Azienda coniugale e azienda personale

Di Gianfranco Dosi

I Impresa e azienda nel regime di comunione e di separazione dei beni
Un’attività imprenditoriale può essere esercitata da un coniuge personalmente o insieme all’altro coniuge. La disciplina giuridica applicabile alle due situazioni è influenzata dal regime patrimoniale.
In separazione dei beni l’esercizio personale di una attività imprenditoriale da parte di un coniuge non ha particolari conseguenze essendo i beni aziendali in genere di esclusiva proprietà dell’imprenditore che li utilizza e quindi non si producono particolari interferenze con l’altro coniuge. L’esercizio in comune da parte dei coniugi, invece, di un’attività imprenditoriale, si traduce in una gestione societaria e di conseguenza le regole applicabili sono quelle della società.
Il regime di comunione legale, influenza, viceversa in modo significativo la disciplina dell’azienda e dell’impresa dei coniugi, nel senso che l’esercizio di una attività imprenditoriale da parte di un coniuge determina l’ingresso in comunione de residuo dei beni (se l’impresa è costituita dopo il matrimonio) o degli incrementi (se l’impresa era già esistente da prima del matrimonio), mentre se l’impresa è cogestita i beni aziendali ovvero gli utili e gli incrementi entrano in comunione immediata a seconda che l’azienda sia costituita dopo il matrimonio o fosse personale di uno dei due coniugi da prima del matrimonio. La gestione, quindi, da parte del solo coniuge imprenditore comporta acquisizioni alla comunione de residuo, mentre la cogestione dell’impresa determina acquisizioni in comunione immediata. In quest’ultimo caso, per quanto, attiene alla disciplina dell’impresa (cogestita) troveranno, però, applicazione sempre le sole regole societarie essendo inconcepibile nel nostro sistema una comunione di impresa in quanto un’impresa collettiva è sempre una impresa societaria.
Come si vedrà, la giurisprudenza in materia di azienda e impresa dei coniugi in regime di comunione, pur significativa, è numericamente contenuta, segno evidente che nella realtà della vita sociale l’attività imprenditoriale è evidentemente soprattutto esercitata da coniugi in regime di separazione dei beni. E, come si è sopra detto, la separazione dei beni non interferisce quasi per nulla con l’attività imprenditoriale separata o comune dei coniugi.
Con queste premessa di carattere generale è ora possibile scendere all’esame del diverse tipologia che il codice civile prevede in caso di azienda e di impresa dei coniugi, con particolare riferimento alle interferenze con la comunione legale.
II Azienda coniugale (cogestita) e comunione immediata dell’azienda
L’espressione “azienda coniugale” non è una espressione usata genericamente, ma si riferisce – nella lettera d dell’art. 177 (oggetto della comunione)1 – all’azienda costituita dai coniugi in comunione legale dopo il matrimonio e cogestita da entrambi.
1 177 (Oggetto della comunione)
L’azienda costituita da entrambi i coniugi dopo il matrimonio (si pensi a due coniugi entrambi fotografi – in regime di comunione dei beni – che avviano una impresa da esercitare insieme e che acquistano i macchinari e le attrezzature necessarie) fa parte della comunione immediata in quanto l’acquisto dei beni aziendali è effettuato insieme dopo il matrimonio. Si tratta in fondo di un acquisto che come tutti gli acquisti fanno entrare il bene in comunione. D’altro lato l’azienda – come definita nell’art 2555 – è “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” ed è quindi conseguenziale che l’art. 177 consideri l’azienda coniugale come un insieme di beni (acquistati come beni strumentali dell’impresa) che hanno a che fare con la comunione.
Oggetto della comunione è quindi, l’azienda (e quindi i beni che compongono). Si ricorda che l’art, 179 (beni personali) alla lettera d esclude che siano beni personali, appunto, i beni destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione.
La gestione comune da parte dei coniugi in comunione di una determinata impresa imprime ai beni destinati a quell’impresa la natura di un acquisto che ne giustifica l’inclusione nella comunione dei beni.
Con l’espressione “azienda coniugale” ci si riferisce quindi al complesso dei beni destinati da coniugi in comunione legale all’esercizio di una impresa costituita dopo il matrimonio e da essi cogestita durante il matrimonio.
Può trattarsi di beni immobili (locali commerciali, una fabbrica, capannoni) o beni mobili (strumenti di lavoro, attrezzature, mobilio) o anche mobili registrarti (autovetture, camion).
La collocazione di questa situazione all’interno della comunione dei beni (art. 177 c.c.) giustifica il nome che l’istituto ha. Non impresa coniugale ma “azienda coniugale” proprio per richiamare la dimensione dell’acquisto dei beni necessari per l’esercizio di una impresa. In ogni caso l’azienda coniugale è, da un punto di cista dinamico, una vera e propria impresa coniugale.
È appena il caso di osservare che se l’azienda non fosse cogestita dai coniugi – e quindi se fossimo in presenza di una azienda personale di uno dei coniugi (gestita, perciò, solo dal coniuge proprietario dell’azienda) – si verificherebbe la situazione descritta nell’art. 178 e i beni e gli incrementi aziendali entrerebbero in comunione de residuo.
III Azienda personale (cogestita) e comunione immediata degli utili e degli incrementi
Il codice si riferisce all’“azienda personale” per fare riferimento a quanto prevede il capoverso dell’art. 177 (“Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi”). Si tratta di una azienda, quindi, appartenente ad uno dei coniugi da prima del matrimonio e, tuttavia, cogestita da entrambi.
