza dell’obbligazione di mantenimento in assenza di una chiara indicazione normativa.
La tesi che è prevalsa per l’assegno di separazione è quella che attribuisce all’assegno una natura in senso lato alimentare e che quindi fa applicazione della regola, dettata in materia di alimenti dall’art. 445 del codice civile, secondo cui “gli alimenti sono dovuti dal giorno della domanda”.
L’acquisizione di una interpretazione unitaria si deve, sia pure indirettamente, a Corte cost. 21 gennaio 2000, n. 17 che ritenne non fondata la questione di costituzionalità dell’art. 2751 n. 4 c.c. nella parte in cui, secondo il giudice che aveva sollevato la questione, attribuirebbe natura privilegiata al solo credito alimentare (cui espressamente la norma si riferisce) ma non a quello di separazione. La Corte ritenne, invece, che “si deve prescindere da considerazioni puramente nominalistiche, per guardare al profilo funzionale” e in questa prospettiva il credito alimentare e quello di mantenimento – pur strutturalmente diversi – assolvono ad una funzione omogenea in senso lato alimentare.
Pertanto – ed è oggi conclusione assolutamente consolidata – al credito di mantenimento vanno riconosciute le stesse caratteristiche giuridiche di quello alimentare e perciò trova applicazione ai crediti di mantenimento l’art. 445 c.c. sulla decorrenza del credito dalla domanda giudiziale (Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2004, n. 23570; Cass. civ. Sez. I, 22 ottobre 2002, n. 14886; Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2000, n. 4558; Cass. civ. Sez. I, 8 gennaio 1994, n. 147) con la precisazione che il principio in questione riguarda l’an debeatur di tale obbligazione; non il quantum che può senz’altro essere liquidato tenendo conto dell’evoluzione verificatasi nella situazione econo¬mica dei coniugi nel corso del giudizio e quindi mediante fissazione di misure e decorrenze differen¬ziate in relazione proprio alle modificazioni intervenute fino alla data della decisione. In mancanza di indicazioni diverse contenute nella sentenza, la decorrenza è senz’altro dalla domanda.
L’orientamento della decorrenza dell’assegno di separazione dalla domanda giudiziale può oggi considerarsi assolutamente consolidato ed è stato, comunque, ribadito recentemente anche sulla base del principio generale per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo neces¬sario per farlo valere in giudizio (Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2013, n. 17199; Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19309).
La soluzione offerta dalla giurisprudenza al tema della decorrenza dell’assegno di separazione a far data dalla domanda non può trovare applicazione in sede divorzile. Infatti la sentenza di divorzio, avendo natura costitutiva, non può che prevedere effetti divorzili solo in seguito al passaggio in giudicato della sentenza.
Il problema non viene solitamente molto avvertito dal momento che quasi sempre il coniuge bene¬ficiario dell’assegno divorzile già gode di un assegno di separazione che viene sostituito dall’asse¬gno divorzile senza soluzioni di continuità. Tuttavia la questione ha certamente rilevanza nei casi in cui non era previsto un assegno di separazione o era previsto in misura diversa da quella divorzile.
Già in alcune risalenti decisioni che avevano affrontato il tema specifico della decorrenza dell’asse¬gno divorzile (Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 1977, n. 2580; Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1980, n. 3710; Cass. civ. 6 gennaio 1983 n. 67) era stato affermato con perentorietà – sia pure pren¬dendo spunto dal convincimento allora prevalente circa la natura composita e non assistenziale (cioè in senso lato alimentare) dell’assegno di mantenimento – che l’assegno di divorzio, per la sua natura composita, ha una disciplina giuridica diversa da quella che regola l’obbligo alimentare, il quale presuppone la permanenza e non la cessazione del vincolo coniugale. Conseguentemente, l’assegno stesso può essere preteso solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza che ha sciolto il vincolo matrimoniale o ne ha fatto cessare gli effetti: esso è esigibile dalla data di annotazione della sentenza, a norma dell’art. 10 della legge 898 del 1970 con decorrenza dal momento del passaggio in giudicato della sentenza.
Interessante in questo contesto anche Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 1987, n. 6016 dove, nella stessa prospettiva, si affermava coerentemente che, ove “nel giudizio di divorzio, la decisione di primo grado sullo scioglimento del matrimonio civile o sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso, non appellata, sia passata in giudicato prima della statuizione definitiva (in appello) sulla attribuzione e sulla quantificazione dell’assegno, la decorrenza di questo risale al momento in cui è passata in giudicato la sentenza di primo grado, che rappresenta il titolo costi¬tutivo della pronuncia di divorzio”.
Era pacifico quindi in giurisprudenza – dopo l’introduzione della legge sul divorzio – che gli effetti della pronuncia di divorzio operassero sempre ex nunc dal momento del passaggio in giudicato della sentenza (Cass. civ. Sez. I, 16 febbraio 1988, n. 1666; Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 1990, n. 475).
Naturalmente ci si riferisce agli effetti (costitutivi) della sentenza di divorzio relativamente al mantenimento divorzile e non al mantenimento dei figli “con la conseguenza che la decorrenza dell’assegno in favore di questi ultimi va fatta sempre risalire alla data della domanda, ovvero alla data dei fatti che ne impongono il riequilibrio, se successivi” (Cass. civ. Sez. I, 29 marzo 1994, n. 3050).
Il quadro normativo si modificò nel 1987 con la riforma operata dalla legge 6 marzo 1987 n. 74 la quale introdusse il principio in base al quale “quando vi sia stata la sentenza non definitiva, il tribunale, emettendo la sentenza che dispone l’obbligo della somministrazione dell’assegno, può disporre che tale obbligo produca effetti fin dal momento della domanda” (art. 4, allora comma 10, della legge sul divorzio come modificata dalla legge 74/87). La ratio di tale norma era molto chiara. Si intendeva evitare che il prolungarsi della causa sulle questioni economiche, ove vi fosse stata una sentenza non definitiva sullo status (anch’essa introdotta con la riforma dell’87), potesse andare a scapito del beneficiario dell’assegno. Il tribunale, in tal caso, avrebbe quindi potuto far decorrere l’assegno divorzile fin dal momento della domanda di divorzio. Il principio non scompa¬ginava l’assetto strutturale della decorrenza dell’assegno dal giudicato di divorzio, ma vi inseriva un temperamento (più che una vera e propria deroga) lasciato alla discrezionalità del tribunale.
La giurisprudenza prendeva atto di questa importante modifica legislativa.
Diverse furono però le linee interpretative che emersero. Alcune decisioni attribuirono al principio portata generale e lo ritennero applicabile dal giudice discrezionalmente sempre. Altre lo consi¬derarono applicabile solo all’ipotesi in cui – come letteralmente la legge indicava – vi era stata la sentenza non definitiva sullo status.
Nella quasi totalità delle sentenze successive alla riforma si affermava che la decorrenza dalla do¬manda era un principio di portata generale che poteva essere sempre applicato dal giudice (Cass. civ. Sez. I, 23 luglio 1990, n. 7458; Cass. civ. Sez. I, 5 novembre 1992, n. 11978; Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1993, n. 6049; Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 1994, n. 8288; Cass. civ. Sez. I, 29 marzo 2006, n. 7117; Cass. civ. Sez. I, 12 luglio 2007, n. 15611; Cass. civ. Sez. I, 30 agosto 2007, n. 18321; Cass. civ. Sez. I, 21 febbraio 2008, n. 4424; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 2009, n. 14214; Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24991; Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2011, n. 1613). Si affermava testualmente che il principio enunciato nell’art. 4, 10° comma l. 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 8, della legge 6 mar¬zo 1987, n. 74, secondo cui il giudice del merito può far decorrere l’assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda, ha una portata generale ed è quindi applica¬bile anche nell’ipotesi in cui lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio era pronunciato nella stessa sentenza con cui si disponeva la condanna di un coniuge a corrispondere all’altro l’assegno di divorzio.
Resta sempre fermo per il giudice l’obbligo di motivare sul perché ha deciso la decorrenza dell’as¬segno divorzile dalla data della domanda giudiziale anziché da quella del passaggio in giudicato della sentenza di divorzio (Cass. civ. Sez. I, 24 settembre 2014, n. 20024) sebbene in qualche risalente decisione, tra quelle sopra indicate (per es. in Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1993, n. 6049). Si era affermato che il tribunale potesse anche non motivare espressamente in punto di determinazione della decorrenza dell’assegno dalla data della domanda. Nelle sentenze successive – soprattutto nelle più recenti – si è invece sempre ritenuto di dover considerare obbligatoria la motivazione sul punto.
Le sentenze in questione ritenevano, inoltre, che non fosse necessaria neanche una specifica do¬manda di parte ma che il giudice potesse sempre disporre discrezionalmente la decorrenza dell’as¬segno dalla data della domanda (su questo aspetto espressamente Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 1995, n. 1331).
Nella stessa linea sostanzialmente anche Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 1995, n. 6737 e Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 2002, n. 4038 le quali, pur aderendo all’orientamento sopra riferito, riten¬nero tuttavia che il tribunale, mentre avrebbe potuto determinare la decorrenza dalla data della domanda, non avrebbe potuto far decorrere l’assegno da momenti intermedi (tra la domanda e la sentenza) “atteso che il conferimento al giudice di un potere discrezionale così ampio ed incisivo non appare giustificato dalla formulazione della norma, né dai relativi lavori preparatori.”. La seconda delle decisioni indicate precisò però “a meno che le parti non provino sopravvenienze rispetto alla data della domanda” finendo per indebolire di fatto la perentorietà del principio affermato.
Nel ribadire i principi sopra ricordati Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 2003, n. 3351 chiariva che nelle ipotesi in cui le condizioni per l’attribuzione dell’assegno siano maturate in un momento successi¬vo al passaggio in giudicato della statuizione attributiva del nuovo “status” la decorrenza di esso non può che essere fissata da tale momento, e che in siffatte ipotesi il giudice è tenuto a motivare adeguatamente la propria decisione al riguardo. Nello stesso senso anche Cass. civ. Sez. I, 16 dicembre 2004, n. 23396 secondo cui “in base all’articolo 4 della legge n. 898 del 1970 il giu¬dice, qualora ne ricorrano le condizioni, può retrodatare la decorrenza dell’assegno di divorzio alla data della domanda, ma non a una data intermedia, tra quella della domanda e il passaggio in giudicato della sentenza, salvo il caso in cui le condizioni per la maturazione del diritto a percepire l’assegno si siano concretizzate dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, posto che in tale ipotesi la decorrenza non potrà che essere fissata dalla maturazione delle dette condizioni, con onere per il giudice, di motivare sul punto”.
Ha precisato riassuntivamente Cass. civ. Sez. I, 21 luglio 2004, n. 13507 che la regola secondo cui pur decorrendo l’assegno dal giudicato di divorzio, il giudice può sempre far decorrere il diritto dalla data della domanda – non potendo un diritto essere pregiudicato dalla durata del processo – attiene solo al profilo dell’an debeatur e non interferisce nel giudizio per la determinazione del quantum dell’assegno stesso, allorché l’evoluzione delle condizioni economiche dei coniugi postuli diverse decorrenze, coincidenti con le date dei mutamenti. La precisazione sulla necessità di tener distinto il profilo dell’an debeatur da quello sul quantum è stata fatta con riferimento alla separa¬zione anche da Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2013, n. 17199.
Pertanto l’unica differenza, quanto al tema della decorrenza, tra assegno di separazione e assegno di divorzio sta nel fatto che la decorrenza dalla data della domanda nel caso di separazione è auto¬matica mentre in caso di divorzio può essere stabilita dal giudice, decorrendo altrimenti l’assegno dal giudicato di divorzio. Questo è l’orientamento che si può dire oggi certamente consolidato.

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI – 1, 5 dicembre 2017, n. 28994 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È conforme alla sentenza n. 11504 del 2017 la pronuncia di riconoscimento dell’assegno divorzile in favore del titolare di un modesto reddito da pensione (Euro 400 mensili) non in grado di procurarsi adeguati mezzi per ragioni oggettive in relazione alla sua età (65 anni).
Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 28 novembre 2017, n. 28326 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice del divorzio, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi: deve verificare, nella fase dell’”an debeatur”, se la domanda dell’ex coniuge richiedente soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di “mezzi adeguati” o, comunque, impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”), non con riguardo ad un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”, ma con esclusivo riferimento all’”indipen¬denza o autosufficienza economica” dello stesso.
App. Milano Sez. V, 16 novembre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Pare giungere al capolinea il divorzio tra un eminente personaggio pubblico e l’ex moglie, la quale godeva di un assegno divorzile di 1,4 milioni di euro mensili. Applicando il nuovo orientamento giurisprudenziale stabilito dalla sentenza della Cassazione 11504/2017, la Corte d’appello di Milano ha affermato che la signora gode di autonomia finanziaria poiché “è titolare, in qualità di socio unico di società immobiliari, di un considerevole patrimonio immobiliare e ha la disponibilità di somme di denaro – considerando solo quelle ricevute a titolo di assegno dopo la separazione – di consistenza tale da poter essere in parte destinate ad investimenti e comunque di entità tale da consentirle un elevato tenore di vita anche negli anni futuri”. Pertanto il denaro ricevuto dall’ex coniuge a titolo di assegno divorzile gli andrà restituito a far data dal deposito della sentenza di scioglimento del matrimonio (massima redazionale)
Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 30 ottobre 2017, n. 25781 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive, è da valutarsi in relazione alla situazione esi¬stente nell’attualità e, in particolare, alla possibilità, per il richiedente, di svolgere un’attività lavorativa adeguata alla sua qualifica, posizione sociale e condizioni personali, d’età e di salute.
Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2017, n. 25327 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione di quello religioso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente, non solo sul piano dello status personale dei coniugi, ormai da considerare “persone singole”, ma, anche, nei loro rapporti economico-patrimoniali ed, in particolare, nel re¬ciproco dovere di assistenza morale e materiale, residuando, solo, una responsabilità economica post coniugale di matrice esclusivamente assistenziale. Se così non fosse, l’eventuale riconoscimento del diritto si risolverebbe in una “locupletazione illegittima, in quanto fondata esclusivamente sul fatto della “mera
Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 23 ottobre 2017, n. 25074 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema della cessazione dell’assegno divorzile in caso di intervenuta convivenza more uxorio da parte dell’ex coniuge beneficiario, la convivenza non dotata di quelle imprescindibili caratteristiche di stabilità e continuità in grado di elevarla ad un modello familiare simile a quello fondato sul matrimonio e come tale in grado di far venire meno il diritto all’ assegno di mantenimento ove adeguatamente motivato è incensurabile in sede di giu¬dizio di legittimità.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 ottobre 2017, n. 23602 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’attribuzione dell’assegno divorzile non può essere giustificata dal divario tra le condizioni reddituali delle parti al momento del divorzio, né dal peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente l’assegno rispetto alla situazione (o al tenore) di vita matrimoniale, a tal fine rilevando unicamente la mancanza della indipendenza o autosufficienza economica del richiedente. Nella fase del giudizio concernente l’an debeatur, invero, il richie¬dente, per il principio di autoresponsabilità economica, è tenuto, quale persona singola, a dimostrare la propria personale condizione di non indipendenza o autosufficienza economica. Alle condizioni reddituali dell’altro co¬niuge (unitamente agli altri elementi, di primario rilievo, indicati dalla norma di cui all’art. 5 della legge n. 898 del 1970), pertanto, può aversi riguardo unicamente nella eventuale fase della quantificazione dell’assegno, alla quale è possibile accedere solo nel caso in cui la fase dell’an debeatur si sia conclusa positivamente per il coniuge richiedente l’attribuzione dell’emolumento.
Trib. Milano Sez. IX, 3 ottobre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla luce della complessiva valutazione di tutti gli indici indicati dalla Suprema Corte nella sentenza del 10 maggio 2017, n. 11504, l’assegno divorzile deve comunque essere riconosciuto nelle ipotesi in cui la moglie, all’esito delle risultanze del giudizio, non possa ritenersi economicamente indipendente. (Nel caso di specie il Tribunale riteneva insussistente l’indipendenza economica della moglie in ragione della mancanza di un reddito da la¬voro certo e stabile su cui fare affidamento e della ragionevole impossibilità oggettiva, data l’età, di poterselo procurare).
Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 29 agosto 2017, n. 20525 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto all’assegno di divorzio, di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, è condizionato dal suo previo riconoscimento in base ad una verifica giudiziale che si articola ne¬cessariamente in due fasi, tra loro nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del diritto): una prima fase, concernente l’an debeatur, informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali persone singole ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il quantum debeatur, improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso.
Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice richiesto della revisione dell’assegno divorzile che incida sulla stessa spettanza del relativo diritto (pre-cedentemente riconosciuto), in ragione della sopravvenienza di giustificati motivi dopo la sentenza che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, deve verificare se tali motivi giusti¬fichino, o meno, la negazione del diritto all’assegno a causa della sopraggiunta “indipendenza o autosufficienza economica” dell’ex coniuge beneficiario, desunta dai seguenti “indici”: possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri “lato sensu” imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), stabile disponibilità di una casa di abitazione, nonché eventualmente altri – rilevanti nelle singole fattispecie – senza, invece, tener conto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; il tutto sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzio¬ni e prove offerte dall’ex coniuge obbligato, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’ex coniuge beneficiario.
Trib. Venezia Ordinanza, 24 maggio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di assegno divorzile, il parametro relativo al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio è irrilevante per la concessione dell’assegno divorzile, essendo piuttosto rilevanti altri indici, quali il “possesso” di redditi e di patrimonio mobiliare e immobiliare, le “capacità e possibilità effettive” di lavoro personale e “la stabile disponi¬bilità” di un’abitazione.
Trib. Milano Sez. IX Ordinanza, 22 maggio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di determinazione dell’ assegno divorzile il presupposto per riconoscere l’ assegno di divorzio non è il raffronto con il pregresso tenore di vita bensì il riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica del richiedente, che può essere desunta dai principali “indici” del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione.
Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presup¬pone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’ assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una con¬sistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’ assegno di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’applicazione dell’art. 5, comma 6°, della L. n. 898/1970, come sostituito dall’art. 10 della L. n. 74/1987, il parametro di riferimento cui rapportare il giudizio sull’«adeguatezza-inadeguatezza» dei mezzi dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio e sulla possibilità-impossibilità per ragioni oggettive dello stesso di procurarseli va individuato non più nel «tenore di vita avuto in costanza di matrimonio», ma nel raggiungi¬mento dell’«indipendenza economica» del richiedente, desunta dai principali «indici» – salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie – del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione: se è accer¬tato che il richiedente è economicamente indipendente o è effettivamente in grado di esserlo non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.
Il diritto all’assegno di divorzio è eventualmente riconosciuto all’ex coniuge richiedente, nella fase dell’an debea¬tur, esclusivamente come “persona singola” e non già come (ancora) “parte” di un rapporto matrimoniale ormai estinto anche sul piano economico-patrimoniale, avendo il legislatore della riforma del 1987 informato la disci¬plina dell’assegno di divorzio, sia pure per implicito ma in modo inequivoco, al principio di “autoresponsabilità” economica degli ex coniugi dopo la pronuncia di divorzio.
In particolare, mentre il possesso di redditi e di cespiti patrimoniali formerà normalmente oggetto di prove documentali – salva comunque, in caso di contestazione, la facoltà del giudice di disporre al riguardo indagini officiose, con l’eventuale ausilio della polizia tributaria ( L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9) -, soprattutto “le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale” formeranno oggetto di prova che può essere data con ogni mezzo idoneo, anche di natura presuntiva, fermo restando l’onere del richiedente l’assegno di allegare specifica¬mente (e provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell’indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative.
Il diritto all’assegno di divorzio, di cui all’art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 10 della l. n. 74 del 1987, è condizionato dal suo previo riconoscimento in base ad una verifica giudiziale che si articola necessariamente in due fasi, tra loro nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del diritto): una prima fase, concernente l’”an debeatur”, informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali “persone singole” ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al rico¬noscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il “quantum debeatur”, improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso.
I principali “indici” – salvo ovviamente altri elementi, che potranno eventualmente rilevare nelle singole fatti¬specie – per accertare, nella fase di giudizio sull’an debeatur, la sussistenza, o no, dell’indipendenza economica” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio – e, quindi, l’adeguatezza”, o no, dei “mezzi”, nonché la possi¬bilità, o no “per ragioni oggettive”, dello stesso di procurarseli possono essere così individuati nel possesso di redditi di qualsiasi specie; nel possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza (“dimora abituale”: art. 43 c.c. , comma 2) della persona che richiede l’assegno; nelle capacità e nelle possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; nella stabile disponibilità di una casa di abitazione.
Il giudice del divorzio, richiesto dell’assegno di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi e dell’ordine progressivo tra le stesse stabilito da tale norma: a) deve verificare, nella fase dell’an debeatur – informata al principio dell’au¬toresponsabilità economica di ciascuno degli ex coniugi quali “persone singole”, ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o no, del diritto all’assegno di divorzio fatto valere dall’ex coniuge richiedente – se la domanda di quest’ultimo soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di “mezzi adeguati” o, comunque, impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”), con esclusivo riferimento all’ “indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso, desunta dai principali “indici” – salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie – del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed im¬mobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge; b) deve “tener conto”, nella fase del quantum debeatur – informata al principio della “solidarietà economica” dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro in quanto “persona” economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), il cui oggetto è costituito esclusivamente dalla determinazione dell’assegno, ed alla quale può accedersi soltanto all’esito positivo della prima fase, conclusasi con il riconoscimento del diritto -, di tutti gli elementi indicati dalla norma (“condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi”), e “valutare” “tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”, al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno di divorzio; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova (art. 2697 cod. civ.).
Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2953 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 9 della l. n. 898 del 1970 (così come modificato dall’art. 2 della l. n. 436 del 1978 e dall’art. 13 della l. n. 74 del 1987), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile. Pertanto, nel caso di mancata attribuzione dell’assegno divorzile, in sede di giudizio di divorzio per rigetto o per mancanza della relativa domanda, la determinazione dello stesso può avvenire solo in caso di sopravvenienza di fatti nuovi concernenti le condizioni o il reddito di uno dei coniugi.
Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26188 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza stabile e duratura “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla de¬libazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, e deve essere opposta, a pena di decadenza, solo con la comparsa di costituzione e risposta e non anche con la memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. o nel giudizio di legittimità, così rispettandosi l’autono¬mia del coniuge convenuto, libero di proporre o meno l’eccezione, e ponendosi altresì un limite alla valutazione, altrimenti troppo incisiva, del giudice, rendendola opportunamente scevra da ogni forma di paternalismo. Né tale interpretazione configura un’ipotesi di cd. “ overruling” tale da giustificare la rimessione in termini della parte che aveva fatto affidamento su di un diverso orientamento giurisprudenziale tutt’altro che consolidato.
Cons. Stato Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 4396 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dichiarazione di illegittimità costituzionale determina la invalidità originaria della legge, sia essa di natura so¬stanziale, procedimentale o processuale, per contrasto con un precetto costituzionale, sicché essa elimina la nor¬ma con effetto ex tunc, con la conseguenza che essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione della decisione (fermo restando il principio che gli effetti dell’incostituzionalità non si estendono ai diritti quesiti e ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consoli¬damento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità).
T.A.R. Abruzzo Pescara Sez. I, 10 agosto 2016, n. 291 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato è insensibile ai mutamenti legislativi e giurisprudenziali sopravvenuti (e quindi anche alle presunte ipotesi di cd. overruling)
Cass. civ. Sez. VI, 27 luglio 2016, n. 15530 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In linea generale e, dunque, anche in materia tributaria, affinché si possa parlare di “prospective overrulling”, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giuri¬sprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del precedente indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte ad un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.
Cons. Stato Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1458 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che essa possa esser applicata ai rapporti, in relazione ai quali la norma dichiarata incostituzionale risulti anche rilevante, stante l’effetto retroattivo dell’an¬nullamento escluso solo per i cd. rapporti esauriti (art. 136 Cost.)
Cass. civ. Sez. II, 11 marzo 2016, n. 4826 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di sanzioni amministrative per abuso di informazioni privilegiate, l’annullamento della delibera adottata dalla CONSOB contenente il regolamento sul procedimento sanzionatorio, ove successivo alla proposizione del ri¬corso per cassazione avverso la sentenza di rigetto dell’opposizione ex art. 187-septies TUF, non consente alcuna rimessione in termini per la proponibilità di motivi aggiunti fondati su tale annullamento giacché, non investendo esso una norma processuale, né precludendo l’esercizio del diritto di azione o di difesa, non risultano applicabili i principi elaborati in materia di “overruling”.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 febbraio 2016, n. 3488 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato copre il dedotto e il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e, pertanto, non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio ma anche tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o ec¬cezione, che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 febbraio 2016, n. 2466 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’instaurazione da parte del coniugo divorziato di una nuova famiglia, ancorchè di fatto, rescindendo ogni con¬nessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicchè il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dall’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consape¬vole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Cass. civ. Sez. I, 1 febbraio 2016, n. 1863 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La richiesta di corresponsione dell’assegno periodico di divorzio costituisce una domanda connessa ma autonoma rispetto alla domanda di scioglimento del matrimonio per cui la parte che nel corso del giudizio divorzile non l’abbia ritualmente proposta, può esperirla successivamente, senza che a ciò sia di ostacolo l’intervenuta pronuncia di scioglimento del vincolo di coniugio e ciò in applicazione del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile con esclusivo riferimento alla domanda fatta valere in concreto, ma non anche relativamente ad una richiesta diversa nel petitum e nella stessa causa petendi che la parte ha facoltà di introdurre, o meno, nello stesso giudizio.
Cass. civ. Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 223 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In sede di divorzio, ai fini della determinazione del relativo assegno, deve tenersi conto dell’intera consistenza patrimoniale di ciascuno dei coniugi e, conseguentemente, di qualsiasi utilità suscettibile di valutazione econo¬mica, compreso l’uso di una casa di abitazione, determinante un risparmio di spesa, salvo che l’immobile sia occupato in via di mero fatto, trattandosi, in tale ultima ipotesi, di una situazione precaria ed essendo le diffi¬coltà di liberazione, da parte del proprietario, un aspetto estraneo alla ponderazione delle rispettive posizioni patrimoniali e reddituali.
Cass. civ. Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 214 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In ordine alla domanda concernente la revisione del contributo al mantenimento dei figli minori, proposta ex art. 9 della legge n. 898 del 1970, il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presup¬posti o dell’entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti, ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell’attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in quale misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto e ad adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale.
Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, non ha rilevanza preclusiva l’errore della parte che, con-venuta in un giudizio di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità matrimoniale, abbia tardiva¬mente eccepito, quale situazione ostativa alla delibazione, la convivenza di lunga durata “come coniugi”, facendo affidamento su una giurisprudenza di legittimità, consolidata al momento della sua tempestiva costituzione ma poi travolta da un mutamento interpretativo (dovuto alla sentenza n. 16379 del 2014 delle Sezioni Unite che, innovando quella giurisprudenza, hanno qualificato detta eccezione come in senso stretto), che riteneva il rela¬tivo fatto rilevabile d’ufficio, dovendo altresì individuarsi nella rimessione in termini lo strumento per ovviare a quell’errore.
Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2015, n. 22008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le preclusioni e le decadenze derivanti da un imprevedibile mutamento di giurisprudenza, sopraggiunto in modo inopinato e repentino, operano solo per il futuro, a partire da quando esso diventi oggettivamente conoscibi¬le. I principi del giusto processo, volti ad assicurare l’effettività dei mezzi di azione e difesa, tutelano infatti, attraverso l’istituto del prospective overruling, la parte che abbia confidato incolpevolmente su un precedente consolidato orientamento (Nel caso di specie, muovendo dal presupposto che l’impugnante si era conformato all’insegnamento al tempo impartito dalla giurisprudenza di legittimità e che solo in un momento successivo tale insegnamento era imprevedibilmente cambiato, la Corte ha pertanto disatteso, pur ritenendola fondata alla luce della nuova giurisprudenza, l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione contro una declinatoria di competenza in favore degli arbitri proposta nelle forme dell’appello anziché in quelle del regolamento necessario di competenza).
Cass. civ. Sez. VI, 23 ottobre 2015, n. 21670 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento del matrimonio, l’ipotetica ed astratta possibilità lavorativa o di impiego, da parte del coniuge beneficiario, non incide sulla determinazione dell’assegno di divorzio, salvo che il coniuge onerato non fornisca la prova che il beneficiario abbia l’effettiva e concreta possibilità di esercitare un’attività lavorativa con¬facente alle proprie attitudini.
