MEDIAZIONE CIVILE E COMMERCIALE

MEDIAZIONE CIVILE E COMMERCIALE
di Gianfranco Dosi
(Decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, come modificato dal decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito nella legge 9 agosto 2013, n. 98)

La normativa sulla mediazione civile e commerciale è contenuta sostanzialmente nel decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, emanato sulla base della delega contenuta nell’art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 60 (Dispo¬sizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile) fortemente influenzato dalla direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008, relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale.
In seguito alla sentenza con cui Corte cost. 6 dicembre 2012, n. 272 dichiarò l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 5 del decreto legislativo 28/2010 (la cui questione era stata sollevata da T.A.R. Lazio Roma Sez. I, 12 aprile 2011, n. 3202) nella parte in cui, eccedendo la delega legislativa, aveva previsto che in alcune specifiche ipotesi il procedimento di mediazione fosse da considerare condizione di procedibilità della domanda giudiziale, la normativa sulla mediazione venne fatta oggetto di una consistente riforma operata con il decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, (cosiddetto decreto “del fare”) convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98 che reintrodusse con legge (riparando, perciò, al difetto rilevato dalla Corte costituzionale) le ipotesi di obbligatorietà del tentativo di mediazione, cogliendo però anche l’occasione per altri significativi interventi di riforma.
In particolare la riforma del 2013 introduceva (con decorrenza dal 20 settembre 2013) a) un criterio di com¬petenza territoriale per la presentazione della domanda; b) il principio che il procedimento di mediazione è su¬bordinato al consenso delle parti espresso in un incontro preliminare di programmazione; c) che lo svolgimento dell’incontro preliminare di programmazione della mediazione è condizione di procedibilità (in materie espressa¬mente indicate) e deve svolgersi entro 30 giorni dal deposito dell’istanza; d) la gratuità del primo incontro di pro¬grammazione in caso di mancato accordo; e) l’esclusione delle controversie sulla responsabilità civile derivante dalla circolazione automobilistica dalle materie per cui è previsto l’incontro di programmazione, f) l’aggiunta delle controversie in tema di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria; g) il fatto che il giudice può ordinare alle parti di procedere alla mediazione e non solo invitarle; h) la durata massima dell’intera procedura ridotta a tre mesi; i) il principio che gli avvocati sono mediatori di diritto ed hanno l’obbligo di aggiornamento professionale, l) che gli avvocati assistono le parti durante l’intera procedura di mediazione; m) una nuova disci¬plina in tema di efficacia esecutiva dell’accordo di mediazione.
Nel frattempo la legge 11 dicembre 2012, n. 220, aveva disciplinato la mediazione in materia di controversie condominiali, introducendo l’art. 71-quater nelle disposizioni di attuazione del codice civile che prescrive la competenza territoriale obbligatoria del luogo in cui si trova il condominio e la necessità dell’amministratore di munirsi, per partecipare alla mediazione o per la proposta di mediazione, di delibera assembleare (da approvarsi con la maggioranza dell’art. 1136, comma 2, c.c. e cioè del numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio).
Qualche ulteriore modifica venne poi introdotta dall’art. 1-bis, comma 2, del decreto legislativo 6 agosto 2015, n. 130 di attuazione della direttiva 2013/11/UE sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori.
Per quanto attiene alle fonti giuridiche va anche menzionato il decreto interministeriale 18 ottobre 2010, n. 180 (Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28).
Di mediazione civile, come si è all’inizio accennato, si era occupata anche l’Unione Europea, con la Direttiva 2008/52/CE del 21 maggio 2008 (Direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008 relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale) volta a fornire agli Stati membri le linee da seguire per facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e per promuovere la composizione conciliativa delle controversie. Successivamente se ne sono anche occupati la Risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2011 sull’attuazione della direttiva sulla mediazione negli Stati membri, il Regolamento 21 maggio 2013 n. 524 per i consumatori, la Direttiva 21 maggio 2013 n. 11 sull’ADR per i consu¬matori e la Relazione 26.8.2016 della Commissione europea sull’applicazione della direttiva 2008/52/CE.
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Se si guarda alle riforme che il legislatore ha introdotto in questi ultimi anni – dalla mediazione civile alla nego¬ziazione assistita – ci si accorge che, con l’obiettivo dichiarato di rispondere a necessità strutturali di carattere deflattivo e alternativo, il sistema della giustizia si è andato costruendo nel tempo intorno a tre pilastri che sem¬brano connotarlo ormai in un modo che appare stabile e definitivo. Per la soluzione delle controversie nell’area dei diritti disponibili il sistema giustizia si presenta oggi – in una coraggiosa e competitiva sinergia tra apparati pubblici e organismi privati – come insieme di alternative interscambiabili caratterizzate ciascuna da differenti fattori di appetibilità e di fattibilità.
Le procedure alternative dovranno prima o poi diventare la regola e non l’eccezione per la soluzione delle con¬troversie su diritti disponibili e pertanto va invertito il tradizionale approccio al tema dell’inquadramento siste¬matico che mette in genere al primo posto la giurisdizione e ai posti successivi l’arbitrato, la mediazione e la negoziazione.
Al primo posto, come primo pilastro, vanno quindi collocate oggi la mediazione civile e commerciale e la negoziazione assistita, finalizzate entrambe alla soluzione consensuale delle controversie civili e commerciali relative a diritti disponibili. Si tratta di un pilastro rinvenibile nell’esperienza giuridica di molti altri Paesi e che ha raggiunto nell’ambito della giustizia una propria dignità di sistema consensuale a prescindere ed oltre le esigenze di deflazione del carico giurisdizionale. La potenzialità deflattiva di questo sistema di risoluzione alternativa dei conflitti non può più essere considerata la sua funzione primaria che va, invece, rintracciata nel suo ruolo paral¬lelo di sistema di giustizia basato sul consenso e non sulla coazione. Il termine “conciliazione”, che prima di oggi connotava da solo nel linguaggio comune sia la procedura tesa alla soluzione consensuale di una controversia sia l’atto in sé dell’accordo, è stato molto opportunamente sostituito da quello di “mediazione finalizzata alla conciliazione della controversia” o di “negoziazione assistita da avvocati” che riesce a dare meglio l’idea della circostanza che per giungere a risolvere una controversia è necessario un percorso di avvicinamento che, sia pure senza particolari formalismi, deve pur sempre avere un proprio setting senza il quale perderebbe la propria plausibilità. In questo contesto va ribadito che la “conciliazione” non è l’abbandono di una pretesa, quasi una riconciliazione, ma la soluzione consensuale di un conflitto. Il momento finale di un confronto tra le parti.
L’arbitrato costituisce l’altro pilastro della giustizia, il secondo. Non solo e non tanto il tradizionale e solenne arbitrato rituale, ma soprattutto di quello previsto nell’art. 808-ter c.p.c (arbitrato irrituale) – introdotto dal D. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – dove si legge che “le parti possono […] stabilire che la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale”. A questo modello di diritto comune sono riconducibili le modalità di arbitrato varate per i conflitti di lavoro dalla riforma di cui all’art. 31 della l. 4 novembre 2010, n. 183 che ha pre¬visto con decorrenza dal 24 novembre 2010 la risoluzione arbitrale irrituale delle controversie davanti alle com¬missioni di conciliazione (nuovo art. 412 c.p.c.) o con le eventuali modalità previste dai contratti collettivi (nuovo art. 412-ter, c.p.c.) ovvero davanti ad appositi collegi di conciliazione e arbitrato irrituale per i quali è stata anche introdotta una propria agile procedura (nuovo art. 412-quater, c.p.c.). Sono queste le nuove forme di risoluzione arbitrale delle controversie nel campo dei conflitti di lavoro ai quali il legislatore è giunto recentemente, nel conte¬sto e a conclusione di un più vasto intervento legislativo di riforma realizzatosi in questo settore negli ultimi anni.
Il terzo pilastro resta pur sempre quello importante della giurisdizione alla quale permane, in virtù della riserva costituzionale di cui al fondamentale art. 24 della Costituzione, la responsabilità primaria di garantire coazione alle domande di giustizia poste dalla conflittualità sociale, nel rispetto irrinunciabile del diritto di chiunque di agire in giudizio per la tutela contenziosa dei propri interessi e dei propri diritti, disponibili e non disponibili. Il nostro sistema processuale civile, pur soffrendo di rigidità tali che pensare di modificarlo con qualche ritocco è utopistico, continua ad apprestare faticosamente tutele nei tradizionali settori della cognizione, dell’esecuzione e delle garanzie cautelari. Considerate le dimensioni dello sforzo riformatore necessario e l’intasamento delle aule di giustizia, non si può escludere che, ove il trend in tema di procedure alternative riuscisse ad incoraggiare rifor¬me più radicali, il contenuto della giurisdizione possa circoscriversi un giorno alla tutela dei soli diritti indisponibili e al controllo sulle decisioni rese nell’ambito dei sistemi alternativi.

Decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’art. 60 delle legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie ci¬vili e commerciali), come modificato dal decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito nella legge 9 agosto 2013, n. 98.
CAPO I
DISPOSIZIONI GENERALI
Art. 1 1
1 testo originario
Definizioni
1. Ai fini del presente decreto legislativo, si intende per:
a) mediazione: l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa;
b) mediatore: la persona o le persone fisiche che, individualmente o collegialmente, svolgono la mediazione rimanendo prive, in ogni caso, del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesimo;
c) conciliazione: la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione;
d) organismo: l’ente pubblico o privato, presso il quale si svolge il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto;
e) registro: il registro degli organismi istituito con decreto del Ministro della giustizia ai sensi dell’articolo 16 del presente decreto, nonché, sino all’emanazione di tale decreto, il registro degli organismi istituito con il decreto del Ministro della giustizia 23 luglio 2004, n. 222.
Il primo articolo della legge – che con la riforma del 2013 non è stato sostanzialmente modificato rispetto al testo originario – si prefigge di dare la definizione dei termini più significativi del settore disciplinato.
L’aspetto che più merita di essere segnalato è la distinzione che viene proposta tra la mediazione (intesa come procedimento finalizzato a raggiungere un accordo) e la conciliazione (intesa come l’accordo con cui si compone la controversia). La mediazione civile e commerciale è un procedimento, quindi, volto alla possibile conciliazione di una controversia e non si confonde con la conciliazione in sé.
Il mediatore viene indicato come la persona fisica (o le persone fisiche) che, individualmente o come collegio svolgono la mediazione, prive di potere giudicante .
Il procedimento di mediazione si svolge su istanza degli interessati, presso uno degli organismi, iscritti nel registro istituito con decreto del Ministro della giustizia. Si occupa specificamente degli organismi l’art. 16 della legge.
Art. 2 2
Controversie oggetto di mediazione
1. Chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commer¬ciale vertente su diritti disponibili, secondo le disposizioni del presente decreto.
2. Il presente decreto non preclude le negoziazioni volontarie e paritetiche relative alle controver¬sie civili e commerciali, né le procedure di reclamo previste dalle carte dei servizi.
La mediazione civile è prevista per la soluzione delle sole controversie su diritti disponibili. E’ questo il dato che accomuna tutte le alternative alla risoluzione giudiziaria dei conflitti, quali l’arbitrato (art. 806 c.p.c.), la negozia¬zione assistita da avvocati (l’art. 2, comma 2, lett. b, decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 convertito nella
Art. 1
(Definizioni)
1. Ai fini del presente decreto legislativo, si intende per:
a) mediazione: l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa;
b) mediatore: la persona o le persone fisiche che, individualmente o collegialmente, svolgono la mediazione rimanendo prive, in ogni caso, del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesimo;
c) conciliazione: la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione;
d) organismo: l’ente pubblico o privato, presso il quale può svolgersi il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto;
e) registro: il registro degli organismi istituito con decreto del Ministro della giustizia ai sensi dell’articolo 16 del presente decreto, nonché, sino all’emanazione di tale decreto, il registro degli organismi istituito con il decreto del Ministro della giustizia 23 luglio 2004, n. 222.
2 Testo originario
Art. 2
(Controversie oggetto di mediazione)
1. Chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale vertente su diritti di¬sponibili, secondo le disposizioni del presente decreto.
2. Il presente decreto non preclude le negoziazioni volontarie e paritetiche relative alle controversie civili e commerciali, né le procedure di reclamo previste dalle carte dei servizi.
legge 10 novembre 2014, n. 162) ed anche la transazione (art. 1966 c.c.). Il principio non concerne naturalmen¬te gli aspetti risarcitori (che sono diritti disponibili) relativi alla violazione di un diritto indisponibile.
La disposizione (rimasta invariata nella formulazione originaria) si presenta come genericamente riferita all’ac¬cesso alle procedure di mediazione ai fini della conciliazione di una controversia. In realtà l’accesso è connotato e disciplinato in modo diverso a seconda delle ipotesi che la normativa prevede. Infatti non sempre l’accesso alla mediazione è volontario e facoltativo (spesso anche concordato tra le parti); in alcuni casi è previsto dome ob¬bligatorio (nello specifico allorché la legge lo prevede come condizione di procedibilità di una eventuale domanda giudiziaria o perché consegue ad un ordine del giudice).
In passato si è sempre parlato tradizionalmente di mediazione facoltativa (o volontaria) per riferirsi alle ipotesi in cui non è previsto alcun obbligo per le parti di accedere ad un procedimento di mediazione; di mediazione ob¬bligatoria per riferirsi alle specifiche ipotesi previste dalla legge in cui le parti sono obbligate, prima di rivolgersi al giudice, ad esperire (a pena di improcedibilità della domanda) il procedimento di mediazione; di mediazione delegata per riferirsi al possibile invito rivolto alle parti dal giudice a promuovere una procedura di mediazione.
La riforma del 2013 ha riscritto in buona parte l’art. 5 che ora prevede quindi al comma 1-bis le ipotesi di me¬diazione obbligatoria ante causam, al comma 2 il potere del giudice in corso di causa, “valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti” di disporre, anche in sede di appello, che le parti accedano alla mediazione; di mediazione concordata allorché l’obbligo del previo ricorso alle mediazione civile è contenuto come clausola in un contratto o in un atto (per esempio costitutivo di un ente).
A seguito delle riforme del 2013 la classificazione tradizionale va perciò riformulata in quanto anche la media¬zione demandata dal giudice (che prima della riforma del 2013 costituiva solo un invito alla mediazione), come d’altra parte quella (già nel testo originario) riferibile a clausole contrattuali che prevedono l’obbligo della previa mediazione, sono di fatto ipotesi in cui il tentativo di raggiungere un accordo è obbligatorio e costituiscono, an¬che a processo già iniziato, condizione di procedibilità della domanda.
Si può quindi proporre una bipartizione che preveda da un lato la mediazione facoltativa (anche eventualmen¬te su invito del giudice che si ritiene sopravviva alla riforma) e dall’altro le tre ipotesi di mediazione obbligato¬ria (in primo luogo le ipotesi previste nell’art. 5, comma 1-bis; poi le ipotesi di mediazione demandata dal giu¬dice in primo grado o in appello a cui si riferisce l’art. 5, comma 2; e da ultimo le ipotesi di clausole contrattuali che rendono obbligatoria per le parti la previa mediazione, a cui si riferisce l’art, 5, comma 5).
La previsione della obbligatorietà della mediazione non comporta che le parti siano obbligate a raggiungere un accordo, ma solo che si adoperino per raggiungerlo. È, quindi, il tentativo di raggiungere l’accordo, e non il rag¬giungimento dello stesso, ad essere obbligatorio. Anche per tale motivo si parla di mediazione obbligatoria (come obbligo di avviare la procedura di mediazione) e non di conciliazione obbligatoria
Le interferenze tra mediazione e processo civile sono disciplinate dall’art. 5 della normativa.
In giurisprudenza Trib. Roma Sez. VIII, 28 gennaio 2016 ha ritenuto che la Pubblica Amministrazione è tenu¬ta alla partecipazione al procedimento di mediazione in quanto la partecipazione al procedimento di mediazione, per esempio delegata dal giudice, è obbligatoria per legge e proprio in considerazione di ciò non è giustificabile una negativa e generalizzata scelta aprioristica di rifiuto e di non partecipazione al procedimento di mediazione neppure ove tale condotta muova dal timore di incorrere in danno erariale a seguito della conciliazione.
Anche il giudizio sull’equa riparazione per durata irragionevole del processo ex art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 secondo Cass. civ. Sez. Unite, 22 luglio 2013, n. 17781 costituisce materia di diritto disponibile sog¬getto alla mediazione facoltativa.
CAPO II
DEL PROCEDIMENTO DI MEDIAZIONE
Art. 3 3
Disciplina applicabile e forma degli atti
3 Testo originario
Art. 3
(Disciplina applicabile e forma degli atti)
1. Al procedimento di mediazione si applica il regolamento dell’organismo scelto dalle parti.
2. Il regolamento deve in ogni caso garantire la riservatezza del procedimento ai sensi dell’articolo 9, nonché modalità di nomina del mediatore che ne assicurano l’imparzialità e l’idoneità al corretto e sollecito espletamento dell’incarico.
3. Gli atti del procedimento di mediazione non sono soggetti a formalità.
4. La mediazione può svolgersi secondo modalità telematiche previste dal regolamento dell’organismo.
1. Al procedimento di mediazione si applica il regolamento dell’organismo scelto dalle parti.
2. Il regolamento deve in ogni caso garantire la riservatezza del procedimento ai sensi dell’articolo 9, nonché modalità di nomina del mediatore che ne assicurano l’imparzialità e l’idoneità al corretto e sollecito espletamento dell’incarico.
3. Gli atti del procedimento di mediazione non sono soggetti a formalità.
4. La mediazione può svolgersi secondo modalità telematiche previste dal regolamento dell’orga¬nismo.
L’art. 3 del decreto legislativo istitutivo – non toccato dalla riforma del 2013 – esprime il principio generale della informalità della procedura di mediazione (ribadito poi nell’art. 8 comma 2, dove si precisa che il procedimento si svolge senza formalità presso la sede dell’organismo di mediazione o nel luogo indicato dal regolamento di procedura dell’organismo) che, tuttavia, non è di portata così ampia come potrebbe sembrare. Certamente la caratteristica del procedimento di mediazione, come di ogni altra alternativa al processo, è quella di una proce¬dura non strutturata attraverso eccessivi formalismi procedurali. Tuttavia l’informalità non si spinge fino al punto da non prevedere regole, che, infatti, la stessa legge prescrive facendo rinvio al regolamento di cui – ai sensi dell’art. 16 della normativa – ogni organismo di mediazione deve obbligatoriamente dotarsi.
Vi sono, naturalmente, nella legge istitutiva anche disposizioni e vincoli inderogabili che impongono il rispetto di alcuni criteri formali, come avviene per esempio in merito ai criteri di determinazione della competenza terri¬toriale (art. 3), ai requisiti (di cui si occupa l’art. 12) perché l’accordo possa essere considerato titolo esecutivo o perché possa avere altrimenti l’omologazione da parte del tribunale, oppure ancora le disposizioni (previste nell’art. 8) in ordine all’obbligatoria assistenza degli avvocati.
Il regolamento deve in ogni caso garantire la riservatezza del procedimento – giusta quanto previsto nell’articolo 9 – nonché modalità di nomina del mediatore che ne assicurano l’imparzialità e l’idoneità al corretto e sollecito espletamento dell’incarico.
Il procedimento inizia col deposito di un’istanza presso un organismo di mediazione. Il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda (si trat¬ta di un incontro che assume specifica rilevanza nelle ipotesi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale). Tutto ciò viene poi comunicato alle parti. La parte chiamata in mediazione è libera di parteciparvi o meno. Il mediatore si adopera affinché le parti raggiungano un accordo per la definizione della controversia. Possono essere tenute sessioni separate, ove il mediatore incontra separatamente le parti. Al procedimento, come detto, si applica il regolamento dell’organismo. Il mediatore può avvalersi di esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali. L’accordo può essere raggiunto spontaneamente dalle parti ovvero su proposta del mediatore al quale la legge attribuisce la facoltà (o il dovere su domanda congiunta) di formulare e presentare alle parti una proposta conciliativa scritta. Le parti sono libere di accettare o meno la proposta. A con¬clusione del procedimento il mediatore se non viene raggiunto l’accordo redige verbale di accordo negativo mentre se viene raggiunto l’accordo, redige un verbale al quale è allegato il testo dell’accordo sottoscritto dalle parti. Il verbale è depositato presso la segreteria dell’organismo e di esso è rilasciata copia alle parti che lo richiedono.
Art. 4 4
Accesso alla mediazione
1. La domanda di mediazione relativa alle controversie di cui all’articolo 2 è presentata mediante deposito di un’istanza presso un organismo nel luogo del giudice territorialmente competente per la controversia. In caso di più domande relative alla stessa controversia, la mediazione si svolge davanti all’organismo territorialmente competente presso il quale è stata presentata la prima do¬manda. Per determinare il tempo della domanda si ha riguardo alla data del deposito dell’istanza.
4 Testo originario
Art. 4
(Accesso alla mediazione)
1. La domanda di mediazione relativa alle controversie di cui all’articolo 2 è presentata mediante deposito di un’istanza presso un organismo. In caso di più domande relative alla stessa controversia, la mediazione si svolge davanti all’organismo presso il quale è stata presentata la prima domanda. Per determinare il tempo della domanda si ha riguardo alla data della ricezione della comunicazione.
2. L’istanza deve indicare l’organismo, le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa.
3. All’atto del conferimento dell’incarico, l’avvocato è tenuto a informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20. L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’informazione deve essere fornita chiaramente e per iscritto. In caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile. Il documento che contiene l’informazione è sottoscritto dall’assistito e deve essere allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio. Il giudice che verifica la mancata allegazione del documento, se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione.
2. L’istanza deve indicare l’organismo, le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa.
3. All’atto del conferimento dell’incarico, l’avvocato è tenuto a informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20. L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’informa¬zione deve essere fornita chiaramente e per iscritto. In caso di violazione degli obblighi di informa¬zione, il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile. Il documento che contiene l’informazio¬ne è sottoscritto dall’assistito e deve essere allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio. Il giudice che verifica la mancata allegazione del documento, se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione.
1) L’accesso alla mediazione
Secondo quanto dispone il primo comma dell’art. 4 (nel testo modificato con la riforma del 2013) anche per la mediazione è necessario seguire un criterio di competenza territoriale nel senso che la domanda di mediazione è obbligatoriamente “presentata mediante deposito di un’istanza presso un organismo nel luogo del giudice territorialmente competente per la controversia”. Prima della riforma del 2013 non era prevista una competenza territoriale specifica. La domanda va presenta alla sede legale dell’organismo.
Questo criterio identifica la circoscrizione giudiziaria all’interno della quale devono essere situati gli organismi tra i quali la parte istante può scegliere quello a cui rivolgersi.
La parti possono derogare a tale criterio di competenza territoriale in tutti i casi in cui il codice di procedura civile prevede la possibilità di derogare alla competenza territoriale per accordo tra le parti (Circolare della Commis¬sione per lo studio della mediazione e della conciliazione del Consiglio Nazionale Forense del 6 dicembre 2013).
Nel caso di domanda presentata ad un organismo di mediazione non territorialmente competente nessuna norma attribuisce all’organismo il compito di rifiutare di iniziare il procedimento. L’onere di sollevare l’eccezione di in¬competenza resta delle parti ed in tal caso il mediatore ne darà atto nel verbale del primo incontro (che enuncerà la motivazione dell’esito negativo per eccezione di incompetenza sollevata dalla parte invitata). Nel caso in cui la parte invitata, invece, non si presenta il verbale sarà di mancata partecipazione. In entrambi i casi, allorché si tratti di tentativo di mediazione obbligatoria, sarà il giudice ad inviare poi le parti davanti all’organismo competente.
Così ha ritenuto Trib. Monza, 17 dicembre 2014 precisando che nel caso in cui il tentativo di mediazione obbligatoria sia iniziato dinnanzi ad un organismo incompetente territorialmente, il giudice deve concedere un successivo ulteriore termine per l’avvio del tentativo dinnanzi all’organismo competente, non ostandovi l’inutile decorso, nel frattempo, del termine trimestrale ex art. 6 del D.Lgs. n. 28/2010.
La giurisprudenza ha precisato che il meccanismo legislativo in questione postula che sia dapprima individuato il foro giudiziale, secondo le regole sottese a tale determinazione, e solo di riflesso sia individuato l’organismo cui accedere in fase conciliativa (Cass. civ. Sez. VI, 2 settembre 2015, n. 17480).
Del tutto ragionevolmente Trib. Napoli, 14 marzo 2016 e già prima Trib. Milano Sez. IX, 29 ottobre 2013 hanno precisato che anche per le mediazioni attivate su disposizione del giudice, la domanda di mediazione deve essere presentata mediante deposito dell’istanza presso un organismo che abbia sede nel luogo del giudice ter¬ritorialmente competente per la controversia, ma la domanda di mediazione presentata unilateralmente dinanzi ad un organismo che non ha competenza territoriale, non produrrebbe effetti. Questa sentenza esprime anche il convincimento che il termine di quindici giorni indicato dal giudice per la presentazione dell’istanza stessa avreb¬be carattere di perentorietà. Viceversa Trib. Milano Sez. I, 27 settembre 2016 non ritiene che il termine di quindici giorni indicato dal giudice sia perentorio. In ogni caso – e salva la diversa soluzione che la questione potrebbe avere in ordine all’applicazione delle sanzioni previste nell’art. 8, comma 4-bis – sia il rispetto che il mancato rispetto del termine non escludono la possibilità che il giudice possa ordinare un successivo tentativo di mediazione.
Secondo Trib. Verona, 27 gennaio 2014 l’art. 4 del decreto istitutivo non attribuisce rilievo, ai fini della deter¬minazione della competenza per territorio dell’organismo di mediazione, a criteri diversi da quelli contenuti nella sia perentorio III del titolo primo del codice di procedura civile cosicché non rilevano, al fine suddetto, eventi processuali come la litispendenza o la continenza.
In caso di più domande relative alla stessa controversia, la mediazione si svolge davanti all’organismo territo¬rialmente competente presso il quale è stata presentata la prima domanda.
L’istanza con cui inizia il procedimento di mediazione deve contenere alcuni requisiti formali minimi che sono l’indicazione a) dell’organismo, b) delle parti, c) dell’oggetto della controversia, d) delle ragioni della pretesa. Naturalmente la presenza di tali requisiti va valutata non rigidamente formale ma in senso sostanziale, facendo riferimento all’oggetto della pretesa e non all’eventuale qualificazione giuridica indicata dalle parti.
È ammessa anche un’istanza congiunta presentata da tutte le parti della controversia.
Secondo la giurisprudenza l’onere di “presentazione della domanda di mediazione” deve ritenersi assolto con il mero invio per posta raccomandata della medesima alla sede dell’organismo prescelto, non essendo invece necessario l’effettivo ricevimento della domanda stessa da parte di quest’ultimo (Trib. Firenze Sez. III, 14 settembre 2016) ed inoltre l’insufficiente determinatezza della domanda di mediazione, in caso di mancato raggiungimento dell’accordo, preclude una pronunzia sul merito da parte del giudice dovendo escludersi che, in tale ipotesi, il procedimento di mediazione sia stato utilmente esperito e che la condizione di procedibilità si sia realizzata (Trib. Genova Sez. VI, 31 maggio 2016).
2) Gli obblighi dell’avvocato e la sua partecipazione alla mediazione
L’ultimo comma dell’art. 3 dispone che all’atto del conferimento dell’incarico, l’avvocato informi l’assistito della possibilità di avvalersi della mediazione e delle agevolazioni fiscali di cui agli artt. 17 e 20 nonché dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’avvocato deve quindi informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della mediazione finalizzata alla conciliazione. Si tratta di un dovere esercitabile per ogni tipo di controversia su diritti disponibili.
L’art. 40 del Codice deontologico forense prevede l’obbligo per l’avvocato di informare il cliente delle “ipotesi di soluzioni possibili delle controversie”.
L’informativa deve essere fornita chiaramente; fornita per iscritto; contenuta in un documento sottoscritto dall’assistito; allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio.
Non dovrebbe trattarsi di una mera dichiarazione generica della parte contenuta nel mandato alle liti “dovendo invece contenere un apposito contenuto specifico che riproduca i diritti, le regole e gli oneri della mediazione” (Trib. Varese, 6 maggio 2011).
Il documento che contiene l’informazione è sottoscritto dall’assistito e deve essere allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio. Il giudice che verifica la mancata allegazione del documento, se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1 (cioè se non provvede ad inviare le parti alla mediazione) informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione.
La mancata allegazione all’atto introduttivo del giudizio dell’informativa in forma scritta resa alla parte assistita in relazione alla possibilità di avvalersi della procedura di mediazione civile, determina la sola annullabilità del contratto d’opera professionale concluso tra l’avvocato ed il proprio assistito e giammai conseguenze sul piano processuale (Trib. Massa, 26 marzo 2015).
Va tenuto presente che, in difformità dalla prassi spesso seguita dagli avvocati, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che il documento contenente l’informativa sulla mediazione, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 28 del 2010, pur dovendo essere sottoscritto dall’assistito e allegato all’atto introduttivo del giudizio, non è equipollente alla procura ad litem, dalla quale si distingue per oggetto e funzione, restando estraneo al conferimento dello ius postulandi (Cass. civ. Sez. VI, 7 luglio 2016, n. 13886).
L’art. 4, precisa poi che in caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile e che, con particolare riferimento alla mediazione facoltativa, il giudice stesso informi la parte della facoltà di chiedere la mediazione.
La riforma del 2013 ha prescritto che agli incontri di mediazione partecipino le parti con i loro avvocati. Come si vedrà nell’art. 8 si prevede, appunto, che “al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della pro¬cedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato”. Il senso del nuovo testo dell’art. 8 è anche quello di escludere che al procedimento di mediazione possa partecipare esclusivamente l’avvocato in rappre¬sentanza della parte a differenza di quanto avviene in sede processuale in cui è previsto che all’avvocato possa essere conferito espressamente il potere di conciliare la causa in rappresentanza del proprio assistito (art. 183, secondo comma, c.p.c.).
Art. 5 5
Condizione di procedibilità e rapporti con il processo
1-bis. Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condo¬minio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanzia¬ri, è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero i procedimenti previsti dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, e dai rispettivi regolamenti di attuazione ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’ar-ticolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore. Al termi¬ne di due anni dalla medesima data di entrata in vigore è attivato su iniziativa del Ministero della giustizia il monitoraggio degli esiti di tale sperimentazione. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazio¬ne non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni.
2. Fermo quanto previsto dal comma 1-bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello. Il provvedimento di cui al periodo precedente è adottato prima

5 Testo originario
Art. 5
(Condizione di procedibilità e rapporti con il processo)
1. Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, suc¬cessioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, con¬tratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestual¬mente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni.
2. Fermo quanto previsto dal comma 1 e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può invitare le stesse a procedere alla me¬diazione. L’invito deve essere rivolto alle parti prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. Se le parti aderiscono all’invito, il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6 e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.
3. Lo svolgimento della mediazione non preclude in ogni caso la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascri¬zione della domanda giudiziale.
4. I commi 1 e 2 non si applicano:
a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione;
b) nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all’articolo 667 del codice di procedura civile;
c) nei procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile;
d) nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata;
e) nei procedimenti in camera di consiglio;
f) nell’azione civile esercitata nel processo penale.
5. Fermo quanto previsto dal comma 1 e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, se il contratto, lo statuto ovvero l’atto costitutivo dell’ente prevedono una clausola di mediazione o conciliazione e il tentativo non risulta esperito, il giudice o l’arbitro, su ecce¬zione di parte, proposta nella prima difesa, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione e fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo il giudice o l’arbitro fissa la successiva udienza quando la mediazione o il tentativo di conciliazione sono iniziati, ma non conclusi. La domanda è pre¬sentata davanti all’organismo indicato dalla clausola, se iscritto nel registro, ovvero, in mancanza, davanti ad un altro organismo iscritto, fermo il rispetto del criterio di cui all’articolo 4, comma 1. In ogni caso, le parti possono concordare, successivamente al contratto o allo statuto o all’atto costitutivo, l’individuazione di un diverso organismo iscritto.
6. Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della doman¬da giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo.

dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista prima della discussione della causa. Il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6 e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.
2-bis. Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo.
3. Lo svolgimento della mediazione non preclude in ogni caso la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari, ne’ la trascrizione della domanda giudiziale.
4. I commi 1-bis e 2 non si applicano:
a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di con¬cessione e sospensione della provvisoria esecuzione;
b) nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all’articolo 667 del codice di procedura civile;
c) nei procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, di cui all’articolo 696-bis del codice di procedura civile;
d) nei procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile;
e) nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata;
f) nei procedimenti in camera di consiglio;
g) nell’azione civile esercitata nel processo penale.
5. Fermo quanto previsto dal comma 1-bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, se il contratto, lo statuto ovvero l’atto costitutivo dell’ente prevedono una clausola di mediazione o conciliazio¬ne e il tentativo non risulta esperito, il giudice o l’arbitro, su eccezione di parte, proposta nella prima difesa, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione e fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo il giudice o l’arbitro fissa la successiva udienza quando la mediazione o il tentativo di conciliazione sono iniziati, ma non conclusi. La domanda è presentata davanti all’organismo in¬dicato dalla clausola, se iscritto nel registro, ovvero, in mancanza, davanti ad un altro organismo iscritto, fermo il rispetto del criterio di cui all’articolo 4, comma 1. In ogni caso, le parti possono concordare, successivamente al contratto o allo statuto o all’atto costitutivo, l’individuazione di un diverso organismo iscritto.
6. Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla pre¬scrizione gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedi¬sce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo.
1) I tre casi di mediazione obbligatoria
a) La mediazione obbligatoria ante causam nelle materie indicate nel primo comma (comma 1 bis) dell’art. 5
Nelle materie elencate nell’attuale primo comma (comma 1-bis, dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell’o¬riginario primo comma dell’articolo 5) la mediazione è obbligatoria essendo prevista come condizione di proce¬dibilità della domanda giudiziale.
La parte che intende agire in giudizio ha, perciò, l’onere di tentare la mediazione mentre in ogni altra materia la mediazione potrà essere avviata dalle parti su base volontaria e facoltativa, sia prima che durante il processo.
Si dirà, a commento dell’art. 8, che l’onere di partecipazione alla mediazione è assolto soltanto se sostanzial¬mente e non solo formalmente si realizza un’attività procedimentale di mediazione.
In questi casi l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza.
Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di tre mesi previsto come termine massimo della mediazione nell’art. 6 della legge ed allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il ter¬mine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.
Le controversie in cui è obbligatoria la previa mediazione sono le seguenti: 1) condominio; 2) diritti reali; 3) di¬visione; 4) successioni ereditarie; 5) patti di famiglia; 6) locazione, comodato, affitto di aziende; 7) risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria; 8) risarcimento del danno derivante da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità; 9) contratti assicurativi, bancari e finanziari.
L’elencazione è considerata tassativa (Trib. Monza Sez. II, 26 marzo 2015).
Non è il rito a determinare l’obbligatorietà del procedimento di mediazione, bensì la natura della controversia e pertanto la mediazione obbligatoria trova applicazione anche nel processo sommario di cognizione di cui all’art. 702 bis c.p.c (Trib. Torino Sez. III, 23 marzo 2015).
In giurisprudenza si è precisato che la domanda di riduzione di donazioni per lesione della quota di legittima e di scioglimento della comunione ereditaria che si venga a costituire per l’effetto, concerne la materia delle succes¬sioni, ed è quindi soggetta al previo esperimento del procedimento di mediazione obbligatoria (Trib. Frosinone, 8 novembre 2016).
La controversia inerente un contratto di apertura di credito rientra tra quelle soggette all’esperimento del ten¬tativo obbligatorio di conciliazione atteso che per controversie bancarie ai sensi dell’art. 5, comma 1-bis devono intendersi quelle relative a contratti aventi ad oggetto operazioni o servizi bancari (Trib. Verona, 28 ottobre 2014).
Anche le domande spiegate in via riconvenzionale, qualora incidano su una delle materie elencate dall’art. 5, comma 1-bis, sono sottoposte al tentativo obbligatorio di mediazione civile e commerciale. Con la conseguenza che, qualora il procedimento sia già stato esperito, ma con riferimento alle sole domande principali, il giudice dovrà assegnare un termine per la sua rinnovazione (Trib. Verona, Sez. III, 12 maggio 2016; Trib. Verona Sez. III, 18 dicembre 2015).
Si è anche affermato che se soltanto una delle domande proposte in giudizio è soggetta a mediazione obbliga¬toria e l’altra no, non sarebbe opportuno disporne la separazione per consentire l’espletamento della formalità di rito della mediazione, perché ciò facendosi si comprometterebbe la prospettiva conciliativa che deve neces¬sariamente investire tutta la controversia, ben potendo per contro il giudice disporre la mediazione anche per la domanda che non sia soggetta all’obbligo in questione (Trib. Verona Sez. III, 25 giugno 2015).
Secondo Trib. Nola 24 febbraio 2015 alla dichiarazione d’improcedibilità dell’opposizione a decreto ingiuntivo per mancato esperimento della mediazione prevista quale condizione di procedibilità della domanda, consegue la conferma del decreto ingiuntivo opposto.
b) La mediazione obbligatoria demandata dal giudice in corso di causa
La seconda ipotesi in cui esperire il procedimento di mediazione è obbligatorio è quella in cui la mediazione è demandata (ex officio) dal giudice in corso di causa. Se ne occupa il secondo comma dell’art. 5 dove si prevede che il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il com¬portamento delle parti, può sempre disporre l’esperimento del procedimento di mediazione. Nel testo originario della norma si trattava di un semplice invito (si parlava di mediazione delegata). L’attuale testo – dopo la riforma del 2013 – prevede un vero e proprio obbligo di eseguire l’ordine del giudice.
Anche in tal caso – come nelle ipotesi sopra richiamate di cui al primo comma – l’esperimento del procedimento di mediazione diventa di fatto (e d’altro lato la norma lo prevede espressamente) condizione di procedibilità (meglio di proseguibilità) della domanda giudiziale, in primo grado o in sede di appello.
Tuttavia la sanzione secondo una parte della giurisprudenza non potrebbe essere la dichiarazione di improcedi¬bilità ma solo interna al processo ex art. 116 c.p.c. (art. 8, comma 4-bis) (Trib. Taranto, 16 aprile 2015). Di contrario avviso Trib. Vasto, 23 aprile 2016 secondo cui la parte che non compare al primo incontro, ha l’onere di esplicitare le ragioni del rifiuto di svolgere una mediazione demandata dal giudice, pena l’improcedibilità della domanda e/o l’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 8, comma 4-bis, D.Lgs. n. 28/2010. Nello stesso senso Trib. Firenze, 5 giugno 2015 secondo cui il mancato esperimento del procedimento di mediazio¬ne nel termine assegnato dal giudice determina l’improcedibilità della domanda.
Naturalmente la dichiarazione di improcedibilità (che effettivamente sembra in linea con il testo della norma) che segue ad una valutazione di mancato esperimento del procedimento di mediazione o di non corretta esecuzione della mediazione, significa soltanto che le parti dovranno esperire nuovamente correttamente la mediazione (non che debbano trovare per forza una soluzione conciliativa della controversia). Il principio resta sempre quello per cui l’onere di partecipazione alla mediazione è assolto soltanto se sostanzialmente e non solo formalmente si realizza un’attività procedimentale di mediazione.
Il provvedimento del giudice è adottato prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa.
Si è precisato pragmaticamente in giurisprudenza – discostandosi, tuttavia, un po’ arbitrariamente dal testo della legge – che l’invio delle parti alla mediazione da parte del giudice dovrebbe essere disposto “quando ciò appaia opportuno per i seguenti motivi: l’incertezza circa l’esito del giudizio; la natura fiduciaria del pregresso rapporto negoziale intercorso tra attore e convenuto, che potrebbe favorire la trattativa; il modesto valore economico del¬la controversia; la gravità dell’incombente istruttorio costituito dal giuramento decisorio, chiesto per contrastare l’altrui eccezione di prescrizione presuntiva” (Trib. Milano Sez. IX 14 ottobre 2015).
L’incipit del secondo comma dell’art. 5 (“Fermo quanto previsto dal comma 1-bis …”) potrebbe portare ad una interpretazione riduttiva della riforma se venisse interpretato nel senso di escludere nelle ipotesi di obbligato¬rietà di cui al comma 1-bis la mediazione demandata dal giudice (come se dicesse “salvo quanto previsto…”). L’espressione è stata finora, invece, ragionevolmente interpretata nel senso che il giudice può disporre sempre l’esperimento del procedimento di mediazione, sia nei casi di mediazione facoltativa che di mediazione obbliga¬toria (Trib. Milano Sez. IX, 29 ottobre 2013) ed anche quando si fosse verificata la sanatoria derivante dalla mancata eccezione o dal mancato rilievo d’ufficio del mancato esperimento della mediazione, potendosi verifica¬re, quindi anche casi di cosiddetta doppia mediazione.
La giurisprudenza ha affermato che la circostanza che prima e fuori della causa sia stata proposta una domanda di mediazione (volontaria o obbligatoria), non è impeditiva all’esercizio ed all’attivazione da parte del Giudice della mediazione demandata di cui all’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28 del 2010 (Trib. Roma, 30 ottobre 2015 “in ragione della diversità di presupposti e contesto nei quali si collocano la mediazione obbligatoria e quella deman¬data”; Trib. Roma, 5 dicembre 2013) e ha precisato altresì che qualora alla procedura di mediazione disposta dal giudice una delle parti non abbia partecipato in assenza di valide e comprovate giustificazioni, sussistendo concrete possibilità conciliative frustrate da detta irrituale partecipazione, attese le conseguenze che possono derivare a carico delle parti dalla mancata o irrituale partecipazione alla mediazione, il giudice può concedersi alle stesse la possibilità di rinnovare la mediazione in modo rituale (Trib. Roma, 14 dicembre 2015).
Il richiamo nell’incipit ai commi 3 e 4, invece, sta a significare che il giudice è anche lui vincolato al contenuto dei commi in questione (non potendosi esimere quindi dal prendere in considerazione l’eventuale richiesta di provvedimenti urgenti e non potendo inviare le parti in mediazione nelle ipotesi indicate nel quarto comma).
Nel provvedimento con cui dispone l’esperimento del procedimento di mediazione il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di tre mesi previsto nell’art. 6 come termine massimo di durata del pro¬cedimento di mediazione e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.
Secondo la giurisprudenza la mediazione obbligatoria esperita ancorché successivamente al termine di 15 giorni assegnato dal Giudice, non comporta la improcedibilità prevista per il mancato esperimento del procedimento, in assenza di espressa previsione di perentorietà del termine assegnato dal giudice, dovendosi dare prevalenza all’effetto sostanziale dello svolgimento del procedimento (Trib. Milano Sez. I, 27 settembre 2016; contra, Trib. Napoli, 14 marzo 2016 e Trib. Ivrea, 11 marzo 2016 che ritengono il termine perentorio). La questio¬ne non ha molta importanza dal momento comunque che il giudice, come detto, potrebbe sempre avviare le parti alla mediazione sia che non abbiano adempiuto con tempestività all’adempimento, sia che abbiamo comunque osservato con tempestività l’ordine di procedere alla mediazione e questa non abbia portato all’accordo.
In giurisprudenza si è sostenuto ragionevolmente che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo l’onere di esperire la mediazione obbligatoria grava sul debitore opponente in quanto parte processuale che ha provocato l’instaurazione del processo ordinario di cognizione (Cass. civ. Sez. III, 3 dicembre 2015, n. 24629; Trib. Ferrara, 8 settembre 2016; Trib. Vasto, 30 maggio 2016; Trib. Trento, 23 febbraio 2016; Trib. Milano Sez. XIII, 9 dicembre 2015; Trib. Chieti, 8 settembre 2015; Trib. Genova Sez. III, 15 giugno 2015; Trib. Firenze Sez. III, 30 ottobre 2014). Non è condivisibile quanto sostenuto da altra giurisprudenza secon¬do cui l’onere graverebbe sulla parte opposta “che ha deciso di portare in giudizio il proprio conflitto per la tutela di un suo diritto” (Trib. Firenze Sez. II, 15 febbraio 2016) o che dovrebbe essere il magistrato a scegliere discrezionalmente quale debba essere la parte in concreto onerata dell’avvio della mediazione (Trib. Pavia, 26 settembre 2016).
Secondo Trib. Trapani, 16 luglio 2016 in caso di mediazione demandata, il mediatore è tenuto a verificare quali siano le parti del giudizio ed a trasmettere a ciascuna di esse la lettera di convocazione per l’incontro preli¬minare con mezzi che ne assicurino la ricezione; l’inosservanza di tali formalità non può ritorcersi a danno della parte attrice, che avrà diritto ad un nuovo termine per la rinnovazione del procedimento.
Sempre in caso di mediazione demandata dal giudice, l’istanza rivolta all’organismo di conciliazione deve conte¬nere un chiaro riferimento all’oggetto del contendere, affinché il Giudice possa verificare che il procedimento sia stato espletato con riguardo alla controversia dedotta in giudizio (Trib. Verona Sez. III, 23 giugno 2016).
c) Le clausole contrattuali di previa mediazione obbligatoria
La terza ipotesi in cui è obbligatorio procedere alla mediazione è quello (al quale si riferisce il comma 5 dell’art. 5) in cui sussistano clausole contrattuali che prevedono l’obbligo della mediazione. Si prevede che se il tentativo di mediazione contrattualmente previsto come obbligatorio non risulta esperito, il giudice (o eventualmente l’ar¬bitro), su eccezione di parte, proposta nella prima difesa (e quindi non d’ufficio) assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione e fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di tre mesi di durata massima del procedimento. Allo stesso modo, conclude sul punto il comma 5, il giudice o l’arbitro fissa la successiva udienza quando la mediazione o il tentativo di conciliazione sono iniziati, ma non conclusi.
Quindi, il mancato esperimento del procedimento di mediazione previsto da una clausola sottoscritta dalle parti può essere fatto valere in giudizio solo dalla parte interessata (nella prima difesa) e non può essere rilevato d’ufficio dal giudice.
Resta sempre salva, anche in questo caso, la possibilità che il giudice disponga la mediazione.
2) L’eccezione e il rilievo dell’improcedibilità della domanda giudiziale
L’art. 5 si occupa anche di individuare e disciplinare il meccanismo di raccordo tra il tentativo obbligatorio di me¬diazione e il processo civile. In particolare per i casi di cui al comma 1-bis il meccanismo è quello dell’eccezione di parte o del rilievo di ufficio entro la prima udienza, mentre per il caso dell’obbligo derivante dalle clausole contrattuali è escluso il rilievo d’ufficio.
Benché l’intero comma 1-bis sia richiamato anche per la mediazione demandata dal giudice (il comma 2 inizia, infatti, con la frase “fermo quanto previsto dal comma 1-bis”), il meccanismo del rilievo di eccezione di parte o d’ufficio entro la prima udienza non appare ipotizzabile nel caso di mediazione demandata dal giudice, trattan¬dosi di mediazione in corso di causa, in cui quindi le conseguenze derivanti della mancata adesione all’ordine del giudice sono solo quelle previste nell’art. 8, comma 4-bis (“Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio”). Effettivamente per questa ragione parte della giurisprudenza ha ritenuto che nei casi in cui la media¬zione è demandata dal giudice, in difetto di adesione all’ordine del giudice la dichiarazione di improcedibilità non sarebbe possibile (Trib. Taranto, 16 aprile 2015). Si è già detto che invece altra parte della giurisprudenza ritiene ammissibile la dichiarazione di improcedibilità (Trib. Vasto, 23 aprile 2016 secondo cui la parte che non compare al primo incontro, ha l’onere di esplicitare le ragioni del rifiuto di svolgere una mediazione demandata dal giudice, pena l’improcedibilità della domanda e/o l’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 8, comma 4-bis, D.Lgs. n. 28/2010 e Trib. Firenze, 5 giugno 2015 secondo cui il mancato esperimento del procedimento di mediazione nel termine assegnato dal giudice determina l’improcedibilità della domanda).
Nello specifico, per ciò che attiene alla obbligatorietà della mediazione ante causam, il comma 1-bis nella sua seconda parte prescrive che l’improcedibilità derivante dal mancato esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. In tal caso il giudice assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di durata massima della mediazione di tre mesi previsto dall’art. 6 riformato del decreto legislativo.
Quindi le ipotesi che si possono verificare sono due: a) la mediazione non è stata tentata ed entro la prima udien¬za il convenuto eccepisce l’improcedibilità o il giudice la rileva: in tal caso il giudice assegna con ordinanza alle parti il termine di quindici giorni per iniziare il procedimento di mediazione e fissa l’udienza successiva dopo la scadenza del termine di tre mesi previsto come termine massimo di durata della mediazione. Se le parti insieme o una di esse (quindi non solo l’attore ma anche il convenuto) propongono la domanda di mediazione il procedi¬mento andrà avanti regolarmente. b) la mediazione è già iniziata ma il giudizio è stato promosso prima della sua conclusione: in tal caso il giudice ne prende atto e fissa per la prosecuzione della causa una udienza successiva (con salvezza di tutti i diritti) alla scadenza del termine massimo di tre mesi previsto come durata massima del procedimento di mediazione.
In giurisprudenza si è precisato che la disposizione secondo cui la improcedibilità deve essere eccepita dal con¬venuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza, non si applica nei pro¬cedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione (Trib. Genova Sez. VI, 31 maggio 2016).
In caso di clausole contrattuali di mediazione l’eccezione può essere sollevata solo dalla parte (l’art. 5, comma 5 prevede infatti che “il giudice o l’arbitro, su eccezione di parte, proposta nella prima difesa, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione…”).
L’espediente processuale che il decreto legislativo n. 28 del 2010 ha previsto – consistente nell’imporre al giudice di rinviare la causa ad una udienza successiva allo spirare del termine della mediazione – evita la sospensione del processo ed impedisce che nel processo in cui si controverte di questioni civili o commerciali si pongano problemi di riassunzione e quindi di rischio di estinzione del processo per mancata riassunzione. Non c’è alcuna sospensione del giudizio ma solo un rinvio dell’udienza per un periodo non superiore ai tre mesi previsti dall’art. 6 del decreto 28/2010 come durata massima del procedimento di mediazione. Non c’è, pertanto, nessun rischio di allungamento dei tempi del processo.
Allorché, quindi, la causa sia iniziata (o prosegua, in primo grado o in appello, nonostante l’ordine del giudice di invio alla mediazione) senza l’esperimento del procedimento di mediazione o prima che questo si sia concluso si verificano le seguenti evenienze: a) Il convenuto non eccepisce l’improcedibilità – perché non ha interesse o per altri motivi – entro la prima udienza. b) Il giudice – nelle prime due ipotesi sopra viste – non rileva l’improcedibili¬tà d’ufficio, entro la prima udienza. In tali ipotesi la causa va avanti senza che sia più possibile in merito sollevare alcuna eccezione formale in ordine al previo esperimento del procedimento di mediazione. Come detto, tuttavia, il secondo comma dell’art. 5 del decreto legislativo riformato, prevede che il giudice, anche in sede di giudizio di appello, possa sempre disporre l’esperimento del procedimento di mediazione. Il che significa che, benché non siano possibili più rilievi formali in ordine alla procedibilità, in sostanza alla mediazione si potrà accedere in qualsiasi momento della causa anche in appello.
3) I provvedimenti giudiziali urgenti
Secondo quanto prevede il comma 3 dell’art. 5 lo svolgimento della mediazione non preclude la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascrizione della domanda giudiziale. Il che significa che in tutti i casi sopra indicati in cui il tentativo di mediazione è obbligatorio è sempre possibile richiedere al giudice eventuali provvedimenti urgenti e indilazionabili ed è sempre ammissibile iniziare il procedimento al fine di trascrivere la domanda giudiziale.
La parte che intende azionare una pretesa in sede giudiziaria ed ha necessità di un provvedimento di urgenza o di trascrivere la domanda, può senz’altro iniziare la causa, senza previo esperimento del procedimento di media¬zione, procedendo agli atti necessari a soddisfare la sua pretesa di urgenza o di trascrizione.
4) L’avveramento della condizione di procedibilità presuppone il primo incontro tra le parti
La riforma del 2013 ha introdotto il comma 2-bis nel quale si prevede che quando l’esperimento del procedimen¬to di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale – e quindi in tutti e tre i casi di mediazione cosiddetta obbligatoria – la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo.
Il legislatore del 2013 ha insomma reagito alla prassi distorta che si era affermata di non presentarsi al primo incontro di mediazione al quale di fatto oggi le parti sono obbligate a presentarsi. Ove le parti disertassero il primo incontro la condizione di procedibilità non può dirsi avverata.
Il principio è stato ribadito anche in giurisprudenza affermandosi che ai sensi dell’art. 5, comma 2-bis, D.Lgs. n. 28/2010, la condizione di procedibilità della domanda giudiziale si considera avverata quando il primo incon¬tro davanti al mediatore si conclude senza accordo, non essendo sufficiente la mera proposizione della relativa istanza (Trib. Firenze Sez. III, 27 aprile 2016).
5) I casi in cui è esclusa l’obbligatorietà della previa mediazione
Ai sensi del comma 4 dell’art. 5, non sussiste obbligatorietà della previa mediazione (nelle materie indicate al comma 1 bis) né il giudice può disporre l’esperimento della mediazione nelle seguenti situazioni:
a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e so¬spensione della provvisoria esecuzione. La logica che impone alle parti di “incontrarsi” in una sede stragiudiziale, prima di adire il giudice, è strutturalmente collegata ad un (futuro) processo destinato a svolgersi fin dall’inizio in contraddittorio fra le parti. All’istituto sono quindi per definizione estranei i casi in cui invece il processo si debba svolgere in una prima fase necessariamente senza contraddittorio, come accade per il procedimento per decreto ingiuntivo.
b) nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all’articolo 667 del codice di procedura civile;
In giurisprudenza App. Firenze, 29 gennaio 2016 ha confermato che in relazione al procedimento per con¬valida di sfratto, il tentativo di mediazione, previsto dall’art. 5, comma 4, D.Lgs. n. 28 del 2010, diviene condi¬zione di procedibilità unicamente dopo la pronuncia dei provvedimenti adottati nella fase sommaria, dovendosi ritenere esperibile solo dopo il mutamento del rito disposto all’udienza ex art. 667 c.p.c. e, quindi, anche dopo la pronuncia dei provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666 c.p.c. e per il giudizio a cognizione piena derivato dalla opposizione e dal successivo mutamento del rito. È onere della parte avviare il procedimento di mediazione all’esito del mutamento del rito e, di conseguenza, la verifica di cui all’art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 28 citato è operata solo all’udienza fissata ex art. 667 c.p.c..
c) nei procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, di cui all’articolo 696-bis del codice di procedura civile.
Sebbene le prescrizioni relative alla mediazione obbligatoria ed a quella demandata non si applicano a tale pro¬cedimento, tuttavia, un invito del giudice alle parti di andare in mediazione è possibile anche in tali casi quale percorso volontario concordato dalle parti all’esito della prospettazione da parte del giudice delle evidenti mag¬giori utilità di una buona mediazione (Trib. Roma, 16 luglio 2015 secondo cui all’interno di un procedimento di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite di cui all’articolo 696-bis c.p.c., il giudice ben può prospettare alle parti in alternativa a quella, usuale, della nomina di un consulente tecnico di ufficio, l’introduzione di una procedura di mediazione, nell’ambito della quale le parti possono invitare e sollecitare il mediatore alla nomina di un consulente tecnico, con i relativi indubbi aspetti positivi del percorso di mediazione).
d) nei procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile;
e) nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata;
f) nei procedimenti in camera di consiglio;
g) nell’azione civile esercitata nel processo penale.
6) La disciplina della prescrizione e della decadenza
Una clausola di salvaguardia opportuna è contenuta nell’ultimo comma dell’art. 5 del decreto legislativo 28/2010 dove si prevede che dal momento della comunicazione all’altra parte la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Si fa qui riferimento naturalmente all’art. 2943 c.c. che preve¬de l’interruzione della prescrizione al momento della domanda giudiziale (notifica della citazione o deposito del ricorso).
Ugualmente avviene in caso di decadenza. Quando un diritto deve esercitarsi entro un certo termine a pena di decadenza (art. 2964 c.c.) dal momento della comunicazione all’altra parte la domanda di mediazione impedisce la decadenza “per una sola volta”, dispone l’art. 5 ultimo comma. La ratio di tale scelta risiede nell’esigenza di evitare che vengano proposte istanze strumentali di mediazione al solo fine di differire la scadenza del termine di decadenza. Il momento dal quale l’istanza di mediazione produce tali effetti è, a norma dell’art. 5, comma 6, quello della sua comunicazione alle altre parti (Trib. Palermo Sez. II, 18 settembre 2015).
Se la mediazione fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal deposito del verbale di mancata conciliazione. Si verifica quindi una ipotesi espressa di interru¬zione della decadenza.
Art. 6 6
Durata
1. Il procedimento di mediazione ha una durata non superiore a tre mesi.
2. Il termine di cui al comma 1 decorre dalla data di deposito della domanda di mediazione, ov¬vero dalla scadenza di quello fissato dal giudice per il deposito della stessa e, anche nei casi in cui il giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del sesto o del settimo periodo del comma 1-bis dell’articolo 5 ovvero ai sensi del comma 2 dell’articolo 5, non è soggetto a sospensione feriale.
Sono numerose le disposizioni che nel decreto legislativo 28/2010 si riferiscono al tema della durata della me¬diazione.
Il legislatore ha voluto che la mediazione abbia tempi rapidi di svolgimento ma ha lasciato agli organismi liber¬tà nella individuazione dei ritmi del procedimento, stabilendo soltanto che il regolamento dell’organismo deve prevedere modalità di sollecito adempimento dell’attività di mediazione (l’art. 3 precisa come si è visto che “Il regolamento deve garantire … modalità di nomina del mediatore che ne assicurano l’imparzialità e l’idoneità al corretto e sollecito espletamento dell’incarico”.
L’art. 6 – riformato in questo nel 2013 – prescrive, in ogni caso, che il procedimento di mediazione deve avere una durata non superiore a tre mesi (quattro, secondo il testo originario del decreto istitutivo) che decorrono
6 Testo originario
Art. 6
(Durata)
1. Il procedimento di mediazione ha una durata non superiore a quattro mesi.
2. Il termine di cui al comma 1 decorre dalla data di deposito della domanda di mediazione, ovvero dalla scadenza di quello fissato dal giudice per il deposito della stessa e, anche nei casi in cui il giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo del comma 1 dell’articolo 5, non è soggetto a sospensione feriale.

dal deposito della domanda di mediazione (che coincide con la data di ricezione della domanda da parte dell’or¬ganismo: art. 4, primo comma) o dalla scadenza del termine di quindici giorni fissato dal giudice in difetto di promovimento della procedura o negli altri casi (art. 5). Il termine suddetto non è soggetto a sospensione feriale (art. 6, secondo comma).
Il termine d tre mesi, è ragionevolmente ritenuto dalla giurisprudenza un termine ordinatorio e soprattutto nella disponibilità delle parti (Trib. Varese, 20 giugno 2012).
Sempre in relazione al sollecito espletamento del procedimento l’art. 8 prescrive, infine, che, ricevuta la do¬manda di mediazione, il responsabile dell’organismo deve fissare il primo incontro tra le parti “non oltre quindici giorni dal deposito della domanda”.
A proposito di quest’ultima disposizione c’è da dire che il termine di tre mesi di durata massima appare certa¬mente più congruo di quello di quattro mesi previsto prima della riforma del 2013.
Ugualmente congruo, dopo la riforma del 2013, è il termine di trenta giorni entro cui deve svolgersi dalla doman¬da iniziale il primo incontro del procedimento di mediazione.
Il tema della durata della mediazione è anche legato al problema dei rapporti tra l’attività di mediazione e il pro¬cesso civile. Come si è detto il procedimento di mediazione è congegnato e modulato in tempi e modi tali da non subire il rischio della riassunzione e dell’estinzione. L’art. 5 non prevede la sospensione del processo per consen¬tire la mediazione. Il giudice “ ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione”. La disposizione è in linea con le esigenze di mantenere i tempi della mediazione e del processo ragionevolmente contenuti
Art. 7 7
Effetti sulla ragionevole durata del processo
1. Il periodo di cui all’articolo 6 e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis e 2, non si computano ai fini di cui all’articolo 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89.
L’art. 7 indica gli effetti del tempo utilizzato per la mediazione sulla ragionevole durata del processo, prevedendo che il periodo di durata della mediazione ivi compreso il periodo di rinvio disposto dal giudice, non si computa “ai fini di cui all’articolo 2 della legge 24 marzo 2001, n.89”.
Art. 8 8
Procedimento
1. All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della doman¬da. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante. Al primo incontro e agli incontri suc¬

7 Testo originario
Art. 7
(Effetti sulla ragionevole durata del processo)
1. Il periodo di cui all’articolo 6 e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 1, non si computano ai fini di cui all’articolo 2 della legge 24 marzo 2001, n.89.
8 Testo originario
Art. 8
(Procedimento)
1. All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre quindici giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comu¬nicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante. Nelle controversie che richiedono specifiche competenze tecniche, l’organismo può nominare uno o più mediatori ausiliari.
2. Il procedimento si svolge senza formalità presso la sede dell’organismo di mediazione o nel luogo indicato dal regolamento di procedura dell’organismo.
3. Il mediatore si adopera affinché le parti raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia.
4. Quando non può procedere ai sensi del comma 1, ultimo periodo, il mediatore può avvalersi di esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali. Il regolamento di procedura dell’organismo deve prevedere le modalità di calcolo e liquidazione dei compensi spettanti agli esperti.
5. Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile.

cessivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato. Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvo¬cati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. Nelle controversie che richiedono specifiche competenze tecniche, l’organismo può nominare uno o più mediatori ausiliari.
2. Il procedimento si svolge senza formalità presso la sede dell’organismo di mediazione o nel luogo indicato dal regolamento di procedura dell’organismo.
3. Il mediatore si adopera affinché le parti raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia.
4. Quando non può procedere ai sensi del comma 1, ultimo periodo, il mediatore può avvalersi di esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali. Il regolamento di procedura dell’organi¬smo deve prevedere le modalità di calcolo e liquidazione dei compensi spettanti agli esperti.
4-bis. Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi pre¬visti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio.
1) Il procedimento di mediazione
Le formalità procedimentali sono ridotte al minimo in applicazione del principio generale – contenuto nell’art. 3 – secondo cui “gli atti del procedimento di mediazione non sono soggetti a formalità”, ribadito nell’art. 8 che avverte che il procedimento di mediazione si svolge senza formalità.
Nonostante ciò la riforma del 2013 proprio modificando in tre punti l’art. 8 ha introdotto alcune regole precise e inderogabili per la partecipazione al procedimento. In particolare: a) l’obbligo di partecipazione delle parti con l’assistenza degli avvocati; b) l’obbligo di un primo incontro preliminare; c) in caso di ingiustificata mancata partecipazione alla mediazione la condanna al pagamento dei una somma pari al contributo unificato in aggiunta alla valutazione di tale contegno ex art. 116 c.p.c.
Il procedimento di mediazione – di cui si occupa specificamente l’art. 8 del decreto 28/2010 – ha inizio con la domanda di una parte (o di entrambe le parti insieme: situazione che la legge non prevede ma che non va affatto esclusa).
L’organismo prescelto dal richiedente tra quelli aventi la sede principale nella circoscrizione giudiziaria che sa¬rebbe competente per il giudizio (art. 4, primo comma) designa un mediatore (ed eventualmente uno o più mediatori ausiliari per le controversie che richiedono specifiche competenze tecniche) e fissa il primo incontro tra le parti da tenersi non oltre trenta giorni dal deposito della domanda.
Dopo di che è compito del richiedente o dell’organismo (che può prevedere l’assunzione diretta da parte sua dell’onere) comunicare all’altra parte “con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione” il contenuto della do¬manda e il provvedimento di fissazione del primo incontro.
Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione – come si è visto (art. 5, ultimo comma) – gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo.
Il mediatore si adopera affinché le parti “raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia”. Così si esprime il terzo comma dell’art. 8 del decreto. Tutta la fase procedimentale trova regolamentazione in questa sintetica indicazione legislativa.
Il mediatore naturalmente può anche avvalersi di esperti iscritti negli albi presso i tribunali. Saranno i regola¬menti di procedura degli organismi a prevedere le modalità di calcolo e liquidazione dei compensi.
Il procedimento si snoda in una o più sedute nel corso delle quali il mediatore potrà naturalmente avere anche incontri separati con le parti per approfondire gli aspetti che ritiene utili. Lo prevede espressamente l’art. 9 il quale dopo aver chiarito e prescritto che chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell’organismo o nel procedimento di mediazione è tenuto all’obbligo di riservatezza, ribadisce questo principio anche “rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite nel corso delle sessioni separate” . Quanto dichiarato o ap¬preso nelle sessioni separate, non può essere comunicato alle altre parti se non con il consenso della parte dalla quale provengono le informazioni.
2) La partecipazione delle parti personalmente con l’avvocato
Secondo la principale modifica introdotta nel 2013, al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato. Già si è detto di questa fondamentale riforma trattando a commento dell’art.4 degli obblighi dell’avvocato e della sua partecipazione alla mediazione.
Il senso del nuovo testo dell’art. 8 è quindi quello di escludere che al procedimento di mediazione possa parteci¬pare esclusivamente l’avvocato in rappresentanza della parte a differenza di quanto avviene in sede processuale in cui è previsto che all’avvocato possa essere conferito espressamente il potere di conciliare la causa in rappre¬sentanza del proprio assistito (art. 183, secondo comma, c.p.c.).
Il procedimento di mediazione esperito senza l’assistenza di un avvocato non può considerarsi validamente svol¬to sicché la domanda giudiziale dovrà essere dichiarata improcedibile (Trib. Torino, 30 marzo 2016).
I protagonisti della mediazione sono in ogni caso le parti. Ed è stata proprio la legge di riforma del 2013 a pre¬scrivere che esse debbono partecipare personalmente alla mediazione, assistite come detto dagli avvocati.
Già in precedenza Trib. Vasto 9 marzo 2015 – che verrà più oltre ancora richiamata – aveva affermato che qualora il tentativo di mediazione, disposto dal giudice, sia stato infruttuosamente esperito fra i soli avvocati del¬le parti, il giudicante non potrà che dichiarare l’improcedibilità del giudizio, posto che la sanatoria prevista all’art. 5, comma 1-bis, per i casi di mediazione obbligatoria ex lege si applica solamente nei casi in cui la mediazione, alla data del rilievo giudiziale, non sia stata attivata ovvero non risulti ancora terminata, non anche al caso in cui essa si sia effettivamente svolta, ma in violazione delle prescrizioni che regolano il suo corretto espletamento. E tra queste prescrizioni, come detto, vi è quella della presenza personale delle parti.
Il valore e la funzione della mediazione sta proprio nel delineare un ambito informale ma specifico, diverso dal processo, nel quale ridare la parola alle parti e consentire loro di mettere in gioco i propri interessi al fine di tro¬vare una soluzione che, a prescindere dai profili strettamente tecnico-giuridici del problema, risponda alle loro esigenze di vita, che non coincidono solo e necessariamente con gli specifici interessi in conflitto ma hanno una estensione spesso ben maggiore e più complessa. Ciò rende personalissima l’attività che è funzionale al possibile accordo di mediazione e, di regola, non delegabile a terzi, salvo casi eccezionali che non possono essere esclusi a priori e nei quali non può essere negato alla parte di scegliere, sulla base dei propri rapporti personali di fidu¬cia, insindacabili da chiunque, il soggetto che, opportunamente delegato (diverso dall’avvocato), meglio la potrà rappresentare nella mediazione con la controparte (Trib. Ferrara, 28 luglio 2016).
In giurisprudenza si è perentoriamente chiarito che ai sensi del D.Lgs. n. 28/2010, in tema di mediazione obbli¬gatoria potrà considerarsi formata la condizione di procedibilità se all’incontro vi è la presenza personale delle parti e se le parti effettuano un tentativo di mediazione vero e proprio, in considerazione della lettera e della ratio delle disposizioni di cui al citato D.Lgs. n. 28/2010 atteso che l’istituto della mediazione mira ad un’effet¬tiva interazione tra le parti di fronte al mediatore che deve potere comprendere gli interessi delle stesse parti al fine di una soluzione extragiudiziale della controversia (Trib. Palermo Sez. I, 29 luglio 2015 secondo cui il responsabile dell’organismo di mediazione deve necessariamente fissare il primo incontro tra le parti e non può revocare tale fissazione all’esito della comunicazione della mancata adesione ad opera della parte chiamata, la quale comporta, in assenza di giustificazione, l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 8, comma 4-bis, D.Lgs. n. 28 del 2010).
L’ipotesi in cui all’incontro davanti al mediatore compaiano i soli difensori, anche in rappresentanza delle parti, non può considerarsi in alcun modo mediazione, come si desume dalla lettura coordinata dell’art. 5, comma 1-bis e dell’art. 8, che prevedono che le parti esperiscano o partecipino al procedimento di mediazione con l’”assisten¬za degli avvocati”, e questo implica la presenza degli assistiti, personale o a mezzo di delegato, cioè di soggetto comunque diverso dal difensore.
Il fatto che la partecipazione della parte alla mediazione vada considerata obbligatoria, è praticamente ormai affermato da tutta la giurisprudenza secondo cui la partecipazione ha natura di atto personalissimo e non de¬legabile (Trib. Vasto, 9 marzo 2015; Trib. Firenze, 26 novembre 2014; Trib. Bologna Sez. III, 11 no¬vembre 2014; Trib. Firenze Sez. II, 19 marzo 2014), anche in considerazione del fatto che l’istituto della mediazione, quale mezzo alternativo di risoluzione delle controversie, mira, mediante il ruolo e la professionalità del mediatore, a riattivare la comunicazione tra le parti in conflitto al fine di verificare la possibilità di soluzione conciliativa della vertenza. In tale contesto è del tutto coerente con la logica dell’istituto che il ruolo del difensore tecnico deve essere di mera assistenza della parte che partecipa alla mediazione e non mai di rappresentanza degli interessi della stessa (Trib. Firenze Sez. III, 24 marzo 2016).
Nella ordinanza sopra richiamata Trib. Vasto, 9 marzo 2015 si legge che ai fini del rispetto della condizione di procedibilità della domanda grava sul mediatore in qualità di soggetto istituzionalmente preposto ad esercitare funzioni di verifica e di garanzia della puntuale osservanza delle condizioni di regolare espletamento della pro¬cedura, l’onere di adottare ogni opportuno provvedimento finalizzato ad assicurare la presenza personale delle parti, ad esempio disponendo – se necessario – un rinvio del primo incontro, sollecitando anche informalmente il difensore della parte assente a stimolarne la comparizione, ovvero dando atto a verbale che, nonostante le ini¬ziative adottate, la parte a ciò invitata non ha inteso partecipare personalmente agli incontri, né si è determinata a nominare un suo delegato (diverso dal difensore), per il caso di assoluto impedimento a comparire.
Il principio è stato affermato molto chiaramente da Trib. Vasto, 23 giugno 2015 secondo cui le parti ancorché libere di scegliere l’organismo di mediazione al quale rivolgersi, sono tenute a partecipare personalmente, as¬sistite dal proprio difensore, all’incontro preliminare, informativo e di programmazione, che si svolgerà davanti al mediatore dell’organismo prescelto e nel quale verificheranno se sussistano effettivi spazi per procedere util¬mente in mediazione.
Si legge in questa ordinanza che incombe sul mediatore l’onere di verbalizzare i motivi eventualmente addotti dalle parti assenti per giustificare la propria mancata comparizione personale e, comunque, di adottare ogni opportuno provvedimento finalizzato ad assicurare la presenza personale delle stesse, ad esempio disponendo – se necessario – un rinvio del primo incontro o sollecitando anche informalmente il difensore della parte assente a stimolarne la comparizione ovvero dando atto a verbale che, nonostante le iniziative adottate, la parte a ciò invitata non ha inteso partecipare personalmente agli incontri, né si è determinata a nominare un suo delegato (diverso dal difensore), per il caso di assoluto impedimento a comparire.
La mediazione si fonda proprio sulla esistenza di un contrasto di opinioni, di vedute, di volontà, di intenti, di interpretazioni, che il mediatore esperto tenta di sciogliere favorendo l’avvicinamento delle posizioni delle parti fino al raggiungimento di un accordo amichevole (Trib. Roma, 29 maggio 2014).
Molto chiara sul punto Trib. Bologna, 5 giugno 2014 secondo cui ‘ordine del giudice di attivare il procedimento di mediazione può intendersi osservato, secondo le disposizioni di cui agli artt. 5, comma 5-bis e 8, D.Lgs. n. 28 del 2010, come modificato dalla legge n. 98 del 2013 ed alla luce del contesto europeo nel quale si collocano, solo in caso di presenza della parte (o di un di lei delegato), accompagnato dal difensore e non anche in caso di comparsa del solo difensore, anche quale delegato della parte. La natura della mediazione, invero, di per sé richiede che all’incontro dinanzi al mediatore siano presenti di persona (anche e soprattutto) le parti, poiché l’i¬stituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore.
Il principio, insomma, ormai ribadito costantemente in giurisprudenza è che non si può ritenere che l’ordine del giudice sia osservato quando siano solo gli avvocati che si recano dal mediatore in quanto è irrazionale ritenere che debbano essere gli avvocati a ricevere i chiarimenti sulla funzione e sulle modalità della mediazione e che essi possano dichiarare il rifiuto di procedere alla mediazione tra le tante.
3) Il primo incontro preliminare
Ci si sofferma ora sul primo incontro (preliminare o filtro) che costituisce anch’esso uno dei punti fondamentali della riforma del 2013.
Durante il primo incontro – avverte il riformato primo comma dell’art. 8 – il mediatore chiarisce alle parti la fun¬zione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento.
Il primo incontro è fondamentale nell’ottica della riforma del 2013. Come giustamente è stato notato in giuri¬sprudenza deve trattarsi di un incontro reale alla presenza delle parti e non di un incontro formale. Per esempio Trib. Firenze, 26 novembre 2014 ha precisato in proposito che a mente dell’art. 5, commi 1° bis e 2°, D.Lgs. n. 28/2010, non può dirsi integrata la condizione di procedibilità dell’azione giurisdizionale in mancanza di un effettivo avvio del tentativo, che le parti non hanno il potere d’inibire al primo incontro.
D’altra parte è proprio questo il motivo per il quale il comma 2-bis dell’art. 5 nel testo introdotto nel 2013 ha espressamente prescritto che quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo, con ciò volendo intendere che, ai fini dell’avveramento della condizione di procedibilità, il primo incontro deve realizzarsi necessariamente.
Sono considerate illegittime tutte le condotte ostruzionistiche delle parti alle quali – secondo il punto di vista della giurisprudenza – non può essere riconosciuto un potere di veto assoluto ed incondizionato sulla possibilità di dar seguito alla procedura di mediazione, comportando, una siffatta eventualità, il rischio di legittimare con¬dotte delle parti tese ad aggirare l’applicazione effettiva della normativa in materia di mediazione, frustrando la finalità stessa dell’istituto, che non è quella di introdurre una sorta di adempimento burocratico svuotato di ogni contenuto funzionale e sostanziale, ma che, invece, consiste nell’offrire ai contendenti un’utile occasione per cercare una soluzione extra giudiziale della loro vertenza, in tempi più rapidi ed in termini più soddisfacenti rispetto alla risposta che può fornire il Giudice con la sentenza. Ne consegue che sono illegittime tutte quelle condotte contrarie alla ratio legis della mediazione e poste in essere dalle parti al solo scopo di eludere il dettato normativo (Trib. Vasto, 23 aprile 2016).
Si è anche detto però che la mancata presenza e partecipazione della parte all’incontro stabilito per la mediazio¬ne obbligatoria non comporterebbe ipso iure la definizione del procedimento, posto che il mediatore, se la parte presente lo richiede, può nominare un consulente tecnico d’ufficio e formulare una proposta se il regolamento dell’organismo lo prevede (Trib. Roma, 9 aprile 2015).
La riforma del 2013 non ha abrogato l’obbligo del compenso (in caso di mancata comparizione della parte con¬venuta al primo incontro) di 40 euro previsto dal regolamento 180/2010 (di cui si parlerà a commento dell’art. 17). Il regolamento all’art. 16 prevede che per le spese di avvio ciascuna parte deve corrispondere un importo di euro 40,00 da versarsi al momento del deposito della domanda di mediazione (dalla parte istante) e al mo¬mento della adesione al procedimento (per la parte chiamata alla mediazione). La circolare 27 settembre 2013 aveva previsto che nulla è dovuto per il verbale di mancata comparizione solo se non si presenta la parte che ha attivato la procedura di mediazione, non se non si presenta la parte convenuta. La riforma del 2013 ha, tuttavia, inserito un comma 5-ter nell’art. 17 del decreto 28/2010 con cui si prevede che “nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”.
4) La mancata partecipazione alla mediazione
La scelta di una parte di non partecipare alla mediazione può essere oggetto di valutazione del giudice nel corso del successivo giudizio di merito: a norma dell’art. 8, comma 4-bis, infatti, dalla mancata partecipazione al pro¬cedimento di mediazione senza giustificato motivo il giudice potrà desumere argomenti di prova ai sensi dell’art. 116, comma 2 del codice di procedura civile che prevede che in tema di valutazione delle prove il giudice possa desumere argomenti di prova “dal contegno delle parti stesse nel processo”.
È evidente che l’obiettivo della norma – anche ammesso che non abbia un carattere sanzionatorio – è quello di scoraggiare e disincentivare comportamenti ostruzionistici nei confronti dell’attività di mediazione e, in genere, il comportamento di chi considera la mediazione come mero adempimento formale da rispettare al solo scopo, decorsi i tre mesi previsti dalla legge, di potersi rivolgere al giudice.
La seconda parte dell’art.8, comma 4-bis, dispone una sanzione di carattere economico con riferimento alla man¬cata ingiustificata partecipazione a tutte le ipotesi di mediazione obbligatoria previste nell’art. 5, consistente nel¬la condanna al versamento di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio.
Non sono previste altre sanzioni di natura economica. Correttamente quindi si è precisato in giurisprudenza che la mancata ingiustificata partecipazione al procedimento di mediazione attivato dall’istante, non è idonea ad implicare nel successivo giudizio di merito una condanna della stessa parte al pagamento delle spese di media¬zione, non contemplate dall’art. 8 del D.Lgs. n. 28 del 2010 (Trib. Monza Sez. I, 10 febbraio 2016).
La parte che non compare al primo incontro, ha l’onere di esplicitare le ragioni del rifiuto di svolgere una media¬zione demandata dal giudice, pena l’improcedibilità della domanda e/o l’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 8, comma 4-bis, D.Lgs. n. 28/2010 (Trib. Vasto Ordinanza, 23 aprile 2016)
Non può affermarsi che ogni qualvolta la controparte ritenga erronea la tesi della parte che l’ha convocata in mediazione, e pertanto inutile la sua partecipazione all’esperimento di mediazione, essa sia validamente dispen¬sata dal comparirvi, in quanto, così ragionando, sussisterebbe sempre in ogni causa un giustificato motivo di non comparizione” (Trib. Roma, 29 maggio 2014). Inoltre “la sussistenza di una situazione di litigiosità tra le parti non può di per se sola giustificare il rifiuto di partecipare al procedimento di mediazione, giacché tale procedimento è precipuamente volto ad attenuare la litigiosità, tentando una composizione della lite basata su categorie concettuali del tutto differenti rispetto a quelle invocate in giudizio e che prescindono dalla attribuzione di torti e di ragioni, mirando al perseguimento di un armonico contemperamento dei contrapposti interessi delle parti” (Trib. Termini Imerese, 9 maggio 2012).
Molto forte e isolato il messaggio di Trib. Milano, 21 luglio 2016 secondo cui la parte che ostacola la risolu¬zione della lite in via stragiudiziale, deve risarcire il danno alla controparte che ha proposto la mediazione anche se facoltativa, laddove lo strumento della mediazione risulti obiettivamente funzionale ad evitare – con minimi costi per il convenuto – il giudizio nell’interesse di entrambe le parti e del sistema giustizia, trattandosi di spese senz’altro causalmente inerenti il recupero del credito, da porre pertanto a carico della parte inadempiente.
Art. 9 9
Dovere di riservatezza
1. Chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell’organismo o comunque nell’ambito del procedimento di mediazione è tenuto all’obbligo di riservatezza rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento medesimo.
2. Rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite nel corso delle sessioni separate e salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni, il mediatore è altresì tenuto alla riservatezza nei confronti delle altre parti.
L’art. 9 prescrive un obbligo generale di riservatezza (cosiddetta esterna) rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento medesimo per chiunque presta la propria opera o il proprio ser¬vizio nell’organismo o comunque nell’ambito del procedimento di mediazione. Ugualmente al secondo comma è previsto un obbligo la riservatezza (cosiddetta interna) rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acqui¬site nel corso delle sessioni separate.
Art. 10 10
Inutilizzabilità e segreto professionale
1. Le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassun¬to o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio.
2. Il mediatore non può essere tenuto a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle in¬formazioni acquisite nel procedimento di mediazione, ne’ davanti all’autorità giudiziaria ne’ davanti ad altra autorità. Al mediatore si applicano le disposizioni dell’articolo 200 del codice di procedura penale e si estendono le garanzie previste per il difensore dalle disposizioni dell’articolo 103 del codice di procedura penale in quanto applicabili.
L’art. 10 sempre in tema di riservatezza al primo comma prevede l’inutilizzabilità nella successiva eventuale sede processuale delle dichiarazioni rese o delle informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione.
È evidente che per l’avvocato la violazione di questo divieto costituisce illecito disciplinare.
Al secondo comma tutela il mediatore precisando che non può essere mai tenuto a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite estendendo a lui la garanzie previste per il segreto professionale nel codice di procedura penale.
La riservatezza è limitata al merito della lite e non agli atti di svolgimento del procedimento ed al rifiuto, espresso al primo incontro, di proseguire nella mediazione. Tale rifiuto, anzi, deve essere verbalizzato, affinché il giudice possa trarne le valutazioni di competenza: ai sensi dell’art. 8, co. 4-bis, D.Lgs. n. 28/2010, infatti, dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, cui deve essere equiparato l’ingiustifi¬cato rifiuto a proseguire la mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova (Trib. Roma Sez. XIII, 25 gennaio 2016).
9 Testo originario
Art. 9
(Dovere di riservatezza)
1. Chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell’organismo o comunque nell’ambito del procedimento di mediazione è tenuto all’obbligo di riservatezza rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento medesimo.
2. Rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite nel corso delle sessioni separate e salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni, il mediatore è altresì tenuto alla riservatezza nei confronti delle altre parti.
10 Testo originario
Art. 10
(Inutilizzabilità e segreto professionale)
1. Le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio.
2. Il mediatore non può essere tenuto a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel proce¬dimento di mediazione, né davanti all’autorità giudiziaria né davanti ad altra autorità. Al mediatore si applicano le disposizioni dell’articolo 200 del codice di procedura penale e si estendono le garanzie previste per il difensore dalle disposizioni dell’articolo 103 del codice di procedura penale in quanto applicabili.
Art. 11 11
Conciliazione
1. Se è raggiunto un accordo amichevole, il mediatore forma processo verbale al quale è allegato il testo dell’accordo medesimo. Quando l’accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione. In ogni caso, il mediatore formula una proposta di conciliazione se le par¬ti gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento. Prima della formula¬zione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’articolo 13.
2. La proposta di conciliazione è comunicata alle parti per iscritto. Le parti fanno pervenire al me¬diatore, per iscritto ed entro sette giorni, l’accettazione o il rifiuto della proposta. In mancanza di risposta nel termine, la proposta si ha per rifiutata. Salvo diverso accordo delle parti, la proposta non può contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento.
3. Se è raggiunto l’accordo amichevole di cui al comma 1 ovvero se tutte le parti aderiscono alla proposta del mediatore, si forma processo verbale che deve essere sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere. Se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sotto¬scrizione del processo verbale deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. L’accordo raggiunto, anche a seguito della proposta, può prevedere il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi stabiliti ovvero per il ritardo nel loro adempimento.
4. Se la conciliazione non riesce, il mediatore forma processo verbale con l’indicazione della pro¬posta; il verbale è sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sot¬toscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere. Nello stesso verbale, il mediatore dà atto della mancata partecipazione di una delle parti al procedimento di mediazione.
5. Il processo verbale è depositato presso la segreteria dell’organismo e di esso è rilasciata copia alle parti che lo richiedono.
1) La proposta di conciliazione e i suoi rapporti con il processo civile
Se le parti nel corso della seduta o delle sedute di mediazione non raggiungono un accordo, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione. In ogni caso, il mediatore formula una proposta di conciliazione se le parti gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento.
Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’ar¬ticolo 13.
La proposta di conciliazione è comunicata alle parti per iscritto. Le parti fanno pervenire al mediatore, per iscritto ed entro sette giorni, l’accettazione o il rifiuto della proposta. In mancanza di risposta nel termine, la proposta si ha per rifiutata.
Salvo diverso accordo delle parti, la proposta non può contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento.
11 Testo originario
Art. 11
(Conciliazione)
1. Se è raggiunto un accordo amichevole, il mediatore forma processo verbale al quale è allegato il testo dell’accordo medesimo. Quando l’accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione. In ogni caso, il mediatore formula una proposta di conciliazione se le parti gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento. Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’articolo 13.
2 La proposta di conciliazione è comunicata alle parti per iscritto. Le parti fanno pervenire al mediatore, per iscritto ed entro sette giorni, l’accettazione o il rifiuto della proposta. In mancanza di risposta nel termine, la proposta si ha per rifiutata. Salvo diverso accordo delle parti, la proposta non può contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento.
3 Se è raggiunto l’accordo amichevole di cui al comma 1 ovvero se tutte le parti aderiscono alla proposta del mediatore, si forma processo verbale che deve essere sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere. Se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti pre¬visti dall’articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. L’accordo raggiunto, anche a seguito della proposta, può prevedere il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi stabiliti ovvero per il ritardo nel loro adempimento.
4. Se la conciliazione non riesce, il mediatore forma processo verbale con l’indicazione della proposta; il verbale è sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere. Nello stesso verbale, il mediatore dà atto della mancata partecipazione di una delle parti al procedimento di mediazione.
5. Il processo verbale è depositato presso la segreteria dell’organismo e di esso è rilasciata copia alle parti che lo richiedono.

Le disposizioni in tema di proposta conciliativa da parte del mediatore hanno sollevato nel dibattito sulla media¬zione tre problemi.
Il primo legato alla drasticità della norma che prevede che il mediatore possa sempre formulare una proposta di conciliazione (art. 11 primo comma: “Quando l’accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una propo¬sta di conciliazione”). E’ stata vista in questo meccanismo l’attribuzione al mediatore di funzioni che sarebbero al di là del loro compito e che potrebbero non essere esercitate con la dovuta competenza. L’art. 11, tuttavia prevede che le parti possono sempre rifiutare la proposta del mediatore e quindi non sembra che vi siano con¬troindicazioni particolari nella previsione.
Più controversa – ed è questa la seconda questione – la plausibilità del meccanismo di raccordo tra la mancata accettazione della proposta e le ricadute che l’art. 13 del decreto prevede in tale ipotesi. Si parlerà più oltre del regime delle spese processuali il quale prevede una penalizzazione per la parte vittoriosa in giudizio che non ha accettato la proposta e sempre che la sentenza corrisponda interamente al contenuto della proposta stessa (espressioni che, peraltro, lasciano intendere come il legislatore sia bene a conoscenza della possibile influen¬zabilità del giudice dal testo della proposta) ed una ulteriore possibile penalizzazione anche allorché la sentenza sia diversa dalla proposta.
È pur vero che questo raccordo – di cui il mediatore deve mettere a conoscenza le parti al momento in cui formu¬la la proposta (art. 11, primo comma, ultima parte) – costituisce una sollecitazione rivolta dal legislatore a risol¬vere con la mediazione una controversia, ma è anche altrettanto vero che si tratta di un raccordo non necessario. Il meccanismo della previsione in taluni casi dell’obbligo di promuovere la mediazione prima della causa, costi¬tuisce un meccanismo di sufficiente sollecitazione, senza che siano necessarie forme di penalizzazione di dubbia costituzionalità. L’art. 24 della costituzione sul diritto di difesa non tollera questo tipo di inutili condizionamenti.
Il terzo aspetto problematico – strettamente collegato al precedente – è costituito dalla previsione dell’obbligo di riportare nel verbale di mancata conciliazione il testo della proposta. La ratio è certamente quella di consentire l’applicabilità della norma di cui all’art. 13 (altrimenti di impossibile applicazione) ma anche al di là di questo aspetto, la sua problematicità deriva dal condizionamento che il testo della proposta può avere sul giudice della causa. Il convincimento del giudice può fondarsi legittimamente sul contegno delle parti “nel processo” (art. 116 c.p.c.) e quindi non sul contegno “fuori il processo”, ma non può escludersi che il giudice possa quanto meno rimanere condizionato psicologicamente dal contenuto della proposta.
In giurisprudenza si è affermato che nella scelta dell’organismo di mediazione, è opportuno che le parti si rivol¬gano ad enti il cui regolamento non contenga clausole limitative del potere, riconosciuto al mediatore dall’art. 11, secondo comma, del D.Lgs. n. 28/10, di formulare una proposta di conciliazione quando l’accordo amichevole tra le parti non è raggiunto, in particolare restringendo detta facoltà del mediatore al solo caso in cui tutte le parti gliene facciano concorde richiesta; tali previsioni regolamentari frustrano, infatti, lo spirito della norma – che è quello di stimolare le parti al raggiungimento di un accordo – e non consentono al giudice di fare applicazione delle disposizioni previste dall’art. 13 del citato decreto, in materia di spese processuali, così vanificandone la ratio ispiratrice, tesa a disincentivare rifiuti ingiustificati di proposte conciliative ragionevoli (Trib. Vasto, 23 giugno 2015).
Scrive il giudice in questa ordinanza che la formulazione di una proposta di conciliazione da parte del mediatore – tutte le volte in cui le parti non abbiano raggiunto un accordo amichevole ed anche in assenza di una richiesta congiunta delle stesse – costituisce un passaggio fondamentale della procedura di mediazione, vieppiù valoriz¬zato dalle disposizioni del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, il quale – modificando l’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo – ha introdotto il comma 2-quinquies, a norma del quale “non è riconosciuto alcun indennizzo: [……] c) nel caso di cui all’articolo 13, primo comma, primo periodo, del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28”, con ciò confermando la tendenza del legisla¬tore ad introdurre nell’ordinamento meccanismi dissuasivi di comportamenti processuali ostinatamente protesi alla coltivazione della soluzione giudiziale della controversia, la cui individuazione presuppone necessariamente la previa formulazione (o, comunque, la libera formulabilità) di una proposta conciliativa da parte del mediatore ed il suo raffronto ex post con il provvedimento giudiziale di definizione della lite.
2) Il verbale di conciliazione o di mancata conciliazione e il loro rapporto con il processo civile
Prescrive l’art. 11 che “se è raggiunto l’accordo amichevole …ovvero se tutte le parti aderiscono alla proposta del mediatore, si forma processo verbale che deve essere sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere”.
Il verbale di conciliazione costituisce perciò l’atto più significativo dell’intero procedimento perché è destinato a regolamentare l’assetto definitivo che le parti hanno inteso programmare con la conciliazione della loro controversia
Il medesimo articolo 11 prevede anche che se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.
Altra indicazione che dà sempre l’art. 11 è quella secondo cui l’accordo raggiunto, anche a seguito della proposta, può prevedere il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi stabiliti ovvero per il ritardo nel loro adempimento.
Quindi il verbale di conciliazione a) deve essere redatto dal mediatore o dalle stesse parti eventualmente con l’aiuto dei rispettivi avvocati consulenti; b) il verbale deve essere sottoscritto dalle parti e dal mediatore; c) l’au¬tografia della sottoscrizione delle parti – o l’eventuale impossibilità di sottoscrivere per motivi legati alla inabilità delle parti – deve essere certificata dal mediatore; d) ove nel verbale si dia atto della conclusione di un contratto soggetto a trascrizione ai sensi dell’art. 2643 c.c., la certificazione dal parte del mediatore della autografia della firma delle parti non è più sufficiente ed occorre per procedere alla trascrizione l’autentica di un notaio, even¬tualmente in sede di mediazione ovvero anche successivamente.
Se la conciliazione non riesce, il mediatore forma processo verbale di mancata conciliazione.
Ove il mediatore abbia formulato la proposta di conciliazione il verbale di mancata conciliazione deve contenere anche il testo della proposta. Il verbale è, poi, sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale – anche in questo caso – certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere. Nel verbale di mancata conciliazione si deve anche dare atto della eventuale mancata partecipazione alla mediazione di una delle parti.
Quindi il verbale di mancata conciliazione a) deve essere redatto dal mediatore; b) deve essere sottoscritto dalle parti e dal mediatore; c) ove il mediatore abbia formulato una proposta di conciliazione il verbale di mancata conciliazione ne deve riportare il testo; d) l’autografia della sottoscrizione delle parti – o l’eventuale impossibi¬lità di sottoscrivere – deve essere certificata dal mediatore; e) ove con la conciliazione le parti hanno raggiunto un contratto trascrivibile, ai fini della trascrizione, il verbale deve anche essere autenticato da un notaio; f) nel verbale di mancata conciliazione si deve dare atto della eventuale mancata partecipazione di una delle parti.
Il verbale di conciliazione o quello di mancata conciliazione sono obbligatoriamente depositati presso la segrete¬ria dell’organismo che ne rilascia copia alle parti che lo richiedono (art. 11, ultimo comma):
3) La posizione del convenuto e dei terzi
Il convenuto in mediazione può aderire all’invito e presentarsi davanti al mediatore presso la sede dell’organismo di mediazione o nel luogo indicato dal regolamento di procedura dell’organismo. Si è già esaminato criticamente l’ultimo comma dell’art. 8 – pensato, come detto, soprattutto per il convenuto ma di cui non si può escludere l’applicazione anche per l’attore – laddove prevede che “dalla mancata partecipazione senza giustificato moti¬vo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile”.
Come si ripete il decreto delegato ha disciplinato la mediazione come facoltà per chiunque intenda percorrere questa strada prima o nel corso di una causa (art. 3 e 4) e come obbligo in alcune ipotesi tassative per l’attore del previo esperimento della mediazione (art. 5) lasciando al convenuto la scelta se aderire alla domanda di mediazione o astenersi dal partecipare, correndo il rischio che dalla mancata partecipazione il giudice possa de¬sumere contro di lui argomenti di prova (art. 116, secondo comma, c.p.c.).
La disciplina del procedimento di mediazione riconosce perciò al convenuto alcuni diritti che è necessario riepi¬logare sinteticamente.
Innanzitutto il convenuto ha il diritto di aderire o meno alla domanda di conciliazione proposta dall’attore (o di accedere alla mediazione insieme all’attore con domanda congiunta) sia nei casi in cui l’accesso alle procedure è libero (art. 2 del decreto legislativo delegato) sia nei casi in cui per l’attore il proponimento di una domanda di mediazione è considerata condizione di ammissibilità dell’azione giudiziaria (art. 5).
In secondo luogo al pari dell’attore, il convenuto in un giudizio ha sempre il diritto – riconosciuto a chiunque dall’art. 2 del decreto legislativo 28/2010 – di “accedere alla mediazione per la conciliazione di una controver¬sia civile e commerciale vertente su diritti disponibili” e quindi egli potrebbe promuovere un procedimento di mediazione in corso di causa dopo aver rifiutato per esempio di presentarsi all’invito che l’attore gli abbia fatto ritualmente prima dell’inizio della causa. Nessuna norma della riforma preclude all’attore o al convenuto di pro¬muovere o accedere al procedimento di mediazione più volte.
Inoltre in convenuto è sempre libero di aderire o meno all’invito rivolto alle parti dal giudice nel corso della causa di accedere alla mediazione.
Un problema si pone per le eventuali istanze o domande riconvenzionali del convenuto che abbia aderito o meno alla richiesta di mediazione.
Al momento dell’acceso alla procedure di mediazione, infatti, la mediazione è circoscritta alle domande dell’at¬tore e il convenuto che aderisca all’attività di mediazione, non avrebbe alcun obbligo di ampliare il thema deci¬dendum. Certamente egli ha, però, facoltà di proporre all’organismo di mediazione una richiesta di tipo ricon¬venzionale; in tal caso la prassi prevede che il mediatore ponga anche il nuovo tema nell’attività di mediazione. D’altro lato – come si è avuto modo sopra di accennare – anche la disciplina del contratto di transazione (art. 1965 c.c.) prevede la possibilità di estendere l’accordo “a rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa” iniziale.
L’accordo eventuale che contempli anche i punti inseriti dal convenuto nella mediazione escluderà che egli possa in futuro agire in giudizio in via autonoma su questi aspetti. La natura negoziale della conciliazione consentirà al giudice, per escludere l’ammissibilità della pretesa, di interpretare l’atto di conciliazione. Di più. Benché la legge non lo preveda non dovrebbero esservi dubbi sul fatto che ove il convenuto non formuli in sede di mediazione anche una richiesta riconvenzionale (che dipenda dal titolo dedotto dall’attore o che appartiene al procedimento come mezzo di eccezione: argomentando ex art. 36 c.p.c.) potrebbe considerarsi che egli vi abbia rinunciato.
Nell’ipotesi invece in cui il convenuto non si presenti all’attività di mediazione al problema se per la procedibilità della domanda riconvenzionale in sede di giudizio sia necessario il previo esperimento della mediazione, deve darsi risposta positiva non essendoci ragioni per differenziare il trattamento delle domande giudiziali in relazione alla natura principale o riconvenzionale delle medesime.
Il convenuto, pertanto, che non si presenti alla mediazione, allorché si costituisce in giudizio è tenuto a proporre a pena di improcedibilità una domanda preventiva di mediazione se nella sua comparsa di costituzione sono contenute domande riconvenzionali nelle materia per le quali la riforma prevede tassativamente la preventiva attività di mediazione. Vale anche in questo caso la precisazione – contenuta nel primo comma dell’art. 5 del decreto legislativo 28/2010 – che all’udienza, il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6.
Gli obblighi di informativa da parte dell’avvocato – prescritti nell’art. 4 – trovano applicazione, sebbene non espressamente indicato, anche per il convenuto. All’atto del conferimento dell’incarico, quindi, anche l’avvocato del convenuto sarà tenuto a informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione e delle agevolazioni fiscali.
L’avvocato del convenuto non è invece tenuto ad informare il proprio assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale sebbene la questione sarà certamente oggetto di riflessione comune se non altro ai fini dell’eccezione eventuale di mancata proposizione da parte dell’attore della previa domanda obbligatoria di mediazione.
Ai sensi dell’art. 5 il convenuto ha, poi, facoltà a pena di decadenza di eccepire l’improcedibilità della domanda nei casi specifici e tassativi indicati nella prima parte della stessa norma in cui l’attore non abbia promosso il tentativo di conciliazione stragiudiziale. Uguale potere, come si è visto, ha il giudice entro la prima udienza di comparizione delle parti. Ove questi poteri non siano esercitati il difetto di procedibilità viene sanato.
Il legislatore ha pensato al litisconsorzio necessario (art. 102 c.p.c.) o facoltativo (art. 103 c.p.c.) prevedendo che la mediazione è finalizzata ad assistere “due o più soggetti” nella ricerca di un accordo e nella formulazione di una proposta per la risoluzione della controversia. In tal caso la domanda giudiziaria deve essere preceduta dall’invito rivolto a tutti i litisconsorti. Ha anche pensato al caso in cui due o più soggetti accedano in via preven¬tiva separatamente alla mediazione prevedendo che “ in caso di più domande relative alla stessa controversia, la mediazione si svolge davanti all’organismo presso il quale è stata presentata la prima domanda (art. 4, comma 1, del decreto legislativo 28/2010).
Nella riforma non si fa, però, cenno né alla chiamata di terzi né all’intervento di terzi.
Cosicché non trova regolamentazione l’ipotesi in cui un terzo volontariamente decide di “intervenire in un proces¬so tra altre persone per far valere nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo” (intervento autonomo: art. 105, primo comma, c.p.c.) o semplicemente per “sostenere le ragioni di alcuna delle parti quando vi ha un proprio interesse (intervento ade¬sivo: art. 105, secondo comma, c.p.c.). Ugualmente la riforma non ha disciplinato il caso in cui il terzo sia chia¬mato in giudizio in garanzia da una parte (art. 106 c.p.c.) o anche per altri motivi dal giudice (art. 107 c.p.c.).
Volendo fare applicazione dei principi del processo civile (art. 106, 167, 269 c.p.c.) ma al tempo stesso anche della norma generale che prevede che il procedimento di mediazione si svolge senza formalità (art.. 3, comma 3, ribadito nell’art. 8, comma 2) potrebbe ipotizzarsi quanto segue:
a) il convenuto in mediazione può sempre chiedere nelle sue difese che la mediazione si estenda anche a terze persone. In tal caso chiederà all’organismo (che fisserà una nuova data dell’incontro) di poter invitare alla me¬diazione il terzo, comunicando all’interessato la domanda.
b) ove il terzo venga a conoscenza della procedura di mediazione che lo interessa, prima che essa sia conclusa, potrà fare domanda all’organismo per essere invitato a partecipare alla mediazione e il procedimento – ove le altre parti concordino – potrà continuare con la sua partecipazione.
c) ove l’interesse alla partecipazione del terzo emerga dalla discussione tra le parti nel corso del procedimento di mediazione, non è irragionevole, ipotizzare che lo stesso mediatore possa richiedere alle parti se desiderano che la mediazione si estenda al terzo e conceda alle parti un breve rinvio per poter portare il terzo a conoscenza del procedimento con invito a prendervi parte.
Ove la questione della partecipazione del terzo emerga nel corso del processo non può esservi altra soluzione se non quella di lasciare al giudice in applicazione del secondo comma dell’art. 5 del decreto legislativo 28/2010 l’onere di invitare le parti a includere nell’attività di mediazione anche i terzi che non vi abbiano già partecipato assegnando eventualmente, con il loro accordo, il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.
4) L’accordo e il verbale conciliativo
Nel linguaggio della mediazione si parla di mediazione facilitativa ove l’accordo venga raggiunto spontaneamen¬te dalle parti e di mediazione aggiudicativa ove l’accordo consegua alla proposta del mediatore.
Il verbale di accordo deve essere sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sot¬toscrizione delle parti.
Se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale deve essere au¬tenticata dal notaio.
Di grande interesse è l’indicazione prevista nell’ultima parte del terzo comma dell’art. 11 secondo cui l’accordo raggiunto, anche a seguito della proposta, può prevedere il pagamento di una somma di denaro per ogni viola¬zione o inosservanza degli obblighi stabiliti ovvero per il ritardo nel loro adempimento. Si tratta di una applicazio¬ne nel campo negoziale dell’art. 614-bis c.p.c. che appunto prevede la possibilità che una sentenza di condanna di obblighi di fare e di non fare possa contenere a garanzia della sua esecuzione corretta anche la previsione di sanzioni pecuniarie per il caso di inadempimento.
Art. 12 12
Efficacia esecutiva ed esecuzione
1. Ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Gli avvocati attestano e certificano la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico. L’accordo di cui al periodo precedente deve essere integralmente trascritto nel precetto ai sensi dell’articolo 480, secondo comma, del codice di pro¬cedura civile. In tutti gli altri casi l’accordo allegato al verbale è omologato, su istanza di parte, con decreto del presidente del tribunale, previo accertamento della regolarità formale e del rispetto delle norme imperative e dell’ordine pubblico. Nelle controversie transfrontaliere di cui all’articolo 2 della direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008, il ver¬bale è omologato dal Presidente del tribunale nel cui circondario l’accordo deve avere esecuzione.
2. Il verbale di cui al comma 1 costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecu¬zione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
Circa l’efficacia esecutiva dell’accordo conciliativo l’art. 12 D.lgs. 28/2010 (come riformato nel 2013) dispone che l’accordo allegato al verbale costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, qualora tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato e l’accordo sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati, i quali attestano e certificano la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico (in caso di esecuzione l’accordo deve essere integralmente trascritto nel precetto ai sensi dell’art. 480, comma 2, c.p.c.).
Poiché come si è detto, nel primo comma dell’art. 8 si prescrive che “al primo incontro e agli incontri successivi,
12 Testo originario
Art. 12
(Efficacia esecutiva ed esecuzione)
1. Il verbale di accordo, il cui contenuto non è contrario all’ordine pubblico o a norme imperative, è omologato, su istanza di parte e previo accertamento anche della regolarità formale, con decreto del presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’orga¬nismo. Nelle controversie transfrontaliere di cui all’articolo 2 della direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008, il verbale è omologato dal presidente del tribunale nel cui circondario l’accordo deve avere esecuzione.
2. Il verbale di cui al comma 1 costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato”, è praticamente im¬possibile che alla mediazione le parti non siano assistite da un avvocato.
Per questo non ha molto senso la previsione secondo cui qualora una delle parti aderenti alla mediazione non fosse assistita da un avvocato, è necessario presentare apposita istanza al presidente del tribunale, il quale, con decreto, omologa l’accordo, previo accertamento della regolarità formale e del rispetto delle norme imperative e dell’ordine pubblico. In ogni caso si è precisato in giurisprudenza che il provvedimento di rigetto dell’istanza di omologazione dell’accordo di mediazione va comunicato anche all’organismo di mediazione (Trib. Firenze, 2 luglio 2015).
Molto opportunamente la Direttiva europea 28/2010 sul versante dei rapporti tra Stati membri aveva raccoman¬dato di regolamentare la mediazione in modo tale da non rischiare di essere ritenuta dagli utenti un’alternativa deteriore al procedimento giudiziario, evitando cioè che il rispetto degli accordi derivanti dalla mediazione do¬vesse dipendere solo dalla buona volontà delle parti ma incoraggiando gli Stati membri a prevedere modalità concrete di esecuzione e di attuazione.
L’art. 60 della legge 69/2009 raccomandava al Governo di prevedere nel decreto legislativo attuativo “che il verbale di conciliazione abbia efficacia esecutiva per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e costituisca titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale”.
Non è una novità della riforma l’aver attribuito al verbale di conciliazione anche valore per l’iscrizione dell’ipo¬teca giudiziale. Relativamente ai rispettivi ambiti di disciplina lo avevano già previsto dapprima la normativa in materia di conciliazione nelle controversie societarie (art. 40 comma 8, decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5) e successivamente anche l’art. 696-bis c.p.c. in materia di consulenza tecnica preventiva anche ai fini della conciliazione, introdotto dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 di riforma della procedura civile.
Secondo la disciplina generale processuale il verbale di conciliazione costituisce sì titolo esecutivo come previsto nell’art. 185, secondo comma, c.p.c. (cui fa anche riferimento l’art. 88 disp. att. c.p.c.) ma non dà titolo all’iscri¬zione dell’ipoteca giudiziale (art. 2818 c.c.).
In passato si era posto il problema se il verbale di conciliazione potesse costituire titolo esecutivo efficace anche ai fini dell’esecuzione degli obblighi di fare o di non fare. La giurisprudenza di merito per lo più lo escludeva, ma la Corte costituzionale nel 2002 dichiarava infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612 c.p.c. nella parte in escluderebbe questa possibilità sostenendo una lettura dell’art. 612, 1° comma, c.p.c., nel senso che esso consente il procedimento di esecuzione anche se il titolo esecutivo sia costituito dal verbale di conciliazione (Corte cost. 10 luglio 2002, n. 336). Nella motivazione la Corte richiamava il principio secondo cui la conciliazione giudiziale è un istituto preordinato alla definizione delle liti e che eventuali ragioni ostative all’e¬secuzione degli obblighi di cui all’art. 612 c.p.c. devono essere valutate non “ex post”, e cioè nel procedimento di esecuzione, bensì, se esse preesistono, in sede di formazione dell’accordo conciliativo da parte del giudice che lo promuove e sotto la cui vigilanza può concludersi solo se la natura della causa lo consente, mentre eventuali ragioni di ineseguibilità sopravvenute alla conciliazione giudiziale o preesistenti, nel caso di conciliazione conclu¬sesi al di fuori del controllo del giudice, possono essere oggetto di opposizione.
L’art. 12, nel testo modificato nel 2013, ha innovato la categoria dei titoli esecutivi ex lege attraverso il ricono¬scimento di detta qualità all’accordo di conciliazione sottoscritto dalle parti e dagli avvocati innanzi ad organismi di conciliazione accreditati, senza la necessità della previa omologazione giudiziale; il dato letterale della citata disposizione normativa conferisce prima facie valenza di titolo esecutivo al mero accordo munito delle suindicate sottoscrizioni e che l’intervento degli avvocati assolve di per sé ad uno scopo certificatorio dell’eseguita verifica re¬lativa al rispetto delle norme imperative e dei principi di ordine pubblico (Trib. Bari Sez. II, 7 settembre 2016).
Art. 13 13
Spese processuali
1. Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrispond1e interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato
13 Testo originario
Art. 13
(Spese processuali)
1. Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazio¬ne della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. Resta ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile. Le disposizioni di cui al presente comma si applica¬no altresì’ alle spese per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’articolo 8, comma 4.
2. Quando il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice, se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, può nondimeno escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’articolo 8, comma 4. Il giudice deve indicare esplicitamente, nella motivazione, le ragioni del provvedimento sulle spese di cui al periodo precedente.
3. Salvo diverso accordo le disposizioni precedenti non si applicano ai procedimenti davanti agli arbitri.