L’ipotesi è quella in cui i beni aziendali (nell’esempio di sopra i macchinari e le attrezzature di fotografia) sono di proprietà da prima del matrimonio di uno dei coniugi che li aveva destinati alla propria attività imprenditoriale. Questi beni rimangono evidentemente beni personali (art. 179, lettera a) del coniuge imprenditore che li ha acquistati. In questo senso l’azienda è “appartenente” al coniuge imprenditore. Tuttavia, se dopo il matrimonio il coniuge imprenditore proprietario di quei beni chiama l’altro a partecipare e a gestire l’azienda, questa gestione comune fa sì che (non l’azienda ma solo) gli utili e gli incrementi dell’azienda entrino nella comunione immediata, avvantaggiando anche il coniuge non proprietario in virtù del fatto che anche lui gestisce l’azienda. Utili ed incrementi vengono pertanto equiparati agli acquisti ed entrano in comunione come tali.
Gli incrementi sono tutti gli acquisti effettuati dai coniugi successivamente all’inizio della cogestione aziendale insieme o separatamente. Gli utili sono i vantaggi monetari detratte le spese derivanti dalla cogestione. Oggetto della comunione è una entità (appunto gli utili) che può essere facilmente desunta dalla contabilità aziendale e dalla documentazione fiscale. E’ un caso in cui oggetto della comunione è in sostanza il denaro che normalmente non entra in comunione immediata ma in comunione de residuo.
Anche in questo caso se l’azienda personale di uno dei coniugi non fosse cogestita da entrambi si verificherebbe la situazione descritta nell’art. 178 e gli incrementi dell’azienda entrerebbero in comunione de residuo.
IV Azienda personale (gestita dal solo coniuge imprenditore) e comunione de residuo
L’art. 178 c.c. 2 prevede – analogamente a quanto si verifica in caso di proventi non consumati di attività separata (art. 177 lett. c) – che i beni aziendali di uno dei coniugi entrano nella comunione di residuo, se esistenti ancora al momento dello scioglimento del regime, a condizione che si tratti di “beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio” e di “incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente” e perciò anche dell’impresa costituita dopo il matrimonio.
L’azienda (costituita dopo il matrimonio o esistente da prima del matrimonio) è di proprietà del coniuge imprenditore che rimane tale senza che l’altro coniuge sia chiamato a cogestirla.
Si verifica una situazione che è molto simile a quella dei risparmi dei coniugi in comunione. In pratica i beni
Costituiscono oggetto della comunione:
a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali;
b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione;
c) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati;
d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.
Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi.
2 178 (Beni destinati all’esercizio di impresa)
I beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa.

aziendali dell’impresa di un coniuge acquistati dopo il matrimonio e gli incrementi aziendali dell’impresa di uno dei coniugi (iniziata prima o dopo il matrimonio) diventano anche dell’altro coniuge se esistenti al momento dello scioglimento del regime della comunione legale.
Si tratta perciò di “beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio” e di “incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente” che secondo l’art. 178 “si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”.
In definitiva, i beni che il coniuge imprenditore destina alla sua impresa costituita dopo il matrimonio non entrano in comunione immediata ma, se esistenti al momento dello scioglimento della comunione, fanno parte della comunione de residuo.
Altrettanto avviene per i beni destinati ad un’impresa che il coniuge esercitava già da prima del matrimonio. In tal caso, appunto, resteranno in comunione de residuo gli incrementi di tale impresa.
Il diritto del coniuge non imprenditore sugli incrementi, al momento dello scioglimento della comunione legale, ha natura di diritto di credito.
Il codice tratta quindi i beni (della nuova impresa di un coniuge) e gli incrementi (dell’impresa già avviata da un coniuge da prima del matrimonio) come proventi di attività separata e li destina alla comunione de residuo.
VI concetti di gestione e di cogestione
a) Proprietà dei beni aziendali e gestione dell’impresa sono due piani diversi
Come si è visto, oggetto della comunione immediata nel caso dell’azienda coniugale prevista nell’art. 177 lett. d (comunione dell’azienda) e nel caso dell’azienda personale prevista nel capoverso del medesimo art. 177 (comunione degli utili e degli incrementi) è la cogestione. Non c’è invece nessuna cogestione della situazione descritta nell’art. 178.
In entrambe le situazioni, per potersi parlare di comunione immediata dell’azienda ovvero degli utili e degli incrementi, elemento imprescindibile è che l’azienda sia cogestita. E ciò, indipendentemente dal fatto che l’azienda sia stata costituita da entrambi i coniugi dopo il matrimonio (azienda coniugale) o che appartenesse ad uno dei coniugi prima del matrimonio (azienda personale) (Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2004, n. 13164; App. Milano, 10 maggio 2006).
In verità il termine cogestione fa riferimento logico ad una situazione dinamica, quindi all’impresa esercitata dai coniugi e non ad un elemento statico come l’azienda. Poiché però il legislatore ha dato prevalenza all’elemento strutturale del trovarsi i beni aziendali ovvero gli utili e gli incrementi in comunione legale, la norma parla di cogestione dell’azienda, ma tecnicamente si tratta di una cogestione dell’impresa.