Cass. civ. Sez. VI, 23 ottobre 2015, n. 21669 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Uno dei presupposti legittimante l’attribuzione dell’assegno divorzile, di cui all’art. 5, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, è la mancanza da parte dell’ex coniuge richiedente, di mezzi adeguati per consentirgli la prose¬cuzione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e l’impossibilità oggettiva di procurarseli.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11870 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’accertamento del diritto all’assegno divorzile si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice verifica l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, mentre nella seconda procede alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno, che va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tali elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio. Nell’ambito di questo duplice accertamento assumono rilievo, sotto il profilo dell’onere probatorio, le risorse reddituali e patrimoniali di ciascuno dei coniugi, quelle effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e familiari, nonché le rispettive potenzialità economiche. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che ha negato il diritto all’assegno alla richiedente, non avendo questa fornito alcuna prova dell’oggettiva impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per conseguire un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio).
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2015, n. 6855 (Famiglia e Diritto, 2015, 6, 553 nota di FERRANDO)
L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connes¬sione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire de¬finitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua soli¬darietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Corte cost. 11 febbraio 2015, n. 11 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 6, della legge sul Divorzio (legge n. 898 del 1970), come modificato dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., attesa l’erronea interpretazione della norma denunciata da parte del giudice rimettente. Ed infatti, l’esistenza, presupposta dal rimettente, di un “diritto vivente” secondo cui l’assegno divorzile ex art. 5, comma 6, della citata legge n. 898 del 1970 “deve necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” non trova riscontro nella giurisprudenza del giudice della nomofilachia, secondo cui, viceversa, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile. All’uopo, di recente, la Suprema Corte ha ribadito che il parametro del “teno¬re di vita goduto in costanza di matrimonio” rileva per determinare “in astratto…il tetto massimo della misura dell’assegno”, ma tale parametro concorre e deve essere bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati nello stesso denunciato art. 5, quali condizione e reddito dei coniugi, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune, durata del matrimonio, ragioni della decisione.
Cass. civ. Sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 1264 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno divorzile compete al coniuge che sia privo di mezzi, tali da potergli permettere il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello tenuto durante la vita matrimoniale. Inoltre, l’art. 4, comma 13, L. n. 898 del 1970, nel consentire la decorrenza del predetto assegno dalla domanda, conferisce al giudice un potere discrezionale.
Cass. civ. Sez. VI, 9 gennaio 2015, n. 174 (Nuova Giur. Civ., 2015, 6, 501 nota di MOLINARO)
I precedenti della Corte di Cassazione sulla necessità di tutelare la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della stessa Corte, successivamente travolta dall’ overruling, hanno riguardato esclusivamente gli effetti processuali di un mutamento giurisprudenziale e non quelli di natura sostanziale, introducendo, dunque, un principio innovatore a tutela dell’affidamento delle parti nella stabilità delle regole del processo. Pertanto, affinché si possa parlare di prospective overruling , devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.
Cass. civ. Sez. VI, 13 ottobre 2014, n. 21597 (Famiglia e Diritto, 2014, 12, 1136)
L’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, mentre gli altri parametri indicati dall’art. 5 della legge sul divorzio – tra cui la durata del matrimonio – attengono alla determi¬nazione in concreto dell’assegno divorzile.
Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21112 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella determinazione dell’assegno divorzile, occorre tenere conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chieda l’assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio, mentre non possono essere valutate le migliorie che scaturiscano da eventi autonomi, non collegati alla situazione di fatto ed alle aspettative maturate nel corso del rapporto ed aventi carattere di eccezionalità, in quanto connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali ed imprevedibili.
Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19529 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di assegno divorzile, mentre il diritto del coniuge deve essere accertato verificando la disponibilità da parte del richiedente di mezzi economici adeguati a consentirgli il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, la liquidazione dell’importo dovuto, una volta riconosciuto il relativo diritto per non essere il coniuge richiedente in grado di mantenere con i propri mezzi detto tenore di vita, deve essere compiuta valutando in concreto, anche in rapporto alla durata del matrimonio, le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, il reddito di entrambi.
Cass. civ. Sez. I, 24 settembre 2014, n. 20024 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice che si avvale della previsione di cui all’art. 4, tredicesimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, fissando la decorrenza dell’assegno divorzile dalla data della domanda giudiziale anziché da quella del passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, esercita un potere discrezionale per il quale è necessaria un’adeguata motivazione.
Cass. civ. Sez. VI, 20 giugno 2014, n. 14143 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di revisione dell’assegno divorzile, il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazio¬ne dei presupposti o della entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti, ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell’attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in che misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto ed ad adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale.
Cass. civ. Sez. Unite, 16 giugno 2014, n. 13676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il termine decadenziale per la presentazione delle istanze di rimborso delle imposte sui redditi, ex art. 38, commi 1 e 2, del D.P.R. n. 602/1973, decorre dalla data di versamento delle somme di cui si chiede la ripetizione e non dalla data di pubblicazione della sentenza della Corte di Giustizia Europea che crea il presupposto da cui scatu¬risce il riconoscimento del diritto al rimborso. Non puo, a tal fine, invocarsi l’istituto dell’overruling che attiene all’improvviso mutamento di una regola processuale prima consolidata in giurisprudenza e che riguarda il caso in cui tale mutamento si rivolge in danno (e non a vantaggio) della parte che aveva incolpevolmente confidato nel precedente indirizzo.
Cass. civ. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 13026 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione personale dei coniugi, ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento oc¬corre tener conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chiede l’assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta nel corso della vita matrimonia¬le. Ciò in ragione dell’aspettativa, durata per tutto il tempo del matrimonio, di una futura acquisizione di reddito. Infatti, ai fini della quantificazione dell’assegno de qua, il tenore di vita al quale va rapportato il giudizio di ade¬guatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente è proprio quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi durante la vita matrimoniale, quale elemento condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del richiedente.
Cass. civ. Sez. VI, 6 giugno 2014, n. 12781 (Famiglia e Diritto, 2015, 7, 685 nota di GRAZZINI)
I “giustificati motivi”, la cui sopravvenienza consente di rivedere le determinazioni adottate in sede di separazio¬ne dei coniugi, sono ravvisabili nei fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale la sentenza era stata emessa o gli accordi erano stati stipulati.
L’accordo di separazione consensuale fra coniugi il quale preveda che il marito non dovrà versare alcun contribu¬to di mantenimento alla moglie a partire da una certa data “essendo la stessa economicamente autosufficiente”, deve essere interpretato alla luce del suo tenore testuale, e valutato, ai fini del procedimento ex art. 710 c.p.c., con riferimento alla mancata allegazione di fatti nuovi rispetto alla situazione economica delle parti al momento della separazione stessa. Pertanto, poiché a quell’epoca la moglie non svolgeva attività lavorativa in quanto casa¬linga, non è apprezzabile quale fatto nuovo, idoneo a dare luogo alla corresponsione dell’assegno, la dimissione dell’attività lavorativa reperita successivamente alla omologazione della separazione.
Cass. civ. Sez. VI, 27 maggio 2014, n. 11797 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I beni acquisiti per successione ereditaria dopo la separazione, ancorchè non incidenti sul tenore di vita matri¬moniale, possono tuttavia essere presi in considerazione ai fini della valutazione della capacità economica del coniuge richiedente.
L’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando la inadeguatezza dei mezzi del richie¬dente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presu¬mibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. A tal fine, il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali e nella determinazione dell’assegno divorzile possono essere presi in considerazio¬ne ai fini della valutazione della capacità economica dell’onerato, i beni acquisiti per successione ereditaria dopo la separazione, ancorché non incidenti sulla valutazione del tenore di vita matrimoniale, perché intervenuta dopo la cessazione della convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7984 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’accertamento della capacità economica dell’obbligato, in sede di determinazione dell’assegno divorzile, il giudi¬ce del merito non può limitarsi a prendere in considerazione gli introiti collegati allo svolgimento di attività lavorati¬va o imprenditoriale o quelli derivanti dal godimento di trattamenti pensionistici o assistenziali, ma deve estendere la propria indagine all’eventuale titolarità di beni patrimoniali ed attività finanziarie, la cui disponibilità assume rilievo non solo sotto il profilo statico, per l’immobilizzazione di capitali che tali forme di investimento comportano, ma anche sotto il profilo dinamico, per le potenzialità economiche di cui costituiscono indice l’acquisto e la vendita, oltre che per il godimento di redditi diversi da quelli retributivi o pensionistici testimoniato dal loro possesso.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 (Foro It., 2014, 6, 1, 1768)
La sospensione della prescrizione tra coniugi di cui all’art. 2941, n. 1, cod. civ. non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla “ratio legis”, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudi¬ziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 cod. civ. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione.
Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2014, n. 6562 (Foro It., 2014, 5, 1, 1496)
Posto che l’assegno divorzile compete al coniuge che non disponga di mezzi adeguati per conservare il tenore di vita goduto in costanza della convivenza matrimoniale e non possa procurarseli per ragioni obiettive, l’accertamento della capacità lavorativa del richiedente, pur attualmente privo di redditi, va condotto non ipoteticamente ed in astratto, ma in termini effettivi e concreti (nella specie, la sentenza di merito, con motivazione ritenuta congrua dalla Suprema corte, ha rilevato che la richiedente, senza redditi propri, ormai cinquantenne, senza una specifica professionalità, non aveva una reale capacità lavorativa, con conseguente obiettiva difficoltà di repe¬rimento di un lavoro, tenuto anche conto della grave crisi economica; nondimeno, la suddetta sentenza è stata cassata, limitatamente alla quantificazione dell’assegno divorzile, perché non congruamente motivata).
Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5132 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella determinazione dell’assegno divorzile, occorre tenere conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chieda l’assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio, mentre non possono essere valutate le migliorie che scaturiscano da eventi autonomi, non collegati alla situazione di fatto e alle aspettative maturate nel corso del rapporto ed aven¬ti carattere di eccezionalità, in quanto connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali ed imprevedibili, quali, ad esempio, le partecipazioni in società, costituite in costanza di matrimonio ma divenute attive dopo la cessazione della convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 5 febbraio 2014 n. 2546 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di scioglimento del matrimonio e nella disciplina dettata dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 10, l’accer¬tamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procu¬rarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadegua¬tezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno. Nella seconda fase, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5, che quindi agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, e possono in ipotesi estreme valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione (v., ex plurimis, Cass., sentt. n. 15611 del 2007, n. 18241 del 2006).
Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 2013, n. 26491 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno periodico di divorzio ha carattere esclusivamente assistenziale, giacché la sua attribuzione trova pre¬supposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, com¬prensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo quello tenuto in costanza di matrimonio. Non è, dunque, richiesto uno stato di bisogno, rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche che devono essere tendenzialmente ripristinate. A fronte della sussistenza di tale presupposto, la liquidazione dell’assegno deve essere effettuata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri normativi.
Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In questa sede di legittimità è stato anche di recente reiteratamente ed argomentatamente ribadito (cfr cass. n. 17195 del 2011; n. 3923 del 2012) il risalente principio (cfr tra le altre, cass. nn. 5560 e 11975 del 2003; nn. 3074 e 4765 del 2002) secondo cui in tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessa¬zione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di que¬sti, di una famiglia, ancorché di fatto, la quale rescinde, quand’anche non definitivamente, ogni connessione con il livello ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile.
Cass. Civ. Sez. I, 28 ottobre 2013, n. 24252 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento del matrimonio, nella disciplina dettata dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970, come modificato dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987, l’accertamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitati¬va delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della mi¬sura dell’assegno. Nella seconda fase, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5, che quindi agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione.
Cass. civ. Sez. I, 21 ottobre 2013, n. 23797 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
a) l’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando ‘inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe pre-sumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. A tal fine, il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali, laddove anche l’assetto economico relativo alla separazione può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi al tenore di vita goduto durante il matrimonio e alle condizioni economiche dei coniugi (cfr tra le numerose altre cass. n. 4617 del 1998 e da ultimo cass n. 11686 del 2013);
b) in tema di determinazione dell’assegno di divorzio, deve escludersi la necessità di una puntuale considerazio¬ne, da parte del giudice che dia adeguata giustificazione della propria decisione di tutti, contemporaneamente, i parametri di riferimento indicati dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6, (nel testo modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 10), potendo valorizzare quello basato sulle condizioni economiche delle parti, in particolare apprezzando la deteriore situazione del coniuge avente diritto dall’assegno (cfr tra le altre, cass. n. 9876 del 2006; n. 7601 del 2011);
c) ai fini della quantificazione dell’assegno di divorzio a favore dell’ex coniuge – che è il risultato di un apprez¬zamento discrezionale del giudice di merito incensurabile in cassazione, ove immune da vizi di motivazione – i redditi dei coniugi non devono essere accertati nel loro esatto ammontare, essendo sufficiente un’attendibile ricostruzione delle rispettive posizioni patrimoniali complessive, dal rapporto delle quali risulti l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio (cfr tra le altre, cass. n. 8057 del 1996).
Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19309 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi, i provvedimenti adottati in sede presidenziale, a norma dell’art. 708 cod. proc. civ. hanno carattere interinale, sicché la sentenza può integrare, con effetto “ex tunc” decorrente dalla domanda, l’importo dell’assegno di mantenimento stabilito in quella sede provvisoria.
Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17618 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di divorzio, in relazione alle statuizioni di carattere patrimoniale in essa contenute, passa in cosa giudicata “rebus sic stantibus”; tuttavia, la sopravvenienza di fatti nuovi, successivi alla sentenza di divorzio, non è di per sé idonea ad incidere direttamente ed immediatamente sulle statuizioni di ordine economico da essa recate e a determinarne automaticamente la modifica, essendo al contrario necessario che i “giustificati motivi” sopravvenuti siano esaminati, ai sensi dell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, e succ. modif., dal giudice di tale norma previsto, e che questi, valutati detti fatti, rimodelli, in relazione alla nuova situazione, ricorrendone le condizioni di legge, le precedenti statuizioni. Da tanto consegue che l’ex coniuge, tenuto, in forza della sentenza di divorzio, alla somministrazione periodica dell’assegno divorzile, il quale abbia ricevuto la noti¬fica di atto di precetto con l’intimazione di adempiere l’obbligo risultante dalla predetta sentenza, non può – in assenza di revisione, ai sensi del citato art. 9 della legge n. 898 del 1970, delle disposizioni concernenti la misura dell’assegno di divorzio da corrispondere all’ex coniuge – dedurre la sopravvenienza del fatto nuovo, in ipotesi suscettibile di determinare la modifica dell’originaria statuizione contenuta nella sentenza di divorzio, nel giudizio di opposizione a precetto, essendo del pari da escludere che il giudice di questa opposizione debba rimettere la causa al giudice competente ex art. 9 della legge n. 898 del 1970.
Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2013, n. 17199 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento a favore del coniuge, fissato in sede di separazione personale, decorre dalla data della relativa domanda, in applicazione del principio per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio. Tale principio attiene soltanto al profilo dell’”an debeatur” della domanda, e non interferisce, pertanto, sull’esigenza di determinare il “quantum” dell’assegno alla stregua dell’evoluzione intervenuta in corso di giudizio nelle condizioni economiche dei coniugi, né sulla legittimità della determinazione di misure e decorrenze differenziate, in relazione alle modificazioni intervenute fino alla data della decisione.
Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16824 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato non si estende ad ogni proposizione contenuta in una sentenza con carattere di semplice afferma¬zione incidentale, atteso che per aversi giudicato implicito è necessario che tra la questione decisa in modo espresso e quella che si vuole tacitamente risolta sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, e dunque che l’accertamento contenuto nella motivazione della sentenza attenga a questioni che ne costituiscono necessaria premessa ovvero presupposto logico indefettibile.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’in¬dividuo (v., in tal senso, Cass., sent. n. 4184 del 2012). Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Siffatto percorso è stato in qualche misura indicato, e sollecitato, dalla giurisprudenza costituzionale. Analoghe considerazioni sono alla base delle pronunce della Cassazione che hanno, tra l’altro, attribuito rilievo, ai fini della cessazione (rectius: quiescenza) del diritto all’assegno di man¬tenimento o divorzile, ovvero ai fini della determinazione del relativo importo, alla instaurazione, da parte del coniuge (o ex coniuge) beneficiario dello stesso, di una famiglia, ancorché di fatto (v. sentt. n. 3923 del 2012, n. 17195 del 2011).
Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2013, n. 3398 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La valutazione della spettanza dell’assegno divorzile deve essere incentrata su un criterio assistenziale che non soffre limitazioni temporali, in quanto l’obbligo di solidarietà post-coniugale non viene meno per il mero decorso del tempo ovvero sulla base della considerazione dell’intervallo temporale (nella specie vent’anni) intercorso tra la separazione e la domanda di divorzio, ancorché tra le parti non vi sia stato alcun rapporto neanche di natura economica.
Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 2012, n. 8862 (Foro It. 2012, I, 2037)
In tema di assegno di mantenimento, una volta accertata la sussistenza di un elevato tenore di vita in costanza di matrimonio, il giudice di merito, chiamato a valutare l’inadeguatezza dei redditi del richiedente, non può limitarsi a considerare il mero dato dello svolgimento, da parte di quest’ultimo, di un’attività lavorativa, ma deve esaminare se i suoi mezzi economici gli consentano di mantenere il tenore di vita precedente.
Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3923 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la sperequazione dei mezzi del coniuge economicamente più debole a fronte delle disponibilità economiche dell’altro, che avevano caratterizzato il tenore di vita della coppia in costanza di matrimonio, non giustifica la corresponsione di un assegno divorzile a carico del primo, ove questi instauri una convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia di fatto. In detta ipotesi il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quie¬scenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 30033 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È ammissibile la richiesta di assegno di divorzio nel procedimento per la modifica delle relative condizioni, ove esso non sia stato precedentemente chiesto, purché si dia conto di circostanze sopravvenute, rispetto alle statuizioni del divorzio operanti “rebus sic stantibus”.
Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195 (Famiglia e Diritto, 2012, 1, 25, nota di FIGONE)
La mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé direttamente sull’assegno di mantenimen¬to. Qualora, tuttavia, tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, tanto che i conviventi instaurino tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio, la mera convivenza si trasforma in una famiglia di fatto. Ciò implica il venir meno del parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, poiché viene a costituirsi una nuova famiglia, benché solo di fatto. Ne consegue la mancanza di ogni presupposto per la rico¬noscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso.
Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2011, n. 15144 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il fenomeno del cd. overruling ricorre (soltanto) quando si registra una svolta inopinata e repentina rispetto ad un precedente diritto vivente consolidato che si risolve in una compromissione del diritto di azione e di difesa di una parte. Elementi costitutivi sono quindi: l’avere a oggetto una norma processuale, il rappresentare un mutamento imprevedibile, il determinare un effetto preclusivo del diritto di azione o difesa. In questi casi, trova diretta applicazione il valore del Giusto processo attraverso l’esclusione dell’operatività della preclusione deri¬vante dall’overruling nei confronti della parte che abbia confidato nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa. Per essa, insomma, la tempestività dell’atto va valutata con riferimento alla giurisprudenza vigente al momento dell’atto stesso. Trattasi di soluzione confortata dall’esigenza di non alterare il parallelismo tra legge retroattiva e interpretazione giurisprudenziale retroattiva, per il profilo dei limiti, alla retroagibilità della regola, imposti dal principio di ragionevolezza. Ciò che non è consentito alla legge non può similmente essere consentito alla giurisprudenza.
Cass. civ. Sez. I, 9 maggio 2011, n. 10077 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di revisione dell’assegno di divorzio, ai fini dell’adeguamento del predetto alla rivalutazione monetaria è ammissibile la domanda riconvenzionale, che sia introdotta dal coniuge convenuto, ai fini della ri¬duzione dell’assegno stesso, poiché si tratta di pretesa strettamente collegata con quelle oggetto della domanda principale, implicante l’opportunità di un “simultaneus processus”; si tratta invero, pur se nel rito camerale, di un giudizio contenzioso, nel quale il giudice ha il dovere di pronunciarsi sulle domande ritualmente proposte, avendo tra l’altro la possibilità, nell’ambito di una loro trattazione congiunta, di valutare la complessiva situazio¬ne determinatasi e così se si siano verificate circostanze tali da giustificare la modifica di una decisione assunta “rebus sic stantibus”.
Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2011, n. 1613 (Giur. It., 2011, 11, 2285)
In tema di assegno divorzile, l’art. 4, comma 13, della legge n. 898/1970, nel consentire che la decorrenza dell’obbligo della sua somministrazione produca effetto fin dal momento della domanda giudiziale, si limita a conferire al giudice un potere discrezionale, che rappresenta un temperamento rispetto al principio generale secondo cui l’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile decorre dal passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, e come tale, benché possa essere esercitato anche in mancanza di una precisa richiesta, richiede una apposita ed adeguata motivazione che possa giustificare la deroga del predetto principio.
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24996 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 4, comma primo, della legge n. 54 del 2006 stabilisce che nel caso in cui la sentenza di separazione giu¬diziale sia già stata emessa al momento della entrata in vigore della stessa legge, ciascuno dei coniugi possa richiedere, nei modi previsti dall’art. 710 cod. proc. civ., l’applicazione delle nuove disposizioni della citata legge n. 54 del 2006, riconducendo l’innovato regime nell’ambito delle sopravvenienze valutabili; ne discende che, in virtù di una interpretazione costituzionalmente orientata ai sensi degli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost., tale nuovo regime giuridico sostanziale deve ritenersi applicabile anche nei giudizi di separazione personale ancora in corso.
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24991 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di divorzio decorre dal passaggio in giudicato della statuizione di risoluzione del vincolo coniugale. L’art. 4, comma decimo, della legge n. 898 del 1970 ha, tuttavia, introdotto un temperamento conferendo al Giudice il potere di disporre, in relazione alle circostanze del caso concreto, ed anche in assenza di specifica richiesta, la decorrenza dell’assegno in considerazione dalla data della domanda di divorzio, imponendo in circo¬stanze siffatte idonea motivazione giudiziale.
Cass. civ. Sez. I Sent., 22 gennaio 2010, n. 1096 (Fam. Pers. Succ., 2010, 11, 754, nota di ACHILLE)
La nascita di un figlio da un altro compagno e la convivenza con quest’ultimo, non escludono, se la fase di di¬vorzio è ancora aperta, il diritto della ex moglie ad ottenere l’assegno di mantenimento. In sede di revisione possono prendersi in considerazione solo le circostanze sopravvenute e nel caso di specie non possono conside¬rarsi tali né la relazione extraconiugale né la nascita di una figlia dal nuovo compagno in quanto fatti precedenti la pronuncia di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 2009, n. 14214 (Famiglia e Diritto, 2010, 1, 9, nota di DOMINICI)
In tema di determinazione dell’assegno divorzile, ove il giudice di merito non ne fissi la decorrenza dalla data della domanda avvalendosi della facoltà sancita dall’art. 4 comma 10 della legge n. 898/1970, esso spetta dalla data della sentenza che ha pronunciato lo scioglimento del matrimonio, trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti, rispetto al quale la pronuncia del giudice ha efficacia costitutiva. Nell’ipotesi tuttavia in cui le condizioni per l’attribuzione dell’assegno siano maturate in un momento successivo al passaggio in giudicato della statuizione attributiva del nuovo status, la decorrenza di esso non può che essere fissata da tale momento, a condizione che il giudice motivi adeguatamente la propria decisione al riguardo.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093 (Nuova Giur. Civ. 2010, 1, 1, 80 nota di PULITI)
I giustificati motivi ex art. 156, comma 7, c.c., consistono in fatti nuovi sopravvenuti, dunque non preesistenti e deducibili nel corso del giudizio di separazione, tali da modificare la situazione esistente al tempo della decisione.
Qualora la revisione delle condizioni della separazione abbia ad oggetto i provvedimenti relativi ai rapporti tra i coniugi, vi può essere contestuale pendenza del giudizio di divorzio e del giudizio ex art. 710 c.p.c., data la diversità tra la “causa petendi e il petitum” dei due giudizi.
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2709 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, l’eventuale nascita di un figlio non costituisce elemento di prova di per sé sufficiente e idoneo a dimostrare l’esistenza di una situazione di convivenza more uxorio tra il coniuge beneficiario dell’assegno ed un terzo, avente nel tempo i caratteri di stabilità e continuità tali, da far presumere che il beneficiario dell’assegno tragga da tale convivenza vantaggi economici che giustifichino la revisione dell’assegno medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 3 dicembre 2008, n. 28741 (Famiglia e Diritto, 2009, 5, 467, nota di VESTO)
L’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente l’assegno di divorzio va valutata avendo riguardo, non solo al tenore di vita concretamente tenuto durante il matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, ma, altresì, al tenore di vita potenziale che poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto.
Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18593 (Giur. It., 2009, 5, 1155, nota di SUBRANI)
La circostanza che l’ex coniuge – titolare dell’assegno di divorzio – abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona, non è idonea ad escludere automaticamente il diritto all’assegno; tale convivenza incide solo sulla misura dell’assegno qualora venga fornita la prova, da parte dell’obbligato, che la convivenza stessa, ben¬ché non assistita da garanzie giuridiche di stabilità, sia in grado di influire in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, o quanto meno di apprezzabili risparmi di spesa derivatigli dalla convivenza.
In tema di assegno di divorzio, la circostanza che il titolare abbia iniziato una convivenza more uxorio può giustificare la riduzione dell’assegno se abbia determinato un miglioramento delle sue condizioni economiche.
Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11488 (Famiglia e Diritto, 2008, 12, 1120 nota di ARCERI)
Così come la separazione giudiziale dà luogo ad un giudicato “rebus sic stantibus”, non modificabile in relazione ai fatti che avrebbero potuto esser dedotti nel relativo giudizio, analogamente gli accordi negoziali sottoscritti in sede di separazione consensuale omologata non sono modificabili in relazione a fatti dei quali le parti avrebbero dovuto tenere conto al momento della conclusione di detti accordi, ma unicamente in relazione alla sopravve¬nienza di fatti nuovi, che abbiano alterato la situazione preesistente, mutando i presupposti in base ai quali le parti avevano stabilito le condizioni della separazione. Del tutto estranei a tale ambito sono dunque i fatti pre¬esistenti alla regolamentazione pattizia della separazione, non presi in considerazione, per qualsiasi motivo, in quella sede.
In materia di assegno di mantenimento, i “giustificati motivi” , la cui sopravvenienza consente di rivedere le de-terminazioni adottate in sede di separazione dei coniugi, sono ravvisabili nei fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale la sentenza era stata emessa o gli accordi erano stati stipulati, con la con¬seguenza che esulano da tale oggetto i fatti preesistenti alla separazione, ancorché non presi in considerazione in quella sede per qualsiasi motivo.
Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11487 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il mero acquisto di un cespite, così come la perdita di un bene, non rappresenta, di per sé, indice sufficiente a giustificare la modifica delle condizioni della separazione consensuale in punto di misura del contributo di mante-nimento, giacché la valutazione dei motivi sopravvenuti – la prova dell’esistenza dei quali è a carico del coniuge richiedente la modifica – postula sempre un giudizio di relazione da parte del giudice di merito, onde accertare se l’acquisto o la perdita del cespite sia l’espressione di un incremento o decremento patrimoniale dei coniugi di entità tale da mutare l’equilibrio esistente al momento della separazione.
Cass. civ. Sez. I, 29 febbraio 2008, n. 5434 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 632)
In tema di divorzio, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, sesto com¬ma, della legge 1° dicembre 1970, n, 898, nella parte in cui consente di assoggettare all’obbligo di corrispondere l’assegno anche il coniuge che abbia chiesto ed ottenuto lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ex art.3 n.2 lett. a della legge 1° dicembre 1970, n.898; neppure in tale ipotesi, infatti, cessa la funzione assistenziale di detto assegno, non rilevando le ragioni della decisione ai fini dell’accertamento della sussistenza del relativo diritto, ma solo ai fini della determinazione del relativo ammontare, ed essendo riservata alla valutazione discrezionale del giudice di merito la possibilità di considerare decisivo e prevalente, tra tutti i criteri previsti per la quantificazione dell’assegno divorzile, quello della ragione del divorzio e della responsabilità del coniuge convenuto e di pervenire in tal modo all’azzeramento dell’assegno. I profili di responsabilità civile derivanti dalle violazioni del diritto all’unità familiare non sono d’altronde incompatibili con l’obbligo di contribu¬zione assistenziale, che fonda la sua ragione proprio nel rapporto coniugale che è alla base della famiglia.