la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. Resta ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano altresì alle spese per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’articolo 8, comma 4.
2. Quando il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice, se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, può nondimeno escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’articolo 8, comma 4. Il giudice deve indicare esplici¬tamente, nella motivazione, le ragioni del provvedimento sulle spese di cui al periodo precedente.
3. Salvo diverso accordo, le disposizioni dei commi 1 e 2 non si applicano ai procedimenti davanti agli arbitri.
L’art.13 del decreto legislativo 28/2010 prevede una rilevante eccezione al principio processuale della soccom¬benza (articoli 91 e 92 c.p.c.). Allorché, infatti, il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta di conciliazione, il giudice esclude la ripetizione delle spese (comprensive delle spese di avvio e della spese di mediazione) sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto.
Quindi la parte vittoriosa nel processo che non aveva accolto la proposta di conciliazione fatta dal mediatore, viene ad essere oggettivamente penalizzata ove la decisione del giudice corrisponde a quella proposta. In tal caso la parte vittoriosa non solo non ha diritto alla liquidazione da parte del giudice in suo favore delle spese pro¬cessuali sostenute, ma è, al contrario, condannata al pagamento delle spese sostenute dalla parte soccombente. Ed inoltre è condannata al versamento di una penale pari al valore del contributo unificato previsto per la causa. Si tratta di disposizioni la cui applicazione, stando al testo della norma (“il giudice esclude”), è obbligatoria da parte del giudice.
Se, invece, il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice, se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, può nondimeno escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’arti¬colo 8, comma 4. Si tratta in questo caso di una norma ad applicazione discrezionale, con l’unico vincolo che “il giudice deve indicare esplicitamente, nella motivazione, le ragioni del provvedimento”.
Resta sempre ferma ove ve ne siano i presupposti – come prescrive l’art. 13 – l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile in tema di responsabilità aggravata. Pertanto nonostante l’applicazione delle disposizioni esaminate, il giudice può sempre condannare una parte al rimborso delle spese sostenute dall’altra per trasgressione al dovere di lealtà e probità o al risarcimento dei danni se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito con mala fede o colpa grave.
Ai fini della coincidenza tra i due provvedimenti, il raffronto tra la proposta e il contenuto del provvedimento che definisce il giudizio – con la sentenza conclusiva ovvero con una sentenza parziale o con una sentenza non definitiva – è operazione che compete al giudice, anche se occorre osservare che la coincidenza deve essere “integrale” come ammonisce la relazione che accompagna il decreto legislativo.
La relazione che accompagna il decreto legislativo n. 28 del 2010 è molto esplicita sul significato di questo mec¬canismo di incentivazione alla mediazione. “La parte che ha rifiutato la proposta – si legge nella relazione – può vedersi addossarle conseguenze economiche del processo anche se vittoriosa quando vi sia piena coincidenza tra il contenuto della proposta e il provvedimento che definisce il giudizio. E’ questa, infatti, la palmare dimo¬strazione che l’atteggiamento da essa tenuto nel corso della mediazione è stato ispirato a scarsa serietà e che la giurisdizione è stata impegnata per un risultato che il procedimento di mediazione avrebbe permesso di raggiun¬gere in tempi molto più rapidi e meno dispendiosi. La disciplina delle spese viene dunque intesa come risposta dell’ordinamento alla strumentalizzazione tanto della mediazione che del servizio giustizia”.
Le disposizioni di cui sopra si applicano, come sopra detto, altresì alle spese per l’indennità corrisposta al media¬tore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’articolo 8, comma 4, del decreto legislativo 28/2010. Quindi, ai fini dell’applicazione dell’art. 13 del decreto legislativo n. 28 del 2010, alle spese processuali propriamente dette sono equiparate le spese sostenute dalle parti nel corso della mediazione.
Salvo diverso accordo le disposizioni precedenti non si applicano ai procedimenti davanti agli arbitri in quanto – come avverte la relazione di accompagnamento al decreto legislativo – “nel procedimento arbitrale il regime delle spese è peculiare e non è ravvisabile la necessità di scongiurare l’abuso del processo”.
Art. 14 14
Obblighi del mediatore
1. Al mediatore e ai suoi ausiliari è fatto divieto di assumere diritti o obblighi connessi, diretta¬mente o indirettamente, con gli affari trattati, fatta eccezione per quelli strettamente inerenti alla prestazione dell’opera o del servizio; è fatto loro divieto di percepire compensi direttamente dalle parti.
2. Al mediatore è fatto, altresì, obbligo di: a) sottoscrivere, per ciascun affare per il quale è desi¬gnato, una dichiarazione di imparzialità secondo le formule previste dal regolamento di procedura applicabile, nonché gli ulteriori impegni eventualmente previsti dal medesimo regolamento; b) in¬formare immediatamente l’organismo e le parti delle ragioni di possibile pregiudizio all’imparzialità nello svolgimento della mediazione; c) formulare le proposte di conciliazione nel rispetto del limite dell’ordine pubblico e delle norme imperative; d) corrispondere immediatamente a ogni richiesta organizzativa del responsabile dell’organismo.
3. Su istanza di parte, il responsabile dell’organismo provvede alla eventuale sostituzione del mediatore. Il regolamento individua la diversa competenza a decidere sull’istanza, quando la me¬diazione è svolta dal responsabile dell’organismo.
Art. 15 15
Mediazione nell’azione di classe
1. Quando è esercitata l’azione di classe prevista dall’articolo 140-bis del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni, la conciliazione, intervenuta dopo la scadenza del termine per l’adesione, ha effetto anche nei confronti degli ade¬renti che vi abbiano espressamente consentito.
Per comprendere bene il significato dell’art. 15 bisogna ricordare il meccanismo dell’azione di classe, istituto introdotto nel nostro ordinamento con l’articolo 49 della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia) che lo ha inserito nel codice del consumo (decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206) come articolo 140-bis all’interno del titolo di quella legge che si occupa delle azioni inibitorie a tutela dei consumatori.
L’art,. 139 e 140 del codice di consumo si occupano delle azioni delle associazioni di consumatori e di utenti a tutela degli interessi collettivi, appunto, dei consumatori e degli utenti mentre l’art. 141 si occupa della compo¬sizione stragiudiziale delle controversie tra consumatore e professionista.
La collocazione è quindi quella giusta per un’azione di classe, cioè, posta a tutela dei diritti di una pluralità di consumatori.
L’art. 410-bis infatti prevede che quelli che sono identificati come “diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti” sono tutelabili anche attraverso un’azione cosiddetta di classe.
In base a questa nuova disposizione, ciascun componente della classe, anche mediante associazioni cui dà man¬dato o comitati cui partecipa – e sarà questa naturalmente la regola – può agire (davanti al tribunale ordinario avente sede nel capoluogo della regione in cui ha sede l’impresa nei cui confronti si chiede tutela) per l’accerta¬

14 Testo originario
Art. 14
(Obblighi del mediatore)
1. Al mediatore e ai suoi ausiliari è fatto divieto di assumere diritti o obblighi connessi, direttamente o indirettamente, con gli affari trattati, fatta eccezione per quelli strettamente inerenti alla prestazione dell’opera o del servizio; è fatto loro divieto di percepire compensi direttamente dalle parti.
2. Al mediatore è fatto, altresì, obbligo di:
a) sottoscrivere, per ciascun affare per il quale è designato, una dichiarazione di imparzialità secondo le formule previste dal regolamento di procedura applicabile, nonché gli ulteriori impegni eventualmente previsti dal medesimo regolamento;
b) informare immediatamente l’organismo e le parti delle ragioni di possibile pregiudizio all’imparzialità nello svolgimento della mediazione;
c) formulare le proposte di conciliazione nel rispetto del limite dell’ordine pubblico e delle norme imperative;
d) corrispondere immediatamente a ogni richiesta organizzativa del responsabile dell’organismo.
3. Su istanza di parte, il responsabile dell’organismo provvede alla eventuale sostituzione del mediatore. Il regolamento indivi¬dua la diversa competenza a decidere sull’istanza, quando la mediazione è svolta dal responsabile dell’organismo.
15 Testo originario
Art. 15
(Mediazione nell’azione di classe)
1. Quando è esercitata l’azione di classe prevista dall’articolo 140-bis del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 set-tembre 2005, n. 206, e successive modificazioni, la conciliazione, intervenuta dopo la scadenza del termine per l’adesione, ha effetto anche nei confronti degli aderenti che vi abbiano espressamente consentito.

mento della responsabilità e per la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni per fatti accaduti dopo il 16 agosto del 2009.
I diritti tutelati sono a) i diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione identica; b) i diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale; c) i diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali.
Chi intende avvalersi della tutela deve aderire all’azione di classe, senza ministero di difensore con un atto di adesione, che documenti il proprio titolo ad agire, da depositare nella cancelleria del tribunale in cui l’azione è stata esercitata. L’adesione comporta in linea di principio la rinuncia a ogni azione restitutoria o risarcitoria indi¬viduale fondata sul medesimo titolo.
Gli effetti sulla prescrizione decorrono dalla notificazione della domanda e, per coloro che hanno aderito succes¬sivamente, dal deposito dell’atto di adesione.
La domanda principale si propone con atto di citazione notificato anche all’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale, il quale può intervenire limitatamente al giudizio di ammissibilità. Ed infatti all’esito della prima udienza il tribunale decide con ordinanza sull’ammissibilità della domanda. La domanda è dichiarata inammissi¬bile quando è manifestamente infondata, quando sussiste un conflitto di interessi ovvero quando il giudice non ravvisa l’identità dei diritti individuali tutelabili dalla legge, nonché quando il proponente non appare in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe.
L’ordinanza che decide sulla ammissibilità è reclamabile davanti alla corte d’appello nel termine perentorio di trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione se anteriore. Sul reclamo la corte d’appello decide con ordinanza in camera di consiglio non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso. Il reclamo dell’ordinanza ammissiva non sospende il procedimento davanti al tribunale.
Con l’ordinanza con cui ammette l’azione il tribunale fissa anche naturalmente i termini e le modalità della più opportuna pubblicità, ai fini della tempestiva adesione degli appartenenti alla classe. L’esecuzione della pubbli¬cità è condizione di procedibilità della domanda.
Con la stessa ordinanza il tribunale definisce i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio, specificando i criteri in base ai quali i soggetti che chiedono di aderire sono inclusi nella classe o devono ritenersi esclusi dall’a¬zione e fissa un termine perentorio, non superiore a centoventi giorni dalla scadenza di quello per l’esecuzione della pubblicità, entro il quale gli atti di adesione, anche a mezzo dell’attore, sono depositati in cancelleria.
Se accoglie la domanda, il tribunale pronuncia sentenza di condanna con cui liquida le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme.
La sentenza diviene esecutiva decorsi centottanta giorni dalla pubblicazione.
La sentenza che definisce il giudizio fa stato anche nei confronti degli aderenti.
È sempre fatta salva, naturalmente, l’azione individuale dei soggetti che non aderiscono all’azione collettiva.
Non sono proponibili ulteriori azioni di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa dopo la scadenza del termine per l’adesione assegnato dal giudice. Viceversa le azioni di classe proposte entro detto ter¬mine sono riunite d’ufficio se pendenti davanti allo stesso tribunale; altrimenti il giudice successivamente adìto ordina la cancellazione della causa dal ruolo, assegnando un termine perentorio non superiore a sessanta giorni per la riassunzione davanti al primo giudice.
Infine la legge prevede che le rinunce e le transazioni intervenute tra le parti non pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi hanno espressamente consentito.
Ebbene, ora la riforma in materia di mediazione e conciliazione avverte che quando è esercitata l’azione di clas¬se, la conciliazione, intervenuta dopo la scadenza del termine per l’adesione, ha effetto anche nei confronti degli aderenti che vi abbiano espressamente consentito.
Il che vuol dire che chi intende promuovere un’azione di classe, anche attraverso l’associazione di consumatori o il comitato cui ha dato mandato (o da cui il mandato è stato sollecitato) deve preventivamente promuovere il procedimento di mediazione essendo la domanda di risarcimento (nei confronti dell’impresa responsabile del danno) una domanda che ai sensi dell’art. 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010 deve essere obbligatoriamente preceduta dall’istanza di mediazione.
L’impresa potrebbe aderire e conciliare la vertenza. In tal caso la causa è finita.
Ove, invece, non vi sia conciliazione (come è presumibile) la causa andrà avanti e, dopo la prima udienza con l’ordinanza in materia di ammissibilità dell’azione, il tribunale indica i mezzi di pubblicizzazione che rendono possibile l’adesione di altri titolari dei medesimi diritti lesi. Quando l’attore avrà raccolto gli atti di adesione li depositerà nel termine previsto in tribunale.
Da questo momento – in cui diventa più plausibile che l’impresa possa conciliare la vertenza – gli aderenti che abbiamo specificato nell’atto di adesione o successivamente di voler aderire alla eventuale conciliazione, saranno tutti destinatari degli effetti della conciliazione stessa.
CAPO III
ORGANISMI DI MEDIAZIONE
Art. 16 16
Organismi di mediazione e registro. Elenco dei formatori
1. Gli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza, sono abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione nel¬le materie di cui all’articolo 2 del presente decreto. Gli organismi devono essere iscritti nel registro.
2. La formazione del registro e la sua revisione, l’iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti, l’istituzione di separate sezioni del registro per la trattazione degli affari che richiedono spe¬cifiche competenze anche in materia di consumo e internazionali, nonché la determinazione delle indennità spettanti agli organismi sono disciplinati con appositi decreti del Ministro della giustizia, di concerto, relativamente alla materia del consumo, con il Ministro dello sviluppo economico. Fino all’adozione di tali decreti si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dei decreti del Ministro della giustizia 23 luglio 2004, n. 222 e 23 luglio 2004, n. 223. A tali disposizioni si conformano, sino alla medesima data, gli organismi di composizione extragiudiziale previsti dall’articolo 141 del codi¬ce del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni.
3. L’organismo, unitamente alla domanda di iscrizione nel registro, deposita presso il Ministero della giustizia il proprio regolamento di procedura e il codice etico, comunicando ogni successiva variazione. Nel regolamento devono essere previste, fermo quanto stabilito dal presente decreto, le procedure telematiche eventualmente utilizzate dall’organismo, in modo da garantire la sicu¬rezza delle comunicazioni e il rispetto della riservatezza dei dati. Al regolamento devono essere allegate le tabelle delle indennità spettanti agli organismi costituiti da enti privati, proposte per l’approvazione a norma dell’articolo 17. Ai fini dell’iscrizione nel registro il Ministero della giustizia valuta l’idoneità del regolamento.
4. La vigilanza sul registro e’ esercitata dal Ministero della giustizia e, con riferimento alla sezione per la trattazione degli affari in materia di consumo di cui al comma 2, anche dal Ministero dello sviluppo economico.
16 Testo originario
Art. 16
(Organismi di mediazione e registro. Elenco dei formatori)
1. Gli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza, sono abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione nelle materie di cui all’articolo 2 del presente decreto. Gli orga¬nismi devono essere iscritti nel registro.
2. La formazione del registro e la sua revisione, l’iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti, l’istituzione di separate sezioni del registro per la trattazione degli affari che richiedono specifiche competenze anche in materia di consumo e interna¬zionali, nonché la determinazione delle indennità spettanti agli organismi sono disciplinati con appositi decreti del Ministro della giustizia, di concerto, relativamente alla materia del consumo, con il Ministro dello sviluppo economico. Fino all’adozione di tali decreti si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dei decreti del Ministro della giustizia 23 luglio 2004, n. 222 e 23 luglio 2004, n. 223. A tali disposizioni si conformano, sino alla medesima data, gli organismi di composizione extragiudiziale previsti dall’articolo 141 del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni.
3. L’organismo, unitamente alla domanda di iscrizione nel registro, deposita presso il Ministero della giustizia il proprio regola¬mento di procedura e il codice etico, comunicando ogni successiva variazione. Nel regolamento devono essere previste, fermo quanto stabilito dal presente decreto, le procedure telematiche eventualmente utilizzate dall’organismo, in modo da garantire la sicurezza delle comunicazioni e il rispetto della riservatezza dei dati. Al regolamento devono essere allegate le tabelle delle indennità spettanti agli organismi costituiti da enti privati, proposte per l’approvazione a norma dell’articolo 17. Ai fini dell’iscri¬zione nel registro il Ministero della giustizia valuta l’idoneità’ del regolamento.
4. La vigilanza sul registro è esercitata dal Ministero della giustizia e, con riferimento alla sezione per la trattazione degli affari in materia di consumo di cui al comma 2, anche dal Ministero dello sviluppo economico.
5. Presso il Ministero della giustizia è istituito, con decreto ministeriale, l’elenco dei formatori per la mediazione. Il decreto stabilisce i criteri per l’iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti, nonché per lo svolgimento dell’attività di forma¬zione, in modo da garantire elevati livelli di formazione dei mediatori. Con lo stesso decreto, è stabilita la data a decorrere dalla quale la partecipazione all’attività di formazione di cui al presente comma costituisce per il mediatore requisito di qualificazione professionale.
6. L’istituzione e la tenuta del registro e dell’elenco dei formatori avvengono nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e stru¬mentali già esistenti, e disponibili a legislazione vigente, presso il Ministero della giustizia e il Ministero dello sviluppo economico, per la parte di rispettiva competenza, e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato.
4-bis. Gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori. Gli avvocati iscritti ad organismi di me¬diazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 55-bis del codice deontologico forense. Dall’attuazione della presente disposi¬zione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
5. Presso il Ministero della giustizia è istituito, con decreto ministeriale, l’elenco dei formatori per la mediazione. Il decreto stabilisce i criteri per l’iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti, nonché per lo svolgimento dell’attività di formazione, in modo da garantire elevati livelli di formazione dei mediatori. Con lo stesso decreto, è stabilita la data a decorrere dalla quale la par¬tecipazione all’attività di formazione di cui al presente comma costituisce per il mediatore requisito di qualificazione professionale.
6. L’istituzione e la tenuta del registro e dell’elenco dei formatori avvengono nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali già esistenti, e disponibili a legislazione vigente, presso il Ministero della giustizia e il Ministero dello sviluppo economico, per la parte di rispettiva compe¬tenza, e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato.
Art. 17 17
Risorse, regime tributario e indennità
1. In attuazione dell’articolo 60, comma 3, lettera o), della legge 18 giugno 2009, n. 69, le agevolazio¬ni fiscali previste dal presente articolo, commi 2 e 3, e dall’articolo 20, rientrano tra le finalità del Mi¬nistero della giustizia finanziabili con la parte delle risorse affluite al «Fondo Unico Giustizia» attribuite al predetto Ministero, ai sensi del comma 7 dell’articolo 2, lettera b), del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181, e dei commi 3 e 4 dell’articolo 7 del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 30 luglio 2009, n. 127.
2. Tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura.
3. Il verbale di accordo è esente dall’imposta di registro entro il limite di valore di 50.000 euro, altrimenti l’imposta è dovuta per la parte eccedente.
17 Testo originario
Art. 17
(Risorse, regime tributario e indennità)
1. In attuazione dell’articolo 60, comma 3, lettera o), della legge 18 giugno 2009, n. 69, le agevolazioni fiscali previste dal pre¬sente articolo, commi 2 e 3, e dall’articolo 20, rientrano tra le finalità del Ministero della giustizia finanziabili con la parte delle risorse affluite al «Fondo Unico Giustizia» attribuite al predetto Ministero, ai sensi del comma 7 dell’articolo 2, lettera b), del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181, e dei commi 3 e 4 dell’articolo 7 del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 30 luglio 2009, n. 127.
2. Tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura.
3. Il verbale di accordo è esente dall’imposta di registro entro il limite di valore di 50.000 euro, altrimenti l’imposta è dovuta per la parte eccedente.
4. Con il decreto di cui all’articolo 16, comma 2, sono determinati:
a) l’ammontare minimo e massimo delle indennità spettanti agli organismi pubblici, il criterio di calcolo e le modalità di riparti¬zione tra le parti;
b) i criteri per l’approvazione delle tabelle delle indennità proposte dagli organismi costituiti da enti privati;
c) le maggiorazioni massime delle indennità dovute, non superiori al venticinque per cento, nell’ipotesi di successo della media¬zione;
d) le riduzioni minime delle indennità dovute nelle ipotesi in cui la mediazione è condizione di procedibilità ai sensi dell’articolo 5, comma 1.
5. Quando la mediazione è condizione di procedibilità della domanda ai sensi dell’articolo 5, comma 1, all’organismo non è dovuta alcuna indennità dalla parte che si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ai sensi dell’articolo 76 (L) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica del 30 maggio 2002, n. 115. A tale fine la parte è tenuta a depositare presso l’organismo apposita dichiarazio¬ne sostitutiva dell’atto di notorietà, la cui sottoscrizione può essere autenticata dal medesimo mediatore, nonché a produrre, a pena di inammissibilità, se l’organismo lo richiede, la documentazione necessaria a comprovare la veridicità di quanto dichiarato.
6. Il Ministero della giustizia provvede, nell’ambito delle proprie attività istituzionali, al monitoraggio delle mediazioni concernenti i soggetti esonerati dal pagamento dell’indennità di mediazione. Dei risultati di tale monitoraggio si tiene conto per la determi¬nazione, con il decreto di cui all’articolo 16, comma 2, delle indennità spettanti agli organismi pubblici, in modo da coprire anche il costo dell’attività prestata a favore dei soggetti aventi diritto all’esonero.
7. L’ammontare dell’indennità può essere rideterminato ogni tre anni in relazione alla variazione, accertata dall’Istituto Nazionale di Statistica, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, verificatasi nel triennio precedente.
8. Alla copertura degli oneri derivanti dalle disposizioni dei commi 2 e 3, valutati in 5,9 milioni di euro per l’anno 2010 e 7,018 milioni di euro a decorrere dall’anno 2011, si provvede mediante corrispondente riduzione della quota delle risorse del «Fondo unico giustizia» di cui all’articolo 2, comma 7, lettera b) del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143, convertito, con modifica¬zioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181, che, a tale fine, resta acquisita all’entrata del bilancio dello Stato.
9. Il Ministro dell’economia e delle finanze provvede al monitoraggio degli oneri di cui ai commi 2 e 3 ed in caso si verifichino scostamenti rispetto alle previsioni di cui al comma 8, resta acquisito all’entrata l’ulteriore importo necessario a garantire la copertura finanziaria del maggiore onere a valere sulla stessa quota del Fondo unico giustizia di cui al comma 8.

4. Fermo restando quanto previsto dai commi 5-bis e 5-ter del presente articolo, con il decreto di cui all’articolo 16, comma 2, sono determinati:
a) l’ammontare minimo e massimo delle indennità spettanti agli organismi pubblici, il criterio di calcolo e le modalità di ripartizione tra le parti;
b) i criteri per l’approvazione delle tabelle delle indennità proposte dagli organismi costituiti da enti privati;
c) le maggiorazioni massime dell’indennità dovute, non superiori al 25 per cento, nell’ipotesi di successo della mediazione;
d) le riduzioni minime delle indennità dovute nelle ipotesi in cui la mediazione è condizione di pro¬cedibilità ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, ovvero è disposta dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 2.
5-bis. Quando la mediazione è condizione di procedibilità della domanda ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, ovvero è disposta dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 2, del presente de¬creto, all’organismo non è dovuta alcuna indennità dalla parte che si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ai sensi dell’articolo 76 (L) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presi¬dente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni. A tale fine la parte è tenuta a depositare presso l’organismo apposita dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, la cui sottoscrizione può essere autenticata dal medesimo mediatore, nonché a produrre, a pena di inammissibilità, se l’organismo lo richiede, la documentazione necessaria a comprovare la veridicità di quanto dichiarato.
5-ter. Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione.
6. Il Ministero della giustizia provvede, nell’ambito delle proprie attività istituzionali, al monitorag¬gio delle mediazioni concernenti i soggetti esonerati dal pagamento dell’indennità di mediazione. Dei risultati di tale monitoraggio si tiene conto per la determinazione, con il decreto di cui all’ar¬ticolo 16, comma 2, delle indennità spettanti agli organismi pubblici, in modo da coprire anche il costo dell’attività prestata a favore dei soggetti aventi diritto all’esonero.
7. L’ammontare dell’indennità può essere rideterminato ogni tre anni in relazione alla variazione, accertata dall’Istituto Nazionale di Statistica, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, verificatasi nel triennio precedente.
8. Alla copertura degli oneri derivanti dalle disposizioni dei commi 2 e 3, valutati in 5,9 milioni di euro per l’anno 2010 e 7,018 milioni di euro a decorrere dall’anno 2011, si provvede mediante cor¬rispondente riduzione della quota delle risorse del «Fondo unico giustizia» di cui all’articolo 2, com¬ma 7, lettera b) del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181, che, a tale fine, resta acquisita all’entrata del bilancio dello Stato.
9. Il Ministro dell’economia e delle finanze provvede al monitoraggio degli oneri di cui ai commi 2 e 3 ed in caso si verifichino scostamenti rispetto alle previsioni di cui al comma 8, resta acquisito all’entrata l’ulteriore importo necessario a garantire la copertura finanziaria del maggiore onere a valere sulla stessa quota del Fondo unico giustizia di cui al comma 8. 2. Tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura.
1) Le agevolazioni fiscali
L’art. 17, che si occupa sostanzialmente del regime tributario e delle indennità di mediazione, prevede, per quanto qui rileva, alcune regole:
a) In primo luogo per quel favor conciliationis che è alla base di tutto il sistema, si prevede che tutti gli atti, do¬cumenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura.
b) In secondo luogo si prevede l’esenzione dall’imposta di registro del verbale di conciliazione entro il valore di 50.00 euro, mentre se il valore è superiore l’imposta è dovuta per l’importo eccedente tale limite.
c) Quindi, premesso che secondo quanto disposto nell’art. 16 le tabelle delle indennità spettanti agli organismi costituiti da enti privati sono disciplinate con appositi decreti del Ministro della giustizia, si attribuisce al Ministero il potere di determinare l’ammontare delle indennità stesse. Come si dirà l’art. 20, sempre in tema di agevola¬zioni fiscali, prevede che alle parti che corrispondono l’indennità ai soggetti abilitati a svolgere il procedimento di mediazione presso gli organismi è riconosciuto, in caso di successo della mediazione, un credito d’imposta commisurato all’indennità stessa, fino a concorrenza di euro cinquecento. In caso di insuccesso della mediazione, il credito d’imposta è ridotto della metà.
d) Si precisa, poi, con il comma 5-bis introdotto dalla riforma del 2013 che quando la mediazione è condizio¬ne di procedibilità della domanda ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, ovvero è disposta dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 2, del decreto, all’organismo non è dovuta alcuna indennità dalla parte che si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (a tale fine la parte è tenuta a depositare presso l’organismo apposita dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, la cui sottoscrizione può essere autenticata dal medesimo mediatore, nonché a produrre, a pena di inammissibilità, se l’organismo lo richiede, la documen¬tazione necessaria a comprovare la veridicità di quanto dichiarato). Quindi l’organismo non può richiedere in questi casi le indennità. Poiché la disposizione si riferisce solo alle indennità si deve ritenere che siano, invece, dovute le spese di avvio della procedura.
e) Si prevede, infine, con il comma 5-ter, anch’esso introdotto nel 2013, che nel caso di mancato accordo all’e¬sito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione.
2) Il patrocinio gratuito per il compenso professionale all’avvocato
Il problema, per chi si trova nelle condizioni di reddito che gli consentono di accedere al patrocinio gratuito, è, però, quello di verificare se oltre al beneficio consistente nel non dover pagare le indennità all’organismo di mediazione (quando la mediazione è condizione di procedibilità della domanda ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, ovvero è disposta dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 2, del decreto) si possa anche pretendere di non pagare l’avvocato. Cioè se, nei due casi di mediazione obbligatoria previsti (art. 5 comma 1-bis e art. 5, comma 2) l’interessato possa anche beneficiare del patrocinio a spese dello Stato per il compenso professionale dell’avvocato. Posto infatti che nel procedimento di mediazione “le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato” (art. 8, comma 1), ci è chiesti se non si debba per ciò stesso ipotizzare quanto meno dei casi di mediazione obbligatoria che l’interessato possa beneficiare del patrocinio gratuito.
La risposta potrebbe essere positiva se si considera che l’art. 75 del DPR 115/2002 (testo unico sulle spese di giustizia) prevede al primo comma che l’ammissione al patrocinio a spese dello stato “è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse”. Effettivamente se da un lato l’attività professionale di natura stragiudiziale che l’avvocato si trova a svolgere nell’interesse del proprio assistito non è ammessa al patrocinio, in quanto esplicantesi fuori del processo (con la conseguenza che il relativo compenso si pone a carico del cliente) Cass. civ. Sez. Unite, 19 aprile 2013, n. 9529, confermando la condanna disciplinare inflitta ad un avvocato per aver preteso un compenso dal cliente ammesso al beneficio, ha condiviso l’opinione del Consiglio Nazionale Forense secondo cui “ove si tratti di attività professionale svolta in vista della successiva azione giudiziaria essa deve essere ricompresa nell’azione stessa ai fini della liquidazione a carico dello Stato, sicché in relazione ad essa il professionista non può chiedere il com¬penso al cliente ammesso al patrocinio a spese dello Stato”.
D’altra parte la direttiva comunitaria 2002/8/CE del Consiglio del 27 gennaio 2003 (recepita in Italia con D. Lgs 27 maggio 2005, n. 116) all’art. 10 prevede che “ il patrocinio è altresì esteso ai procedimenti stragiudiziali, alle condizioni previste dal presente decreto, qualora l’uso di tali mezzi sia previsto come obbligatorio dalla legge qualora il giudice vi abbia rinviato le parti in causa”.
3) I costi della mediazione
La mediazione ha costi – sostenuti dagli organismi di mediazione – la cui copertura è assicurata dall’obbligo di pagamento di indennità agli organismi e perciò ai mediatori da parte degli utenti del procedimento.
L’art. 60 della legge delega 18 giugno 2009, n. 69 stabiliva che il Governo avrebbe dovuto disciplinare la media¬zione, evidentemente riferendosi con questa espressione anche al regime delle spese, non essendo certamente possibile lasciare al mercato la determinazione delle tariffe. Pertanto i decreti delegati o i regolamenti avrebbero dovuto disciplinare anche le indennità dovute agli organismi e ai mediatori. Due soli erano i criteri che la legge delega indicava. In primo luogo si prescriveva che le indennità spettanti ai conciliatori, da porre a carico delle parti, siano stabilite, anche con atto regolamentare, in misura maggiore per il caso in cui sia stata raggiunta la conciliazione tra le parti. In secondo luogo, per le controversie in particolari materie, si prevedeva che ove il mediatore si fosse avvalso di esperti, iscritti nell’albo dei consulenti e dei periti presso i tribunali, il compenso per questi ultimi fossero stabiliti con riferimento ai compensi stabiliti per le consulenze e per le perizie giudiziali.
L’art. 16 e l’art. 17 del decreto legislativo 28 del 2010 come modificato nel 2013 prevedono, come si è detto, che nei regolamenti attuativi devono essere determinati a) l’ammontare minimo e massimo delle indennità spettanti agli organismi pubblici, il criterio di calcolo e le modalità di ripartizione tra le parti; b) i criteri per l’approvazione delle tabelle delle indennità proposte dagli organismi costituiti da enti privati. A tale proposito l’art.. 16 che disciplina gli organismi di mediazione precisa che gli organismi unitamente alla domanda di iscri¬zione nel registro, sono obbligati a depositare presso il Ministero della giustizia il proprio regolamento di pro¬cedura (comunicandone ogni successiva variazione) al quale devono essere allegate le tabelle delle indennità spettanti agli organismi costituiti da enti privati, proposte per l’approvazione a norma dell’articolo 17); c) le maggiorazioni massime delle indennità dovute, non superiori al venticinque per cento, nell’ipotesi di successo della mediazione; d) le riduzioni minime delle indennità dovute nelle ipotesi in cui la mediazione è condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria.
La stessa norma prevede che l’ammontare dell’indennità può essere rideterminato ogni tre anni in relazione alla variazione, accertata dall’Istituto Nazionale di Statistica, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, verificatasi nel triennio precedente.
Il sistema è stato attuato dal regolamento n. 180 del 4 novembre 2010 (Regolamento recante la determina¬zione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo n. 28 del 2010) modificato successivamente dal decreto del Ministero della giusti¬zia 6 luglio 2011, n. 145.
Sulla base di queste disposizioni è previsto un tariffario con l’indicazione dei minimi e dei massimi e con la previ¬sione – conforme a quanto previsto nell’art. 17 del decreto 28/2010 – che nell’ipotesi di successo della mediazio¬ne è prevista una maggiorazione non superiore al venticinque per cento e una riduzione nel caso in cui il ricorso alla mediazione costituisca condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria.
Il regolamento – che si occupa proprio dei criteri di determinazione dell’indennità – indica che l’indennità com¬prende le spese di avvio del procedimento e le spese di mediazione.
Per le spese di avvio si prevede che ciascuna parte deve corrispondere un importo di euro 40,00 oltre iva da versarsi al momento del deposito della domanda di mediazione (dalla parte istante) e al momento della adesione al procedimento (per la parte chiamata alla mediazione). Sul punto Cons. Stato Sez. IV, 22 aprile 2015, n. 1694 ha ritenuto del tutto legittimo che in materia di mediazione delle controversie civili e commerciali, le spese di avvio siano dovute per il primo incontro di cui all’art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 28/2010. Una circolare del Ministero in data 27 settembre 20913 ha precisato che l’indennità in questione non è dovuta se al primo incontro non si presenta la parte che ha attivato la mediazione.
Per le spese di mediazione si prevede che ciascuna parte deve corrispondere l’importo indicato nella seguente tabella A allegata al regolamento
Tabella A
Valore della lite – Spesa (per ciascuna parte)
Fino a Euro 1.000: Euro 65;
da Euro 1.001 a Euro 5.000: Euro 130;
da Euro 5.001 a Euro 10.000: Euro 240;
da Euro 10.001 a Euro 25.000: Euro 360;
da Euro 25.001 a Euro 50.000: Euro 600;
da Euro 50.001 a Euro 250.000: Euro 1.000;
da Euro 250.001 a Euro 500.000: Euro 2.000;
da Euro 500.001 a Euro 2.500.000: Euro 3.800;
da Euro 2.500.001 a Euro 5.000.000: Euro 5.200;
oltre Euro 5.000.000: Euro 9.200.
Il regolamento n. 180/2010 all’art. 16 – nel testo modificato dal decreto n. 145/ 2011 – prevede che gli importi minimi delle indennità per ciascun scaglione di riferimento, sono derogabili.
L’importo massimo delle spese di mediazione per ciascun scaglione di riferimento:
a) può essere aumentato in misura non superiore a un quinto tenuto conto della particolare importanza, com¬plessità o difficoltà dell’affare;
b) deve essere aumentato in misura non superiore a un quarto in caso di successo della mediazione;
c) deve essere aumentato di un quinto nel caso di formulazione della proposta ai sensi dell’articolo 11 del decreto legislativo;
d) nelle materie di cui all’articolo 5, comma 1 [1-bis] del decreto legislativo, deve essere ridotto a euro quaranta per il primo scaglione e ad euro cinquanta per tutti gli altri scaglioni, ferma restando l’applicazione della lettera c) del presente comma per i primi sei scaglioni, e della metà per i restanti, salva la riduzione prevista dalla lettera e) del presente comma, e non si applica alcun altro aumento tra quelli previsti dal presente articolo a eccezione di quello previsto dalla lettera b) del presente comma;
e) deve essere ridotto di un terzo quando nessuna delle controparti di quella che ha introdotto la mediazione, partecipa al procedimento.
Secondo il regolamento si considerano importi minimi quelli dovuti come massimi per il valore della lite ricom¬preso nello scaglione immediatamente precedente a quello effettivamente applicabile; l’importo minimo relativo al primo scaglione è liberamente determinato.
Il valore della lite è indicato nella domanda di mediazione secondo i criteri previsti nel codice di procedura civile (articoli 10 – 16 c.p.c.).
Qualora il valore risulti indeterminato, indeterminabile, o vi sia una notevole divergenza tra le parti sulla stima, l’organismo decide il valore di riferimento, sino al limite di euro 250.000, e lo comunica alle parti. In ogni caso, se all’esito del procedimento di mediazione il valore risulta diverso, l’importo dell’indennità è dovuto secondo il corrispondente scaglione di riferimento.
Quanto alle modalità di pagamento dell’indennità, la disposizione regolamentare prevede che le spese di me¬diazione sono corrisposte prima dell’inizio del primo incontro di mediazione in misura non inferiore alla metà” e comprendono anche l’onorario del mediatore per l’intero procedimento di mediazione, indipendentemente dal numero di incontri svolti. Esse rimangono fisse anche nel caso di mutamento del mediatore nel corso del proce¬dimento ovvero di nomina di un collegio di mediatori, di nomina di uno o più mediatori ausiliari, ovvero di nomina di un diverso mediatore per la formulazione della proposta.
Il regolamento di procedura dell’organismo può prevedere che le indennità debbano essere corrisposte per intero prima del rilascio del verbale di accordo di cui all’articolo 11 del decreto legislativo. In ogni caso, nelle ipotesi di cui all’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo, l’organismo e il mediatore non possono rifiutarsi di svolgere la mediazione.
Le spese di mediazione sono dovute in solido da ciascuna parte che ha aderito al procedimento.
A differenza degli organismi costituiti dagli enti pubblici che devono seguire le indennità previste dalle legge, gli organismi privati possono stabilire autonomamente gli importi delle indennità dovute dalle parti – ferma l’appro¬vazione da parte del Ministero della giustizia – ma restano fermi gli importi fissati per le materie di cui all’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 28 del 2010 e ferma ogni altra disposizione di cui all’art. 17 di cui si è detto.
L’ammontare delle indennità può essere rideterminato ogni tre anni in relazione alle variazioni degli indici Istat.
Si riporta l’art. 16 (relativo alle indennità) del decreto del Mistero della giustizia 18 ottobre 2010, n. 180 come modificato dal decreto 6 luglio 2011.
Articolo 16 – Criteri di determinazione dell’indennità
1.L’indennità comprende le spese di avvio del procedimento e le spese di mediazione.
2.Per le spese di avvio, a valere sull’indennità complessiva, è dovuto da ciascuna parte un importo di euro 40,00 che è versato dall’istante al momento del deposito della domanda di mediazione e dalla parte chiamata alla mediazione al momento della sua adesione al procedimento.
3.Per le spese di mediazione è dovuto da ciascuna parte l’importo indicato nella tabella A allegata al presente decreto.
4.L’importo massimo delle spese di mediazione per ciascun scaglione di riferimento, come determinato a nor¬ma della medesima tabella A:
a)può essere aumentato in misura non superiore a un quinto tenuto conto della particolare importanza, com¬plessità o difficoltà dell’affare;
b) deve essere aumentato in misura non superiore a un quarto in caso di successo della mediazione;
c) deve essere aumentato di un quinto nel caso di formulazione della proposta ai sensi dell’articolo 11 del de¬creto legislativo;
d) nelle materie di cui all’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo, deve essere ridotto di un terzo per i pri¬mi sei scaglioni, e della metà per i restanti, salva la riduzione prevista
dalla lettera e) del presente comma, e non si applica alcun altro aumento tra quelli previsti dal presente artico¬lo a eccezione di quello previsto dalla lettera b) del presente comma;
e) deve essere ridotto a euro quaranta per il primo scaglione e ad euro cinquanta per tutti gli altri scaglioni, ferma restando l’applicazione della lettera c) del presente comma quando nessuna delle controparti di quella che ha introdotto la mediazione, partecipa al procedimento.
5. Si considerano importi minimi quelli dovuti come massimi per il valore della lite ricompreso nello scaglione immediatamente precedente a quello effettivamente applicabile;l’importominimorelativoalprimoscaglionee’liberamentedeterminato.
6. Gli importi dovuti per il singolo scaglione non si sommano in nessun caso tra loro.
7.Il valore della lite è indicato nella domanda di mediazione a norma del codice di procedura civile.
8. Qualora il valore risulti indeterminato, indeterminabile, o vi sia una notevole divergenza tra le parti sulla stima, l’organismo decide il valore di riferimento, sino al limite di euro 1.250.000, e lo comunica alle parti. In ogni caso, se all’esito del procedimento di mediazione il valore risulta diverso, l’importo dell’indennità è dovuto secondo il corrispondente scaglione di riferimento.
9.Le spese di mediazione sono corrisposte prima dell’inizio del primo incontro di mediazione in misura non in¬feriore alla metà. Il regolamento di procedura dell’organismo può prevedere che le indennità debbano essere corrisposte per intero prima del rilascio del verbale di accordo di cui all’articolo 11 del decreto legislativo. In ogni caso, nelle ipotesi di cui all’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo, l’organismo e il mediatore non possono rifiutarsi di svolgere la mediazione.
10.Le spese di mediazione comprendono anche l’onorario del mediatore per l’intero procedimento di media¬zione, indipendentemente dal numero di incontri svolti. Esse rimangono fisse anche nel caso di mutamento del mediatore nel corso del procedimento ovvero di nomina di un collegio di mediatori o di nomina di uno o più mediatori ausiliari, ovvero di nomina di un diverso mediatore per la formulazione della proposta ai sensi dell’articolo 11 del decreto legislativo.
11. Le spese di mediazione indicate sono dovute in solido da ciascuna parte che ha aderito al procedimento.
12.Ai fini della corresponsione dell’indennità, quando più soggetti rappresentano un unico centro d’interessi si considerano come un’unica parte.
13. Gli organismi diversi da quelli costituiti dagli enti di diritto pubblico interno stabiliscono gli importi di cui al comma 3, ma restano fermi gli importi fissati dal comma 4, lettera d), per le materie di cui all’articolo 5,com¬ma 1,del decreto legislativo. Resta altresì ferma ogni altra disposizione di cui al presente articolo.
14. Gli importi minimi delle indennità per ciascun scaglione di riferimento, come determinati a norma della ta¬bella A allegata al presente decreto, sono derogabili.
(omissis)
Tabella A (articolo 16, comma 4)
Valore della lite – Spesa (per ciascuna parte) – In caso di procedimento in contumacia
Fino a Euro 1.000 Euro 65 Euro 40
da Euro 1.001 a Euro 5.000 Euro 130 Euro 50
da Euro 5.001 a Euro 10.000 Euro 240 Euro 50
da Euro 10.001 a Euro 25.000 Euro 360 Euro 50
da Euro 25.001 a Euro 50.000 Euro 600 Euro 50
da Euro 50.001 a Euro 250.000 Euro 1.000 Euro 50
da Euro 250.001 a Euro 500.000 Euro 2.000 Euro 50
da Euro 500.001 a Euro 2.500.000 Euro 3.800 Euro 50
da Euro 2.500.001 a Euro 5.000.000 Euro 5.200 Euro 50
Oltre Euro 5.000.000 Euro 9.200 Euro 50
Art. 18 18
Organismi presso i tribunali
1. I consigli degli ordini degli avvocati possono istituire organismi presso ciascun tribunale, av¬valendosi di proprio personale e utilizzando i locali loro messi a disposizione dal presidente del tribunale. Gli organismi presso i tribunali sono iscritti al registro a semplice domanda, nel rispetto dei criteri stabiliti dai decreti di cui all’articolo 16.
Art. 19 19
Organismi presso i consigli degli ordini professionali e presso le camere di commercio
1. I consigli degli ordini professionali possono istituire, per le materie riservate alla loro compe¬tenza, previa autorizzazione del Ministero della giustizia, organismi speciali, avvalendosi di proprio personale e utilizzando locali nella propria disponibilità’.
18 Testo originario
Art. 18
(Organismi presso i tribunali)
1. I consigli degli ordini degli avvocati possono istituire organismi presso ciascun tribunale, avvalendosi di proprio personale e utilizzando i locali loro messi a disposizione dal presidente del tribunale. Gli organismi presso i tribunali sono iscritti al registro a semplice domanda, nel rispetto dei criteri stabiliti dai decreti di cui all’articolo 16.
19 Testo originario
Art. 19
(Organismi presso i consigli degli ordini professionali e presso le camere di commercio)
1. I consigli degli ordini professionali possono istituire, per le materie riservate alla loro competenza, previa autorizzazione del Ministero della giustizia, organismi speciali, avvalendosi di proprio personale e utilizzando locali nella propria disponibilità.
2. Gli organismi di cui al comma 1 e gli organismi istituiti ai sensi dell’articolo 2, comma 4, della legge 29 dicembre 1993, n. 580, dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura sono iscritti al registro a semplice domanda, nel rispetto dei criteri stabiliti dai decreti di cui all’articolo 16.
2. Gli organismi di cui al comma 1 e gli organismi istituiti ai sensi dell’articolo 2, comma 4, della legge 29 dicembre 1993, n. 580, dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura sono iscritti al registro a semplice domanda, nel rispetto dei criteri stabiliti dai decreti di cui all’ar¬ticolo 16.
CAPO IV
DISPOSIZIONI IN MATERIA FISCALE E INFORMATIVA
Art. 20 20
Credito d’imposta
1. Alle parti che corrispondono l’indennità ai soggetti abilitati a svolgere il procedimento di media¬zione presso gli organismi è riconosciuto, in caso di successo della mediazione, un credito d’impo¬sta commisurato all’indennità stessa, fino a concorrenza di euro cinquecento, determinato secondo quanto disposto dai commi 2 e 3. In caso di insuccesso della mediazione, il credito d’imposta è ridotto della metà.
2. A decorrere dall’anno 2011, con decreto del Ministro della giustizia, entro il 30 aprile di ciascun anno, e’ determinato l’ammontare delle risorse a valere sulla quota del «Fondo unico giustizia» di cui all’articolo 2, comma 7, lettera b), del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181, destinato alla copertura delle minori entrate derivanti dalla concessione del credito d’imposta di cui al comma 1 relativo alle mediazioni concluse nell’anno precedente. Con il medesimo decreto è individuato il credito d’imposta effet¬tivamente spettante in relazione all’importo di ciascuna mediazione in misura proporzionale alle risorse stanziate e, comunque, nei limiti dell’importo indicato al comma 1.
3. Il Ministero della giustizia comunica all’interessato l’importo del credito d’imposta spettante entro 30 giorni dal termine indicato al comma 2 per la sua determinazione e trasmette, in via te¬lematica, all’Agenzia delle entrate l’elenco dei beneficiari e i relativi importi a ciascuno comunicati.
4. Il credito d’imposta deve essere indicato, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi ed è utilizzabile a decorrere dalla data di ricevimento della comunicazione di cui al comma 3, in com¬pensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, nonché, da parte delle persone fisiche non titolari di redditi d’impresa o di lavoro autonomo, in diminuzione delle imposte sui redditi. Il credito d’imposta non dà luogo a rimborso e non concorre alla formazione del reddito ai fini delle imposte sui redditi, ne’ del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive e non rileva ai fini del rapporto di cui agli articoli 61 e 109, com¬ma 5, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.
5. Ai fini della copertura finanziaria delle minori entrate derivanti dal presente articolo il Ministero della giustizia provvede annualmente al versamento dell’importo corrispondente all’ammontare delle risorse destinate ai crediti d’imposta sulla contabilità speciale n. 1778 «Agenzia delle entrate – Fondi di bilancio».
20 Testo originario
Art. 20
(Credito d’imposta)
1. Alle parti che corrispondono l’indennità ai soggetti abilitati a svolgere il procedimento di mediazione presso gli organismi è riconosciuto, in caso di successo della mediazione, un credito d’imposta commisurato all’indennità stessa, fino a concorrenza di euro cinquecento, determinato secondo quanto disposto dai commi 2 e 3. In caso di insuccesso della mediazione, il credito d’imposta è ridotto della metà.
2. A decorrere dall’anno 2011, con decreto del Ministro della giustizia, entro il 30 aprile di ciascun anno, è determinato l’am¬montare delle risorse a valere sulla quota del «Fondo unico giustizia» di cui all’articolo 2, comma 7, lettera b), del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181, destinato alla copertura delle minori entrate derivanti dalla concessione del credito d’imposta di cui al comma 1 relativo alle mediazioni concluse nell’anno pre¬cedente. Con il medesimo decreto è individuato il credito d’imposta effettivamente spettante in relazione all’importo di ciascuna mediazione in misura proporzionale alle risorse stanziate e, comunque, nei limiti dell’importo indicato al comma 1.
3. Il Ministero della giustizia comunica all’interessato l’importo del credito d’imposta spettante entro 30 giorni dal termine in¬dicato al comma 2 per la sua determinazione e trasmette, in via telematica, all’Agenzia delle entrate l’elenco dei beneficiari e i relativi importi a ciascuno comunicati.
4. Il credito d’imposta deve essere indicato, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi ed è utilizzabile a decorrere dalla data di ricevimento della comunicazione di cui al comma 3, in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, nonché, da parte delle persone fisiche non titolari di redditi d’impresa o di lavoro autonomo, in diminuzione delle imposte sui redditi. Il credito d’imposta non dà luogo a rimborso e non concorre alla formazione del reddito ai fini delle imposte sui redditi, nè del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive e non rileva ai fini del rapporto di cui agli articoli 61 e 109, comma 5, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.
5. Ai fini della copertura finanziaria delle minori entrate derivanti dal presente articolo il Ministero della giustizia provvede an-nualmente al versamento dell’importo corrispondente all’ammontare delle risorse destinate ai crediti d’imposta sulla contabilità speciale n. 1778 «Agenzia delle entrate – Fondi di bilancio».