Proprio per questo Tribunale Roma 16 settembre 1999 – una delle pochissime sentenze reperibili su questo argomento – ha in passato affermato che cogestire un’impresa significa in sostanza per due coniugi trovarsi tra loro in società di fatto. La sentenza in questione (che si occupò del fallimento di una società di fatto tra due coniugi in comunione che cogestivano un’impresa di commercio di oggetti preziosi) faceva rilevare che “nel caso in cui ambedue i coniugi siano proprietari e cogestiscano l’azienda familiare, ai fini dell’individuazione delle norme applicabili occorre distinguere i rapporti concernenti la proprietà, art. 177 c.c., dai rapporti concernenti la gestione, art. 2247 c.c..
In sostanza il tribunale sostenne che il problema centrale, nel caso di impresa esercitata da entrambi i coniugi nella forma dell’azienda coniugale, è quello di stabilire se all’impresa collettiva, vadano applicate le disposizioni che disciplinano la comunione legale oppure le norme di diritto societario, in quanto vera e propria società di fatto.
La dottrina è stata a lungo impegnata nella questione della sottoposizione della gestione dell’impresa coniugale alla regolamentazione delle società (e, in particolare, a quella della società di fatto) ovvero alla disciplina della comunione legale. Molti hanno sostenuto la tesi dell’applicazione delle norme della comunione negando in radice la stessa possibilità per i coniugi in comunione legale di concludere un contratto di società con cui esercitare in comune l’attività di impresa, con la conseguenza che la gestione in forma societaria di un’azienda di proprietà dei due coniugi sarebbe ammissibile solamente ove la stessa venisse previamente estromessa dalla comunione con una modifica convenzionale (art. 210 c.c.). Altri sono stati propensi a riconoscere, invece, alla disciplina della comunione legale un rilievo tale da non sconvolgere i rapporti con i terzi, ma da esplicarsi per quanto possibile nei soli rapporti interni, ammettendo che la gestione in comune dell’azienda da parte dei coniugi dà luogo ad una società di fatto alla quale dovrà applicarsi tutta la disciplina di tali società, compresa la responsabilità illimitata dei soci come se si trattasse sempre di obbligazioni assunte congiuntamente per le quali i beni della comunione rispondono sempre (art, 186, lett. d) e senza applicazione della regola prevista per le obbligazioni contratte separatamente (art. 189).
Nella scarsissima giurisprudenza reperibile il problema è stato risolto – come si è visto (Tribunale Roma 16 settembre 1999) – ritenendo sempre applicabili alla (co)gestione le regole della società.
In verità precedentemente era anche sta proposta la tesi contraria: che ciò si applicassero le regole della comunione (Trib. Catania, 21 gennaio 1983 affermò, infatti, che un’azienda gestita di fatto da entrambi i coniugi in regime di comunione legale, in assenza di precisi accordi formali, ricade nell’ipotesi di cui all’art. 177, lett. d), cod. civ., ovvero, qualora si tratti di azienda già appartenente ad uno dei coniugi prima del matrimonio, nell’ipotesi di cui al comma 2 del medesimo articolo”).
Secondo questo orientamento più attempato l’applicazione del regime proprio della comunione familiare alla gestione in comune da parte dei coniugi di un’azienda coniugale si giustificherebbe con l’esigenza di evitare (applicandosi altrimenti il più gravoso regime societario) che l’azienda coniugale, concepita a tutela del lavoro coniugale e familiare, possa comportare pesanti conseguenze per il coniuge più debole che ha prestato la propria attività lavorativa nell’azienda del consorte. Tuttavia, all’inquadramento dell’azienda coniugale nell’ambito della comunione legale tra coniugi, osta effettivamente l’impossibilità di configurare imprese collettive non di tipo societario, ma nelle forme della comunione d’impresa. Un’impresa collettiva è nel nostro sistema sempre una impresa societaria.
Non resta, perciò, che distinguere i due aspetti: una cosa è la comunione dell’azienda ed un’altra cosa è l’esercizio collettivo dell’impresa in forma societaria.
Il primo aspetto, che riguarda l’appartenenza dei beni (e cioè la disciplina dell’acquisto dei diritti reali e patrimoniali da parte dei coniugi) rientra nell’ambito di applicazione delle norme di cui all’art. 177, lett. d) e 2° comma, c.c., mentre il secondo aspetto e cioè l’esercizio in comune dell’impresa, troverà la propria disciplina all’interno della materia societaria, posto che, in assenza di una espressa previsione di deroga da parte del legislatore, la disciplina dell’esercizio in comune di una attività economica, non può che essere demandata alle norme in materia di società.
Con la precisazione, importante, che la comunione legale tra coniugi non implica, per ciò stesso, l’esistenza di una società di fatto tra gli stessi, occorrendo sempre la prova della (co)gestione (Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 1995, n. 6142 che ammette quindi che due coniugi in comunione possano esercitare un’attività in società).
Seguendo tale interpretazione si perviene alla conclusione che, quando due coniugi utilizzano beni aziendali per l’esercizio in comune di una attività economica, danno luogo ad una società di fatto, regolata secondo gli artt. 2247 e segg. c.c. se vi è la effettiva gestione comune. Le norme di cui all’art. 177, lett. d), e 2° comma, c.c. disciplinano, invece, l’attribuzione della titolarità di determinati beni aziendali, allorquando l’azienda, costituita prima o dopo il matrimonio, sia gestita da entrambi i coniugi.