Cass. civ. Sez. I, 21 febbraio 2008, n. 4424 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di determinazione dell’assegno divorzile, ove il giudice di merito non ne fissi la decorrenza dalla data della domanda, avvalendosi della facoltà sancita dall’art. 4, decimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, esso spetta dalla data della sentenza che ha pronunciato lo scioglimento del matrimonio.
Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2008, n. 1595 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione della L. n. 898 del 1970, art. 9, consente la revisione delle condizioni del divorzio relative (tra l’al¬tro) ai rapporti economici per sopravvenienza di “giustificati motivi”, sicché il relativo provvedimento postula non soltanto l’accertamento di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma anche la idoneità di tale modifica ad immutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedi¬mento attributivo dell’assegno, secondo una valutazione comparativa delle condizioni economiche di entrambe le parti. L’apprezzamento della rilevanza dei fatti sopravvenuti (onde inferirne l’esistenza dei “giustificati motivi” richiesti dalla norma) va infatti compiuto con riguardo alla natura ed alla funzione dell’assegno divorzile, rivolto ad assicurare, in ogni tempo, la disponibilità di quanto necessario al godimento di un tenore di vita adeguato alla pregressa posizione economico-sociale dell’ex coniuge.
I sopravvenuti, giustificati motivi a sostegno della richiesta di revisione delle condizioni patrimoniali del divorzio possono riguardare anche i nuovi oneri familiari dell’obbligato, derivanti dalla nascita di un figlio, generato dalla successiva unione, sempre che detta insorgenza, considerate tutte le circostanze del caso concreto, abbia deter¬minato un reale ed effettivo depauperamento delle sostanze o della capacità patrimoniale dell’obbligato stesso, apprezzato all’esito di una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti.
Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2008, n. 593 (Fam. Pers. Succ., 2008, 11, 903 nota di ZAULI)
L’accertamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il Giudice è chia¬mato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontate ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno; e che, nella seconda fase, il Giudice deve procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazio¬ne ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5, co. 6, legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo modificato dall’art. 10, legge n. 74 del 1987) – e cioè delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, del reddito di entrambi, valutando tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio – i quali criteri, quindi, agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono, in ipotesi estreme, valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione. E’ necessario valutare anche l’influenza del criterio basato sul contributo del coniuge alla conduzione familiare in base ai principi sopra menzionati.
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321 (Famiglia e Diritto, 2008, 5, 446 nota di CASABURI)
In tema di separazione consensuale, applicandosi in via analogica l’art. 156, settimo comma, cod. civ., i giu¬stificati motivi che autorizzano il mutamento delle relative condizioni consistono in fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale gli accordi erano stati stipulati; ne consegue che gli eventuali vizi (nullità o annullabilità) che inficiano la validità dell’accordo di separazione omologato e la sua eventuale si¬mulazione non sono deducibili attraverso il giudizio camerale attivato a norma del combinato disposto degli artt. 710 e 711 cod. proc. civ. ma attraverso un giudizio ordinario, secondo le regole generali.
Gli accordi di separazione consensuale tra i coniugi possono contenere, oltre che un contenuto necessario, atti¬nente allo stesso consenso alla separazione, ai patti relativi alla prole e al mantenimento del coniuge economi¬camente più debole, un contenuto eventuale, solo occasionalmente collegato al primo, ed attinente a pattuizioni patrimoniali tra i coniugi, che configurano non una convenzione matrimoniale ma un contratto atipico, valido sempre che non incida negativamente sui diritti e i doveri nascenti dal matrimonio e che comunque – ove se ne configuri l’invalidità – non può essere impugnato nelle forme del procedimento camerale ex art. 710 c.p.c., che presuppone da un lato l’intervento di sopravvenienze, dall’altro la validità della separazione consensuale, ma con un ordinario giudizio di cognizione.
Cass. civ. Sez. I, 30 agosto 2007, n. 18321 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il principio enunciato nell’art. 4, decimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito ad opera dell’art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74), secondo cui il giudice del merito può far decorrere l’assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda, ha una portata generale ed è quindi appli¬cabile non solo nell’ipotesi, espressamente prevista, in cui sia pronunciato il divorzio con sentenza non definitiva, ma anche in quella in cui con la stessa decisione sia dichiarato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio; senza che sia necessaria sul punto un’apposita domanda.
Cass. civ. Sez. I, 10 agosto 2007, n. 17643 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione, quanto all’incidenza della convivenza “more uxorio” di un coniuge sul diritto all’as¬segno di mantenimento nei confronti dell’altro coniuge, in riferimento alla persistenza delle condizioni per l’at¬tribuzione dello stesso, deve distinguersi tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, sulla base del carattere di stabilità, che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderlo rilevante giuridicamente.
Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17041 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 577 nota di LA ROSA)
Il peggioramento delle condizioni economiche dell’ex coniuge, determinato dalla volontaria scelta di pensiona¬mento o di dimissioni volontarie dal lavoro, può assumere rilevanza quale giustificato motivo per il riconoscimen¬to ex novo dell’assegno di divorzio, originariamente negato o non richiesto, nell’ambito di
Cass. civ. Sez. I, 12 luglio 2007, n. 15611 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il principio enunciato nell’art. 4 n. 10 della legge n. 898 del 1970, come sostituito dall’art.8 della legge n. 74 del 1987 -secondo il quale il giudice di merito può fare decorrere l’assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda – ha una portata generale ed è quindi applicabile non solo nella ipotesi espressamente prevista in cui si sia pronunciato il divorzio con sentenza non definitiva, ma anche in quella in cui, con la stessa decisione, si sia dichiarato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e si sia condannato un coniuge a corrispondere all’altro l’assegno di divorzio, senza peraltro che sia necessaria un’apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell’assegno; ciò non costituisce deroga al principio secondo il quale l’assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo “status” delle parti, decorre dal pas¬saggio in giudicato della relativa statuizione, bensì un temperamento a tale principio, con il conferire al giudice il potere discrezionale, in relazione alle circostanze del caso concreto, di disporre la decorrenza di esso alla data della domanda, senza che a tal fine la pronuncia di sentenza definitiva costituisca un necessario requisito per l’esercizio di tale potere.
Cass. civ. Sez. I, 30 maggio 2007, n. 12687 (Fam. Pers. Succ., 2007, 12, 1000 nota di DOSSETTI)
Il miglioramento delle condizioni patrimoniali dell’ex coniuge obbligato al pagamento di un assegno divorzile, derivante dall’eredità ricevuta dal proprio genitore dopo il divorzio, non costituisce giustificato motivo per l’au¬mento dell’assegno, in mancanza di un peggioramento della situazione economica dell’ex coniuge beneficiario.
Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2006, n. 20256 (Nuova Giur. Civ., 2007, 7, 1, 895 nota di BARBANERA)
Qualora sia stata pronunciata sentenza di separazione, le nuove disposizioni dettate dalla l. n. 54/2006, possono trovare applicazione soltanto attraverso un nuovo procedimento nelle forme previste dall’art. 710 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2006, n. 18547 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine del riconoscimento del diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazio¬ne, è essenziale che questi sia privo di redditi che gli consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto durente la convivenza e che sussista una disparità economica tra i due coniugi, non avendo rilievo che, prima della separazione, il coniuge richiedente avesse eventualmente tollerato, subito o – comunque – accettato un tenore di vita più modesto. E siccome la separazione instaura un regime che tende a conservare il più possibi¬le gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il “tipo” di vita di ciascuno dei coniugi, se prima della separazione i coniugi hanno concordato – o, quanto meno, accettato – che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione.
Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di revisione dell’assegno di divorzio, allorché a fondamento dell’istanza dell’”ex” coniuge obbligato, rivol¬ta ad ottenere la totale soppressione del diritto al contributo economico, sia dedotto il miglioramento delle con¬dizioni economiche dell’ex coniuge beneficiario (nella specie dipendente dall’acquisto per successione ereditaria della proprietà e della comproprietà di beni immobili), il giudice, ai fini dell’accoglimento della domanda, non può limitarsi a considerare isolatamente detto miglioramento, attribuendo ad esso una valenza automaticamente estintiva della solidarietà postconiugale, ma – assumendo a parametro l’assetto di interessi che faceva da sfondo, e da risultato, al precedente provvedimento sull’assegno divorzile – deve verificare se l’”ex” coniuge, titolare del diritto all’assegno, abbia acquistato, per effetto di quel miglioramento, la disponibilità di “mezzi adeguati”, ossia idonei a renderlo autonomamente capace, senza necessità di integrazioni ad opera dell’obbligato, di raggiungere un tenore di vita an alogo a quello avuto in costanza di matrimonio.
Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18241 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella disciplina dettata dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, l’assegno di divorzio si configura con natura eminente¬mente assistenziale, essendone condizionata l’attribuzione alla specifica circostanza della mancanza di mezzi adeguati o della impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, mentre gli altri criteri costituiti dalle condizio¬ni dei coniugi, dalle ragioni della decisione, dal contributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, dal reddito di entrambi, valutati uni¬tariamente e confrontati alla luce del paradigma della durata del matrimonio, sono destinati ad operare solo se l’accertamento dell’unico elemento attributivo si sia risolto positivamente, e quindi ad incidere unicamente sulla quantificazione dell’assegno stesso (v. più di recente, tra le tante, Cass. 19/03/2003, n. 4040; Cass. 07/05/2002 n. 6541; 2001 n. 7068; Cass. 15/05/2001 n. 6660).
Cass. civ. Sez. I, 29 marzo 2006, n. 7117 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il principio enunciato nell’art. 4, decimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito ad opera dell’art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74) – secondo il quale il giudice del merito può far decorrere l’as¬segno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda – ha una portata generale ed è quindi applicabile non solo nell’ipotesi, espressamente prevista, in cui si sia pronunciato il divorzio con sentenza non definitiva, ma anche in quella in cui con la stessa decisione si sia dichiarato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e si sia condannato un coniuge a corrispondere all’altro l’assegno di divorzio, senza peraltro che sia necessaria un’apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell’assegno; ciò non costituisce deroga al principio secondo il quale l’assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo “status” delle parti, decorre dal passaggio in giudicato della relativa statuizione, bensì rappresenta un temperamento a tale principio, col conferire al giudice il potere discrezionale, in relazione alle circostanze del caso concreto, di disporre la decorrenza di esso dalla data della domanda, senza che a tal fine la pronuncia di sentenza non defi¬nitiva costituisca un necessario requisito per l’esercizio di detto potere.
Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2005, n. 17320 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 9 legge n. 898 del 1970 (così come modificato dall’art. 2 legge n. 436 del 1978 e dall’art. 13 legge n. 74 del 1987), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile. Pertanto, nel caso di mancata attribuzione dell’assegno divorzile, in sede di giudizio di divorzio, per rigetto o per mancanza della relativa domanda, la determinazione dello stesso può avvenire solo in caso di sopravvenienza di giustificati motivi, concernenti la indisponibilità di mezzi adeguati e la impossibilità oggettiva di procurarseli, ovvero le condizioni o il reddito dei coniugi. Tale principio trova applicazione anche nella ipotesi in cui il coniuge divorziato che chiede per la prima volta l’assegno sia rimasto contumace nel giudizio di divorzio, non potendosi essere a lui riconosciuta una posizione diversa da quella del coniuge che, essendosi costituito, non abbia chiesto l’attribuzione di detto assegno.
Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 2005, n. 10344 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche in materia di separazione di coniugi, con riguardo all’assegno di mantenimento, deve ritenersi applicabile in via analogica stante l’identità di “ratio”, riconducibile alla funzione eminentemente assistenziale dell’assegno in questione – la norma dell’art. 5 comma 9, della legge sul divorzio, il quale, in tema di riconoscimento e deter¬minazione dell’assegno divorzile, stabilisce che “in caso di contestazioni, il tribunale dispone indagini sui redditi e patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della Polizia tributaria”. L’esercizio di tale potere di disporre indagini patrimoniali con l’avvalimento della Polizia tributaria, che costitu¬isce una deroga alle regole generali sull’onere della prova, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, e non può essere considerato anche come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche; tale discrezionalità, tuttavia, incontra un limite nella cir¬costanza che il giudice, potendosi avvalere di siffatto potere, non può rigettare le istanze delle parti relative al riconoscimento e alla determinazione dell’assegno sotto il profilo della mancata dimostrazione degli assunti sui quali si fondano, giacché in tal caso il giudice ha l’obbligo di disporre accertamenti d’ufficio (avvalendosi anche della Polizia tributaria).
Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2004, n. 23570 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi la circostanza che la spettanza degli assegni di cui agli articoli 155 e 156 del c.c. decorra fin dalla domanda non esclude il potere del giudice del merito di graduare e differenziare nel tempo la entità dell’assegno di contributo al mantenimento del coniuge e dei figli, modulandola in funzione del complesso dei dati concretamente accertati. Ne segue, pertanto, che la naturale retroattività delle statuizioni assunte in proposito in sede di giudizio di separazione non vuole anche dire necessaria uniformità degli importi fissati in relazione alle varie fasi temporali.
Cass. civ. Sez. I, 16 dicembre 2004, n. 23396 (Famiglia e Diritto, 2006, 1, 46, nota di WINKLER)
Ove il giudice del divorzio, nell’emettere la sentenza che dispone la somministrazione del relativo assegno, abbia stabilito, in considerazione delle modeste condizioni economiche dell’onerato, la decorrenza dello stesso assegno dalla data della deliberazione della sentenza di primo grado – così erroneamente scegliendo una data intermedia di decorrenza fra quella della domanda introduttiva e quella del passaggio in giudicato della pronuncia di scio¬glimento (o di cessazione degli effetti civili) del matrimonio – è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale l’avente diritto all’assegno di divorzio censuri tale statuizione relativa alla decorrenza dell’assegno senza tuttavia indicare le circostanze necessarie e sufficienti per fissare l’insorgenza del diritto alla percezione dell’assegno dalla domanda introduttiva del giudizio, e ciò trattandosi di censura finalizzata ad ottenere il rispetto meramente astratto della legge e non la tutela di un concreto interesse della parte ricorrente.
