Dubbi a seguito della recente sentenza della S.C. sull’assegno di divorzio

A cura del Prof. Avv. Claudio Cecchella, Università di Pisa – Presidente dell’Osservatorio Nazionale sul diritto di famiglia.

Il revirement della Suprema Corte sul tenore di vita matrimoniale ai fini della determinazione dell’assegno divorzile.
La sentenza n. 11504 del 2017 della Corte di Cassazione, 1^ sezione civile, Presidente Di Palma e relatore Lamorgese, pur avendo nella risonanza mediatica il sapore della fine di un’epoca e dell’inizio di una nuova, costituisce per gli specialisti della materia un esito ampiamente previsto e prevedibile, che pone l’Italia (finalmente) in linea con gli identici indirizzi di altri ordinamenti, in particolare europei.
Nel nostro ordinamento, infatti, il vincolo matrimoniale aveva modo di permanere nel tempo, anche dopo lo scioglimento – determinato, non si dimentichi, da un atto unilaterale di uno dei coniugi che chiede prima la separazione e poi lo scioglimento del vincolo – attraverso un assegno divorzile che conservava in capo ad uno dei coniugi un “odioso” obbligo, che impediva la ricostituzione di una vita autonoma sul piano affettivo ed economico.
E’ ben noto l’effetto di depauperamento del coniuge obbligato all’assegno divorzile, discendente dall’obbligo di versamento di un assegno commisurato al tenore di vita preesistente durante il matrimonio, depauperamento destinato ad incidere sui principi di libertà ed autonomia nella riscostruzione di un nuovo nucleo familiare.
A seguito della pronuncia del giudice di legittimità del 10 maggio 2017 n. 11504 il “tenore di vita matrimoniale” non è più parametro per la determinazione dell’ ”an” e del “quantum,” essendo attribuito l’assegno esclusivamente per ragioni “assistenziali” dell’ex coniuge, privo di indipendenza o autosufficienza economica. Non si dimentichi che, per altro orientamento consolidato dello stesso giudice di legittimità, il coniuge richiedente dovrà dimostrare di avere ragioni obiettive che impediscono il reperimento di fonti indipendenti di reddito per lavoro od altro.
L’evoluzione degli orientamenti in materia poteva già immaginarsi alla luce della sentenza n. 11 dell’11 febbraio 2015 della Corte costituzionale, la quale aveva dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge sul divorzio in materia di riconoscimento dell’assegno divorzile, in violazione degli artt. 2, 3 e 29 Cost. Già la Corte, pur dichiarando infondata la questione, aveva ammonito il giudice di legittimità sul non essere il tenore di vita goduto durante il matrimonio l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile, evidentemente lasciando spazio ad un’interpretazione diversa della norma.
Già la Corte di Cassazione con la sentenza 3 aprile 2015 n. 6855 aveva iniziato l’opera di ridimensionamento della norma sull’assegno divorzile negando a chi avesse costituito, dopo lo scioglimento del matrimonio, una convivenza, ancorché questa convivenza fosse cessata, di poter pretendere il versamento dell’assegno divorzile. Afferma il Giudice Supremo che l’instaurazione della convivenza interrompe definitivamente il cordone ombelicale con il matrimonio precedente assumendo l’avente diritto in tal modo il rischio in relazione alle vicende successive della famiglia di fatto instaurata, circa la possibilità di una cessazione del rapporto tra conviventi, della definitiva perdita dell’assegno divorzile. Perduto l’assegno per la convivenza, l’assegno non poteva più resuscitare per l’interruzione della stessa convivenza.
Oggi, con la pronuncia in commento, la Suprema Corte compie un passo più lungo eliminando definitivamente il parametro del “tenore di vita” e indirizzando il giudice del merito verso una valutazione, ai fini dell’ “an debeatur” della mancanza di mezzi adeguati o dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, potendo all’esito di tale giudizio, ai fini del quantum, valutarsi gli ulteriori parametri costituiti dalle ragioni della decisione, dal contributo personale ed economico dato da ciascuno, dal reddito di entrambi, valutandoli alla luce della durata del matrimonio sulla base di pertinenti allegazioni, deduzioni e prove ai sensi dell’art. 2697 c.c., esaltando, anche nella materia, e correttamente, i principi di un processo dispositivo.
Anche quest’ultimo aspetto deve evidenziare il segno di un’evoluzione ove, al di fuori dei diritti economici e personali del figlio, che restano ancorati alle caratteristiche di diritto indisponibile (seppure con le attenuazioni dovute alla disciplina della negoziazione assistita), il tema del contributo al mantenimento o dell’assegno divorzile a favore del coniuge acquista quei connotati di piena disponibilità che rendono ragione di un processo civile governato dal principio di disponibilità, cui seguirà un onere particolare per i difensori delle parti che chiedono il riconoscimento di un assegno di mantenimento.