In questa prospettiva per esempio Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2004, n. 13164 aveva annullato una decisione di merito “in quanto la sentenza impugnata ha fatto applicazione dell’ultimo comma dell’art. 177 cod. civ. che comprende nella comunione familiare gli utili e gli incrementi delle aziende appartenenti a uno dei coniugi anteriormente al matrimonio, ma gestite da entrambi, senza alcun riferimento alla cogestione dell’azienda”.
Va anche considerato che la gestione comune dell’azienda coniugale fa assumere ai coniugi, per ciò stesso, la qualifica di (co)imprenditori, con tutte le conseguenze previste nel caso di insolvenza dalla legge fallimentare (RD 16 marzo 1942, n. 267 nel testo vigente dopo le riforme attuate con il Decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169).
b) Che significa cogestione?
A questo punto occorre chiedersi che cosa significa cogestione.
Su questo aspetto viene spesso richiamata una decisione piuttosto significativa (App. Milano, 10 maggio 2006) nella quale i giudici procedono proprio alla verifica delle modalità di gestione di una impresa di attività di parrucchiere, ritenendo che determinante è verificare il ruolo rispettivamente svolto dai coniugi nella fase gestionale. “Già nella sentenza impugnata si dà correttamente atto che la L. assumeva con il marito le scelte relative all’impiego degli utili, all’assunzione di nuovo personale, agli indirizzi dell’attività e, in particolare, si sottolinea che era la L. che organizzava il lavoro con le dipendenti e gestiva le clienti, che incassava, che verificava le necessità relative ai prodotti e ad eventuale manodopera, in quanto il marito era occupato pressoché per l’intera giornata nel negozio”. Né ad avviso della Corte “pare significativo per escludere la configurabilità di una gestione della L. in comune con il marito che fosse quest’ultimo a mantenere i rapporti con i fornitori ed a gestire il conto corrente relativo all’attività dell’impresa o a consultare il commercialista, al quale trasmetteva la documentazione contabile. Una divisione dei compiti nell’ambito dell’esercizio in comune dell’azienda sembra infatti pienamente rispondente ad un’ottica di efficienza: da una parte il M. seguiva i rapporti con i professionisti e consulenti, dall’altra la L. seguiva gli aspetti più propriamente operativi dell’impresa, che per le sue caratteristiche artigianali si concretizzano soprattutto nello svolgimento in prima persona del “mestiere”, nel tenere i rapporti con la clientela, nell’incassare e rilasciare ricevute fiscali, coordinare e dirigere il personale”
Quindi assumere le scelte relative all’impiego degli utili, all’assunzione di nuovo personale, agli indirizzi dell’attività, all’organizzazione del lavoro dei dipendenti, ai rapporti con i clienti, lasciando che l’altro coniuge si occupi della contabilità e dei rapporti con i fornitori significa cogestire un’azienda.
Spesso un elemento che viene in evidenza è l’avvenuta concessione, da parte del coniuge formalmente estraneo all’attività, di fideiussioni o di altre forme di garanzia a favore dell’impresa, ovvero l’avvenuto compimento di atti di pagamento. Rispetto a tali comportamenti la Cassazione ha statuito che trattasi di atti di per sé neutri, normalmente ispirati da ragioni di solidarietà familiare (o necessitati dalla prassi delle banche di subordinare i finanziamenti alle aziende alla prestazione di garanzie da parte dei familiari dell’imprenditore) ed inidonei in quanto tali a far inferire, anche solo nei rapporti con i terzi, la sussistenza di un vincolo societario. Per l’accertamento del vincolo societario serve una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi; essendo, peraltro, sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società. Tuttavia, in caso di società di fatto (che si assuma) intercorrente fra familiari (non necessariamente coniugi), la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla affectio familiaris, sicché, di regola, non è di per sé sufficiente la dimostrazione, per esempio, di finanziamenti o pagamenti ai creditori dell’impresa da parte del congiunto dell’imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare. Soltanto ove contrassegnati da un carattere di sistematicità tali comportamenti potrebbero consentire il superamento della qualifica individuale dell’impresa, e determinare, attraverso la qualificazione societaria dell’attività d’impresa, l’assoggettamento del loro autore alla procedura fallimentare.
Applicando questi principi la giurisprudenza di legittimità sostiene ormai da tempo che ai fini dell’estensione del fallimento è necessario il positivo accertamento dell’effettiva costituzione di una società di fatto , attraverso l’esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all’impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del nomen della società o quanto meno l’esteriorizzazione del vincolo sociale, l’assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all’esistenza di un vincolo societario, mentre non assume rilievo univoco né la (simulata) qualificazione dei familiari come collaboratori di impresa familiare, né l’eventuale condivisione degli utili, trattandosi d’indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla affectio societatis (società tra consanguinei: Cass. civ. Sez. II, 20 giugno 2013, n. 15543; Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 2010, n. 14580; Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1999, n. 3163; Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 1996, n. 6770; società tra coniugi: Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16829 e Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2000, n. 3520).