L’art. 20, dispone che alle parti che corrispondono l’indennità agli organismi è riconosciuto, in caso di successo della mediazione, un credito d’imposta (utilizzabile in compensazione o in diminuzione delle imposte) commisu¬rato all’indennità stessa, fino a concorrenza di euro cinquecento, mentre, in caso di insuccesso della mediazione, il credito d’imposta è ridotto della metà.
Art. 21 21
Informazioni al pubblico
1. Il Ministero della giustizia cura, attraverso il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri e con i fondi previsti dalla legge 7 giugno 2000, n. 150, la divulgazione al pubblico attraverso apposite campagne pubblicitarie, in particolare via internet, di informazioni sul procedimento di mediazione e sugli organismi abilitati a svolgerlo.
Capo V
Abrogazioni, coordinamenti e disposizioni transitorie
Art. 22 22
Obblighi di segnalazione per la prevenzione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo
1. All’articolo 10, comma 2, lettera e), del decreto legislati¬vo 21 novembre 2007, n. 231, dopo il numero 5) è aggiunto il seguente:«5-bis) mediazione, ai sensi dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69;»
Art. 23 23
Abrogazioni
1. Sono abrogati gli articoli da 38 a 40 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e i rinvii operati dalla legge a tali articoli si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del presente decreto.
2. Restano ferme le disposizioni che prevedono i procedimenti obbligatori di conciliazione e me¬diazione, comunque denominati, nonché le disposizioni concernenti i procedimenti di conciliazione relativi alle controversie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile. I procedimenti di cui al periodo precedente sono esperiti in luogo di quelli previsti dal presente decreto.
L’art. 54, comma 5, della legge delega 18 giugno 2009 n. 69 prevedendo che “sono abrogati gli articoli da 1 a 33, 41, comma 1, e 42 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 “aveva cancellato il rito societario introdotto nel 2003.
Parallelamente il decreto legislativo 4 marzo 2010 , n. 28 di attuazione della riforma in materia di mediazione e conciliazione all’art. 23 prevede l’abrogazione degli articoli da 38 a 40 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, precisando che i rinvii operati dalla legge a tali articoli si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del presente decreto.
21 Testo originario
Art. 21
(Informazioni al pubblico)
1. Il Ministero della giustizia cura, attraverso il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri e con i fondi previsti dalla legge 7 giugno 2000, n. 150, la divulgazione al pubblico attraverso apposite campagne pubbli¬citarie, in particolare via internet, di informazioni sul procedimento di mediazione e sugli organismi abilitati a svolgerlo.
22 Testo originario
Art. 22
(Obblighi di segnalazione per la prevenzione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo)
1.All’articolo 10, comma 2, lettera e), del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, dopo il numero 5) è aggiunto il seguente:
«5-bis) mediazione, ai sensi dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69;».
23 Testo originario
Art. 23
(Abrogazioni)
1. Sono abrogati gli articoli da 38 a 40 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e i rinvii operati dalla legge a tali articoli si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del presente decreto.
2. Restano ferme le disposizioni che prevedono i procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati, nonché le disposizioni concernenti i procedimenti di conciliazione relativi alle controversie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile. I procedimenti di cui al periodo precedente sono esperiti in luogo di quelli previsti dal presente decreto.