In base all’articolo 4 della legge n. 898 del 1970 il giudice, qualora ne ricorrano le condizioni, può retrodatare la decorrenza dell’assegno di divorzio alla data della domanda, ma non a una data intermedia, tra quella della domanda e il passaggio in giudicato della sentenza, salvo il caso in cui le condizioni per la maturazione del diritto a percepire l’assegno si siano concretizzate dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, posto che in tale ipotesi la decorrenza non potrà che essere fissata dalla maturazione delle dette condizioni, con onere per il giudice, di motivare sul punto.
Cass. civ. Sez. I, 2 novembre 2004, n. 21049 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 9 L. n. 898 del 1970 (così come modificato dall’art. 2 L. n. 436 del 1978 e dall’art. 13 L. n. 74 del 1987), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane viceversa esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile. Ne consegue che l’attribuzione in favore di un ex coniuge dell’assegno divorzile non può essere rimessa in discus¬sione in altro processo sulla base di fatti anteriori all’emissione della sentenza, ancorchè ignorati da una parte, se non attraverso il rimedio della revocazione, nei casi eccezionali e tassativi di cui all’art. 395 c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 21 luglio 2004, n. 13507 (Corriere Giur., 2004, 11, 1424)
La regola secondo cui in presenza di sentenza non definitiva di divorzio l’assegno disposto ai sensi dell’articolo 4, comma 10 della legge n. 898 del 1970 può farsi decorrere dalla data della domanda – non dovendo un diritto essere pregiudicato dalla durata del processo – attiene solo al profilo dell’an debeatur e non interferisce nel giu¬dizio per la determinazione del quantum dell’assegno stesso allorché l’evoluzione delle condizioni economiche dei coniugi postuli diverse decorrenze, coincidenti con le date dei mutamenti. Ne deriva, quindi, che se il petitum si limiti alla definizione dell’ammontare dell’assegno, non è inibita la decorrenza della misura modificata di esso da una data diversa rispetto alla previsione della norma citata, non diversamente da come accadrebbe se fosse introdotta la procedura di revisione prevista dal successivo articolo 9 della legge sul divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 2 luglio 2004, n. 12121 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto del coniuge separato senza addebito al mantenimento da parte dell’altro è subordinato dall’art. 156 c.c. alla condizione che chi lo pretenda “non abbia adeguati redditi propri”, a differenza di quanto previsto, in materia di divorzio, dall’art. 5 della legge 898/1970, che condiziona altresì il diritto al fatto che chi lo pretende non possa procurarseli per ragioni oggettive; ciò in quanto se – ad esempio – prima della separazione i coniugi avevano concordato o, quanto meno, accettato (sia pure soltanto “per facta concludentia”) che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione, perché la separazione instaura un regime che, a differenza del divorzio, tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il tenore e il “tipo” di vita di ciascuno dei coniugi.
In tema di separazione personale dei coniugi, i presupposti per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento sono la non addebitabilità della separazione e la mancanza di redditi idonei a conservare il precedente tenore di vita, sussistendo disparità economica tra le parti, mentre l’inattività lavorativa del richiedente l’assegno costitu¬isce circostanza estintiva dell’obbligo di corresponsione a carico dell’altro coniuge solo se conseguente al rifiuto accertato di opportunità di lavoro, non meramente ipotetiche, ma effettive e concrete.
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2004, n. 5555 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto del coniuge separato senza addebito al mantenimento da parte dell’altro è subordinato dall’art. 156 c.c. alla condizione che chi lo pretenda “non abbia adeguati redditi propri”, a differenza di quanto previsto, in materia di divorzio, dall’art. 5, comma sesto, legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 del¬la legge 6 marzo 1987, n. 74, del divorzio, che condiziona altresì il diritto al fatto che chi lo pretende non possa procurarseli per ragioni oggettive;
Il diritto del coniuge separato senza addebito al mantenimento da parte dell’altro è subordinato dall’art. 156 c.c. alla condizione che chi lo pretenda “non abbia adeguati redditi propri”, a differenza di quanto previsto, in ma¬teria di divorzio, dall’art. 5, comma sesto, legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, del divorzio, che condiziona altresì il diritto al fatto che chi lo pretende non possa procurarseli per ragioni oggettive; ciò in quanto se – ad esempio – prima della separazione i coniugi avevano concordato o, quanto meno, accettato (sia pure soltanto “per facta concludentia”) che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione, perché la separazione instaura un regime che, a differenza del divorzio, tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2004, n. 2897 (Guida al Diritto, 2004, 13, 51)
Il criterio di adeguamento automatico dell’assegno di mantenimento in favore dei figli di genitori divorziati, di cui all’articolo 6, il potere di acquisto degli assegni, di limitare il ricorso a procedure di revisione e di ridurre la conflittualità tra le parti. Correttamente, pertanto, tale criterio viene applicato in caso di assegno dovuto a carico del genitore dichiarato tale dal giudice per il mantenimento del figlio naturale.
Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975 (Famiglia e Diritto, 2004, 195)
Tra i fattori capaci di incidere sulla nozione di “adeguatezza” è suscettibile di acquisire rilievo anche la eventuale convivenza “more uxorio”, la quale, quando si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto” (caratterizzata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e dei modelli di vita, in essi compresi anche quello economico). Ciò fa sì che la valutazione di una tale “adeguatezza” non possa non registrare una tale evoluzione esistenziale, recidendo – finché duri tale convivenza (e ferma rimanendo in questo caso la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé ove “non compensato” all’interno della convivenza) – ogni plausibile connessione con il tenore e con il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza coniugale, ed escludendo – con ciò stesso – ogni presupposto per il riconoscimento, in concreto, dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione degli stessi.
Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2003, n. 11720 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il mero acquisto di un cespite, così come la perdita di un bene, non rappresenta, di per sé, indice sufficiente a giustificare la modifica delle condizioni della separazione consensuale in punto di misura del contributo di mante-nimento, giacché la valutazione dei motivi sopravvenuti – la prova dell’esistenza dei quali è a carico del coniuge richiedente la modifica – postula sempre un giudizio di relazione da parte del giudice di merito, onde accertare se l’acquisto o la perdita del cespite sia l’espressione di un incremento o decremento patrimoniale dei coniugi di entità tale da mutare l’equilibrio esistente al momento della separazione.
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2003, n. 4040 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento del matrimonio e nella disciplina dettata dall’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, l’accertamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una de¬terminazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno. Nella seconda fase, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5, che quindi agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, e possono in ipotesi estreme valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione.
Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 2003, n. 3351 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti, rispetto al quale la pronuncia del giudice ha efficacia costitutiva, decorre dal passaggio in giudicato della statuizione di risoluzione del vincolo co¬niugale. A tale principio ha introdotto un temperamento l’art. 4, comma decimo, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, così come sostituito dall’art. 8 della legge 6 marzo 1987 n. 74, conferendo al giudice il potere di disporre, in relazione alle circostanze del caso concreto, ed anche in assenza di specifica richiesta, la decorrenza dello stesso assegno dalla data della domanda di divorzio. Ciò non esclude che, ove le conclusioni per l’attribuzione siano maturate in un momento successivo al passaggio in giudicato della statuizione attributiva del nuovo “status”, la decorrenza dell’assegno non possa che essere fissata da tale momento; tuttavia, in siffatta ipotesi, il giudice è tenuto a motivare adeguatamente la propria decisione.
Cass. civ. Sez. I, 22 ottobre 2002, n. 14886 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento a favore del coniuge, fissato in sede di separazione personale, decorre dalla data della relativa domanda, in applicazione del principio per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio. Tale principio attiene soltanto al profilo dell’an debeatur della domanda, e non interferisce, pertanto, sull’esigenza di determinare il “quantum” dell’assegno alla stregua dell’evoluzione intervenuta in corso di giudizio nelle condizioni economiche dei coniugi, né sulla legittimità di fissare misure e decorrenze differenziate dalle diverse date in cui i mutamenti si siano verificati.
Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 2002, n. 6541 (Nuova Giur. Civ., 2009, 9, 1, 907, nota di PULITI)
L’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontate ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe pre-sumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. Ai fini di tale accertamento, correttamente il tenore di vita precedente viene desunto dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare com¬plessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto corretta la deci¬sione della corte territoriale che aveva ritenuto che il forte squilibrio tra l’entità dello stipendio percepito dalla ex moglie e quello dell’ex marito rendevano evidente la non titolarità da parte della prima – una volta venuto meno l’apporto delle entrate del coniuge – di mezzi adeguati, tenuto altresì conto della circostanza dell’attribuzione, ad opera della sentenza di primo grado, non impugnata sul punto, all’ex marito, del gratuito godimento della casa di proprietà della donna, così privata della opportunità di trarre un profitto dalla locazione di detto immobile. Al riguardo la Corte territoriale aveva altresì ritenuto che non potesse avere alcuna incidenza, per converso, l’asse¬gnazione, alla stessa, affidataria del figlio minore, della casa coniugale, di proprietà dell’ex marito).
Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 2002, n. 4038 (Giur. It., 2002, 1828, nota di BARBIERA)
L’assegno di divorzio nasce dallo “status” relativo, che si acquista col passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, per cui la facoltà concessa al giudice di retrodatarne la decorrenza alla data della domanda ha carattere derogatorio che non consente al giudice di fissare come “dies a quo” una data intermedia, a meno che le parti non provino sopravvenienze rispetto alla data della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149 (Famiglia e Diritto, 2001, 4, 442)
Applicandosi l’art. 156, comma 7, c.c. in via analogica alla separazione consensuale, i “giustificati motivi” che au¬torizzano la modificazione delle condizioni della separazione consistono in fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale gli accordi erano stati stipulati; ne consegue che né gli eventuali vizi del consenso rispetto all’atto di separazione omologato né la sua eventuale simulazione sono deducibili con il giudi¬zio camerale attivato ai sensi degli art. 710 e 711 c.p.c., costituendo presupposto del ricorso a detta procedura l’allegazione dell’esistenza di una valida separazione consensuale omologata.
Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2000, n. 13460 (Giust. Civ., 2000, I, 3125)
L’art. 9, comma 3, l. 1 dicembre 1970 n. 898, nel testo vigente, prevede che nella ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e l’ex coniuge occorre tenere conto della durata del matrimonio, nel senso che non è possibile prescindere dall’elemento temporale, e che ad esso può essere attribuito, secondo le circo¬stanze, valore preponderante e anche decisivo. Ma tale criterio, nel contesto normativo, non si pone come unico ed esclusivo parametro cui conformarsi automaticamente e in base a un mero calcolo aritmetico. Nel suo apprez¬zamento il giudice potrà ponderare ulteriori elementi, correlati alle finalità che presiedono al diritto di reversibili¬tà, da utilizzarsi, eventualmente, quali correttivi del risultato che conseguirebbe all’applicazione del mero criterio temporale. Esigenze di coordinamento sistematico portano a individuare nell’ambito dello stesso art. 5, comma 6, tali ulteriori elementi di giudizio, tra i quali potranno assumere specifico rilievo l’ammontare dell’assegno go¬duto dal coniuge divorziato prima del decesso dell’ex coniuge e le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda matrimoniale. Se, infatti, la funzione dell’assegno divorzile è eminentemente assistenziale, anche questo profilo deve essere suscettibile di valutazione in funzione correttiva del criterio, non eludibile, dell’elemento temporale.
Cass. civ. Sez. I, 2 giugno 2000, n. 7328 (Giust. Civ., 2000, I, 2225)
La convivenza “more uxorio” ove abbia carattere di stabilità e dia luogo, nei confronti del coniuge richiedente l’assegno di divorzio, a prestazioni di assistenza economica di tipo familiare da parte del convivente, può spie¬gare rilievo, a seconda dei casi, sia sul diritto sia sulla misura dell’assegno di divorzio. La prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di convivente “more uxorio”, quando di fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento e sulla sua quantificazione.
Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2000, n. 4584 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio comporta che la sua concreta attribuzione va subordinata alla inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante (ovvero alla oggettiva impossibilità di procurarseli), da intendersi come inidoneità a consentirgli la prosecuzione di un tenore di vita analogo a quello goduto in co¬stanza di matrimonio, senza che, all’uopo, sia necessario accertare la esistenza di un vero proprio stato di biso¬gno dell’avente diritto (che può ben risultare economicamente autosufficiente), rilevando, per converso, esclusi¬vamente la circostanza dell’apprezzabile deterioramento delle sue condizioni economiche che, in linea generale, vanno ripristinate con riferimento a quelle precedenti la cessazione del vincolo matrimoniale. A tal fine, l’indagine del giudice di merito circa la capacità lavorativa del coniuge istante va condotta secondo criteri di particolare rigore e pregnanza, non potendo una attività concretamente espletata soltanto saltuariamente giustificare l’af¬fermazione della “esistenza di una fonte adeguata di reddito” – onde negare il diritto all’assegno divorzile in capo all’istante – specie a fronte della rilevazione, da parte dello stesso giudice di merito, del carattere meramente episodico e occasionale di tale attività, e non potendosi, in tal caso, legittimamente inferire, sic et simpliciter, la presunzione della effettiva capacità del coniuge a procurarsi un reddito adeguato. Tale conclusione, condivisibile, in ipotesi, in un regime economico di piena occupazione, si appalesa del tutto astratta ed inappagante su piano della congruenza logica in relazione all’attuale contesto sociale, alla luce del quale si rende, invece, necessaria una indagine compiuta con riferimento alle concrete possibilità lavorative del soggetto, onde verificare se risulti integrato o escluso il presupposto dell’attribuzione dell’assegno, vale a dire se il coniuge possieda effettivamen¬te, o sia concretamente in grado di procurarsi, redditi adeguati nel significato sopra specificato.
Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2000, n. 4558 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento fissato in favore del coniuge in sede di separazione (così come la sua successiva revisione) decorre dalla data della relativa domanda, in applicazione del principio secondo il quale un diritto non può rimanere pregiudicato dal tempo necessario a farlo valere in giudizio, a nulla rilevando che il Presidente del tribunale in sede di audizione dei coniugi non abbia ritenuto di adottare provvedimenti temporanei in proposito, ex art. 708 c.p.c., né che non siano stati chiesti al riguardo provvedimenti urgenti in corso di istruttoria.