In linea generale la giurisprudenza di merito si è adeguata a questi principi (Trib. Bari Sez. IV, 7 gennaio 2009; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 15 gennaio 2003; Trib. Cassino, 21 gennaio 2001; Trib. Roma, 5 luglio 1995; Trib. Cassino, 14 giugno 1995; Trib. Pordenone, 8 aprile 1993; Trib. Catania, 15 luglio 1992).
c) La differenza con l’impresa familiare
E’ a questo punto molto chiara la differenza tra l’impresa coniugale esercitata cogestendo un’azienda in comunione (nei casi di cui all’art. 177 lett. e di cui all’art. 177 capoverso) e l’impresa familiare3 a cui si riferiscono l’art. 230-bis per la famiglia fondata sul matrimonio e l’art. 230-ter per i conviventi di fatto.
Nell’azienda coniugale vi è cogestione dell’attività imprenditoriale. Nell’impresa familiare non c’è alcuna cogestione: l’imprenditore è solo uno, mentre il familiare che collabora è un semplice collaboratore. Se vi fosse cogestione sarebbe in radice esclusa l’impresa familiare.
Vi è, invece, possibile sovrapposizione di disciplina giuridica tra impresa personale appartenente ad un coniuge in regime di comunione (a cui fa riferimento l’art. 178) e impresa familiare ove il familiare dell’imprenditore presti continuativamente la sua collaborazione lavorativa. In tal caso non c’è nessuna incompatibilità e la disciplina della comunione si sovrappone a quella dell’impresa familiare.
E’ anche questa l’opinione della giurisprudenza che tuttavia sul punto non ha detto nulla di più di quanto non possa desumersi dalle espressioni usate nelle due diverse disposizioni delle disposizioni (cfr per esempio l’importante Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390 che precisava sull’argomento la diversità degli elementi costitutivi tra le fattispecie dell’impresa coniugale e dell’impresa familiare “atteso che solo nella prima ipotesi la collaborazione dei coniugi si realizza attraverso la gestione comune dell’impresa”.
VIIl fallimento dell’impresa coniugale cogestita
Si è detto che tra coniugi la prevalenza dell’affectio societatis produce l’inquadramento del rapporto di impresa all’intero della categoria generale della società di fatto (cfr la giurisprudenza sopra citata). Tale è, infatti, quella che sorge in base anche ad un semplice comportamento concludente dal quale emerga inequivocabilmente la volontà delle parti di costituire un rapporto sociale. Naturalmente, come anche si è già detto, non è escluso che i coniugi in regime di comunione (per i coniugi in separazione dei beni non vi è alcun problema) possano anche costituire tra di loro una società a responsabilità illimitata, come per esempio, una società in nome collettivo (art. 2291 ss c.c.), che sarebbe del tutto compatibile con la responsabilità illimitata che deriva, nel regime di comunione, da obbligazioni assunte congiuntamente per le quali i beni della comunione rispondono sempre (art, 186, lett. d).
Tuttavia la fattispecie più consueta che si presenta è quella in cui i coniugi, cogestendo una impresa di quelle di cui si è parlato, di per sé realizzano un rapporto societario di fatto, rapporto che, sempre ferma la responsabilità illimitata di ciascuno dei coniugi (art. 2267 c.c.)4, è anche sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale tra di loro ai sensi dell’art. 2297 c.c. 5 in quanto l’impresa coniugale esercitata in via di fatto non è certo registrata.
Pacificamente la giurisprudenza riconosce (naturalmente anche al di fuori del rapporto societario tra coniugi o consanguinei a cui si riferisce la giurisprudenza sopra citata) che la mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l’accertamento aliunde, mediante ogni mezzo di prova previsto dall’ordinamento, ivi
3 cfr la v oce IMPRESA FAMILIARE
4 Art. 2267 (Responsabilità per le obbligazioni sociali)
I creditori della società possono far valere i loro diritti sul patrimonio sociale. Per le obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente e solidalmente i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli altri soci.
Il patto deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza, la limitazione della responsabilità o l’esclusione della solidarietà non è opponibile a coloro che non ne hanno avuto conoscenza.
5 Art. 2297 (Mancata registrazione)
Fino a quando la società non è iscritta nel registro delle imprese i rapporti tra la società e i terzi ferma restando la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci, sono regolati dalle disposizioni relative alla società semplice.
Tuttavia si presume che ciascun socio che agisce per la società abbia la rappresentanza sociale, anche in giudizio. I patti che attribuiscono la rappresentanza ad alcuno soltanto dei soci o che limitano i poteri di rappresentanza non sono opponibili ai terzi, a meno che si provi che questi ne erano a conoscenza.
comprese le presunzioni semplici, dell’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi; peraltro, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell’art. 2297 c.c., l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società (Cass. civ. Sez. VI, 5 maggio 2016, n. 8981; Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 2010, n. 5961).
Le aziende coniugali sono strumentali all’esercizio di una attività commerciale (art. 2195 c.c. Imprenditori soggetti a registrazione) per le quali il codice prevede l’obbligo di costituzione “secondo uno dei tipi regolati nei capi III e seguenti “ del titolo V (art. 2249). Pertanto la società di fatto tra coniugi – che non è, cioè, costituita secondo uno di quei tipi – potrebbe essere considerata società in nome collettivo irregolare, perché non iscritta nel registro delle imprese. In ogni caso trova applicazione il citato articolo art. 2297 (Mancata registrazione: “Fino a quando la società non è iscritta nel registro delle imprese i rapporti tra la società e i terzi ferma restando la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci, sono regolati dalle disposizioni relative alla società semplice”). La responsabilità dei soci è quindi illimitata.