Restano ferme, invece, le disposizioni che prevedono i procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, co¬munque denominati, nonché le disposizioni concernenti i procedimenti di conciliazione relativi alle controversie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile (il rinvio è da intendersi alle disposizioni del codice di procedura civile sul rito del lavoro come modificate dall’art. 31 della legge 183/2010) e i relativi procedimenti sono esperiti in luogo di quelli previsti dal decreto 28/2010.
Art. 24 24
Disposizioni transitorie e finali
1. Le disposizioni di cui all’articolo 5, comma 1, acquistano efficacia decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e si applicano ai processi successivamente iniziati. Il pre¬sente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti norma¬tivi della Repubblica italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
APPENDICE
Legge 18 giugno 2009, n. 60
Art. 60.
(Delega al Governo in materia di mediazione e di conciliazione delle controversie civili e commerciali)
1. Il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale.
2. La riforma adottata ai sensi del comma 1, nel rispetto e in coerenza con la normativa co¬munitaria e in conformità ai princìpi e criteri direttivi di cui al comma 3, realizza il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti. I decreti legislativi previsti dal comma 1 sono adottati su proposta del Ministro della giustizia e successivamente trasmessi alle Camere, ai fini dell’espressione dei pareri da parte delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per le conseguenze di carattere finanziario, che sono resi entro il termine di trenta giorni dalla data di trasmissione, decorso il quale i decreti sono emanati anche in mancanza dei pareri. Qualora detto termine venga a scadere nei trenta giorni antecedenti allo spirare del termine previsto dal comma 1 o successivamente, la scadenza di quest’ultimo è prorogata di sessanta giorni.
3. Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, il Governo si attiene ai seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia;
b) prevedere che la mediazione sia svolta da organismi professionali e indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione;
c) disciplinare la mediazione, nel rispetto della normativa comunitaria, anche attraverso l’estensio¬ne delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e in ogni caso attraverso l’istituzione, presso il Ministero della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubbli¬ca, di un Registro degli organismi di conciliazione, di seguito denominato «Registro», vigilati dal medesimo Ministero, fermo restando il diritto delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura che hanno costituito organismi di conciliazione ai sensi dell’articolo 2 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, ad ottenere l’iscrizione di tali organismi nel medesimo Registro;
d) prevedere che i requisiti per l’iscrizione nel Registro e per la sua conservazione siano stabiliti con decreto del Ministro della giustizia;
e) prevedere la possibilità, per i consigli degli ordini degli avvocati, di istituire, presso i tribunali, organismi di conciliazione che, per il loro funzionamento, si avvalgono del personale degli stessi consigli;
24 Testo originario
Art. 24
(Disposizioni transitorie e finali)
1. Le disposizioni di cui all’articolo 5, comma 1, acquistano efficacia decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore del pre¬sente decreto e si applicano ai processi successivamente iniziati.
f) prevedere che gli organismi di conciliazione istituiti presso i tribunali siano iscritti di diritto nel Registro;
g) prevedere, per le controversie in particolari materie, la facoltà di istituire organismi di concilia¬zione presso i consigli degli ordini professionali;
h) prevedere che gli organismi di conciliazione di cui alla lettera g) siano iscritti di diritto nel Re¬gistro;
i) prevedere che gli organismi di conciliazione iscritti nel Registro possano svolgere il servizio di mediazione anche attraverso procedure telematiche;
l) per le controversie in particolari materie, prevedere la facoltà del conciliatore di avvalersi di esperti, iscritti nell’albo dei consulenti e dei periti presso i tribunali, i cui compensi sono previsti dai decreti legislativi attuativi della delega di cui al comma 1 anche con riferimento a quelli stabiliti per le consulenze e per le perizie giudiziali;
m) prevedere che le indennità spettanti ai conciliatori, da porre a carico delle parti, siano stabilite, anche con atto regolamentare, in misura maggiore per il caso in cui sia stata raggiunta la conci¬liazione tra le parti;
n) prevedere il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione;
o) prevedere, a favore delle parti, forme di agevolazione di carattere fiscale, assicurando, al con¬tempo, l’invarianza del gettito attraverso gli introiti derivanti al Ministero della giustizia, a decor¬rere dall’anno precedente l’introduzione della norma e successivamente con cadenza annuale, dal Fondo unico giustizia di cui all’articolo 2 del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181;
p) prevedere, nei casi in cui il provvedimento che chiude il processo corrisponda interamente al contenuto dell’accordo proposto in sede di procedimento di conciliazione, che il giudice possa escludere la ripetizione delle spese sostenute dal vincitore che ha rifiutato l’accordo successiva¬mente alla proposta dello stesso, condannandolo altresì, e nella stessa misura, al rimborso delle spese sostenute dal soccombente, salvo quanto previsto dagli articoli 92 e 96 del codice di pro¬cedura civile, e, inoltre, che possa condannare il vincitore al pagamento di un’ulteriore somma a titolo di contributo unificato ai sensi dell’articolo 9 (L) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115;
q) prevedere che il procedimento di conciliazione non possa avere una durata eccedente i quattro mesi;
r) prevedere, nel rispetto del codice deontologico, un regime di incompatibilità tale da garantire la neutralità, l’indipendenza e l’imparzialità del conciliatore nello svolgimento delle sue funzioni;
s) prevedere che il verbale di conciliazione abbia efficacia esecutiva per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e costituisca titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
Giurisprudenza
Trib. Firenze Sez. III, 23 novembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata comparizione della parte invitata dinanzi al mediatore, nel procedimento di mediazione delegata, non consente di ritenere avverata la condizione di procedibilità, a ciò non ostando il dettato normativo di cui all’art. 5, comma 2 bis, D.Lgs. n. 28 del 2010, giacché tale disposizione non appare connotata da un’effettiva valenza precettiva.
Trib. Roma Sez. XIII, 29 settembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata ed ingiustificata partecipazione del convenuto al procedimento di mediazione demandato dal giudice, nel corso del giudizio, può costituire argomento di prova ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c., nonché comportare la condanna della parte convenuta al pagamento nei confronti dell’Erario di una somma pari al valore del contributo unificato dovuto per il giudizio e a favore della controparte di una somma ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c.
Trib. Milano Sez. I, 27 settembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il tentativo di mediazione obbligatorio esperito ancorché successivamente al termine di 15 giorni assegnato dal Giudice, non consente di ritenere operante la improcedibilità prevista per il mancato esperimento del procedimento, in assenza di espressa previsione di perentorietà del termine assegnato dal giudice ex art. 5 d. l.vo 4 marzo 2010 n. 28, dovendosi dare prevalenza all’effetto sostanziale dello svolgimento del procedimento.
Trib. Pavia, 26 settembre 2016 (Contratti, 2016, 12, 1130)
Nel provvedimento che ordina la mediazione in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è il magistrato a scegliere di-screzionalmente quale debba essere la parte in concreto onerata dell’avvio della mediazione potendo essere onerata l’opposta ed in mancanza anche l’opponente con la conseguenza che in caso di mancato avvio della mediazione, la domanda giudiziale sarà ritenuta improcedibile ed il decreto ingiuntivo revocato, mentre in caso di mancata regolare partecipazione alla mediazione saranno applicate le sanzioni dall’art. 8, comma 4 bis, D.Lgs. n. 28/2010 e dell’art. 116, comma 2, c.p.c.
Trib. Pavia, 26 settembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il tentativo di mediazione non può considerarsi una mera formalità da assolversi con la sola partecipazione dei difensori all’in¬contro preliminare informativo che normalmente non è mediazione attiva, ma è necessaria la partecipazione delle parti per¬sonalmente o dei rispettivi procuratori speciali a conoscenza dei fatti e muniti del potere di conciliare e dei rispettivi difensori.
Trib. Frosinone, 8 novembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda di riduzione di donazioni per lesione della quota di legittima e di scioglimento della comunione ereditaria che si ven¬ga a costituire per l’effetto, concerne la materia delle successioni, di talché è soggetta al previo esperimento del procedimento di mediazione obbligatoria, ex art. 5, D.Lgs. n. 28 del 2010.
Trib. Milano Sez. I, 27 settembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il tentativo di mediazione obbligatorio esperito ancorché successivamente al termine di 15 giorni assegnato dal Giudice, non consente di ritenere operante la improcedibilità prevista per il mancato esperimento del procedimento, in assenza di espressa previsione di perentorietà del termine assegnato dal giudice ex art. 5 d. l.vo 4 marzo 2010 n. 28, dovendosi dare prevalenza all’effetto sostanziale dello svolgimento del procedimento.
Trib. Pavia, 26 settembre 2016 (Contratti, 2016, 12, 1130)
Nel provvedimento che ordina la mediazione in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è il magistrato a scegliere di-screzionalmente quale debba essere la parte in concreto onerata dell’avvio della mediazione potendo essere onerata l’opposta ed in mancanza anche l’opponente con la conseguenza che in caso di mancato avvio della mediazione, la domanda giudiziale sarà ritenuta improcedibile ed il decreto ingiuntivo revocato, mentre in caso di mancata regolare partecipazione alla mediazione saranno applicate le sanzioni dall’art. 8, comma 4 bis, D.Lgs. n. 28/2010 e dell’art. 116, comma 2, c.p.c.
Trib. Firenze Sez. III, 14 settembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di mediazione, l’onere di “presentazione della domanda di mediazione” deve ritenersi assolto con il mero invio per posta raccomandata della medesima alla sede dell’organismo prescelto, non essendo invece necessario l’effettivo ricevimento della domanda stessa da parte di quest’ultimo.
Trib. Ferrara, 8 settembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’onere di avviare la procedura di mediazione delegata ai sensi dell’art. 5, comma 4, D.Lgs. n. 28 del 2010 grava sulla parte opponente che ha interesse al prosieguo dell’opposizione. In mancanza e, dunque, qualora la mediazione non venga avviata, il decreto ingiuntivo opposto diventa esecutivo.
Trib. Bari Sez. II, 7 settembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 12, D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, come modificato dal D.L. n. 69/2013, ha innovato la categoria dei titoli esecutivi ex lege attraverso il riconoscimento di detta qualità all’accordo di conciliazione sottoscritto dalle parti e dagli avvocati innanzi ad organi¬smi di conciliazione accreditati, senza la necessità della previa omologazione giudiziale; il dato letterale della citata disposizione normativa conferisce prima facie valenza di titolo esecutivo al mero accordo munito delle suindicate sottoscrizioni e che l’inter¬vento degli avvocati assolve di per sé ad uno scopo certificatorio dell’eseguita verifica relativa al rispetto delle norme imperative e dei principi di ordine pubblico.
Trib. Ferrara, 28 luglio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il valore e la funzione della mediazione sta proprio nel delineare un ambito informale ma specifico, diverso dal processo, nel quale ridare la parola alle parti e consentire loro di mettere in gioco i propri interessi al fine di trovare una soluzione che, a prescindere dai profili strettamente tecnico-giuridici del problema, risponda alle loro esigenze di vita, che non coincidono solo e necessariamente con gli specifici interessi in conflitto ma hanno una estensione spesso ben maggiore e più complessa. Ciò rende personalissima l’attività che è funzionale al possibile accordo di mediazione e, di regola, non delegabile a terzi, salvo casi eccezionali che non possono essere esclusi a priori e nei quali non può essere negato alla parte di scegliere, sulla base dei propri rapporti personali di fiducia, insindacabili da chiunque, il soggetto che, opportunamente delegato, meglio la potrà rappresentare nella mediazione con la controparte.
Trib. Milano, 21 luglio 2016 (Contratti, 2016, 12, 1129)
La parte che ostacola la risoluzione della lite in via stragiudiziale, deve risarcire il danno alla controparte che ha proposto la mediazione anche se facoltativa, laddove lo strumento della mediazione risulti obiettivamente funzionale ad evitare – con minimi costi per il convenuto – il giudizio nell’interesse di entrambe le parti e del sistema Giustizia, trattandosi di spese senz’altro cau¬salmente inerenti il recupero del credito, da porre pertanto a carico della parte inadempiente.
Trib. Milano Sez. IV, 18 luglio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella conclusione del contratto preliminare di compravendita è infondata l’eccezione di inammissibilità o improcedibilità sollevata in relazione all’omesso esperimento del tentativo di conciliazione, dovendo distinguere l’obbligo contrattuale pattuito dalla statu¬izione legale del D.Lgs. n. 28 del 2010. Invero, una cosa è la previsione di un obbligo contrattuale, suscettibile di inadempimento, altra cosa è la deroga pattizia alla giurisdizione. Peraltro, ogni deroga all’esercizio del diritto costituzionale di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti soggettivi è insuscettibile sia di estensione analogica, sia di interpretazione estensiva, tant’è vero che persino le prescrizioni legali di obbligatorietà di un tentativo di conciliazione preventivo non danno luogo ad improcedibilità ove tale sanzione processuale non sia espressamente prevista.
Trib. Termini Imerese, 9 maggio 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sussistenza di una situazione di litigiosità tra le parti non può di per se sola giustificare il rifiuto di partecipare al procedimento di mediazione, giacché tale procedimento è precipuamente volto ad attenuare la litigiosità, tentando una composizione della lite basata su categorie concettuali del tutto differenti rispetto a quelle invocate in giudizio e che prescindono dalla attribuzione di torti e di ragioni, mirando al perseguimento di un armonico contemperamento dei contrapposti interessi delle parti.
Trib. Trapani, 16 luglio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di mediazione delegata, il mediatore è tenuto a verificare quali siano le parti del giudizio ed a trasmettere a ciascuna di esse la lettera di convocazione per l’incontro preliminare con mezzi che ne assicurino la ricezione; l’inosservanza di tali formalità non può ritorcersi a danno della parte attrice, che avrà diritto ad un nuovo termine per la rinnovazione del procedimento.
Cass. civ. Sez. VI, 7 luglio 2016, n. 13886 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il documento contenente l’informativa sulla mediazione, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 28 del 2010, pur dovendo essere sotto¬scritto dall’assistito e allegato all’atto introduttivo del giudizio, non è equipollente alla procura “ad litem”, dalla quale si distingue per oggetto e funzione, restando estraneo al conferimento dello “ius postulandi”.
Trib. Verona Sez. III, 23 giugno 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di mediazione delegata, l’istanza rivolta all’organismo di conciliazione deve contenere un chiaro riferimento all’oggetto del contendere, affinché il Giudice possa verificare che il procedimento sia stato espletato con riguardo alla controversia dedotta in giudizio.
Trib. Genova Sez. VI, 31 maggio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di mediazione obbligatoria, giusta il disposto di cui all’art. 5 del D. Lgs. 4 marzo 2010 n. 28, la improcedibilità deve es¬sere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Detta disposizione non si applica, tuttavia, nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione.
Trib. Genova Sez. VI, 31 maggio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’insufficiente determinatezza della domanda di mediazione, in caso di mancato raggiungimento dell’accordo conciliativo nell’am¬bito di quest’ultima, preclude una pronunzia sul merito da parte della giustizia togata docendo escludersi che, in tale ipotesi, il procedimento di mediazione sia stato utilmente esperito e che la condizione di procedibilità si sia realizzata.
In tema di mediazione obbligatoria, giusta il disposto di cui all’art. 5 del D. Lgs. 4 marzo 2010 n. 28, la improcedibilità deve es¬sere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Detta disposizione non si applica, tuttavia, nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione.
Trib. Vasto, 30 maggio 2016 (Foro It., 2016, 11, 1, 3649)
Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo l’onere di esperire la mediazione obbligatoria grava sul debitore opponente in quanto parte processuale che ha provocato l’instaurazione del processo ordinario di cognizione.
Trib. Verona Sez. III, 12 maggio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche le domande spiegate in via riconvenzionale, qualora incidano su una delle materie elencate dall’art. 5, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 28/2010, sono sottoposte al tentativo obbligatorio di mediazione civile e commerciale; ne consegue che, qualora il procedimento sia già stato esperito, ma con riferimento alle sole domande principali, il Giudice dovrà assegnare un termine per la sua rinnovazione.
Trib. Firenze Sez. III, 27 aprile 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 5, comma 2-bis, D.Lgs. n. 28/2010, la condizione di procedibilità della domanda giudiziale si considera avverata quando il primo incontro davanti al mediatore si conclude senza accordo, non essendo sufficiente la mera proposizione della relativa istanza.
Trib. Vasto, 23 aprile 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di mediazione, alle parti non può essere riconosciuto un potere di veto assoluto ed incondizionato sulla possibilità di dar seguito alla procedura di mediazione, comportando, una siffatta eventualità, il rischio di legittimare condotte delle parti tese ad aggirare l’applicazione effettiva della normativa in materia di mediazione, frustrando la finalità stessa dell’istituto, che non è quella di introdurre una sorta di adempimento burocratico svuotato di ogni contenuto funzionale e sostanziale, ma che, invece, consiste nell’offrire ai contendenti un’utile occasione per cercare una soluzione extra giudiziale della loro vertenza, in tempi più rapidi ed in termini più soddisfacenti rispetto alla risposta che può fornire il Giudice con la sentenza. Ne consegue che sono illegittime tutte quelle condotte contrarie alla ratio legis della mediazione e poste in essere dalle parti al solo scopo di eludere il dettato normativo.
In tema di mediazione delegata, la parte che non compare al primo incontro, ha l’onere di esplicitare le ragioni del rifiuto di svol¬gere una mediazione demandata dal giudice, pena l’improcedibilità della domanda e/o l’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 8, comma 4-bis, D.Lgs. n. 28/2010.
Trib. Torino, 30 marzo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento di mediazione esperito senza l’assistenza di un avvocato non può considerarsi validamente svolto sicché la do¬manda giudiziale dovrà essere dichiarata improcedibile.
Trib. Firenze Sez. III, 24 marzo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La partecipazione della parte sostanziale alla mediazione costituisce ha natura di atto personalissimo e non delegabile, in consi¬derazione dell’assunto che l’istituto della mediazione, quale mezzo alternativo di risoluzione delle controversie, mira, mediante il ruolo e la professionalità del mediatore, a riattivare la comunicazione tra le parti in conflitto al fine di verificare la possibilità di so¬luzione conciliativa della vertenza. In tale contesto è del tutto coerente con la logica dell’istituto che il ruolo del difensore tecnico deve essere di mera assistenza della parte che partecipa alla mediazione e non mai di rappresentanza degli interessi della stessa.
Trib. Napoli, 14 marzo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche per le mediazioni attivate su disposizione del giudice, la domanda di mediazione deve essere presentata mediante depo¬sito dell’istanza presso un organismo che abbia sede nel luogo del giudice territorialmente competente per la controversia e il termine di quindici giorni per la presentazione dell’istanza stessa ha carattere di perentorietà.
Trib. Napoli, 14 marzo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di mediazione, il termine concesso dal giudice ex art. 5, comma 2 del D. Lgs. 4 marzo 2010 n. 28 per il deposito della istanza di mediazione ha natura perentoria e detta natura la si desume anche dalla gravità della sanzione prevista, atteso che l’improcedibilità della domanda giudiziale comporta la necessità di emettere sentenza di puro rito, così impedendo al processo di pervenire al suo esito fisiologico.
Anche per le mediazioni attivate su disposizione del giudice è vincolante la previsione di cui al novellato art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 28/2010: la domanda di mediazione va presentata mediante deposito di un’istanza presso un organismo di mediazione del luogo del giudice territorialmente competente per la controversia. La domanda di mediazione presentata unilateralmente dinanzi ad un organismo che non ha competenza territoriale, non produce effetti.
Trib. Ivrea, 11 marzo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il termine concesso dal giudice per attivare la procedura di mediazione, in base all’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 28 del 2010, mediante deposito dell’istanza presso l’organismo deputato, deve considerarsi perentorio.
Trib. Trento, 23 febbraio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’onere di esperire il tentativo obbligatorio di mediazione verte, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, sulla parte opponente poiché l’art. 5, D.Lgs. n. 28 del 2010 deve essere interpretato in conformità alla sua ratio e, dunque, al principio della ragionevole durata del processo, sulla quale può incidere negativamente il giudizio di merito che l’opponente ha interesse ad introdurre. In tal senso, invero, posto che l’onere di esperire il tentativo di mediazione grava sulla parte che ha interesse al processo e il potere di iniziarlo e che nel giudizio di opposizione tale soggetto è l’opponente, su questi deve gravare l’onere della mediazione obbligatoria, pena il consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo.
Trib. Firenze Sez. II, 15 febbraio 2016 (Società, 2016, 10, 1146 nota di MINELLI)
In tema di opposizione a decreto ingiuntivo l’onere di attivare la procedura mediativa grava sulla parte opposta. E’ infatti la parte opposta quella che ha deciso di portare in giudizio il proprio conflitto per la tutela di un suo diritto; ed è questa parte per prima che deve riflettere sulla possibilità di una più adeguata soddisfazione dei suoi interessi nel caso concreto attraverso strumenti più informali e duttili, o attraverso la ricomposizione di un rapporto di natura personale o commerciale.
Trib. Monza Sez. I, 10 febbraio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata ingiustificata partecipazione della controparte al procedimento di mediazione attivato dall’istante, non è idonea ad implicare nel successivo giudizio di merito una condanna della stessa parte al pagamento delle spese di mediazione, non con¬template dall’art. 8 del D.Lgs. n. 28 del 2010.
App. Firenze, 29 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In relazione al procedimento per convalida di sfratto, il tentativo di mediazione, previsto dall’art. 5, comma 4, D.Lgs. n. 28 del 2010, diviene condizione di procedibilità unicamente dopo la pronuncia dei provvedimenti adottati nella fase sommaria, dovendosi ritenere esperibile solo dopo il mutamento del rito disposto all’udienza ex art. 667 c.p.c. e, quindi, anche dopo la pronuncia dei provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666 c.p.c. e per il giudizio a cognizione piena derivato dalla opposizione e dal successivo mutamento del rito. È onere della parte avviare il procedimento di mediazione all’esito del mutamento del rito e, di conseguenza, la verifica di cui all’art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 28 citato è operata solo all’udienza fissata ex art. 667 c.p.c..
Trib. Roma Sez. VIII, 28 gennaio 201(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La Pubblica Amministrazione è tenuta alla partecipazione al procedimento di mediazione in quanto la partecipazione al proce¬dimento di mediazione demandata è obbligatoria per legge e proprio in considerazione di ciò non è giustificabile una negativa e generalizzata scelta aprioristica di rifiuto e di non partecipazione al procedimento di mediazione neppure ove tale condotta muova dal timore di incorrere in danno erariale a seguito della conciliazione.
Trib. Roma Sez. XIII, 25 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di mediazione, la riservatezza è limitata al merito della lite e non agli atti di svolgimento del procedimento ed al rifiuto, espresso al primo incontro, di proseguire nella mediazione. Tale rifiuto, anzi, deve essere verbalizzato, affinché il giudice possa trarne le valutazioni di competenza: ai sensi dell’art. 8, co. 4-bis, D.Lgs. n. 28/2010, infatti, dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, cui deve essere equiparato l’ingiustificato rifiuto a proseguire la mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova.
Trib. Verona Sez. III, 18 dicembre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di un giudizio promosso per ottenere il risarcimento dei danni patiti a seguito di lesioni procurate dalla somministra¬zione dei vaccini esavalente e antipneumococco, le domande – rientranti tra quelle soggette a mediazione ai sensi dell’art. 5, co. 1-bis, D.Lgs. n. 28/10 – formulate dal convenuto, nonché dai terzi intervenienti e dallo stesso attore in reconventio reconven¬tionis impongono lo svolgimento della mediazione, anche qualora l’attore l’abbia già svolta prima dell’instaurazione del giudizio.
Trib. Milano Sez. XIII, 9 dicembre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia condominiale ed al fine di evitare l’improcedibilità dell’opposizione ai sensi dell’art. 5, comma 1 bis del Decreto Legi¬slativo del 4 marzo 2010 n. 28, è onere dell’opponente di avviare il procedimento di mediazione rivestendo questi la veste pro¬cessuale di attore e mirando la sua attività, sostanzialmente, ad impedire che il decreto ingiuntivo divenga definitivo sia propo¬nendo tempestivamente l’opposizione, sia evitando l’estinzione del processo ai sensi dell’art. 653 del Codice di Procedura Civile.
Trib. Milano Sez. XIII, 9 dicembre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di opposizione a decreto ingiuntivo, l’opponente ha la veste processuale di attore e la sua attività, essenzialmente, ha l’onere di impedire che il decreto ingiuntivo divenga definitivo, sia proponendo tempestivamente e ritualmente l’opposizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 647 e 650 c.p.c.; sia evitando che il processo si estingua, ai sensi dell’art. 653 c.p.c. Suo è, quindi, l’interesse non solo a proporre e coltivare il giudizio di opposizione ma anche a consentirne la procedibilità. Ne consegue che, una volta dichiarata l’improcedibilità del giudizio di opposizione per mancato esperimento della mediazione, il corollario giuridico di detta pronuncia non potrà che essere la conferma del decreto ingiuntivo opposto, come avviene nel caso di estinzione del processo.
Trib. Roma, 30 ottobre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La circostanza che prima e fuori della causa sia stata proposta una domanda di mediazione (volontaria o obbligatoria), non è impeditiva all’esercizio ed all’attivazione da parte del Giudice della mediazione demandata di cui all’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28 del 2010 in ragione della diversità di presupposti e contesto nei quali si collocano la mediazione obbligatoria e quella demandata.
Trib. Roma, 5 dicembre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La circostanza che prima e fuori della causa sia stata proposta una domanda di mediazione (volontaria o obbligatoria), non è impeditiva all’esercizio ed all’attivazione da parte del Giudice della mediazione demandata di cui all’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28 del 2010.
Trib. Roma, 14 dicembre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora alla procedura di mediazione disposta dal giudice una delle parti non abbia partecipato in assenza di valide e comprovate giustificazioni, sussistendo concrete possibilità conciliative frustrate da detta irrituale partecipazione, attese le conseguenze che possono derivare a carico delle parti dalla mancata o irrituale partecipazione alla mediazione, il giudice può concedersi alle stesse la possibilità di rinnovare la mediazione in modo rituale.
Cass. civ. Sez. III, 3 dicembre 2015, n. 24629 (Foro It., 2016, 4, 1, 1319)
Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo vertente su materie per le quali è obbligatorio l’esperimento della mediazione, grava sul debitore opponente il relativo onere, avendo questi l’interesse all’instaurazione e alla prosecuzione del processo ordi¬nario di cognizione, a pena di improcedibilità dell’opposizione.
Trib. Milano Sez. IX, 14 ottobre 2015 (Giur. It., 2016, 2, 374 nota di DALMOTTO)
Deve essere disposto il procedimento di mediazione ex officio, ai sensi dell’art. 5, 2° comma, D.Lgs. n. 28/2010, quando ciò appaia opportuno per i seguenti motivi: l’incertezza circa l’esito del giudizio; la natura fiduciaria del pregresso rapporto nego¬ziale intercorso tra attore e convenuto, che potrebbe favorire la trattativa; il modesto valore economico della controversia; la gravità dell’incombente istruttorio costituito dal giuramento decisorio, chiesto per contrastare l’altrui eccezione di prescrizione presuntiva (Nel caso di specie, un avvocato aveva agito frazionando in più procedimenti il proprio credito verso l’ex cliente. Già da una prima delibazione il giudice aveva quindi potuto indicare, quale ragione per disporre d’ufficio la mediazione, da un lato il rischio per la parte attrice che la causa potesse concludersi subito con una declaratoria di improcedibilità e dall’altro il rischio per la parte convenuta che essa potesse proseguire attraverso la semplice riunione dei processi frazionati, rilevando il frazionamento solo agli effetti della pronuncia in punto di spese. Inoltre, il giudice, ravvisando in questo un ulteriore motivo di favore per la mediazione, ha ricordato che sarebbe stata facoltà del mediatore considerare i fatti di lite in modo complessivo, così affrontando in modo cumulativo, ai fini della conciliazione, la questione dei crediti fatti valere frazionati).
Trib. Palermo Sez. II, 18 settembre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il termine di decadenza per l’impugnazione della delibera assembleare viene sospeso – per una sola volta – dalla domanda di mediazione, ma non dal giorno della sua presentazione, bensì, dal momento della comunicazione alle parti.
Trib. Chieti, 8 settembre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’interesse concreto alla presentazione dell’istanza di mediazione deve essere individuato in capo alla parte opponente, quale parte “interessata” ad evitare il prospettabile “passaggio in giudicato” dell’opposto decreto, nell’ipotesi di mancato avveramento della condizione.
Cass. civ. Sez. VI, 2 settembre 2015, n. 17480 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La previsione della mediazione obbligatoria quale condizione di proponibilità della domanda non concerne, per materia, la con¬troversia avente ad oggetto la richiesta di risarcimento danni conseguenti alla perdita del numero telefonico in relazione alla portabilità dell’utenza dal precedente gestore. Di talché, dalla previsione di cui agli artt. 3 e seguenti della legge n. 249 del 1997, secondo cui il tentativo obbligatorio di conciliazione deve svolgersi presso l’organismo del luogo in cui è ubicata la postazione fissa dell’utente finale ovvero del domicilio da questo indicato in sede contrattuale ex legge n. 249 del 1997, non può discendere che anche l’Autorità giudiziaria competente alla cognizione della controversia deve essere individuata secondo lo stesso criterio, alla luce della disposizione dell’art. 4, D.Lgs. n. 28 del 2010, né può conseguire il principio della necessaria coincidenza tra la competenza territoriale dell’organismo conciliativo e quella dell’ufficio giudiziario dinanzi al quale portare la controversia. Di talché la generica previsione della corrispondenza tra luogo di organismo di mediazione e giudice territorialmente competente a conoscere della controversia, indicata nell’art. 4, D.Lgs. n. 28 del 2010 per le cause non a mediazione obbligatoria, non può tro¬vare applicazione nella controversia de qua che, essendo regolata dalla legge n. 249 del 1997 secondo un modulo di conciliazione preventiva obbligatorio, presuppone che sussista il rapporto di condizionamento tra previo esperimento della fase pre-giuidiziale e causa, rapporto non predicabile in base all’art. 2, D.Lgs. n. 28 citato. Inoltre assume rilievo dirimente la circostanza che la re¬gola di corrispondenza tra luogo dell’organismo di conciliazione e luogo del giudice competente deve essere rovesciata, poiché in tal modo opinando si verificherebbe una distorsione delle regole processuali sulla competenza. Il meccanismo legislativo postula che sia dapprima individuato il foro giudiziale e solo di riflesso l’organismo a cui accedere in fase conciliativa.
Trib. Palermo Sez. I, 29 luglio 2015 (Contratti, 2015, 11, 1027)
Ai sensi del D.Lgs. n. 28/2010, in tema di mediazione obbligatoria potrà considerarsi formata la condizione di procedibilità se all’incontro vi è la presenza personale delle parti e se le parti effettuano un tentativo di mediazione vero e proprio, in considera¬zione della lettera e della ratio delle disposizioni di cui al citato D.Lgs. n. 28/2010 atteso che l’istituto della mediazione mira ad un’effettiva interazione tra le parti di fronte al mediatore che deve potere comprendere gli interessi delle stesse parti al fine di una soluzione extragiudiziale della controversia.
Il responsabile dell’organismo di mediazione deve necessariamente fissare il primo incontro tra le parti e non può revocare tale fissazione all’esito della comunicazione della mancata adesione ad opera della parte chiamata, la quale comporta, in assenza di giustificazione, l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 8, comma 4-bis, D.Lgs. n. 28 del 2010.
Trib. Roma, 16 luglio 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nonostante che ai sensi dell’art. 5, comma 4, del decreto legislativo 28 del 2010 le prescrizioni relative alla mediazione obbli¬gatoria ed a quella demandata non si applicano al procedimento di consulenza tecnica preventiva, tuttavia un invito del giudice alle parti di andare in mediazione è possibile anche in tali casi e il giudice ben può prospettare alle parti in alternativa a quella, usuale, della nomina di un consulente tecnico di ufficio, l’introduzione di una procedura di mediazione, nell’ambito della quale le parti possono invitare e sollecitare il mediatore alla nomina di un consulente tecnico, con i relativi indubbi aspetti positivi del percorso di mediazione.
Trib. Firenze, 2 luglio 2015 (Contratti, 2015, 10, 919)
Il provvedimento di rigetto dell’istanza di omologazione dell’accordo di mediazione ex art. 12, D.Lgs. n. 28/2010 ai sensi dell’art. 13, D.M. n. 180/2010 va comunicato anche all’Organismo di mediazione, Servizio di Conciliazione della Camera di Commercio ed al responsabile del predetto Organismo.
Trib. Verona Sez. III, 25 giugno 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Se solo una delle domande proposte in giudizio è soggetta a mediaconciliazione obbligatoria e l’altra no (e nemmeno all’obbligo di negoziazione assistita), non è opportuno disporne la separazione per consentire l’espletamento della formalità di rito della mediazione, perché ciò facendosi si comprometterebbe la prospettiva conciliativa che deve necessariamente investire tutta la controversia, ben potendo per contro il giudice disporre la mediazione anche per la domanda che non sia soggetta all’obbligo in questione.
Trib. Vasto Ordinanza, 23 giugno 2015 (Corriere Giur., 2016, 8-9, 1085 nota di RUVOLO)
Le parti sono libere di scegliere l’organismo di mediazione al quale rivolgersi, ma sono tenute a partecipare personalmente, assistite dal proprio difensore, all’incontro preliminare, informativo e di programmazione, che si svolgerà davanti al mediatore dell’organismo prescelto e nel quale verificheranno se sussistano effettivi spazi per procedere utilmente in mediazione.
La mancata partecipazione personale delle parti senza giustificato motivo agli incontri di mediazione può costituire per la parte attrice causa di improcedibilità della domanda e, in ogni caso, per tutte le parti costituite, presupposto per l’irrogazione – anche nel corso del giudizio – della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 8, comma 4-bis, D.Lgs. n. 28/10, oltre che fattore da cui de¬sumere argomenti di prova, ai sensi dell’art. 116, secondo comma, c.p.c.
Nella scelta dell’organismo di mediazione, è opportuno che le parti si rivolgano ad enti il cui regolamento non contenga clausole limitative del potere, riconosciuto al mediatore dall’art. 11, secondo comma, del D.Lgs. n. 28/10, di formulare una proposta di conciliazione quando l’accordo amichevole tra le parti non è raggiunto, in particolare restringendo detta facoltà del mediatore al solo caso in cui tutte le parti gliene facciano concorde richiesta; tali previsioni regolamentari frustrano, infatti, lo spirito della norma – che è quello di stimolare le parti al raggiungimento di un accordo – e non consentono al giudice di fare applicazione delle disposizioni previste dall’art. 13 del citato decreto, in materia di spese processuali, così vanificandone la ratio ispiratrice, tesa a disincentivare rifiuti ingiustificati di proposte conciliative ragionevoli.
Incombe sul mediatore l’onere di verbalizzare i motivi eventualmente addotti dalle parti assenti per giustificare la propria mancata comparizione personale e, comunque, di adottare ogni opportuno provvedimento finalizzato ad assicurare la presenza personale delle stesse, ad esempio disponendo – se necessario – un rinvio del primo incontro o sollecitando anche informalmente il difensore della parte assente a stimolarne la comparizione ovvero dando atto a verbale che, nonostante le iniziative adottate, la parte a ciò invitata non ha inteso partecipare personalmente agli incontri, né si è determinata a nominare un suo delegato (diverso dal difensore), per il caso di assoluto impedimento a comparire.
Trib. Roma, 29 maggio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non può affermarsi che ogni qualvolta la controparte ritenga erronea la tesi della parte che l’ha convocata in mediazione, e pertanto inutile la sua partecipazione all’esperimento di mediazione, essa sia validamente dispensata dal comparirvi, in quanto, così ragionando, sussisterebbe sempre in ogni causa un giustificato motivo di non comparizione.
Trib. Genova Sez. III, 15 giugno 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ esclusivo onere e interesse dell’opponente – pena l’improcedibilità della opposizione con conseguente conferma del decreto ingiuntivo opposto – instaurare il procedimento di mediazione ex d.lgs. 28/2010, ove prevista. Il decreto ingiuntivo, infatti, acquista esecutività sia quando viene dichiarata l’inammissibilità dell’opposizione tardiva, sia nell’ipotesi di costituzione tardiva dell’opponente, sia per il caso di dichiarazione di estinzione del giudizio.
Trib. Firenze, 4 giugno 2015 (Giur. It., 2015, 11, 2374 nota di BENIGNI)
Il mancato esperimento del procedimento di mediazione nel termine assegnato dal giudice determina l’improcedibilità della domanda.
Cons. Stato Sez. IV, 22 aprile 2015, n. 1694 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di mediazione delle controversie civili e commerciali, le spese di avvio sono dovute per il primo incontro di cui all’art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 28/2010.
Trib. Taranto, 16 aprile 2015 (Quotidiano Giuridico, 2015 nota di DI MARCO)
Quando la mediazione è disposta dal giudice, e cioè quando si atteggia come condizione di procedibilità e non vi sia quindi pos¬sibilità di rinnovarla in caso di inerzia, dovendosi dichiarare l’improcedibilità della domanda, un’interpretazione giurisprudenziale tende a far sì che il suo esperimento sia effettivo e non si esaurisca alla fin fine in una forma di rallentamento ulteriore del pro¬cesso, ma l’improcedibilità non può essere una sanzione.
In materia di mediazione delegata il suo esperimento deve essere effettivo, tenendo però presente che l’anzidetta effettività non può spingersi fino al punto di ritenere che si applichi la sanzione dell’improcedibilità anche quando la parte rifiuta di partecipare immotivatamente alla mediazione.
Trib. Roma, 9 aprile 2015 (Contratti, 2015, 6, 606)
La mancata presenza e partecipazione della parte all’incontro stabilito per la mediazione obbligatoria non comporta ipso iure la definizione del procedimento, posto che il mediatore, se la parte presente lo richiede, può nominare un consulente tecnico d’ufficio e formulare una proposta se il regolamento dell’organismo lo prevede.
Trib. Massa, 26 marzo 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata allegazione all’atto introduttivo del giudizio dell’informativa in forma scritta resa alla parte assistita in relazione alla possibilità di avvalersi della procedura di mediazione civile, ex art. 4, comma 3, D.Lgs. n. 28 del 2010, determina la sola annullabilità del contratto d’opera professionale concluso tra l’avvocato ed il proprio assistito e giammai conseguenze sul piano processuale.
Trib. Monza Sez. II, 26 marzo 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Conformemente a quanto disposto dall’art. 5 del Decreto Legislativo del 4 marzo 2010 n. 28 come modificato dal Decreto Legge del 21 giugno 2013 n. 69, deve ritenersi che l’elenco ivi contenuto sia da intendersi tassativo giacché limita l’accesso del citta¬dino alla tutela giudiziaria escludendola per quelle ipotesi diffamatoria che tuttavia si realizzino attraverso vie diverse dal mezzo stampa o da altro mezzo di pubblicità. Ne consegue che le discussioni tenute all’interno delle riunioni consiliari non rientrino in tale tipologia di danno.
Trib. Torino Sez. III, 23 marzo 2015 (Giur. It., 2015, 10, 2121 nota di BENIGNI)
In tema di mediazione obbligatoria, essa trova applicazione anche nel processo sommario di cognizione di cui all’art. 702 bis c.p.c., atteso che non è il rito a determinare l’obbligatorietà del procedimento di mediazione, bensì la natura della controversia.
Trib. Vasto, 9 marzo 2015 (Giur. It., 2015, 8-9, 1885 nota di MOTTIRONI)
Nel caso in cui il giudice disponga di attivare un procedimento di mediazione “delegata”, la parte, al fine di soddisfare la condi¬zione di procedibilità, ha l’onere di comparire personalmente davanti al mediatore.
Sia per la mediazione obbligatoria da svolgersi prima del giudizio ex art. 5, comma 1-bis, D.Lgs. n. 28/2010, sia per la me¬diazione demandata dal giudice, ex art. 5, comma 2, è necessario – ai fini del rispetto della condizione di procedibilità della domanda – che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori, come previsto dal successivo art. 8) all’incontro con il mediatore. Graverà su quest’ultimo, in qualità di soggetto istituzionalmente preposto ad esercitare funzioni di verifica e di garanzia della puntuale osservanza delle condizioni di regolare espletamento della procedura, l’onere di adottare ogni opportuno provvedimento finalizzato ad assicurare la presenza personale delle parti, ad esempio disponendo – se necessario – un rinvio del primo incontro, sollecitando anche informalmente il difensore della parte assente a stimolarne la comparizione, ovvero dando atto a verbale che, nonostante le iniziative adottate, la parte a ciò invitata non ha inteso partecipare personalmente agli incontri, né si è determinata a nominare un suo delegato (diverso dal difensore), per il caso di assoluto impedimento a comparire.
Qualora il tentativo di mediazione, disposto dal giudice, sia stato infruttuosamente esperito fra i soli avvocati delle parti, il giu¬dicante non potrà che dichiarare l’improcedibilità del giudizio, posto che la sanatoria prevista all’art. 5, comma 1-bis, D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, per i casi di mediazione obbligatoria ex lege si applica solamente nei casi in cui la mediazione, alla data del rilievo giudiziale, non sia stata attivata ovvero non risulti ancora terminata, non anche al caso in cui essa si sia effettivamente svolta, ma in violazione delle prescrizioni che regolano il suo corretto espletamento.
Trib. Nola, 24 febbraio 2015 (Giur. It., 2015, 5, 1123 nota di BENIGNI)
Alla dichiarazione d’improcedibilità dell’opposizione a decreto ingiuntivo per mancato esperimento della mediazione prevista quale condizione di procedibilità della domanda consegue la conferma del decreto ingiuntivo opposto.
Trib. Monza, 17 dicembre 2014 (Giur. It., 2015, 6, 1407 nota di BENIGNI)
Nel caso in cui il tentativo di mediazione obbligatoria sia iniziato dinnanzi ad un organismo incompetente territorialmente, il giu¬dice deve concedere un successivo ulteriore termine per l’avvio del tentativo dinnanzi all’organismo competente, non ostandovi l’inutile decorso, nel frattempo, del termine trimestrale ex art. 6 del D.Lgs. n. 28/2010 (art. 4, 1° comma, D.Lgs. n. 28/2010).
Trib. Firenze, 26 novembre 2014 (Riv. Dir. Proc., 2015, 2, 558 nota di RAITI)
A mente dell’art. 5, commi 1° bis e 2°, D.Lgs. n. 28/2010, non può dirsi integrata la condizione di procedibilità dell’azione giuri¬sdizionale in mancanza di un effettivo avvio del tentativo, che le parti non hanno il potere d’inibire al primo incontro.
Il tentativo di mediazione deve svolgersi con la presenza personale delle parti.
Trib. Bologna Sez. III, 11 novembre 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ipotesi in cui all’incontro davanti al mediatore compaiano i soli difensori, anche in rappresentanza delle parti, non può consi¬derarsi in alcun modo mediazione, come si desume dalla lettura coordinata dell’art. 5, comma 1bis e dell’art. 8, che prevedono che le parti esperiscano o partecipino al procedimento mediativo con l’”assistenza degli avvocati”, e questo implica la presenza degli assistiti, personale o a mezzo di delegato, cioè di soggetto comunque diverso dal difensore.
Trib. Firenze Sez. III, 30 ottobre 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’onere di avviare il procedimento di mediazione delegata disposto dal Giudice spetta alla parte opponente, non alla parte opposta. E’ quanto si legge nella sentenza del 30 ottobre 2014 del Tribunale di Firenze.
Trib. Verona, 28 ottobre 2014 (Contratti, 2015, 2, 187)
La controversia inerente un contratto di apertura di credito rientra tra quelle soggette all’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione atteso che per controversie bancarie ai sensi dell’art. 5, comma 1-bis del D.Lgs. n. 28/2010 devono intendersi quelle relative a contratti aventi ad oggetto operazioni o servizi bancari.
Trib. Bologna, 5 giugno 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ordine del giudice di attivare il procedimento di mediazione può intendersi osservato, secondo le disposizioni di cui agli artt. 5, comma 5 bis e 8, D.Lgs. n. 28 del 2010, come modificato dalla legge n. 98 del 2013 ed alla luce del contesto europeo nel quale si collocano, solo in caso di presenza della parte (o di un di lei delegato), accompagnato dal difensore e non anche in caso di com¬parsa del solo difensore, anche quale delegato della parte. La natura della mediazione, invero, di per sé richiede che all’incontro dinanzi al mediatore siano presenti di persona (anche e soprattutto) le parti, poiché l’istituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica neces¬sariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore.
Trib. Firenze Sez. II, 19 marzo 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso in cui il giudice disponga la mediazione, la condizione di procedibilità non è soddisfatta quando i difensori si recano dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e modalità della mediazione, dichiarano il rifiuto di procedere oltre. In caso di mediazione ex officio, è necessario che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 del D.Lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata (Trib. Firenze, 19 marzo 2014).
Trib. Verona, 27 gennaio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 4, comma 1, d.Lgs. 28/2010, come introdotto dall’art. 84, comma 1, lett. b, del D.L. 21 giugno 2013 n.69, convertito con modificazioni nella L.9 agosto 2013 n.98, non attribuisce rilievo, ai fini della determinazione della competenza per territorio dell’organismo di mediazione, a criteri diversi da quelli contenuti nella sezione III del titolo primo del c.p.c., cosicchè non rileva¬no, al fine suddetto, eventi processuali come la litispendenza o la continenza.
Trib. Milano Sez. IX, 29 ottobre 2013 (Giur. It., 2014, I, 88 nota di BESSO)
Anche per le mediazioni disposte del giudice è vincolante la previsione di cui al novellato art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010: la domanda di mediazione, pertanto, va presentata mediante deposito di un’istanza presso un organismo nel luogo del giudice terri-torialmente competente per la controversia. Trattandosi di norme legate alla mera competenza territoriale, è chiaro che le parti — se tutte d’accordo — possono porvi deroga rivolgendosi, con domanda congiunta, ad altro organismo scelto di comune accordo. La domanda di mediazione presentata unilateralmente dinanzi all’organismo che non ha competenza territoriale non produce effetti.
La previsione, da parte della legge n. 98 del 2013, di parziale riforma del testo del D.Lgs. n. 28 del 2010, della possibilità per il giu¬dice (anche di appello) di disporre l’esperimento del procedimento di mediazione (cosiddetta mediazione ex officio), è applicabile anche ai procedimenti pendenti. Il fascio applicativo della disciplina in esame, inoltre, prescinde dalla natura della controversia, e, dunque, dall’elenco delle materie sottoposte alla mediazione obbligatoria ex art. 5, comma primo-bis, del citato D.Lgs. n. 28 del 2010, e, per l’effetto, può ricadere anche su un controversia avente ad oggetto il recupero di un credito rimasto insoddisfatto. La mediazione, pertanto, può essere esperita anche nella controversia avente ad oggetto l’impugnazione della sentenza del Giudice di primo grado, adito per l’opposizione al precetto notificato dall’un coniuge all’altro per il pagamento delle somme da questi dovute a titolo di mantenimento della prole successivamente alla declaratoria di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Trib. Milano, 29 ottobre 2013 (Foro It., 2014, 4, 1, 1319)
Anche per le mediazioni attivate su disposizione del giudice, è vincolante la previsione di cui al novellato art. 4, comma 3°, D.Lgs. n. 28/2010: la domanda di mediazione, pertanto, va presentata mediante deposito di istanza presso un organismo nel luogo del giudice territorialmente competente per la controversia, salva la facoltà per le parti di derogare a tale limite, rivolgendosi con domanda congiunta ad altro organismo, scelto di comune accordo. La domanda di mediazione presentata unilateralmente dinanzi all’organismo che non ha competenza territoriale non produce effetti.
Cass. civ. Sez. Unite, 22 luglio 2013, n. 17781 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla ragionevole durata del processo, quale diritto fondamentale della persona, non è disponibile, né suscettibile di conciliazione, a differenza del diritto all’equa riparazione per durata irragionevole, che, quale diritto patrimoniale, è soggetto alla disciplina della mediazione finalizzata alla conciliazione, in aderenza alla “ratio” di deflazione del contenzioso giudiziario. Per¬tanto, la domanda di mediazione comunicata entro il termine semestrale ex art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 impedisce, “per una sola volta”, ai sensi dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, la decadenza dal diritto di agire per l’equa riparazione, potendo quest’ultimo essere ancora esercitato, ove il tentativo di conciliazione fallisca, entro il medesimo termine di sei mesi, decorrente “ex novo” dal deposito del verbale negativo presso la segreteria dell’organismo di mediazione. (Cassa con rinvio, App. Brescia, 07/06/2011)
Corte cost. 6 dicembre 2012, n. 272 (Foro It., 2013, 4, 1, 1091)
È incostituzionale l’art. 5, comma 1, D.Lgs. 4 marzo 2010 n. 28, nella parte in cui introduce, a carico di chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle controversie nelle materie ivi espressamente elencate, l’obbligo del previo esperimento del procedimento di mediazione, prevede che l’esperimento della mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale e che l’improcedibilità debba essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice.
Deve essere dichiarata l›illegittimità costituzionale dell›art. 5, comma 1, del D.Lgs. n. 28 del 2010, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost; la declaratoria deve essere estesa all›intero comma 1, perché gli ultimi tre periodi sono strettamente collegati a quelli precedenti (oggetto delle censure), sicché resterebbero privi di significato a seguito della caducazione di questi. Infatti, la disciplina dell›UE si rivela neutrale in ordine alla scelta del modello di mediazione da adottare, la quale resta demandata ai singoli Stati membri, purché sia garantito il diritto di adire i giudici competenti per la definizione giudiziaria delle controversie; inoltre l›art. 60 della legge n. 69 del 2009 non esplicita in alcun modo la previsione del carattere obbligatorio della mediazione finalizzata alla conciliazione; infine, quanto alla finalità ispiratrice del detto istituto, consistente nell›esigenza di individuare misure alternative per la definizione delle controversie civili e commerciali, anche al fine di ridurre il contenzioso gravante sui giudici professionali, va rilevato che il carattere obbligatorio della mediazione non è intrinseco alla sua ratio, come agevolmente si desume dalla previsione di altri moduli procedimentali (facoltativi o disposti su invito del giudice), del pari ritenuti idonei a perseguire effetti deflattivi e quindi volti a semplificare e migliorare l›accesso alla giustizia.

Matrimonio nullo per la Chiesa, convivenza coniugale non rilevabile d’ufficio dai giudici italiani

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 13 gennaio – 1 marzo 2017, n. 5250
Presidente Ragonesi – Relatore Lamorgese
Fatti di causa
La Corte d’appello di Caltanissetta, con sentenza 18 dicembre 2014, ha rigettato la domanda di G. G. che
aveva chiesto di dichiarare efficace in Italia la sentenza del Tribunale ecclesiastico regionale Siculo, del 28
ottobre 2011, confermata in appello in data 10 ottobre 2012, dichiarativa della nullità del matrimonio
concordatario contratto con M. A. il 16 settembre 1997, per esclusione dell’indissolubilità del vincolo
matrimoniale e della prole. La Corte ha ritenuto che la predetta sentenza ecclesiastica non fosse
delibabile, ostandovi il fatto, di ordine pubblico, che dopo la celebrazione del matrimonio i coniugi
avevano convissuto per un considerevole periodo di tempo e per oltre tre anni, in applicazione della
sentenza delle Sezioni Unite n. 16379 del 2014.
G. G. ha proposto ricorso per cassazione, con il quale ha denunciato la violazione e falsa applicazione di
legge, in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c, per avere il giudice di merito rilevato d’ufficio il fatto della
prolungata convivenza, che costituiva oggetto di eccezione in senso stretto che la parte, rimasta
contumace, non aveva sollevato nel giudizio di merito. La M. non ha svolto attività difensiva.
Ragioni della decisione
Il ricorso è manifestamente fondato, avendo la sentenza impugnata deciso la causa in senso contrario al
principio secondo cui la convivenza triennale come coniugi, quale situazione giuridica di ordine pubblico
ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, è oggetto di un’eccezione in
senso stretto, non rilevabile d’ufficio, né opponibile dal coniuge, essendo caratterizzata da una
complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di
responsabilità di natura personalissima (v. Cass., sez. un., n. 16379/2014).
Il ricorso è accolto e la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Caltanissetta, in
diversa composizione, anche per le spese.
P.Q.M.
La Corte, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di
Caltanissetta, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

Non sussiste un obbligo di concertazione preventiva alla spesa straordinaria per il figlio fra gli ex coniugi, ma il dissenso deve essere espresso e motivato

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 9 dicembre 2016 – 23 febbraio 2017, n. 4753

Rilevato che in data 20 ottobre 2016 è stata depositata relazione ex art. 380 bis c.p.c. che qui si riporta.
Rilevato che
1. M. T. D. G. ha agito in via monitoria nei confronti del marito P. D’A. per ottenere il rimborso di spese straordinarie (inerenti alla sfera sanitaria e scolastica) da lei effettuate in favore della figlia I.. La D. G. deduceva nel ricorso per ingiunzione che, in base al regime di separazione vigente all’epoca dell’effettuazione delle spese, il D’A. era tenuto al pagamento del 70% delle spese straordinarie scolastiche, ludiche e mediche non coperte dal SSN per la figlia e che pertanto era creditrice, per la quota parte del marito, di Euro 2.582,09 per spese sanitarie (cure di ortodonzia in favore della figlia), di Euro 263,30 per spese scolastiche e di Euro 186,79 per l’acquisto di materiale didattico, per un ammontare complessivo di Euro 3.032,08.
2. P. D’A. ha impugnato il D.I. emesso il 12.06.2009 dal Tribunale di Roma con il quale è stato ingiunto il pagamento della somma richiesta di Euro 3.032,08 eccependo che: a) nonostante il regime di affido condiviso della figlia, egli non era stato preventivamente avvisato e consultato circa l’ingente spesa straordinaria; b) qualora fosse stato previamente avvisato, la figlia avrebbe potuto beneficiare di una convenzione medica in suo favore; c) la moglie non aveva provato la natura medico-curativa della spesa e la sua urgente necessità.
3. Si è costituita in giudizio la Sig.ra D. G. chiedendo il rigetto dell’opposizione e proponendo, in via riconvenzionale, la condanna al risarcimento del danno da lite temeraria nella misura di complessivi Euro 1.500,00.
4. Il Tribunale, con sentenza n. 1236/13, ha accolto l’opposizione del D’A. e revocato il D.I. ritenendo non dovute le somme richieste perché relative a spese effettuate precedentemente al regime di separazione e perché non riconducibili alla categoria delle spese straordinarie e non concordate preventivamente come imposto dal regime di affidamento condiviso.
5. M. T. D. G. ha proposto appello avverso tale sentenza, ribadendo le difese svolte in primo grado; in particolare ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 155 co. 3 cc. per aver il Giudice erroneamente ritenuto sussistente un obbligo imprescindibile di concertazione e di condivisione preventiva delle spese straordinarie, anche di quelle mediche necessarie. Una interpretazione della norma che, secondo l’appellante, comporterebbe una lesione degli interessi del minore di fronte a rifiuti ingiustificati del genitore non collocatario.
6. La Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 6575/14, ha confermato la decisione di primo grado ritenendo fondata l’esclusione del diritto al rimborso delle spese effettuate prima della separazione e delle spese effettuate senza essere preventivamente concordate. La Corte distrettuale ha condannato la D. G. al rimborso delle spese processuali del giudizio di appello, liquidandole in complessivi Euro 6.000,00, oltre spese forfettarie.
7. M. T. D. G. ricorre per Cassazione avverso tale sentenza, affidandosi a due motivi: a) Violazione e falsa applicazione dell’art. 155 co. 3 cc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c. b) in via subordinata al rigetto del primo motivo, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e 92 c.p.c. e del R.G.L. n. 1578/1933 art. 60, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c. e con riferimento all’art. 384 co. 4 c.p.c.
8. Con il primo motivo la ricorrente sostiene che il Giudice di primo grado ha erroneamente ritenuto sussistente un obbligo imprescindibile di concertazione e di condivisione delle spese straordinarie, obbligo non previsto dall’ordinanza presidenziale emessa il 22 gennaio 2008 nel corso del giudizio di separazione con la quale si statuiva che il padre “provvede al pagamento del 70% delle spese straordinarie scolastiche mediche non coperte dal SSN e ludiche per la figlia”. In virtù di detto provvedimento, la Sig.ra D. G. non aveva ritenuto di dover previamente concordare le spese straordinarie in favore della figlia con il marito e tale convinzione si era basata su un orientamento giurisprudenziale anteriore alla riforma del 2012 in base al quale si affermava che “non è configurabile a carico del coniuge affidatario alcun obbligo di previa concertazione con l’altro coniuge sulla determinazione delle spese straordinarie” (Cass. Civ. Sez. I., sent. n. 2182/2009; n. 5262/1999). La normativa e la giurisprudenza successiva non può secondo la ricorrente essere applicata retroattivamente.
9. Con il secondo motivo di ricorso M. T. D. G. lamenta che il giudice di secondo grado avrebbe liquidato le spese processuali in una somma superiore al doppio della sorte oggetto del giudizio richiesta a titolo di spesa straordinaria, nonché superiore ai limiti tabellari, violando così le disposizioni in materia di spese processuali. La ricorrente rileva inoltre che il ricorso è stato proposto in pendenza di istanza di correzione di errore materiale per la erronea liquidazione di spese di secondo grado, il cui accoglimento potrebbe privare parzialmente l’interesse del ricorso.
Ritenuto che
10. Il primo motivo di ricorso è infondato, sia pure per ragioni non completamente coincidenti con quelle esposte nella motivazione della Corte di appello. Infatti la giurisprudenza di legittimità invocata dalla ricorrente prevede, comunque, nel regime precedente la legge n. 54/2006, l’obbligo di concertazione per le decisioni di maggiore interesse e non esclude il sindacato del giudice sulla soggezione del coniuge non affidatario al rimborso delle spese necessarie non concordate (cfr. Cass. civ. sez. I n. 2182 del 28 gennaio 2009 secondo cui in tema di separazione personale dei coniugi, poiché l’art. 155 cod. civ., nel testo in vigore prima della modifica apportata con la legge n. 54 del 2006, consente al coniuge non affidatario di intervenire nell’interesse dei figli soltanto con riguardo alle “decisioni di maggiore interesse”, non è configurabile a carico del coniuge affidatario alcun obbligo di previa concertazione con l’altro coniuge sulla determinazione delle spese straordinarie, nei limiti in cui esse non implichino decisioni di maggior interesse per i figli; tuttavia, tale principio non è inderogabile, essendo sempre possibile che il giudice, ai sensi del secondo e del terzo comma della norma citata, determini, oltre che la misura, anche i modi con i quali il coniuge non affidatario contribuisce al mantenimento dei figli, in modo difforme da quanto previsto in linea di principio dalla legge). 11. Secondo la giurisprudenza più recente non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro coniuge in ordine alla determinazione delle spese straordinarie, trattandosi di decisione “di maggiore interesse” per il figlio e sussistendo, pertanto, a carico del coniuge non affidatario, un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso. Ne consegue che, nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, il giudice è tenuto a verificare la rispondenza delle spese all’ interesse del minore mediante la valutazione della commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità e della sostenibilità della spesa stessa rapportata alle condizioni economiche dei genitori (Cass. civ. sez. VI-1 ord. n. 16175 del 30 luglio 2015).
12. Nella specie tale verifica della rispondenza delle spese all’interesse del minore è stata compiuta dal giudice di merito rilevando che il rifiuto di provvedere al loro rimborso si era basato giustificatamente sulla possibilità di affrontare la spesa medica necessaria mediante l’utilizzazione della convenzione sanitaria correlata all’attività professionale del padre. 13. Il secondo motivo è parzialmente fondato. Se è vero, infatti, quanto rilevato dal controricorrente richiamando l’art. 4 D.M. Giust. N. 55/2014 (e cioè che “il giudice tiene conto dei valori medi di cui alle tabelle allegate stabilendo che vi possa essere un aumento dei parametri indicati fino ad una misura dell’80%, in considerazione del pregio dell’attività prestata, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche ivi trattate e che, ex art. 4 punto 8 il compenso da liquidare giudizialmente a carico del soccombente costituito può essere aumentato fino ad un terzo rispetto a quello altrimenti liquidabile quando le difese della parte vittoriosa sono risultate particolarmente fondate”) rimane tuttavia fermo il principio giurisprudenziale per cui il giudice che deroga ai massimi tariffari è tenuto a motivare espressamente le ragioni della deroga (cfr. Cass. civ. sez. I n. 20289 del 9 ottobre 2015).
14. Sussistono pertanto i presupposti per la trattazione della controversia in camera di consiglio e se l’ impostazione della presente relazione verrà condivisa dal Collegio per il rigetto del primo motivo del ricorso e l’accoglimento parziale del secondo motivo. La Corte condivide la relazione sopra riportata e pertanto ritiene che il ricorso debba essere accolto limitatamente al secondo motivo. Le spese del giudizio di appello vanno pertanto determinate in 5.100 Euro di cui 100 per spese. In relazione all’esito del presente giudizio le spese vanno compensate per metà e per la quota residua vanno poste a carico della ricorrente.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo motivo, cassa in relazione alla predetta decisione la sentenza impugnata e, decidendo nel merito ridetermina in 5.100 Euro le spese del giudizio di appello. Compensa per metà le spese del giudizio di cassazione e pone la quota residua a carico della ricorrente liquidandola nella metà di 2.600 Euro, di cui 100 Euro per spese. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.