Cass. civ. Sez. I, 14 marzo 2000, n. 2920 (Corriere Giur., 2000, 6, 733, nota di DE MARZO)
L’art. 9, comma 3, della l. n. 898 del 1970, nel testo vigente, prevede che nella ripartizione della pensione di reversibilità fra il coniuge superstite e l’ex coniuge occorre tener conto della durata del matrimonio, nel senso che non è possibile prescindere dall’elemento temporale, e che ad esso può essere attribuito, secondo le cir¬costanze, valore preponderante ed anche decisivo. Ma tale criterio, nel contesto normativo, non si pone come unico ed esclusivo parametro cui conformarsi automaticamente ed in base ad un mero calcolo matematico. Nel suo apprezzamento il giudice potrà ponderare ulteriori elementi, correlati alle finalità che presiedono al diritto di reversibilità, da utilizzarsi, eventualmente, quali correttivi del risultato che conseguirebbe all’applicazione del mero criterio temporale. Esigenze di coordinamento sistematico (anche a seguito della sentenza della Corte cost. n. 419 del 1999) portano ad individuare nell’ambito dello stesso art. 5 (comma 6) tali ulteriori elementi di giudizio, tra i quali potranno assumere specifico rilievo l’ammontare dell’assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell’ex coniuge e le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda matrimoniale. Se, infatti, la funzione dell’assegno divorzile è eminentemente assistenziale, anche questo profilo deve essere suscettibile di valutazione in funzione correttiva del criterio, non eludibile, dell’elemento temporale.
Corte cost., 21 gennaio 2000, n. 17 (Foro It., 2002, I, 1321)
È infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale degli art. 2751 n. 4, e 2778, n. 17, c.c., nella parte in cui non riconoscerebbero il privilegio generale sui beni mobili del debitore anche al credito di mantenimento del coniuge separato o divorziato, in riferimento all’art. 3 cost. (in motivazione la Corte rileva come il privilegio di cui alla disposizione denunciata, pur testualmente riferito ai crediti di alimenti, deve ritenersi estensibile sul piano interpretativo anche al credito di mantenimento del coniuge separato o divorziato).
Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2000, n. 412 (Giur. It., 2000, 1820, nota di LAMANUZZI)
L’assegno di divorzio ha la funzione di ripristinare una condizione economica adeguata e quella goduta in costan¬za di matrimonio, in base ad una valutazione comparativa delle rispettive situazioni delle parti, in proporzione delle sostanze dell’obbligato e tenuto conto del carattere assistenziale dell’assegno medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 2 luglio 1998, n. 6468 (Famiglia e Diritto, 1998, 6, 565)
La funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio comporta che la sua concreta attribuzione va subordinata alla inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante (ovvero alla oggettiva impossibilità di procurar¬seli), da intendersi come inidoneità a consentirgli la prosecuzione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, senza che, all’uopo, sia necessario accertare la esistenza di un vero proprio stato di bisogno dell’avente diritto (che può ben risultare economicamente autosufficiente), rilevando, per converso, esclusivamente la circostanza dell’apprezzabile deterioramento delle sue condizioni economiche che, in linea generale, vanno ripristinate con riferimento a quelle precedenti la cessazione del vincolo matrimoniale. A tal fine, l’indagine del giudice di merito circa la capacità lavorativa del coniuge istante va condotta secondo criteri di particolare rigore e pregnanza, non potendo una attività concretamente espletata soltanto saltuariamente (nella specie, di estetista) giustificare l’affermazione della “esistenza di una fonte adeguata di reddito” – onde negare il diritto all’assegno divorzile in capo all’istante – specie a fronte della rilevazione, da parte dello stesso giudice di merito, del carattere meramente episodico e occasionale di tale attività, e non potendosi, in tal caso, legitti¬mamente inferire, sic et simpliciter, la presunzione della effettiva capacità del coniuge a procurarsi un reddito adeguato. Tale conclusione, condivisibile, in ipotesi, in un regime economico di piena occupazione, si appalesa del tutto astratta ed inappagante su piano della congruenza logica in relazione all’attuale contesto sociale, alla luce del quale si rende, invece, necessaria una indagine compiuta con riferimento alle concrete possibilità la¬vorative del soggetto, onde verificare se risulti integrato o escluso il presupposto dell’attribuzione dell’assegno, vale a dire se il coniuge possieda effettivamente, o sia concretamente in grado di procurarsi, redditi adeguati nel significato sopra specificato.
Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 1998, n. 4809 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito del sistema normativo introdotto con la l. n. 74 del 1987, l’attribuzione dell’assegno di divorzio è indefettibilmente subordinata alla specifica circostanza di fatto della mancanza di mezzi adeguati o dell’impossi¬bilità di procurarseli per ragioni oggettive, essendo gli altri criteri (condizioni dei coniugi; ragioni della decisione; contributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio nel periodo matrimoniale; reddito di entrambi; durata del rapporto di coniugio) destinati ad operare solo se l’ac¬certamento della predetta (ed unica) circostanza attributiva risulti di segno positivo. Il giudizio relativo a detto accertamento, articolandosi in due fasi (quella del riconoscimento del diritto in astratto e quella della determina¬zione in concreto dell’assegno), vede il giudice, nella prima di esse, chiamato a verificare l’esistenza del diritto in relazione all’inadeguatezza dei mezzi (raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello condotto in costanza di matrimonio, onde procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare detta inade¬guatezza, che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno), e, nella seconda (dovendosi procedere alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno stesso), chiamato, poi, alla valutazione ponderata e bilaterale dei vari criteri normativamente stabiliti, che operano come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono, se del caso, addirittura azzerarla in ipotesi estreme, quando, cioè, la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione.
Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 1998, n. 4094 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Durante la separazione personale non viene meno la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matri¬monio e che comporta la condivisione delle reciproche fortune nel corso della convivenza. Ne consegue che il notevole incremento dei redditi di uno dei coniugi, verificatosi successivamente alla separazione, giustifica l’ac¬coglimento della richiesta di modifica dell’ammontare dell’assegno da questi dovuto all’altro coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3503 (Famiglia e Diritto, 1998, 4, 333, nota di DE PAOLA)
Nel caso in cui alla convivenza “more uxorio” siano riconnesse conseguenze giuridiche, al fine di distinguere tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, deve tenersi soprattutto conto del carattere di stabilità che con-ferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderla rilevante sotto il profilo giuridico, sia per quanto concerne la tutela dei figli minori, sia per quanto riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati ed, in particolare, con riferimento alla persistenza delle condizioni per l’attribuzione dell’assegno di separazione (nella specie, la moglie, a seguito della separazione, aveva ottenuto un assegno di mantenimento a carico del marito che era stato, poi, revocato dal giudice di merito, sul presupposto che la stessa, successiva¬mente alla separazione, aveva intrattenuto una periodica convivenza con altro uomo, a seguito della quale era nato un figlio. La S.C. ha cassato la sentenza impugnata perché il giudice di merito, adeguandosi all’enunciato principio, accertasse se la donna ed il suo convivente avessero costituito o meno un’affidabile e stabile famiglia di fatto, trascendente la mera esistenza di rapporti sessuali, così da stabilire se questa nuova unione avesse fatto venire meno il presupposto per la percezione dell’assegno di mantenimento dal marito).
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3490 (Giur. It., 1999, 729, nota di DORIA)
L’art. 156 c.c. attribuisce al coniuge al quale non sia addebitabile la separazione il diritto di ottenere, dall’altro, un assegno di mantenimento, tutte le volte in cui, sussistendo una differenza di redditualità fra i coniugi, egli non sia in grado di mantenere, in costanza della separazione, in base alle proprie potenzialità economiche, il tenore di vita che aveva durante il matrimonio, sempre che questo corrispondesse alle potenzialità economiche com¬plessive dei coniugi, dovendosi altrimenti fare riferimento al tenore di vita che esse avrebbero loro consentito, non avendo rilievo che, prima della separazione, il coniuge richiedente avesse eventualmente tollerato, subito o – comunque – accettato un tenore diverso con l’adozione di particolare criteri di ripartizione delle spese, né avendo rilievo il fatto che fra i coniugi si fosse instaurata un’effettiva convivenza, non condizionando la norma l’assegno di mantenimento alla convivenza, bensì all’esistenza di un matrimonio e di una separazione senza addebito a carico del richiedente, e dovendosi fare riferimento, in caso di mancata instaurazione della convivenza, al tenore di vita che ciascun coniuge aveva diritto di aspettarsi in conseguenza del matrimonio.
L’art. 156 c.c. attribuisce al coniuge al quale non sia addebitabile la separazione il diritto di ottenere dall’altro un assegno di mantenimento tutte le volte in cui sussiste una differenza di redditualità fra i coniugi e non sia in grado di mantenere il tenore di vita che aveva durante il matrimonio, non rilevando che prima della separazione il coniuge richiedente avesse accettato un tenore di vita diverso né avendo rilievo che fra i coniugi si fosse in¬staurata un’effettiva convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1998, n. 1031 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La richiesta di corresponsione dell’assegno periodico di divorzio di cui all’art. 5 della l. n. 898 del 1970 si confi¬gura come domanda (connessa ma) autonoma rispetto a quella di scioglimento del matrimonio, e, pertanto, la parte che, nel corso del giudizio divorzile, non l’abbia ritualmente avanzata ben può proporla successivamente, senza che, a ciò, sia di ostacolo la (ormai intervenuta) pronuncia di scioglimento del vincolo di coniugio, ope¬rando il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile con esclusivo riferimento alla domanda fatta valere in concreto, ma non anche relativamente ad una richiesta diversa nel petitum e nella stessa causa petendi (come appunto, quella di riconoscimento dell’assegno rispetto a quella di divorzio), che la parte ha fa¬coltà di introdurre, o meno, nello stesso giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 1997, n. 5024 (Famiglia e Diritto, 1997, 4, 305, nota di CARBONE)
La prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di convivente more uxorio, quando di fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento e sulla sua quantificazione.
Cass. civ. Sez. I, 26 giugno 1996, n. 5916 (Famiglia e Diritto, 1996, 6, 530, nota di CARAVAGLIOS)
A norma dell’art. 156 c.c. il diritto al mantenimento a seguito di separazione personale sorge, in favore del coniu¬ge al quale questa non sia addebitabile, ove egli non fruisca di redditi che gli consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva durante il matrimonio. Nel valutare tale presupposto, tuttavia, il giudice dovrà tenere conto di ogni tipo di reddito disponibile da parte del richiedente, ivi compresi quelli derivanti da elargizioni da parte di familiari che erano in corso durante il matrimonio e che si protraggano in regime di separazione con carattere di regolarità e continuità tali da influire in maniera stabile e certa sul tenore di vita dell’interessato.
Cass. civ. Sez. I, 20 dicembre 1995, n. 13017 (Giust. Civ., 1996, I, 1694)
L’assegno divorzile ha funzione assistenziale ed è diretto ad evitare il deterioramento delle condizioni economi¬che di uno dei coniugi
Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 1995, n. 6737 (Famiglia e Diritto, 1995, 5, 434, nota di CARBONE)
Il giudice del divorzio, nell’emettere la sentenza che dispone la somministrazione di un assegno, può disporre, ai sensi dell’art. 4, comma 10 della legge n. 898 del 1970, come novellato dall’art. 8 della legge n. 74 del 1987, che l’assegno decorra dalla data di notifica della domanda introduttiva, anziché dalla data del passaggio in giu¬dicato della pronuncia di divorzio; ma non può fissarne la decorrenza da un momento diverso, intermedio tra le due suddette date, neanche in considerazione di esigenze equitative; il conferimento al giudice di un potere discrezionale così ampio ed incisivo non appare invero giustificato dalla formula della norma né dai relativi lavori preparatori.
Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 1995, n. 1331 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La fissazione dell’assegno di divorzio dal momento della domanda, ai sensi dell’art. 4, comma 10, della legge 1 dicembre 1970 n. 898, così come sostituito dall’art. 8 della l. 6 marzo 1987 n. 74, costituisce una facoltà di¬screzionale del giudice, esercitabile anche in assenza di un’apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell’assegno.
Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 1994, n. 8288 (Nuova Giur. Civ., 1996, I, 65, nota di CASELLA)
Il principio enunciato nell’art. 4 n. 1 della legge n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 8 della legge n. 74 del 1987 – secondo il quale il giudice del merito può far decorrere l’assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda – ha una portata generale ed è quindi applicabile non solo nell’ipotesi espressamente prevista in cui si sia pronunciato il divorzio con sentenza non definitiva, ma anche in quella in cui con la stessa decisione si sia dichiarato lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio e si sia condannato un coniuge a corrispondere all’altro l’assegno di divorzio, senza peraltro che sia necessaria un’apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell’assegno; ciò non costituisce deroga al principio se¬condo il quale l’assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti, decorre dal passaggio in giudicato della relativa statuizione, bensì un temperamento a tale principio, col conferire al giudice il potere discrezionale, in relazione alle circostanze del caso concreto, di disporre la decorrenza in esso alla data della domanda, senza che a tal fine la pronuncia di sentenza non definitiva costituisca un necessario requisito per l’esercizio di detto potere.
Cass. civ. Sez. I, 29 marzo 1994, n. 3050 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di divorzio, mentre ha importanza costitutiva rispetto all’assegno che uno degli ex coniugi debba all’altro per le esigenze proprie di quest’ultimo (importanza temperata per effetto della modifica apportata all’art. 4 della l. 1 dicembre 1970 n. 898 dall’art. 8 della legge 6 marzo 1987 n. 74, a seguito della quale il giudice può discrezionalmente far decorrere anche l’assegno divorzile dal momento della domanda), è irrilevante rispetto all’obbligo di mantenere i figli, con la conseguenza che la decorrenza dell’assegno in favore di questi ultimi va fatta risalire alla data della domanda, ovvero alla data dei fatti che ne impongono il riequilibrio, se successivi.
Cass. civ. Sez. I, 8 gennaio 1994, n. 147 (Famiglia e Diritto, 1994 nota di LAGOMARSINO)
L’assegno di mantenimento a favore del coniuge, fissato in sede di separazione, così come la sua successiva revisione, decorre dalla data della correlativa domanda, in applicazione del principio per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 9 dicembre 1993, n. 12125 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di assegno di mantenimento, la cui sopravvenienza consente di rivedere le determinazioni adottate in sede di separazione dei coniugi (art. 156 c.c., 710 e 711 c.p.c.), i giutsificati motivi di revisione non sono ravvi¬sabili nella mera perdita da parte dell’obbligato di un cespite o di un’attività produttiva di reddito, restando da dimostrare, con onere a carico dell’interessato, che la perdita medesima si sia tradotta in una riduzione delle complessive risorse economiche.
Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 1993, n. 11326 (Giust. Civ., 1994, I, 684)
A giustificare la revisione dell’assegno di divorzio ai sensi dell’art. 9 l. 1 dicembre 1970 n. 898 non è di per sé suf-ficiente una modificazione (anche rilevante) delle condizioni economiche di uno degli ex coniugi, ma occorre an¬che che tale modificazione sia idonea ad immutare il pregresso assetto realizzato dal precedente provvedimento sull’assegno, in aderenza alla correlativa funzione assistenziale. A tal fine, il giudice adito per la revisione, oltre ad accertare la effettività di sopravvenienze siffatte, deve anche verificare l’esistenza di un nesso di causalità fra le medesime e l’esistenza di una nuova (ovvero il superamento della precedente) situazione di bisogno – da intendersi come inadeguatezza dei mezzi a disposizione rispetto al fine di assicurare la conservazione del tenore di vita, goduto in costanza del matrimonio (eventualmente e virtualmente comprensivo degli incrementi evolutivi legati anche all’apporto fornito dal coniuge la cui posizione va ripristinata) – provvedendo ad una valutazione che, senza arrestarsi a criteri meramente aritmetici, assuma ad oggetto la nuova serie effettuale, a parametro di comparazione il precedente assetto degli interessi e a criterio di commisurazione (dell’importo della revisione) la dimensione attuale dell’obbligo assistenziale.
Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1993, n. 6049 (Dir. Famiglia, 1994, 855)
Disporre la decorrenza dell’assegno di divorzio dal momento della domanda, ai sensi dell’art. 4, 10° comma, legge 1 dicembre 1970 n. 898 così come sostituito dall’art. 8 legge 6 marzo 1987 n. 74, non costituisce un obbli¬go per il giudice, bensì soltanto una facoltà discrezionale, in ordine al cui mancato esercizio non si richiede una specifica motivazione, comportando la norma sopra menzionata deroga al principio generale secondo il quale, quando il diritto all’assegno dipende da un nuovo status rispetto al quale la pronuncia del giudice ha efficacia costitutiva, gli effetti di tale sentenza non possono prodursi se non dal momento in cui passa in giudicato, con la conseguenza che la mancata retroattività dell’assegno divorzile significa che il giudice ha implicitamente ritenuto opportuno conservare, per tutta la durata del giudizio di divorzio, il regime della separazione.
Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 1993, n. 3720 (Dir. Famiglia, 1994, 844)
Le prestazioni di assistenza di tipo coniugale da parte del convivente “more uxorio” con il coniuge separato avente diritto al mantenimento, quando in fatto esclude o riduce lo stato di bisogno del coniuge separato e con¬vivente con nuovo “partner”, rileva in ordine alla persistenza del diritto al mantenimento od alla sua concreta determinazione.
Cass. civ. Sez. I, 5 novembre 1992, n. 11978 (Foro It., 1993, I, nota di QUADRI)
Il principio enunciato nell’art. 4 n. 10 legge n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 8 legge n. 74 del 1987- secondo il quale il giudice del merito può far decorrere l’assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda – ha una portata generale ed è quindi applicabile non solo nell’ipotesi espressamente prevista in cui si sia pronunciato il divorzio con sentenza non definitiva, ma anche in quella in cui con la stessa decisione si sia dichiarato lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio e si sia condannato un coniuge a corrispondere all’altro l’assegno di divorzio, senza peraltro che sia necessaria un’apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell’assegno; ciò non costituisce deroga al principio secondo il quale l’assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti, decorre dal passaggio in giudicato della relativa statuizione, bensì un temperamento a tale principio, col conferire al giudice il potere discrezionale, in relazione alle circostanze del caso concreto, di disporre la decorrenza di esso alla data della domanda, senza che a tal fine la pronuncia di sentenza non definitiva costituisca un necessario requisito per l’esercizio di detto potere.
Cass. civ. Sez. I, 30 gennaio 1992, n. 961 (Giust. Civ., 1993, I, 3075, nota di CAVALLO)
In tema di separazione personale dei coniugi, ai fini dell’accertamento del diritto all’assegno di mantenimento e della sua determinazione, occorre considerare la complessiva situazione di ciascuna dei coniugi e quindi, tener conto, oltre che dei redditi in danaro, di ogni altra utilità economicamente valutabile, ivi compresa la disponibi¬lità della casa coniugale, oltreché dell’attitudine al lavoro del beneficiario, onde conservare a questi, se privo di reddito adeguato, il tenore di vita goduto in regime di convivenza.
Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 1991, n. 13128 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli accordi fra coniugi, in regime di separazione, circa la spettanza e l’entità dell’assegno di divorzio, devono ritenersi non vincolanti, in ragione della carenza del potere di regolare in via preventiva gli effetti patrimoniali discendenti dallo scioglimento del matrimonio, anche nella nuova disciplina introdotta dalla l. 6 marzo 1987, n. 74, la quale, nell’attribuire a detto assegno funzione eminentemente assistenziale, ne ha confermato ed accen¬tuato la natura di diritto indisponibile.
Cass. civ. Sez. I, 20 febbraio 1991, n. 1809 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di divorzio, nella nuova formulazione dell’art. 5, l. 1 dicembre 1970, n. 898, introdotta dall’art. 10, l. 6 marzo 1987, n. 74, ha funzione eminentemente assistenziale, in quanto è subordinato alla mancanza di redditi e sostanze adeguate ed alla impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive (adeguatezza da valutarsi nel contesto nel quale i coniugi hanno vissuto, quale situazione condizionante la qualità e la quantità dei bisogni del richiedente), mentre gli altri criteri, costituiti dalle condizioni dei coniugi, dalle ragioni della decisione, dal contributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di cia¬scuno o di quello comune, dal reddito di entrambi, vagliati unitariamente e confrontati al paradigma della durata del matrimonio, sono destinati ad operare solo in presenza del suddetto presupposto, incidendo esclusivamente sulla quantificazione dell’assegno stesso.
Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490 (Foro It., 1991, I, 67, note di QUADRI, CARBONE)
L’assegno periodico di divorzio, nella disciplina introdotta dall’art. 10 della L. 6 marzo 1987 n. 74, modificativo dell’art.5 della L. 1 dicembre 1970 n. 898, ha carattere esclusivamente assistenziale (di modo che deve essere negato se richiesto solo sulla base di premesse diverse, quale il contributo personale ed economico dato da un coniuge al patrimonio dell’altro), atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio. Ove sussista tale presupposto, la liquidazione in concreto dell’assegno deve essere effettuata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri enunciati dalla legge (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio), con riguardo al momento della pronuncia di divorzio. A quest’ultimo fine, peraltro, il giudice del merito, purché ne dia adeguata giustificazione, non è tenuto ad utilizzare tutti i suddetti criteri, anche in relazione alla deduzione e richieste delle parti, salva restando la valutazione della loro influenza sulla misura dell’assegno stesso (che potrà anche essere escluso sulla base della incidenza negativa di uno o più di essi).
Presupposto per l’attribuzione dell’assegno di divorzio è che il coniuge richiedente non abbia mezzi adeguati a conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, tenuto conto non solo dei suoi redditi ma anche dei cespiti patrimoniali e delle altre utilità di cui può disporre.
Nella legge sul divorzio, un’espressione letterale che non esisteva nel testo del 1970, e cioè il riferimento al coniuge che “non ha mezzi adeguati”; espressione analoga a quella contenuta nell’art. 156 c.c. sugli effetti della separazione nei rapporti patrimoniali fra i coniugi. Nell’interpretazione giurisprudenziale il difetto di redditi ade¬guati va inteso come difetto di redditi e/o di sostanze od altre utilità sufficienti ad assicurare al coniuge il tenore di vita che gli sarebbe spettato durante la convivenza (Cass. 6 luglio 1978 n. 3341; 8 maggio 1976 n. 1618; 24 novembre 1978 n. 5516; 19 ottobre 1981 n. 5446; 29 novembre 1986 n. 7061; 20 novembre 1989 n. 4955)
Cass. civ. Sez. I, 23 luglio 1990, n. 7458 (Foro It., 1991, I, 144, nota di CIPRIANI)
Il principio enunciato nell’art. 4, 10° comma, legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 8, l. 6 marzo 1987, n. 74, secondo cui il giudice del merito può far decorrere l’assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda, ha una portata generale ed è quindi applicabile anche nell’ipotesi in cui con la stessa sentenza si sia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e si sia condannato un coniuge a corrispondere all’altro l’assegno di divorzio, senza che sia necessaria un’apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell’assegno, essendo sufficiente la mera richiesta di assegno for¬mulata dal beneficiario.
Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1990, n. 1652 (Foro It., 1990, I, 1165 nota di QUADRI, MACARIO)
Nel giudizio per l’attribuzione dell’assegno di divorzio, la valutazione relativa all’adeguatezza dei mezzi economici di cui dispone il richiedente deve essere compiuta con riferimento non al tenore di vita da lui goduto durante il matrimonio, ma ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, quale, nei casi singoli, configurato dalla coscienza sociale.
Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 1990, n. 475 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’omessa indicazione, nella sentenza di divorzio, della data di decorrenza dell’assegno resta irrilevante, e non è conseguentemente deducibile in sede di ricorso per cassazione, atteso che la decorrenza dell’assegno ha una disciplina fissata nella legge – salva l’ipotesi prevista dal nuovo testo dell’art. 4, 10° comma, legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 3 legge 6 marzo 1987, n. 74 – e che la detta data coincide pur sempre con quella del passaggio in giudicato della sentenza medesima.
Cass. civ. Sez. I, 17 marzo 1989, n. 1322 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di divorzio ha natura eminentemente assistenziale e spetta esclusivamente quando il coniuge richie¬dente non abbia mezzi adeguati, tali cioè da consentirgli di mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva in costanza di matrimonio
Poiché a seguito delle modificazioni apportate dall’art. 10 l. 6 marzo 1987 n. 74 all’art. 5, comma 4, l. 1° di¬cembre 1970 n. 898 ed applicabili anche ai giudizi in corso al momento dell’entrata in vigore della prima legge (Cass. 28 ottobre 1987 n. 7957), condizione necessaria per affermare il diritto di un coniuge di ottenere dall’altro un assegno di divorzio è che il coniuge richiedente non abbia redditi adeguati e cioé tali che gli consentano di mantenere un tenore di vita adeguato a quello che aveva in costanza di matrimonio.
Cass. civ. Sez. I, 16 febbraio 1988, n. 1666 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pronuncia di divorzio operando ex nunc dal momento del passaggio in giudicato, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione personale iniziato anteriormente e tuttora pendente, quando esista un interesse ai provvedimenti patrimoniali, sia per la definitiva regolamentazione dell’assegno determinato nel giudizio di separazione personale per il successivo periodo fino alla domanda di divorzio, sia per l’incidenza dell’accertamento dell’addebitabilità della separazione sull’eventuale revisione dell’assegno di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 1987, n. 6016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora, nel giudizio di divorzio, la decisione di primo grado sullo scioglimento del matrimonio civile o sulla ces¬sazione degli effetti civili del matrimonio religioso, non appellata, sia passata in giudicato prima della statuizione definitiva (di appello) sulla attribuzione e sulla quantificazione dell’assegno, la decorrenza di questo risale al momento in cui è passata in giudicato la sentenza di primo grado, che rappresenta il titolo costitutivo-risolutivo della pronuncia di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 1987, n. 170 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La Corte avrebbe dovuto tenere presente che l’espressione “qualora non abbia adeguati redditi propri” è in¬terpretata dalla giurisprudenza nel senso che il difetto di redditi o di redditi adeguati non va inteso come stato di bisogno, invocato dalla D’Alessandro in prime cure, bensì come difetto di redditi sufficienti ad assicurare al coniuge il tenore di vita goduto in regime di convivenza (Cass. 8.5.80 n. 3033; 20.1.1979 n. 429; 18.12.1978 n. 6037; 24.11.1978 n. 5516).
Al fine del riconoscimento e della liquidazione dell’assegno di mantenimento, ai sensi dell’art. 156, 1° comma, c. c., in favore del coniuge che deduca e dimostri di non avere adeguati redditi propri, occorre prendere in consi¬derazione la complessiva situazione patrimoniale di detto istante, cioè non soltanto i redditi in senso stretto, ma anche i cespiti in godimento diretto ed ogni altra utilità suscettibile di valutazione economica (quali aiuti forniti dai genitori con carattere di stabilità), per poi stabilire se tale situazione sia o meno idonea ad assicurargli un tenore di vita corrispondente a quello goduto in regime di convivenza, o comunque adeguato alle sue esigenze e condizioni economico-sociali.
Cass. civ., 6 gennaio 1983, n. 67 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’omessa specificazione, con la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, della data di decorrenza dell’assegno di divorzio resta irrilevante, e non è conseguentemente deducibile in sede di ricorso per cassazione, atteso che tale data coincide con quella del passaggio in giudicato della sentenza mede¬sima, che segna l’insorgere del diritto a detto assegno.
Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1980, n. 3710 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di divorzio, a differenza dell’assegno alimentare, spetta solo dopo la formazione del titolo esecutivo e decorre, quindi, dal passaggio in giudicato della pronuncia di scioglimento del vincolo o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, e dalla conseguente annotazione della sentenza nei registri dello stato civile. Tuttavia, la statuizione della sentenza di primo grado, che abbia erroneamente fissato una decorrenza diversa dell’assegno, configura un capo autonomo della sentenza medesima, che, se non impugnato con l’atto di appello, dà luogo alla formazione del giudicato interno e non può perciò essere impugnata in sede di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 1977, n. 2580 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di divorzio, per la sua natura composita, ha una disciplina giuridica diversa da quella che regola l’obbli¬go alimentare, il quale presuppone la permanenza e non la cessazione del vincolo coniugale. Conseguentemente, l’assegno stesso può essere preteso solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza che ha sciolto il vincolo matrimoniale o ne ha fatto cessare gli effetti: esso è esigibile dalla data di annotazione della sentenza, a norma dell’art. 10 della legge n. 898 del 1970, con decorrenza dal momento del passaggio in giudicato.