Trattandosi di società di persone, il fallimento della società di fatto è disciplinato nella legge fallimentare dagli artt. 147 6 e 1487 che trattano proprio il caso del fallimento delle società con soci a responsabilità illimitata, ferma sempre l’esclusione del fallimento nelle ipotesi indicate in via generale per tutti gli imprenditori dal secondo comma dell’art. 1 della legge fallimentare che fa riferimento a determinati parametri quantitativi di esclusione.
Se l’esistenza della società di fatto, quindi, è individuata dal soggetto che ne chiede il fallimento e accertata in giudizio, si procede ai sensi dell’art. 147, primo comma, della legge fallimentare e “la sentenza che dichiara il fallimento… produce anche il fallimento dei soci… illimitatamente responsabili”. Può avvenire che gli elementi per l’individuazione dell’esistenza della società di fatto siano scoperti dal curatore del fallimento di uno dei soci. La legge dispone, perciò, che sia dichiarato il fallimento della società (e di tutti i suoi soci) “qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile” (art. 147, quinto comma, legge fallimentare).
Per quanto concerne invece le imprese individuali (art. 178) che pongono problemi di comunione de residuo , poiché il fallimento determina lo scioglimento della comunione (art. 191 c.c.), si è posto il problema di come intendere la comunione de residuo su “i beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente” che “si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”.
Si è ritenuto in giurisprudenza che il fallimento di uno dei coniugi in regime di comunione legale dei beni determina la comunione de residuo sui beni destinati post nuptias all’esercizio di impresa, soltanto rispetto a quelli eventualmente residui dopo la chiusura della procedura (Cass. civ. Sez. I, 14 aprile 2004, n. 7060) ed in effetti i beni acquistati e destinati all’esercizio dell’impresa, prima dello scioglimento della comunione, sono aggredibili per intero dai creditori del coniuge imprenditore e sarebbe del tutto irragionevole pensare che con la dichiarazione di fallimento la garanzia dei creditori possa ridursi. Inoltre la dichiarazione di fallimento determina lo scioglimento della comunione, e quindi anche lo spossessamento del debitore ed il vincolo di tutti i suoi beni al soddisfacimento dei creditori. Pertanto la comunione de residuo si attua, in caso di fallimento di un coniuge, su ciò che rimane dopo aver pagato le passività.
6 Art. 147 (Società con soci a responsabilità illimitata)
La sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili.
Il fallimento dei soci di cui al comma primo non può essere dichiarato decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata anche in caso di trasformazione, fusione o scissione, se sono state osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati. La dichiarazione di fallimento è possibile solo se l’insolvenza della società attenga, in tutto o in parte, a debiti esistenti alla data della cessazione della responsabilità illimitata.
Il tribunale, prima di dichiarare il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, deve disporne la convocazione a norma dell’articolo 15.
Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi.
Allo stesso modo si procede, qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile.
Contro la sentenza del tribunale è ammesso reclamo a norma dell’articolo 18.
In caso di rigetto della domanda, contro il decreto del tribunale l’istante può proporre reclamo alla corte d’appello a norma dell’articolo 22.
7 Art. 148 (Fallimento della società e dei soci)
Nei casi previsti dall’articolo 147, il tribunale nomina, sia per il fallimento della società, sia per quello dei soci un solo giudice delegato e un solo curatore, pur rimanendo distinte le diverse procedure. Possono essere nominati più comitati dei creditori.
Il patrimonio della società e quello dei singoli soci sono tenuti distinti.
Il credito dichiarato dai creditori sociali nel fallimento della società si intende dichiarato per l’intero e con il medesimo eventuale privilegio generale anche nel fallimento dei singoli soci. Il creditore sociale ha diritto di partecipare a tutte le ripartizioni fino all’integrale pagamento, salvo il regresso fra i fallimenti dei soci per la parte pagata in più della quota rispettiva.
I creditori particolari partecipano soltanto al fallimento dei soci loro debitori.
Ciascun creditore può contestare i crediti dei creditori con i quali si trova in concorso.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI, 5 maggio 2016, n. 8981 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l’accertamento aliunde, mediante ogni mezzo di prova previsto dall’ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi; peraltro, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell’art. 2297 c.c., l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società
Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16829 (Giur. It., 2014, 6, 1428 nota di MORINO)
Se si assume l’esistenza di una società di fatto fra consanguinei, per accertarne la costituzione non solo è necessario procedere all’esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del nomen della società o quanto meno l’esteriorizzazione del vincolo sociale, l’assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all’esistenza di tale vincolo, ma occorre altresì che l’esteriorizzazione sia provata in modo rigoroso, giacché essa deve basarsi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dall’ affectio familiaris.
Cass. civ. Sez. II, 20 giugno 2013, n. 15543 (Pluris, Wolters Kluwer Italia
In tema di società di fatto tra consanguinei, la prova della esteriorizzazione del vincolo societario deve essere rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla “ affectio familiaris” e deporre, invece, nel senso di una sua compartecipazione all’attività commerciale.
Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 2010, n. 14580 (Pluris, Wolters Kluwer Italia
Ai fini dell’estensione del fallimento del titolare dell’impresa familiare agli altri componenti della stessa è necessario il positivo accertamento dell’effettiva costituzione di una società di fatto , attraverso l’esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all’impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del “nomen” della società o quanto meno l’esteriorizzazione del vincolo sociale, l’assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all’esistenza di un vincolo societario, mentre non assume rilievo univoco né la qualificazione dei familiari come collaboratori dell’impresa familiare, né l’eventuale condivisione degli utili, trattandosi d’indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla “ affectio societatis”.
Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 2010, n. 5961 (Pluris, Wolters Kluwer Italia
La mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l’accertamento “aliunde”, mediante ogni mezzo di prova previsto dall’ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’”affectio societatis”, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi,. peraltro, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell’art. 2297 cod. civ., l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società. Tali accertamenti, risolvendosi nell’apprezzamento di elementi di fatto, non sono censurabili in sede di legittimità, se sorrette da motivazioni adeguate ed immuni da vizi logici o giuridici.
Trib. Bari Sez. IV, 7 gennaio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’esistenza di un vincolo parentale e familiare, lo svolgimento della medesima attività e negli stessi locali con un’identica ragione sociale, la costante presenza nell’adempimento delle obbligazioni contratte dall’altra parte, sono tutti indici presuntivi della sussistenza di una società di fatto . (Sulla base di tale presupposto il giudice ha rigettato l’opposizione proposta contro la sentenza dichiarativa del fallimento in estensione).
App. Milano, 10 maggio 2006 (Famiglia e Diritto, 2008, 4, 363 nota di BECCARA)
La peculiarità della fattispecie disciplinata dall’art. 177, comma 1, lett. d), c.c. per quanto attiene all’azienda sta nel fatto che quando la costituzione (o l’acquisto) della stessa avviene dopo la celebrazione del matrimonio e non si tratti, in forza del titolo, di un bene personale, l’attribuzione della titolarità a uno solo dei coniugi ovvero alla comunione coniugale viene a dipendere non dalle modalità con cui si costituisce o viene acquistata l’azienda medesima, bensì dal dato rappresentato dalla gestione.
Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2004, n. 13164 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Elemento costitutivo del diritto – al momento dello scioglimento della comunione – alla ripartizione degli utili e degli incrementi dell’ azienda appartenente a uno dei coniugi anteriormente al matrimonio da parte dell’altro è la gestione comune dell’ azienda stessa in costanza di matrimonio, gestione comune la cui sussistenza non può essere ritenuta in mancanza di prova da parte di colui che propone la domanda di divisione.
Cass. civ. Sez. I, 14 aprile 2004, n. 7060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il fallimento di uno dei coniugi in regime di comunione legale dei beni determina la comunione de residuo sui beni destinati post nuptias all’esercizio di impresa, soltanto rispetto a quelli eventualmente residui dopo la chiusura della procedura.
Trib. Santa Maria Capua Vetere, 15 gennaio 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’esistenza di una società di fatto può inferirsi dal capitale comune, dall’affectio societatis, dalla partecipazione agli utili o alle perdite, nonché dall’esteriorizzazione del vincolo sociale. A tal fine, non è necessaria la prova della stipulazione del patto sociale, essendo sufficiente la dimostrazione di un comportamento da parte dei soci tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole sull’esistenza della società.
Trib. Cassino, 21 gennaio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le fideiussioni e gli avalli, se realizzati in maniera sistematica, possono costituire sufficiente elemento di prova circa la sussistenza di una società di fatto tra i coniugi e legittimare l’estensione del fallimento, ai sensi dell’art. 147 legge fallimentare, anche a quello tra i due che non risulta titolare dell’impresa
Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2000, n. 3520 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A prescindere dal problema più generale relativo alla natura in sé societaria o meno dell’impresa familiare, in ogni caso, quando il rapporto fra i componenti della stessa si strutturi all’esterno, come un rapporto societario, nell’ambito del quale i soci partecipino agli utili ed alle perdite, intrattengano rapporti con i terzi assumendo le conseguenti obbligazioni, spendano il nome della società, manifestando palesemente, nei rapporti esterni, l’”affectio societatis”, si costituisce fra i componenti stessi una società di fatto che si sovrappone al rapporto regolato dall’art. 230 bis c.c., di talché tale rapporto perde di rilevanza esterna, con conseguente applicazione – ad esempio – in relazione alle procedure concorsuali, dei principi generali che regolamentano le società di fatto, tra i quali l’assoggettabilità al fallimento di tutti i soggetti che partecipano al rapporto societario.
Tribunale Roma 16 settembre 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La semplice circostanza che i coniugi siano comproprietari di azienda, non è sufficiente di per sé a ritenere che quest’ultima sia necessariamente cogestita da entrambi e che, pertanto, tra essi sussista una società di fatto (artt. 177, 178, c.c.). Nel caso in cui ambedue i coniugi siano proprietari dell’azienda familiare, ai fini dell’individuazione delle norme applicabili occorre distinguere i rapporti concernenti la proprietà, art. 177 c.c., dai rapporti concernenti la gestione, art. 2247 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1999, n. 3163 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di società di fatto che si assuma intercorrente tra soggetti legati da stretti vincoli familiari, la prova della esteriorizzazione del vincolo societario, necessaria e sufficiente per poter considerare esistente la società, deve essere rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dall’”affectio familiaris”, e da deporre, invece, in modo non equivoco nel senso di una sua compartecipazione all’attività commerciale del consanguineo (nella fattispecie, la S.C., alla stregua di tale principio, ha cassato la decisione della Corte di merito che aveva ritenuto indici non equivoci della asserita compagine sociale, senza dare sufficientemente conto dell’”iter” logico seguito per convincersi che essi fossero da qualificare come atti di partecipazione all’attività commerciale, e non fossero, invece, inquadrabili in atti di solidarietà familiare, la partecipazione agli utili nella percentuale del 60 per cento da parte della moglie e del figlio dell’imprenditore, l’intervento della prima in favore del coniuge come terzo datore di ipoteca e fideiussore, con rinunzia al beneficio di escussione del debitore principale, ed inoltre con rilascio di cambiali all’ordine del marito, e da lui girati al terzo fornitore effetti cambiari al garante ed avallante, attraverso finanziamento ed apertura di credito con garanzia ipotecaria e – richiedendo, pertanto, ai giudici di merito un riesame della controversia sotto tale profilo).
Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 1996, n. 6770 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per poter considerare esistente una società di fatto, agli effetti della responsabilità delle persone e/o dell’ente, anche in sede fallimentare, non occorre necessariamente la prova del patto sociale, ma è sufficiente la dimostrazione di un comportamento, da parte dei soci, tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole che quelli agissero come soci, atteso che, nonostante l’inesistenza dell’ente, per il principio dell’apparenza del diritto, il quale tutela la buona fede dei terzi, coloro che si comportino esteriormente come soci vengono ad assumere in solido obbligazioni come se la società esistesse. Tuttavia, in caso di società di fatto (che si assuma) intercorrente fra consanguinei, la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla affectio familiaris, sicché, di regola, non è di per sè sufficiente la dimostrazione di finanzia-menti e/o pagamenti ai creditori dell’impresa da parte del congiunto dell’imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare.
Trib. Roma, 5 luglio 1995 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve essere dichiarata l’estensione il fallimento di un farmacista alla società di fatto (occulta) fra il farmacista e sua moglie, quando risulti che il marito si sia occupato solo della parte tecnico – farmaceutica e la moglie abbia gestito la parte contabile – amministrativa.
E’ ben ipotizzabile l’esistenza di una società di fatto per l’esercizio di una farmacia, anche se la legislazione speciale ne esclude la gestione da parte di persona non munita di titolo e non iscritta nell’ordine professionale dei farmacisti.
Trib. Cassino, 14 giugno 1995 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le fideiussioni e gli avalli, anche se ripetuti ed ingenti, non possono costituire nel rapporto tra coniugi circostanze idonee ad esteriorizzare un vincolo sociale, in quanto effettuati nell’ambito del rapporto coniugale ed al fine di sopperire alle difficoltà del soggetto garantito.
Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 1995, n. 6142 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché alle pronunce della commissione tributaria centrale non è direttamente applicabile l’art. 360 n. 5 c.p.c., ma solo l’art. 111 cost., il controllo della motivazione, in sede di legittimità, deve limitarsi alla verifica della sua esistenza effettiva, della sua non contraddittorietà, della sua non incomprensibilità (nell’affermare tale principio la cassazione ha ritenuto del tutto sfornita di motivazione la decisione della commissione tributaria centrale che aveva dedotto dalla sola comunione la esistenza di una società di fatto tra i coniugi, che avevano proceduto alla vendita di un bene immobile; ciò perché la comunione legale tra coniugi non implica l’esistenza di una società di fatto tra gli stessi.
Trib. Pordenone, 8 aprile 1993 (Nuova Giur. Civ., 1994, I, 217 nota di COLUSSI)
L’accertamento dei presupposti dell’esistenza di una società fra parenti deve condursi con criteri assai cauti e più intensi rispetto alla norma, dei rapporti fra estranei; in particolare la prestazione di una fideiussione della moglie a favore del marito non costituisce manifestazione di “affectio societatis”.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390 (Nuova Giur. Civ., 1993, 1, 609 nota di BONTEMPI)
In relazione al disposto dell’art. 230 bis c. c., l’ipotesi di impresa familiare realizzata mediante la partecipazione del coniuge all’attività aziendale si differenzia dalla fattispecie dell’azienda coniugale prevista dall’art. 177, lett. d, c. c., in cui la collaborazione dei coniugi si attua con la gestione comune dell’impresa; ai fini di tale distinzione non ha alcuna rilevanza diretta il regime di comunione dei beni vigente tra i coniugi, che può spiegare effetti solo sul piano della tutela, ex art. 178 c. c., dei diritti sui beni destinati all’esercizio di impresa.
Trib. Catania, 15 luglio 1992 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’accertamento di una società di fatto, la prestazione di fideiussioni può dar luogo alla configurazione di un conferimento di capitale da destinare a fondo sociale, quando essa sia caratterizzata da un’estensione generalizzata, da una reiterazione nel tempo e da una notevole entità degli affidamenti compiuti; tale regola è valida ancorché si tratti di soggetti legati da un rapporto di parentela stretta o di coniugio, ma in questa evenienza è necessario che la valutazione delle risultanze processuali sia più rigorosa, dovendosi tener conto delle naturali implicazioni di siffatti rapporti.
Trib. Catania, 21 gennaio 1983 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Un’azienda gestita di fatto da entrambi i coniugi in regime di comunione legale, in assenza
i precisi accordi formali, ricade nell’ipotesi di cui all’art. 177, lett. d), cod. civ., ovvero, qualora si tratti di azienda già appartenente ad uno dei coniugi prima del matrimonio, nell’ipotesi di cui al comma 2 del medesimo articolo.