Indagini tributarie necessarie se sono profondamente migliorate le condizioni economiche di uno dei coniugi

Cass. ord. 20 febbraio 2017 n° 4292

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAGONESI Vittorio – rel. Presidente –
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –
Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 19041/2014 proposto da:
C.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA EZIO 12, presso lo studio dell’avvocato GIAN ETTORE GASSANI che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COLA DI RIENZO 162, presso lo studio dell’avvocato LUCIA SCALONE DI MONTELAURO che lo rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente all’avvocato LORIANO CECCANTI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 697/2014 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 22/04/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 03/02/2017 dal Consigliere Relatore Dott. VITTORIO RAGONESI. La Corte:
Svolgimento del processo- Motivi della decisione
Questa Corte, quanto al primo e al secondo motivo di ricorso (che appare necessario trattare prioritariamente in applicazione del principio della ragione più liquida della decisione), si è già pronunciata in materia affermando che: “In tema di divorzio, il giudice del merito, ove ritenga “aliunde” raggiunta la prova dell’insussistenza dei presupposti che condizionano il riconoscimento dell’assegno di divorzio, può direttamente procedere al rigetto della relativa istanza, anche senza aver prima disposto accertamenti d’ufficio attraverso la polizia tributaria, atteso che l’esercizio del potere officioso di disporre, per il detto tramite, indagini sui redditi e sui patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita rientra nella sua discrezionalità, non trattandosi di un adempimento imposto dall’istanza di parte, purchè esso sia correlabile anche per implicito ad una valutazione di superfluità dell’iniziativa e di sufficienza dei dati istruttori acquisiti” (Cass. n. 14336/2013, Acierno, Rv. 626778).
Ed ancora che: “In tema di determinazione dell’assegno di mantenimento in sede di scioglimento degli effetti civili del matrimonio, l’esercizio del potere del giudice che, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, può disporre – d’ufficio o su istanza di parte – indagini patrimoniali avvalendosi della polizia tributaria, costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della prova; l’esercizio di tale potere discrezionale non può sopperire alla carenza probatoria della parte onerata, ma vale ad assumere, attraverso uno strumento a questa non consentito, informazioni integrative del “bagaglio istruttorio” già fornito, incompleto o non completabile attraverso gli ordinari mezzi di prova; tale potere non può essere attivato a fini meramente esplorativi, sicchè la relativa istanza e la contestazione di parte dei fatti incidenti sulla posizione reddituale del coniuge tenuto al predetto mantenimento devono basarsi su fatti specifici e circostanziati (Cass. n. 2098/2011, Cultrera, Rv. 626778).
Nella specie, la decisione relativa è stata assunta dalla Corte di Appello in senso non conforme a tale orientamento.
In particolare occorre considerare come nella sua estrema sintesi la motivazione della Corte di Appello non renda evidente, nè motivi in alcun modo in ordine alla richiesta di accertamento sui redditi proposta dalla C.. In tal senso appare significativo il bagaglio istruttorio, certamente rilevante, fornito dalla stessa in ordine all’evidente progressione delle risorse economiche e dei valori patrimoniali riferibili al P. nel corso del giudizio.
La C. ha materialmente allegato elementi obiettivi in tal senso, ovvero l’eredità immobiliare conseguente ad decesso del padre del P., così come l’acquisto di beni mobiliari superflui e di valore certamente indicativo di capacità economica aumentata (due vetture di lusso ed una motocicletta), bagaglio istruttorio incompleto e certamente non completabile con gli ordinari mezzi di prova dalla C., soprattutto considerata la limitata produzione delle dichiarazioni dei redditi da parte dell’ex coniuge (di fatto ammessa dallo stesso P. nel suo controricorso, produzione intervenuta solo in sede di comparsa conclusionale per le dichiarazioni dei redditi anno 2012 in relazione a sentenza depositata in data 14.1.2014), circostanza che appunto portava ad introdurre l’istanza di indagini tributarie sui redditi.
E’ in tale contesto che dunque avrebbe dovuto intervenire il potere di integrazione officioso del Tribunale e il mancato accoglimento della istanza di parte in tal senso non ha trovato adeguata valutazione nella motivazione della sentenza della Corte di Appello, nè emerge per implicito una valutazione di superfluità della iniziativa avendo la Corte contrapposto ad una serie di dati di fatto le valutazioni e giustificazioni sul punto fornite dalla parte, che chiaramente hanno una portata limitata e non risolutiva (affermazioni relative al non essere riuscito a portare a reddito con locazioni i beni immobili ereditati, che pur tuttavia sono entrati a far parte del patrimonio del P. in epoca successiva all’avvio del giudizio e determinazione dell’assegno di mantenimento).
Così come non appare elemento sufficiente a ritenere implicitamente superata l’esigenza di un accertamento sui redditi la “verosimiglianza” della congiuntura economica rispetto all’affermazione del P. in ordine al reddito ottenuto dagli immobili ricevuti in eredità, non essendo stato tale elemento di valutazione, meramente probabilistico ed eventuale, posto in correlazione con la istanza della C. di indagini sui redditi.
L’accoglimento dei motivi di ricorso determina l’assorbimento dei residui motivi di articolati, collegati in situazione di consequenzialità ai motivi oggetto di valutazione principale.
Vista la memoria che non aggiunge elementi ulteriori di valutazione.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Firenze in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese della fase di legittimità.
Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2017.
Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2017

Condivisibile la scelta di mutare l’affido alternato in condiviso

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 21 novembre 2016 – 14 febbraio 2017, n. 4060

D. e C. E. sono i genitori, all’epoca conviventi, di una adolescente nata fuori dal matrimonio il 29.10.2001. A seguito della cessazione della convivenza della coppia, i due genitori, redigevano una scrittura privata per la regolazione dei rapporti anche in ordine all’educazione ed al mantenimento della figlia, prevedendo, tra l’altro, l’affidamento alternato della minore. Dopo un periodo abbastanza lungo, C. E. nel 2011 contestava inadempimenti del T. ed adiva il Tribunale minorile, ottenendo in buona sostanza la riproduzione in molo giudiziario dei patti a suo tempo stipulati con l’ex convivente. Elemento di contrasto rimaneva il regime delle spese straordinarie, cui il T. riteneva di non dover contribuire quando non concordate. Con provvedimento emesso il 5/10-2-2014, in procedura promossa da T. D. ex art. 739 C.p.c, il Tribunale per i minorenni di Brescia disponeva l’affido condiviso della ragazza ai genitori con collocamento prevalente presso la madre, regolamentava il regime delle visite del padre, fissava l’importo dovuto mensilmente dal ricorrente per il mantenimento della minore, disponeva la ripartizione al 50% tra i genitori degli oneri relativi alle spese straordinarie da sostenersi per la minore, confermava l’autorizzazione a completare il ciclo delle scuole medie presso l’istituto privato (a pagamento) ove essa era stata iscritta dalla madre. La decisione era impugnata da T. D. innanzi alla Corte d’Appello di Brescia che, valorizzando anche le risultanze dell’audizione della figlia minore – la quale aveva all’epoca dodici anni e mezzo – innanzi al Tribunale minorile, anche in considerazione delle esigenze, da essa manifestata, di un più prolungato contatto con la madre, oltre a soffrire dei continui cambi di abitazione conseguenti al passato affidamento alternato ai genitori, confermava l’affidamento condiviso della minore con collocamento prevalente presso la madre e regolamentazione del diritto di visita del padre. In ordine all’autorizzazione alla frequenza della scuola privata, secondo la Corte, il ricorrente si era limitato a lamentare che la madre aveva scelto di iscrivere la figlia presso onerosa scuola privata, senza aver prima concordato la scelta, ma non aveva illustrato le ragioni che inducevano a ritenere si trattasse di una scelta sbagliata. Diversamente deve osservarsi,- ha rilevato la Corte d’Appello” che la minore risultava già iscritta al secondo anno di corso, e che il cambiamento della scuola avrebbe potuto arrecarle pregiudizio, non mancando di ricordare che nel passato anche il T. aveva concordato sull’iscrizione della figlia in scuola privata. Nel ricorso per cassazione T. D. contesta “l’unilaterale decisione della madre di iscrivere la figlia presso un istituto scolastico privato … anziché un istituto pubblico nonché l’onere imposto al padre dissenziente di provvedere al pagamento della retta della scuola privata per la quota di un mezzo”, e propone innanzitutto osservazioni astrattamente condivisibili , circa la finalizzazione a stimolare l’esercizio concordato della genitorialità promosso dalla legislazione sull’affido condiviso, a tutela del principio della bigenitorialità. In riferimento al caso specifico, quindi, il ricorrente contesta l’illegittimità della decisione assunta dalla Corte territoriale, perché il giudice del merito non avrebbe dovuto avallare una iniziativa, l’iscrizione della figlia minore presso Istituto scolastico privato, non concordata ed addirittura opposta dal padre. Il ricorrente invoca quindi pure il dettato Costituzionale per affermare la piena affidabilità dell’istruzione pubblica. L’impugnante evidenzia poi che la frequenza presso la scuola privata importa il pagamento di una retta, la quale viene fatta gravare per metà sul ricorrente, che non solo si è trovato a subire una scelta educativa che non condivide, ma ne deve pure sopportare gli oneri in misura significativa. Oltre a ciò egli sottolinea che neppure lo standard educativo assicurato dalla scuola privata prescelta dalla madre appare adeguato in quanto, per la stessa ammissione di controparte (che se ne valeva per evidenziare i problemi che sarebbero sorti se la bambina fosse passata alla scuola pubblica), la minore stava studiando una sola lingua straniera, diversamente dalle scuole pubbliche dove se ne studiano due.
Il ricorrente rinnova pure le contestazioni avverso la modifica del regime di affidamento alternato ai genitori nel regime di affidamento condiviso della adolescente con collocamento prevalente presso la madre e regolamentazione delle visite del padre, che ha pure quale conseguenza una minore frequenza tra lui e la ragazza. In particolare, 1 impugnante ha sottolineato che la Corte di merito ha fondato la sua valutazione sui risultati dell’audizione della minore, ritenendo di interpretarne i desideri ed erroneamente parificandoli all’interesse morale e materiale della minore stessa che era invece chiamata a tutelare. Tanto illustrato, occorre evidenziare che non si ravvisano violazioni di legge, in ordine alle quali le censure sono peraltro proposte in modo inadeguato. In sostanza il ricorrente, pur invocando la violazione di norme di diritto, propone contestazioni in ordine a profili e situazioni di fatto, per larga parte insuscettibili di controllo in questa sede, a fronte di una decisione impugnata che appare invece caratterizzata da motivazione adeguata e non illogica. In particolare questa Corte ha già avuto modo di precisare che “Non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione di concertazione preventiva con l’altro, in ordine alla determinazione delle spese straordinarie (nella specie, spese di soggiorno negli U.S.A. per la frequentazione di corsi di lingua inglese da parte di uno studente universitario di lingue) costituente decisione “di maggiore interesse” per il figlio, sussistendo, pertanto, a carico del coniuge non affidatario un obbligo di rimborso, qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso” (Cass. sez. I, 19607/2011; conforme, da ultimo, Cass. sez. VI-I, 16175/2015). E’ indubbio che la legislazione sull’affido condiviso privilegia l’accordo dei genitori in materia di scelte educative che riguardano i figli, tanto è vero che, se agiscono d’intesa, essi possono in molti casi anche modificare di comune accordo le stesse indicazioni fornite dal giudice, senza necessità neppure di comunicazione, come ha già sottolineato la Corte territoriale. Nondimeno, quando il rapporto tra i genitori non consente il raggiungimento di un’intesa, occorre assicurare ancora la tutela del migliore interesse del minore. L’opposizione di un genitore non può paralizzare l’adozione di ogni iniziativa che riguardi un figlio minorenne, specie se di rilevante interesse, e neppure è necessario ritrovare l’intesa prima che l’iniziativa sia intrapresa, fermo restando che compete al giudice, ove ne sia richiesto, verificare se la scelta adottata corrisponde effettivamente all’interesse del minore. Nel caso in esame la Corte d’Appello, ed il Tribunale minorile prima, hanno valutato opportuno per la minore, che manifesta pure alcune peraltro non gravi difficoltà, evitare il trauma conseguente al possibile spostamento nella scuola pubblica dopo aver frequentato per un anno una scuola privata. Valutazione adeguata e ragionevole, perciò incensurabile in questa sede. Può quindi prescindersi da ulteriori considerazioni sul mutato animo del ricorrente che, risulta in atti, aveva un tempo condiviso la scelta di iscrivere la figlia alla scuola privata. Quanto alle contestazioni di merito proposte nel ricorso per cassazione circa la scuola privata in cui la figlia è stata iscritta dalla madre, a parte ogni considerazione circa la loro tempestività, deve osservarsi che è possibile esprimere un giudizio, soltanto confrontando l’intera offerta formativa proposta dalla scuola privata in questione con quelle offerte dalle scuole pubbliche viciniori, e non è certo possibile operare la valutazione sulla base della sola, maggiore o minore, programmazione dell’insegnamento di lingue straniere. Tanto deve ribadirsi anche a seguito della lettura della memoria, depositata dal ricorrente, mediante la quale il T. sostiene, tra l’altro, che sarebbe gravata sulla madre la prova che la scuola privata risultava preferibile per la bambina. In materia merita solo di essere confermato che la prova compete a chi afferma un determinato fatto, così come a chi lo nega. Inoltre, già la Corte d’Appello aveva individuato le ragioni che inducevano a propendere per l’opportunità della frequentazione della scuola da parte della minore presso l’Istituto privato, cui già si è fatto riferimento. Quanto alla sostituzione all’affidamento alternato dell’affidamento condiviso della minore ai genitori, con collocazione prevalente presso la madre e regolamentazione del regime delle visite paterne, il ricorrente contesta che il rilievo assegnato alle dichiarazioni raccolte dalla minore sia stato ingiustificatamente assorbente. Occorre premettere che quelli che il ricorrente indica quali “desideri” di sua figlia possono correttamente leggersi come le “esigenze” di un’adolescente, che pure il sistema giudiziario deve contribuire a tutelare. L’affido alternato, tradizionalmente previsto come possibile dal diritto di famiglia italiano, è rimasta una soluzione educativa di limitate applicazioni, essendo stato ripetutamente affermato che esso assicura buoni risultati quando vi è un preciso accordo tra i genitori e tutti i soggetti coinvolti, anche il figlio, condividono la soluzione. Non ci sono dubbi, poi, che modificare continuamente la propria casa di abitazione può avere un effetto destabilizzante per molti minori. La scelta dei giudici di merito di disporre l’affidamento condiviso, assolutamente privilegiato dal nostro ordinamento, appare in definitiva condivisibile, oltre che adeguatamente motivata, e pertanto risulta insuscettibile di critica motivata innanzi al Giudice di legittimità. Il Collegio condivide la relazione proposta, e ritiene di rigettare il ricorso. Stante la soccombenza del ricorrente, e preso atto che non vi sono altre parti costituite, nulla occorre provvedere in ordine alle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196/03.

Impresa familiare

IMPRESA FAMILIARE
Di Gianfranco Dosi

I. La tutela del lavoro prestato da un familiare a favore dell’imprenditore
a) La tutela nella famiglia matrimoniale
b) La tutela nelle unioni civili
c) La tutela tra conviventi di fatto
II. L’impresa familiare come impresa individuale
III. I diritti attribuiti al collaboratore
IV. I presupposti per la determinazione della partecipazione agli utili
V. Le caratteristiche del credito del collaboratore dell’impresa familiare
VI. Come si determina la quota degli utili spettanti al familiare collaboratore dell’impresa familiare?
VII. La quota di utili attribuita al familiare collaboratore costituisce reddito a fini fiscali?

I
La tutela del lavoro prestato da un familiare a favore dell’imprenditore
a) La tutela nella famiglia matrimoniale
L’art. 230-bisdel codice civile – intitolato impresa familiare e introdotto per la famiglia fondata sul matrimonio con la riforma del 1975 – ha la pacifica funzione di garantire che l’attività lavorativa prestata con continuità a vantaggio dell’imprenditore da un suo familiare sia adeguatamente remunerata. Non può essere considerata un’attività lavorativa svolta gratuitamente.
Ed in effetti, l’art. 230-bis prescrive molto chiaramente che “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”. In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda i familiari in questione hanno diritto di prelazione sull’azienda.
Non solo. Ove si configuri questo tipo di rapporto, il familiare ha anche diritto a prendere parte alle decisioni che influiscono sull’insieme di quei diritti (anche se, come si vedrà, la giurisprudenza non applica alla lettera questa indicazione, effettivamente contrastante con i poteri necessariamente pieni di indirizzo dell’impresa, unicamente appartenenti all’imprenditore). Prevede a tale proposito l’art. 230-bische “Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi”.
Naturalmente – come la disposizione in parola precisa molto bene – “Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”.
Nel testo introdotto dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 –che riguarda la famiglia matrimoniale – la norma prevede che “Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”.
La tutela assicurata è personalissima e quindi intrasferibile. Infatti, come conclude l’art. 230-bis “Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell’azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice”.
b) La tutela nelle unioni civili
La legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina della convivenza di fatto) all’art. 1, comma 21, estende anche alla unioni civili la disposizione di cui all’art. 230-bis c. c. nell’ambito di un rinvio complessivo e generale alla maggior parte delle disposizioni sul regime patrimoniale della famiglia fondata sul matrimonio (tra le quali, appunto, l’art. 230-bis c.c.).
Tuttavia, poiché il comma 20 dell’art.1 della legge esclude l’applicazione alle unioni civili delle norme del codice civile non espressamente richiamate e poiché non è richiamato l’art. 78 sul vincolo di affinità (avendo voluto escludere il legislatore per le unioni civili una concezione allargata dei legami di natura familiare riservata illogicamente alla sola famiglia cosiddetta matrimoniale) ne deriva che la tutela assicurata dall’art. 230-bis alle parti dell’unioni civile è limitata all’attività di lavoro prestata a favore del partner o dei propri parenti entro il terzo grado.
c) La tutela tra conviventi di fatto
La nozione di “familiari” legati alla famiglia matrimoniale aveva sempre lasciato fuori dalla tutela offerta dall’art. 230-bis del codice civile i componenti della famiglia di fatto dell’imprenditore che collaborano nella sua impresa (Cass. civ. Sez. II, 29 novembre 2004, n. 22405 e Cass. civ. Sez. lavoro, 2 maggio 1994, n. 4204 che aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230-bis nella parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio) anche se una parte della giurisprudenza più recente aveva espresso un orientamento favorevole al riconoscimento della tutela tra conviventi more uxorio (per esempio Cass. civ. Sez. lavoro, 15 marzo 2006, n. 5632 aveva sostenuto che“l’art. 230-bis c.c. è applicabile anche in presenza di una famiglia di fatto, che costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale”).Qualche apertura, seppure con riferimento alla comunione tacita familiare, era contenuto già in Cass. civ. Sez. lavoro, 19 dicembre 1994, n. 10927.
È stata la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina della convivenza di fatto) ad operare una svolta in questo ambito sostanzialmente estendendo alla convivenza di fatto il principio che il lavoro prestato a vantaggio di un familiare non può considerarsi effettuato a titolo gratuito.
La legge in questione non ha però semplicemente richiamato per i conviventi di fatto l’art. 230-bis c.c., ma ha introdotto nel codice civile (con l’art. 1, comma 46) un apposito art. 230-ter (diritti del convivente) secondo cui “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.
A parte qualche distinzione di tipo lessicale – ed a parte l’omesso riferimento al diritto al mantenimento che tra conviventi non è prevedibile – sostanzialmente la norma riproduce la tutela indicata nell’art. 230-bis che riguarda qui, però, il solo rapporto tra i due conviventi di fatto con la conseguente esclusione del meccanismo di partecipazione alle decisioni dell’imprenditore da adottare a maggioranza, e del principio di trasferibilità ai familiari del diritto di partecipazione (in entrambi i casi illogicamente esclusi, però, in caso per esempio di eventuali figli della coppia che partecipino all’attività di impresa).
II
L’impresa familiare come impresa individuale
L’impresa familiare – alla quale fa riferimento l’art. 230-bis del codice civile – è una realtà organizzativa delle attività commerciali, di media e piccola dimensione, molto diffusa, attraverso la quale l’imprenditore gestisce la sua azienda con la collaborazione continuativa dei propri familiari.
L’impresa ha pacificamente natura non collettiva, ma individuale dell’imprenditore.
Il principio è stato più volte affermato in giurisprudenza, per esempio Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2015, n. 24560 secondo cui l’impresa familiare appartiene solo al suo titolare anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, a differenza dell’impresa collettiva che appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone; Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552 per cui l’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria; Cass. civ. Sez. lavoro, 18 gennaio 2005, n. 874 secondo cui il familiare titolare dell’impresa è l’unico soggetto passivo obbligato in relazione al diritto di credito spettante a ciascuno dei familiari che collaborano e il diritto del singolo prestatore di lavoro non è condizionato dall’analogo diritto che spetta agli altri familiari, in quanto esso è commisurato alla qualità e quantità del lavoro prestato; Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959 che giustamente richiama a questo proposito la disposizione tributaria che ai fini esclusivamente fiscali limita nella misura del quarantanove per cento la possibilità di imputazione ai familiari compartecipanti dei redditi dell’impresa familiare; Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1992, n. 4030 dove si afferma che l’impresa familiare, così come disciplinata dall’art. 230-bis c.c. ha natura di impresa individuale, con la conseguenza che la qualifica di imprenditore spetta solamente al titolare della stessa non potendo essa essere attribuita anche ai collaboratori familiari; Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 1990, n. 6559 che del tutto coerentemente ritiene che nell’ambito dell’impresa familiare, caratterizzato dall’assenza di un vincolo societario e dall’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona dell’imprenditore distingue un aspetto interno, costituito dal rapporto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun componente, ed un aspetto esterno, nel quale ha rilevanza la figura del familiare-imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente e solidalmente con i suoi beni personali, con la conseguenza che il fallimento di detto imprenditore non si estende automaticamente al semplice partecipante all’impresa familiare.
Dalla natura individuale dell’impresa familiare si è anche dedotto che il familiare partecipante all’impresa familiare in caso di alienazione dell’azienda non ha diritto ad una quota del ricavato dei proventi della vendita (Trib. L’Aquila, 21 gennaio 2016).
Il carattere individuale dell’impresa familiare – come ha bene chiarito Trib. Bari Sez. lavoro, 24 settembre 2015 – sintetizza lo scopo dell’istituto che è quello di apprestare una tutela effettiva al familiare che presta la propria attività a favore di un altro familiare.
Il principio della natura individuale dell’impresa familiare è confermato dagli stessi criteri di tassazione per i quali è soggetto passivo unicamente l’imprenditore familiare e non anche i familiari collaboratori (Cass. civ. Sez. VI, 24 novembre 2016, n. 24060; Cass. civ. Sez. VI, 17 giugno 2016, n. 12616)
Essendo questo della natura individuale dell’impresa familiare un dato che appare storicamente acquisito, stupisce una definizione recente dell’impresa familiare coltivatrice come impresa collettiva (Cass. civ. Sez. lavoro, 4 ottobre 2013, n. 22732) nella quale “obbligati in relazione al credito per gli utili, se ed in quanto esistenti, spettanti a ciascuno dei familiari che abbia prestato la propria attività lavorativa nella famiglia, sono l’impresa familiare e gli altri familiari consorziati”.
III
I diritti attribuiti al collaboratore
L’elemento della collaborazione lavorativa dei familiari con il titolare dell’impresa è al centro del contenzioso che riguarda i diritti patrimoniali dei familiari.
Intanto va detto che al fine di dimostrare la partecipazione del coniuge o di uno stretto parente del titolare all’impresa familiare ex art. 230-bis del codice civile è necessario che gli stessi abbiano fornito un contributo all’organizzazione dell’impresa stessa mediante la prova sia di uno svolgimento di tipo continuativo ovvero non saltuario ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno, sia dell’accrescimento della produttività procurato dal lavoro del partecipante quale elemento indispensabile al fine di determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi (Trib. Bari Sez. lavoro, 20 novembre 2014).
Le controversie sono di competenza del giudice del lavoro, sussistendo il requisito della parasubordinazione nell’attività svolta (conformi in questo senso sono numerose pronunce da Cass. civ. Sez. lavoro, 23 novembre 1984, n. 6069 a Cass. civ. Sez. lavoro, 26 agosto 1997, n. 8033).
L’elemento della subordinazione dei familiari rispetto al titolare che gestisce l’azienda distingue l’impresa familiare dall’azienda coniugale – prevista nell’art. 177 lett. d del codice civile – che è invece cogestita dai coniugi e le cui problematiche appartengono al regime della comunione legale (Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390).
Il secondo comma dell’art. 230-bis del codice civile richiama i principi di parità precisando opportunamente che “il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”.
Al familiare, perciò, che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nell’impresa familiare [o nella famiglia se questo lavoro assume rilievo diretto nella gestione dell’impresa: Cass. sez. Unite 4 febbraio 1995, n. 89] – e sempre che non sia configurabile un diverso rapporto disciplinato in altro modo dalla legge (per esempio rapporto societario o di lavoro subordinato) – l’art. 230-bis attribuisce il “diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia” e la partecipazione “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato”.
Secondo quanto precisa il quarto comma dell’art. 230-bis (per la famiglia matrimoniale e per l‘unione civile) – e s’intende anche con riguardo all’impresa familiare ex art. 230-ter c.c. tra conviventi di fatto – la liquidazione dei diritti di partecipazione (agli utili dell’impresa ed ai beni acquistati con essi) può essere effettuata (e quindi le parti possono pattuire modalità diverse) in denaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione di lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell’azienda; il pagamento può avvenire anche in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice.
Per ciò che attiene all’impresa familiare nella famiglia matrimoniale o nell’unione civile diritto al mantenimento e di partecipazione agli utili – e quindi la tutela del familiare collaboratore – è ovviamente intrasferibile, salvo che il trasferimento non avvenga a favore di un altro familiare e con il consenso di tutti i familiari collaboratori (art. 230-bis quarto comma). Si è già detto che appare illogica la mancata previsione di questo diritto anche ai conviventi di fatto per esempio con riferimento alla trasferibilità del diritto ad un figlio comune.
Così richiamato il quadro normativo di riferimento, occorre osservare subito che quasi mai nella pratica si pone il problema del “diritto al mantenimento” (escluso in ogni caso nell’impresa familiare ex art. 230-ter c.c. tra conviventi di fatto) del familiare collaboratore, giacché in genere questo diritto è garantito nella vita matrimoniale in comune dall’art. 143 c.c. (e analogamente avviene per le unioni civili) o, in caso di separazione, dalle misure relative al contributo di sostentamento coniugale o per i figli. L’affermazione contenuta nella norma – limitatamente al mantenimento – ha, quindi, un significato storico che si potrebbe considerare superato (la norma fu inserita nel codice nel 1975 quando la condizione della vita familiare era ben diversa da oggi). Ne residua, tuttavia, una qualche rilevanza proprio nella problematica relativa al calcolo degli utili – come si dirà – dal momento che secondo l’orientamento della giurisprudenza che si è occupata dell’impresa familiare in ambito matrimoniale “gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l’impresa” (Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650 Cass. civ. Sez. lavoro, 2 aprile 1992, n. 4057). Ed è del tutto ragionevole che sia così perché mantenimento e partecipazione agli utili sono due voci che, dovendo trovare soddisfazione da un’unica fonte di reddito, sono inevitabilmente da computare insieme nel medesimo diritto di credito del collaboratore.
IV
I presupposti per la determinazione della partecipazione agli utili
Per la soluzione del problema relativo ai criteri di determinazione della partecipazione “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi” è necessario in via preliminare richiamare innanzitutto una norma tributaria capace di imprimere tutele differenziate alle pretese creditorie dei familiari collaboratori partecipanti.
Ed è opportuno subito avvertire che la norma tributaria in questione andrà aggiornata dal legislatore con riferimento all’estensione dell’art. 230-bis alle unioni civili e all’introduzione per i conviventi di fatto dell’art. 230-ter c.c. in quanto l’attuale normativa tributaria fa riferimento alla sola famiglia matrimoniale.
La norma in questione è l’art. 5 del DPR 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi) riproduttivo di precedenti analoghe disposizioni contenute nella normativa fiscale (in particolare dell’articolo 5 del DPR 29 settembre 1973, n. 597).
L’art.5 del Testo Unico – trattando delle modalità di tassazione dei redditi prodotti in forma associata così si esprime al quarto comma: “I redditi delle imprese familiari di cui all’art. 230-bis del codice civile, limitatamente al 49 per cento dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.
La presente disposizione si applica a condizione:
a) che i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti; b) che la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attesta¬zione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo d’imposta; c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.
Il quinto comma dell’articolo 5 – richiamandosi ai presupposti già individuati dal codice civile – ribadisce che “si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado”.
Ebbene il significato della norma tributaria (dichiarata conforme a costituzione da Corte cost. 6 luglio 1987, n. 251) è molto chiaro. Essa afferma due principi: in primo luogo che i redditi dell’impresa possono essere imputati ai familiari collaboratori in misura complessivamente non superiore al 49% (in quanto l’imprenditore, essendo il titolare, deve necessariamente imputare a se stesso una quota non inferiore al 51%) e secondo luogo che questa imputazione – su cui ciascun familiare collaboratore calcolerà l’imposta dovuta – deve avvenire in modo proporzionale alla quota concordata di partecipazione agli utili. Così per esempio due coniugi potranno decidere di suddividere la loro partecipazione prevedendo che il coniuge imprenditore imputi i redditi dell’impresa a se stesso per l’80% e il coniuge collaboratore per il 20%. Oppure che l’imprenditore abbia nell’impresa familiare il 51% di quota di utili mentre il coniuge e il figlio si suddivideranno a metà il restante 49%. E così via secondo la decisione che l’imprenditore e i collaboratori ritengono di dover adottare.
Tutto ciò però alle tre condizioni precisate dall’articolo 5 e cioè in sostanza: a) che l’impresa familiare sia costituita con atto pubblico o scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta e con l’indicazione e la sottoscrizione dei familiari partecipanti, b) che le quote rispettive siano tutte stabilite in proporzione al lavoro effettivamente prestato; c) che ognuno lo attesti nella propria dichiarazione dei redditi. Per poter, quindi, beneficiare del meccanismo di imputazione dei redditi (e quindi degli utili) sopra indicato, sarà necessario che l’impresa familiare venga sempre costituita con atto pubblico o scrittura privata autenticata. Altrimenti l’impresa – che può risultare da un qualsiasi negozio giuridico tra i partecipanti, ovvero sussistere anche per fatti concludenti e cioè da atti dai quali si possa desumere l’esistenza della volontà di dare vita all’impresa familiare (Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003, n. 9683; Cass. civ. Sez. Unite, 4 gennaio 1995, n. 89; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650; Cass.civ. 23 novembre 1984, n. 6069) – non potrà beneficiare della norma tributaria.
Si avranno quindi sul mercato due tipi di imprese familiari: a) quelle “costituite con atto pubblico o scrittura privata autenticata” nelle quali l’indicazione delle quote di suddivisione degli utili sarà preventivamente stabilita nell’atto costitutivo e successivamente confermata nelle dichiarazioni fiscali dei partecipanti; b) le imprese familiari che possiamo chiamare “di fatto”, alle quali pur sempre sarà riferibile la tutela offerta dall’art. 230-bis del codice civile, ma che non potranno giovarsi del sistema di imputazione dei redditi (e degli utili) proporzionale alle quote prestabilite e per le quali quindi il problema della prova della quantità è della qualità della partecipazione sarà meno agevole.
Il problema della determinazione degli utili si deve affrontare, quindi, in modo diverso a seconda del tipo di impresa familiare implicata.
V
Le caratteristiche del credito del collaboratore dell’impresa familiare
Bisogna innanzitutto ricordare che l’istituto dell’impresa familiare ha natura residuale rispetto ad ogni altro tipo di rapporto negoziale eventualmente configurabile ed è incompatibile con la disciplina delle società di qualunque tipo. Nel contesto letterale della disposizione di riferimento, costituita dall’art. 230-bis c.c., mentre la scelta del legislatore di utilizzare costantemente il lemma impresa, di carattere oggettivo, significativo dell’attività economica organizzata, piuttosto che fare riferimento all’imprenditore come soggetto obbligato, resta di per sé neutra, ciò che si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione (Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2015, n. 24560; Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552; Cass. civ. Sez. Unite, 6 novembre 2014, n. 23676). Tutto ciò sempre che il giudice non ritenga che si debba applicare la normativa sul lavoro subordinato ove ve ne siano i presupposti (Cass. civ. Sez. lavoro, 22 settembre 2014, n. 19925).
Ciò premesso la prima caratteristica della pretesa creditoria del familiare collaboratore è quella che gli utili a lui spettanti sono in genere liquidati (spontaneamente o in via giudiziale) alla cessazione della prestazione di lavoro. E’ quanto prevede, come si è visto, il quarto comma dell’art. 230-bis codice civile (App. Bologna Sez. lavoro, 21 marzo 2013).
È fatta salva naturalmente una volontà contraria dei partecipanti all’impresa per esempio per la liquidazione periodica degli utili o perché una certa quota di utili è stata già ripartita. E’ evidente che in questi casi la determinazione degli utili spettanti alla cessazione della prestazione di lavoro riguarda solo gli utili che non sono stati già liquidati (Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2011, n. 5448).
Va inoltre precisato che normalmente le dimensioni medio-piccole dell’impresa familiare, consentono di ipotizzare che ciascuno dei collaboratori si avvalga dei risultati proprio mentre l’impresa li realizza. Non c’è – come avviene nelle società – un momento formale di divisione degli utili, ma c’è viceversa un avvantaggiarsi di ciascuno dei risultati conseguiti – anche attraverso il reimpiego degli utili nell’azienda – proprio via via che vengono conseguiti. Ciò significa in sostanza che i redditi prodotti servono anche al mantenimento continuativo di tutti i collaboratori.
Questo comporta che la determinazione degli utili da liquidare è una operazione con una particolarità specifica che deriva dal fatto che il collaboratore si è già avvantaggiato di una quota della redditività prodotta in azienda. Per questo – come si è sopra anticipato – la giurisprudenza ritiene giustamente che gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento (Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650; Cass. civ. Sez. lavoro, 2 aprile 1992, n. 4057). Ugualmente si ritiene che, poiché all’imprenditore spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro, in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti non deve tenersi conto degli incrementi del capitale (Cass. civ. Sez. lavoro, 6 marzo 1999, n. 1917). La tesi è convincente dal momento che l’aumento del capitale costituisce certamente una voce di spesa sopportata dal solo titolare dell’azienda.
La liquidazione degli utili al momento della cessazione della prestazione di lavoro ne fa anche un diritto qualificabile solo a posteriori (Cass. civ. Sez. lavoro, 6 settembre 2016, n. 17639; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2016, n. 5224; Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 1999, n. 11921) condizionato dai risultati raggiunti. Effettivamente la partecipazione agli utili nell’impresa familiare non avviene di anno in anno, come è logico che sia essendo il reimpiego nell’azienda – e non la loro distribuzione – la naturale destinazione degli utili. Gli utili da liquidare saranno perciò determinati dall’accrescimento della produttività dell’impresa alla data della cessazione della prestazione lavorativa rispetto alla data dell’inizio della collaborazione (Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2011, n. 5448) detratte le spese di mantenimento dei familiari collaboratori e quelle relative all’eventuale aumento di capitale. Un’operazione di una certa complessità – dovendosi calcolare l’incremento del valore dell’azienda dovuto al lavoro del collaboratore – che il giudice, acquisite le fonti di prova, non può che effettuare con l’ausilio di un commercialista o di un altro esperto.
La seconda caratteristica è che si tratta di un credito pecuniario da lavoro e quindi, dal momento della maturazione del diritto, decorreranno altresì la rivalutazione e gli interessi (Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 1999, n. 11921).
La terza fondamentale caratteristica è che la partecipazione agli utili e agli incrementi di produttività dell’azienda (e quindi anche all’avviamento) deve essere proporzionale e quindi parametrata “alla quantità e alla qualità del lavoro prestato” dal collaboratore, come specificamente prescrive l’art. 230-bis del codice civile. Quindi non possono essere utilizzati criteri diversi, come per esempio l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, che prescindono del tutto dall’entità dei risultati conseguiti a cui invece è commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare (Cass. civ. Sez. V, 15 settembre 2008, n. 23617; Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2008, n. 20574; Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2015, n. 7007; Cass. civ. Sez. lavoro, 9 ottobre 1999, n. 11332; Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390). Nel rapporto di lavoro il metro di valutazione dell’attività lavorativa è la retribuzione; nella società l’utile si di¬stribuisce in relazione alle quote sociali quale che si l’impegno del singolo compartecipe; nell’impresa familiare, invece, si deve fare riferimento specifico alla qualità e alla quantità del lavoro prestato dal collaboratore.
Al familiare che partecipa con la propria attività lavorativa all’impresa, va riconosciuta non soltanto la partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi, ma anche la partecipazione agli incrementi dell’azienda, dovendosi intendere per incremento di azienda ogni aumento di valore che non sia determinato dai beni acquistati con l’impiego degli utili. Tale diritto sorge solo al momento della cessazione dell’azienda o dell’attività lavorativa del singolo familiare, sempre in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (Trib. Modica, 10 marzo 2015).
L’ultima caratteristica è che si tratta di un credito prescrivibile in dieci anni – fatta salva l’eventuale sospensione della prescrizione tra coniugi (art. 2941, n. 1, cod. civ.) – giacché deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall’art. 2946 cod. civ. per la prescrizione ordinaria (Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20273; Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2009, n. 1647).
VI
Come si determina la quota degli utili spettanti al familiare collaboratore dell’impresa familiare?
Il valore della quota del familiare collaboratore alla cessazione della sua attività lavorativa nell’impresa familiare, anche per recesso, è determinato da plusvalenze latenti, dal valore patrimoniale e dalla determinazione dell’incremento di valore di avviamento conseguito dalla data di costituzione dell’impresa familiare, elementi che – come si è detto – un consulente tecnico può facilmente attingere dai bilanci e dalla documentazione aziendale. Trattandosi spesso di somme rilevanti è molto opportuna la precisazione contenuta nell’art. 230-bis del codice civile secondo cui questi importi possono essere liquidati in più annualità.
Come si è sopra visto il problema della determinazione degli utili va affrontato tenendo conto che l’impresa familiare può essere stata costituita con atto pubblico o scrittura privata autenticata (ed in tal caso, secondo le norme tributarie sopra richiamate, potrà giovarsi del sistema di imputazione dei redditi e di partecipazione agli utili proporzionale alle quote predeterminate) o può esistere di fatto per la semplice volontà dell’imprenditore e dei partecipanti di volere questo tipo di organizzazione del lavoro nell’azienda.
Le agevolazioni delle norme tributarie hanno finito per rendere ormai visibili nel mercato la maggioranza delle imprese familiari – essendo appetibile fiscalmente la distribuzione del carico fiscale tra più persone – ma ciò non toglie che ove non vi sia stata questa predeterminazione in un atto formale, si possano porre ugualmente problemi di rivendicazione da parte dei collaboratori dei propri diritti.
In questo caso spetterà al partecipante che agisce per il conseguimento della quota “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi” ,l’onere di provare la consistenza del patrimonio familiare e l’ammontare degli utili da distribuire.
Nel caso invece in cui vi sia stato l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata, la predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili può risultare idonea, in difetto di prova contraria, ad assolvere, mediante presunzioni, l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione. Quindi secondo la giurisprudenza le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell’impresa hanno una portata certamente indiziaria e presuntiva (Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2016, n. 5224; Cass. civ. Sez. lavoro, 5 settembre 2012, n. 14908; Cass. sez. lavoro, 29 luglio 2008, n. 20574; Cass. civ. Sez. lavoro, 20 marzo 2007, n. 6631; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003 n. 9683; Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390; Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650), ma non sostitutiva rispetto alla prova dell’apporto lavorativo effettivamente prestato, dal momento che la determinazione della partecipazione effettiva ai redditi dell’impresa, deve essere compiuta in relazione alla qualità e quantità del lavoro prestato in concreto nell’ambito dell’impresa stessa indipendentemente dalla predeterminazione compiuta a fini fiscali (Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959).
Inoltre il giudice non può disattendere il valore probatorio delle scritture formate ai fini fiscali, accertando l’insussistenza dell’impresa familiare, senza motivare adeguatamente sul carattere simulato dell’atto stesso (Cass. civ. Sez. lavoro, 5 settembre 2012, n. 14908; Cass. civ. Sez. lavoro, 20 giugno 2003, n. 9897; Cass. civ. Sez. lavoro, 4 agosto 1998, n. 7655).
Il significato pratico di queste affermazioni è ben spiegato in Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003 n. 9683 dove si legge che la predeterminazione delle quote di utili non è priva di effetti giuridici processuali in quanto può risultare idonea, in difetto di prova contraria, ad assolvere l’onere – a carico del partecipante, che agisca per ottenere la propria quota di utili dell’impresa familiare – di dimostrare non solo la fattispecie costitutiva dell’impresa stessa, ma anche la propria quota, appunto, di partecipazione a quegli utili. Resta, tuttavia, l’onere del familiare imprenditore – gravato dell’obbligo di corrispondere gli utili pretesi dal partecipante all’impresa familiare – di offrire la prova contraria, cioè di dimostrare – in contrasto con le presunzioni desumibili dalla esaminata predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili, l’esistenza di un rapporto giuridico diverso dalla dedotta impresa familiare (o, comunque, l’inesistenza della medesima) nonché, eventualmente, il diritto del partecipante ad una quota di utili inferiore – rispetto a quella risultante dalla citata predeterminazione – in dipendenza della minore quantità e/o qualità del lavoro effettivamente prestato.
La predeterminazione delle quote – e talvolta perfino la stessa costituzione dell’impresa familiare – sono simulate, al solo fine di poter usufruire delle possibilità dell’imputazione fiscale proporzionale prevista nelle norme tributarie. Di questo potrebbe volersi avvantaggiare il collaboratore familiare al quale quindi la giurisprudenza contrappone la linea interpretativa indicata prevedendo che il valore di quelle predeterminazioni è meramente indiziario nel senso che l’imprenditore è ammesso a provarne la non corrispondenza alla realtà.
D’altro lato, come si è visto, la costituzione dell’impresa familiare potrebbe avvenire attraverso un qualsiasi negozio giuridico (non riprodotto in un atto pubblico o una scrittura privata autenticata) o addirittura per il solo fatto che un imprenditore utilizza consapevolmente e volutamente l’apporto lavorativo di un familiare – come riconosce anche la giurisprudenza già indicata (Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003, n. 9683; Cass. civ. Sez. Unite, 4 gennaio 1995, n. 89; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650; Cass.civ., 23 novembre 1984, n. 6069) – e in questo caso è evidente che il familiare collaboratore potrà sempre provare liberamente l’esistenza dell’impresa familiare, il proprio apporto lavorativo e la propria pretesa creditoria (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2012, n. 433).
In proposito, come ebbe a chiarire una delle prime decisioni più significative sull’impresa familiare (Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650) “ad integrare la fattispecie dell’impresa familiare è sufficiente il fatto giuridico dell’esercizio continuativo di attività economica da parte di un gruppo familiare, non essendo a detto fine necessaria una dichiarazione di volontà, o, addirittura, un negozio giuridico; peraltro l’esistenza di un atto negoziale, che ribadisca o precisi la disciplina legale dell’impresa familiare, non esclude la configurabilità della medesima, ferma comunque la necessità di verificare se le clausole di tale atto (pur compatibili con la configurabilità dell’impresa familiare) siano o no in contrasto con norme imperative del cit. art. 230-bis, con la conseguenza, nel primo caso, della loro nullità e della loro sostituzione da parte delle norme imperative che ne risultino violate”.
Quindi – secondo questa pronuncia già lontana nel tempo ma sempre attuale – nemmeno nell’ipotesi in cui il titolare voglia far figurare un’impresa familiare a proprio uso e consumo, cioè costruita negozialmente con deroghe alla disciplina legale, sarà impedita l’applicazione delle disposizioni di garanzia previste nell’art. 230-bis del codice civile.
VII
La quota di utili attribuita al familiare
collaboratore costituisce reddito a fini fiscali?
Con una risoluzione del 28 aprile 2008 (n. 176/E) l’Agenzia delle Entrate, dopo aver ricordato che il legislatore con le disposizioni sull’impresa familiare ha voluto tutelare il lavoro e il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa del familiare collaboratore e che le norme di tutela si applicano allorché non sia configurabile un diverso rapporto tra imprenditore e familiare collaboratore, ha ribadito che la partecipazione del familiare ha rilevanza solo interna nei rapporti tra imprenditore e familiari collaboratori perché il fondamento dell’istituto va individuato nella solidarietà che deve legare i familiari e nell’esigenza di tutela e di valorizzazione del lavoro prestato dai collaboratori componenti della famiglia. In ragione di tutto ciò l’imprenditore attribuisce parte del suo reddito ai componenti della famiglia che collaborano con lui.
Ciò premesso ha escluso che il familiare collaboratore debba dichiarare fiscalmente le somme liquidate come proprio reddito e che l’imprenditore possa dedurre dal proprio reddito d’impresa la quota di utili che versa al collaboratore.
I diritti del collaboratori – ha ricordato l’Agenzia delle Entrate – non toccano la titolarità dell’azienda e secondo una interpretazione logico-sistematica, quindi, le somme corrisposte dall’imprenditore non sono collegabili all’esercizio della sua attività ma diretta a soddisfare esigenze estranee alle finalità e alla logica dell’impresa. In tale contesto, pertanto – conclude la circolare – la liquidazione al coniuge del diritto di partecipazione all’impresa familiare afferisce alla sfera personale dei soggetti del rapporto e non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste nel Testo unico delle imposte sui redditi e non va pertanto assoggettato ad IRPEF in capo al soggetto percipiente. Come ulteriore conseguenza discende che la somma in questione non rileva come componente negativa e non è deducibile dal reddito di impresa, non ricorrendo il requisito dell’inerenza previsto dall’articolo 109, comma 5, del Testo unico delle imposte sui redditi, che si configura per le spese riferite ad attività da cui derivano proventi che concorrono a formare il reddito.
Sempre in relazione agli aspetti fiscali dell’impresa familiare va messo in evidenza l’orientamento che appare sufficientemente pacifico secondo cui l’Irap (imposta regionale sulle attività produttive), afferendo essa non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, è dovuta anche dall’imprenditore familiare (nella specie: agente di commercio), mentre non sono soggetti all’imposta i familiari collaboratori cui viene imputato, a determinate condizioni e proporzionalmente alla rispettive quote di partecipazione, il reddito derivante dall’impresa familiare. (Cass. civ. Sez. VI, 24 novembre 2016, n. 24060; Cass. civ. Sez. VI, 17 giugno 2016, n. 12616; Cass. civ. Sez. V, 27 gennaio 2014, n. 1537; Cass. civ. Sez. V, 8 maggio 2013, n. 10777).
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI, 24 novembre 2016, n. 24060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’imprenditore familiare, non i familiari collaboratori, è anche soggetto passivo IRAP, in quanto detta imposta colpisce il valore della produzione netta dell’impresa, e la collaborazione dei partecipanti all’impresa familiare integra quel quid pluris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare (c.d. etero-organizzazione dell’esercente l’attività).
Cass. civ. Sez. lavoro, 6 settembre 2016, n. 17639 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di lavoro familiare, ai fini dell’individuazione del limite temporale del perdurare del diritto di prelazione e riscatto di cui al comma 5 dell’art. 230-bis c.c. deve aversi riguardo, in virtù del rinvio all’art. 732 c.c. al momento della liquidazione della quota, il quale coincide con il consolidarsi, alla cessazione del rapporto con l’impresa familiare, del diritto di credito del partecipe a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione, restando irrilevante la data del passaggio in giudicato della sentenza che su quel diritto ha statuito, in ragione del prodursi degli effetti della medesima alla data dello scioglimento del rapporto.
Cass. civ. Sez. VI, 17 giugno 2016, n. 12616 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’IRAP afferisce non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, sicché ne è soggetto passivo pure l’imprenditore familiare ma non anche i familiari collaboratori atteso che la collaborazione dei partecipanti integra quel “quid pluris” dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare ed è, quindi, sintomatica del relativo presupposto impositivo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2016, n. 5224 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare, la predeterminazione, ai sensi dell’art. 9 della l. n. 576 del 1975 e nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità, come è sufficiente ai fini fiscali, o di un negozio giuridico, può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere gli utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa familiare che dell’entità della propria quota di partecipazione ai proventi in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
La partecipazione agli utili per la collaborazione nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con essi, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che i proventi – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.
Trib. L’Aquila, 21 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il familiare partecipante all’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c. non può ritenersi titolare pro quota dell’impresa stessa, che, invece, appartiene solo al suo titolare, di talché in caso di alienazione dell’azienda non ha diritto ad una quota del ricavato dei proventi della vendita.
Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre2015, n. 24560 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’impresa familiare appartiene solo al suo titolare anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, a differenza dell’impresa collettiva che appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone. Nello schema dell’impresa di cui all’art. 230-bis c.c., gli utili non sono determinati in proporzione alla quota di partecipazione, ma alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, e, in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda all’acquisto di beni. Pertanto, l’esclusione di una società implica l’inesistenza di quote e utili da ripartire tra i pretesi soci.
La costituzione di un’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis c.c., presuppone che gli utili ricavati dall’attività siano reimpiegati nell’azienda o nell’acquisto di beni e non ripartiti tra i partecipanti, a meno che tra gli stessi non sia intercorsa una pattuizione che preveda una distribuzione periodica.
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552 (Foro It., 2016, 5, 1, 1840)
Posto che l’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria, essa non si può configurare nemmeno tra due coniugi di cui uno eserciti un’attività commerciale in qualità di socio di una società di persone, difettando la sua qualità di imprenditore, propria esclusivamente della società.
L’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria, essenzialmente per la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione, oltre che per il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio in conflitto con le regole imperative del sistema societario.
Trib. Bari Sez. lavoro, 24 settembre 2015 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
L’impresa familiare si ritiene abbia carattere individuale; infatti, scopo dell’istituto è quello di apprestare una tutela per il familiare che espleti la propria attività a favore di un altro familiare, individuati sia il primo che il secondo fra i soggetti specificati nel terzo comma dell’art. 230-bis c.c. Tale norma regola soltanto il rapporto obbligatorio fra familiare imprenditore e i familiari prestatori di lavoro (non necessariamente conviventi con il primo), ai quali compete il diritto di credito al mantenimento, da intendersi non solo nel senso dei mezzi indispensabili per il sostentamento, ma di mezzi in grado di assicurare un’esistenza libera e dignitosa, con riferimento alle condizioni patrimoniali della famiglia, e, per la parte eccedente, il diritto agli utili (o ai beni acquistati con essi) e agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2015, n. 7007 (Famiglia e Diritto, 2015, 12, 1080 nota di BARILLA’)
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., deve essere determinata sulla base sia degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella dell’apporto del singolo familiare, sia dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, considerato che gli stessi utili non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.
Trib. Modica, 10 marzo 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare, al familiare che partecipa con la propria attività lavorativa all’impresa, va riconosciuta sia la partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi, sia agli incrementi dell’azienda, dovendosi intendere per incremento di azienda ogni aumento di valore che non sia determinato dai beni acquistati con l’impiego degli utili. Tale diritto sorge solo al momento della cessazione dell’azienda o dell’attività lavorativa del singolo familiare, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Trib. Bari Sez. lavoro, 20 novembre 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine di dimostrare la partecipazione del coniuge o di uno stretto parente del titolare all’impresa familiare ex art. 230-bis del codice civile è necessario che gli stessi abbiano fornito un contributo all’organizzazione dell’impresa stessa mediante la prova sia di uno svolgimento di tipo continuativo ovvero non saltuario ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno, sia dell’accrescimento della produttività procurato dal lavoro del partecipante quale elemento indispensabile al fine di determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi.
Cass. civ. Sez. Unite, 6novembre 2014, n. 23676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’istituto dell’impresa familiare, di natura residuale rispetto ad ogni altro tipo di rapporto negoziale eventualmente configurabile, è incompatibile con la disciplina delle società di qualunque tipo. La relativa disciplina sussidiaria deve intendersi, dunque, recessiva, nel sistema delle tutele approntato, allorché non valga a riempire un vuoto normativo, stante la presenza di un rapporto tipizzato, dotato di regolamentazione compiuta ed autosufficiente. Nel contesto letterale della disposizione di riferimento, costituita dall’art. 230-bis c.c., mentre la scelta del legislatore di utilizzare costantemente il lemma impresa, di carattere oggettivo, significativo dell’attività economica organizzata, piuttosto che fare riferimento all’imprenditore come soggetto obbligato, resta di per sé neutra, ciò che si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione. Confliggente con regole imperative del sottosistema societario è, altresì, il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio, tale da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario nelle decisioni concernenti l’impego degli utili, degli incrementi, nonché la gestione societaria e gli indirizzi produttivi e financo la cessazione dell’impresa stessa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 settembre 2014, n. 19925 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’istituto dell’impresa familiare, per il carattere residuale emergente dall’”incipit” dell’art. 230-bis cod. civ., concerne l’apporto lavorativo all’impresa del congiunto che non rientri nell’archetipo del lavoro subordinato o per il quale non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione, sicché l’ipotesi del lavoro familiare gratuito resta confinata in un’area limitata. Pertanto, qualora un’attività lavorativa sia stata svolta nell’ambito dell’impresa, il giudice di merito deve valutare le risultanze di causa per distinguere tra lavoro subordinato e compartecipazione all’impresa familiare, escludendo, comunque, la gratuità della prestazione per solidarietà familiare. (Nella specie, applicando l’enunciato principio, la S.C. ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito che aveva dichiarato sussistere il rapporto di lavoro subordinato attesa la continuativa presenza della nuora, quale commessa, presso il negozio della suocera).
Cass. civ. Sez. V, 27 gennaio 2014, n. 1537 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di Irap, afferendo essa non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, ne è soggetto passivo anche l’imprenditore familiare (nella specie: agente di commercio), mentre non lo sono i familiari collaboratori – cui viene imputato, a determinate condizioni e proporzionalmente alla rispettive quote di partecipazione, il reddito derivante dall’impresa familiare.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 ottobre 2013, n. 22732 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’impresa familiare coltivatrice è una specie del più ampio genus dell’impresa familiare disciplinata dall’art. 230-bis c.c. Alla prima sono quindi applicabili i principi relativi alla seconda in quanto compatibili; essa si configura come un organismo collettivo formato dai familiari dei consorziati, il cui fine è l’esercizio in comune dell’impresa agricola. Dalla natura collettiva dell’impresa familiare discende che obbligati in relazione al credito per gli utili, se ed in quanto esistenti, spettanti a ciascuno dei familiari che abbia prestato la propria attività lavorativa nella famiglia, sono l’impresa familiare e gli altri familiari consorziati e di tale obbligazione essi ne rispondono con i beni comuni. Ne deriva che la domanda volta alla liquidazione della quota di partecipazione agli utili dell’impresa familiare coltivatrice, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro in essa prestato, deve rivolgersi nei confronti di costoro e non invece nei riguardi degli eredi del capofamiglia defunto.
Cass. civ. Sez. V, 8 maggio 2013, n. 10777 (Giur. It., 2013, 8-9, 1949 nota di FREGNI)
Le imprese familiari di cui all’art. 230-bis c.c. sono soggette all’imposta regionale sulle attività produttive, istituita con D. Lgs. n. 446 del 1997, alla quale, se non espressamente esentati, sono sottoposti tutti coloro che producono reddito di impresa, commerciale o agricola. Presupposto indefettibile del rilievo ai fini fiscali è la formalizzazione dell’impresa familiare anteriormente al periodo di imposta, attraverso la redazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, dal quale risultino nominativamente i familiari partecipanti, con la indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore.
I soggetti che producono reddito di impresa, commerciale od agricola, e quindi anche le imprese familiari, di cui all’art. 230-bis c.c., sono colpiti dall’imposta regionale sulle attività produttive, laddove non espressamente esentati; debitore è solo l’imprenditore familiare, non i familiari collaboratori.
App. Bologna Sez. lavoro, 21 marzo 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto agli utili dell’impresa familiare, previsto dall’art. 230-bis c.c., è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni. Di talché, la maturazione di siffatto diritto, da cui decorre la prescrizione ordinaria decennale, coincide, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 5 settembre 2012, n. 14908 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare la predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili – quantificata dalle parti nelle scritture private – può risultare idonea, in difetto di prova contraria, ad assolvere, mediante presunzioni, l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2012, n. 433 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il criterio dell’apporto incrementativo del partecipante alla produttività dell’azienda non serve per accertare gli utili bensì la quota di partecipazione allorquando non sia consensualmente preventivamente stabilita dalle parti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2011, n. 5448 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis cod. civ., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con gli utili, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che gli stessi utili – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20273 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema d’impresa familiare i crediti del lavoratore familiare al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e alla partecipazione agli utili dell’impresa familiare si prescrivono in dieci anni, giacché, in relazione ad essi, deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall’art. 2946 cod. civ.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2009, n. 16477 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto agli utili dell’impresa familiare, previsto dall’art. 230-bis cod. civ. è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati (salvo il caso di diverso accordo) non alla distribuzione tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni. Ne consegue che la maturazione di tale diritto – dalla quale decorre la prescrizione ordinaria decennale – coincide, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante.
Cass. civ. Sez. V, 15 settembre 2008, n. 23617 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 230-bis cod. civ. prevede che il familiare che collabora in modo continuativo nell’impresa familiare ha diritto, al momento della sua cessazione, a partecipare agli utili non ancora ripartiti ed agli incrementi di produttività dell’azienda (“beni acquistati” con gli utili ed “incrementi d’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2008, n. 20574 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 230-bis cod. civ. prevede che il familiare che collabora in modo continuativo nell’impresa familiare ha diritto, al momento della cessazione, a partecipare agli utili e agli incrementi di produttività dell’azienda (“beni acquistati” con gli utili ed “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato; ne consegue che, da un lato, per la determinazione della quota spettante non può essere utilizzato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività (che prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, a cui, invece, è commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare), mentre, dall’altro, quanto al criterio di ripartizione delle quote, le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell’impresa hanno una portata meramente indiziaria e non sostitutiva rispetto all’apporto lavorativo effettivamente prestato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto di partecipazione previsto dall’art. 230-bis cod. civ. (che ne prevede espressamente, tranne il caso di accordo per la distribuzione periodica degli utili, la liquidazione alla cessazione della prestazione di lavoro o in caso di alienazione dell’azien¬da) non rappresenta un vero e proprio compenso dotato del carattere di corrispettività, ma assume il carattere di un diritto qualificabile solo a posteriori, in quanto condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda; la destinazione naturale degli utili (in assenza di diverso accordo) non è la distribuzione tra i partecipanti, ma il loro reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni ai quali il familiare partecipa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 230-bis cod. civ., gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l’impresa, restando a carico del partecipante che agisce per il conseguimento della propria quota l’onere di provare la consistenza del patrimonio familiare e l’ammontare degli utili da distribuire (nella specie, la S.C. ha rilevato che la sentenza di merito aveva accertato, con adeguata istruttoria, che il mantenimento del partecipante – e dell’intera famiglia – era assicurato con redditi diversi da quelli provenienti dall’impresa familiare di rivendita di tabacchi e, in ispecie, dall’attività di idraulico svolta continuativamente e dai proventi di due immobili in comproprietà).
Dalla maturazione del diritto agli utili nell’impresa familiare decorrono altresì rivalutazione e interessi.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20 marzo 2007, n. 6631 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Agli effetti del riparto dei conferimenti all’impresa familiare assume valore indiziario, se non smentita da dati probatori difformi, la scrittura effettuata ai fini fiscali, ai sensi dell’art.9 della legge n. 576 del 1975, ricognitiva dell’apporto effettivo di ciascun partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 marzo 2006, n. 5632 (Fam. Pers. Succ., 2006, 12, 995 nota di STOPPIONI)
Le prestazioni lavorative tra conviventi “more uxorio” rientrano tra le prestazioni di cortesia gratuite e sfornite di valore contrattuale, fatta salva la prova di un contratto di lavoro subordinato o di un rapporto d’impresa familiare. L’art. 230-bis c.c. è applicabile, infatti, anche in presenza di una famiglia di fatto, che costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 gennaio 2005, n. 874 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Attesa la natura individuale dell’impresa familiare (configurabile come rapporto associativo di lavoro a rilevanza interna) il familiare titolare dell’impresa è l’unico soggetto passivo obbligato in relazione al diritto di credito spettante a ciascuno dei familiari che collaborano e il diritto del singolo prestatore di lavoro non è condizionato dall’analogo diritto che spetta agli altri familiari, in quanto esso è commisurato alla qualità e quantità del lavoro prestato.
Cass. civ. Sez. II, 29 novembre 2004, n. 22405 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima e, pertanto, l’art. 230-bis c.c. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta “di fatto”, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20 giugno 2003, n. 9897 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’impresa familiare, ove la ripartizione degli utili sia stata stabilita dalle parti con atto scritto, come richiesto dalla normativa fiscale in materia, il giudice non può disattendere il valore probatorio della scrittura, in difetto di prova della simulazione.
A differenza dell’impresa collettiva esercitata per mezzo di società semplice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone (art. 2251 segg. c.c.), l’impresa familiare di cui all’art. 230-bis cod. civ. appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno diritto ad una quota degli utili, e ciò anche nel caso in cui uno dei beni aziendali sia di proprietà di alcuno dei familiari; ne consegue che, mentre nel caso di società semplice con due soli soci, l’esclusione di uno di loro è pronunciata dal tribunale su istanza dell’altro (art. 2287, 3° comma, c.c.), il diritto potestativo di recedere dall’impresa familiare spettante al titolare, e quello eventuale di determinarne la cessazione, è esercitabile attraverso una semplice manifestazione di volontà, salvo il diritto degli altri familiari alla liquidazione della loro quota e, in caso di recesso privo di giustificazione, al risarcimento del danno.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003, n. 9683 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili dell’impresa familiare, oggetto di una mera dichiarazione di verità (come è sufficiente ai fini fiscali) o di un negozio giuridico (non incompatibile con la configurabilità dell’impresa familiare), può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione (in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato) agli utili dell’impresa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 1999, n. 11921 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto agli utili dell’impresa familiare, previsto dall’art. 230-bis c.c., è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati (salvo il caso di diverso accordo) non alla distribuzione tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni; la maturazione di tale diritto – dalla quale decorrono rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 429 cod. proc. civ., in relazione alla riconducibilità della collaborazione continuativa all’impresa familiare ad uno dei rapporti di cui all’art. 409 n. 3 cod. proc. civi. – coincide di regola, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 9 ottobre 1999, n. 11332 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione, nonché dell’accrescimento della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con gli utili, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, mentre non può essere utilizzato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, il cui ammontare prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, ai quali è invece commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare.
Cass. civ. Sez. lavoro, 6 marzo 1999, n. 1917 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c. i diritti dei collaboratori non toccano la titolarità dell’azienda e rilevano solo sul piano obbligatorio senza comportare alcuna modifica nella struttura dell’impresa facente capo al titolare della stessa, che solo ha la qualifica di imprenditore ed al quale spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro implicanti la subordinazione dei familiari che lo coadiuvano. Consegue, da una parte, che in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti non deve tenersi conto degli incrementi del capitale né delle spese del relativo ammortamento; d’altra parte, che nella quantificazione dell’apporto lavorativo il giudice del merito ben può differenziare quello dell’imprenditore, ove più gravoso per le maggiori responsabilità assunte, da quello del familiare che ha prestato la sua attività in posizione di subordinazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 agosto 1998, n. 7655 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con riferimento alla disciplina dell’impresa familiare, ove la ripartizione degli utili sia stata predeterminata tra le parti con atto scritto, come richiesto dalla normativa fiscale in materia il giudice non può disattendere il valore probatorio di tale scrittura, accertando l’insussistenza dell’impresa familiare, senza motivare adeguatamente sul carattere simulato dell’atto stesso.
Cass. civ. Sez. Unite, 4gennaio 1995, n. 89 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 230-bis c.c. la concreta collaborazione del partecipante all’impresa familiare – istituto la cui costituzione non può essere automatica, senza alcuna volontà degli interessati, ma al contrario, quando non avvenga mediante atto negoziale, deve sempre risultare da fatti concludenti, e cioè da atti volontari dai quali si possa desumere l’esistenza della fattispecie, ben potendo l’imprenditore rifiutare la partecipazione del familiare all’impresa, opponendosi all’esercizio di attività lavorativa nell’ambito di essa – se, in mancanza di accordi convenzionali, non può ridursi, nel caso del coniuge, all’adempimento dei doveri istituzionalmente connessi al matrimonio, non viene tuttavia meno qualora l’attività dallo stesso svolta, sebbene diretta, in via immediata, a soddisfare le esigenze domestiche e personali della famiglia, assuma rilievo nella gestione dell’impresa, in quanto funzionale ed essenziale all’attuazione di fini propri di produzione o di scambio di beni o di servizi. Infatti, se è vero che l’art. 230-bis c.c. considera titolo per partecipare a detta impresa la prestazione, in modo continuativo, dell’attività di lavoro nella famiglia, tuttavia, dovendosi tale attività tradurre (in proporzione alla quantità e qualità di lavoro prestato) in una quota di partecipazione agli utili ed agli incrementi dell’azienda, tale quota non può che essere determinata in relazione all’accrescimento della produttività dell’impresa, procurato dall’apporto dell’attività del partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 dicembre 1994, n. 10927 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In un rapporto lavorativo che si svolga nell’ambito della convivenza “more uxorio” è da escludere la ricorrenza di un rapporto di subordinazione onerosa, mentre è possibile inquadrare il rapporto stesso, in carenza di prove contrarie, nell’ipotesi della comunione tacita familiare come delineata dall’art. 230-bis c.c.
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 maggio 1994, n. 4204 (Giur. It., 1995, I,1, 844 nota di BALESTRA)
L’art. 230-bis c.c., che disciplina l’impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone come eccezione rispetto alle norme generali in tema di prestazioni lavorative ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica. Deve peraltro ritenersi manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230-bis nella parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio, posto che elemento saliente dell’impresa familiare è la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti, e che un’equiparazione fra coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390 (Dir. Famiglia, 1994, I, 106)
In relazione al disposto dell’art. 230-bis c. c., l’ipotesi di impresa familiare realizzata mediante la partecipazione del coniuge all’attività aziendale si differenzia dalla fattispecie dell’azienda coniugale prevista dall’art. 177, lett. d, c. c., in cui la collaborazione dei coniugi si attua con la gestione comune dell’impresa; ai fini di tale distinzione non ha alcuna rilevanza diretta il regime di comunione dei beni vigente tra i coniugi, che può spiegare effetti solo sul piano della tutela, ex art. 178 cod. civ., dei diritti sui beni destinati all’esercizio di impresa.
Al fine della determinazione delle somme spettanti, ai sensi dell’art. 230-bis c. c., a titolo di partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, non può essere utilizzato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, il cui ammontare prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, ai quali è invece commisurato il diritto di partecipazione del componente l’impresa familiare; nell’ambito dell’indagine diretta all’accertamento del diritto alla quota di utili, il giudice può liberamente apprezzare come elemento indiziario la dichiarazione relativa alla fissazione delle quote, redatta ai fini della imputazione del reddito a ciascuno dei partecipanti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione tributaria che ai fini esclusivamente fiscali limita nella misura del quarantanove per cento la possibilità di imputazione ai familiari compartecipanti dei redditi dell’impresa familiare, non ha alcuna rilevanza ai fini dell’accertamento in ordine alla sussistenza della impresa familiare prevista dall’art. 230-bis c. c. e alla determinazione della partecipazione effettiva ai redditi dell’impresa, che deve essere compiuta in relazione alla qualità e quantità del lavoro prestato in concreto nell’ambito dell’impresa stessa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare (art. 230-bis c. c.), la predeterminazione, nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili dell’impresa familiare, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità (come è sufficiente ai fini fiscali) o di un negozio giuridico (non incompatibile con la configurabilità dell’impresa familiare), può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione (in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato) agli utili dell’impresa, sul cui credito sono dovuti – con decorrenza dalla maturazione del diritto – interessi e rivalutazione monetaria ai sensi dell’art. 429, 3° comma, c. p. c.
Ad integrare la fattispecie dell’impresa familiare, prevista dall’art. 230-bis c. c., è sufficiente il fatto giuridico dell’esercizio continuativo di attività economica da parte di un gruppo familiare, non essendo a detto fine necessaria una dichiarazione di volontà, o, addirittura, un negozio giuridico (indispensabile, invece, per costituire – in relazione al carattere residuale del detto istituto – un rapporto giuridico diverso); peraltro, l’esistenza di un atto negoziale, che ribadisca o precisi la disciplina legale dell’impresa familiare, non esclude la configurabilità della medesima, ferma comunque la necessità di verificare se le clausole di tale atto (pur compatibili con la configurabilità dell’impresa familiare) siano o no in contrasto con norme imperative del cit. art. 230-bis, con la conseguenza, nel primo caso, della loro nullità e della loro sostituzione da parte delle norme imperative che ne risultino violate.
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 aprile 1992, n. 4057 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla quota di utili dell’impresa familiare (art. 230-bis c. c.) è autonomo rispetto al diritto al mantenimento del partecipante all’impresa medesima, ma il calcolo di essi va effettuato al netto (e non al lordo) delle spese di mantenimento, che gravano parimenti sul reddito di impresa.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1992, n. 4030 (Riv. Dir. Trib., 1992, II, 665 nota di BALDASSARI)
L’impresa familiare, così come disciplinata dall’art. 230-bis c. c. ha natura di impresa individuale, conseguentemente la qualifica di imprenditore spetta solamente al titolare della stessa non potendo essa essere attribuita anche ai collaboratori familiari.
Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 1990, n. 6559 (Nuova Giur. Civ., 1991, I, 67 nota di LUCCHINI)
Nell’ambito dell’istituto dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis, c. c., caratterizzato dall’assenza di un vincolo societario e dall’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona del capo (quale riconosciuto dai partecipanti in forza della sua anzianità e/o del suo maggiore apporto all’impresa stessa), vanno distinti un aspetto interno, costituito dal rapporto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun componente, ed un aspetto esterno, nel quale ha rilevanza la figura del familiare-imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente e solidalmente con i suoi beni personali, diversi da quelli comuni ed indivisi dell’intero gruppo, anch’essi oggetto della generica garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 cod. civ.; ne consegue che il fallimento di detto imprenditore non si estende automaticamente al semplice partecipante all’impresa familiare.
Corte cost. 6 luglio 1987, n. 251 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In relazione all’obiettiva diversità di situazioni, è legittimo il differente trattamento impositivo disposto nei confronti del coniuge convivente (detrazione fissa) e del coniuge separato (detrazione nella misura effettiva); mentre l’imputazione di una quota del reddito a ciascun componente del nucleo familiare, nel caso di impresa familiare, corrisponde sia alle responsabilità di ciascuno di essi sia al diverso rilievo dell’attività lavorativa prestata, che concorre proporzionalmente al conseguimento del profitto, diversamente dal lavoro casalingo, che influisce soltanto in via mediata sulla produzione del reddito. (Manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4 5, 10 e 15 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 dell’art. 23 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e della legge 2 dicembre 1975, n. 576, sollevate in riferimento agli articoli 3, 29, 30, 31, 35 comma 1 e 53 della costituzione).
Cass. civ. 23 novembre 1984, n. 6069 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis c. c. anche la collaborazione del coniuge, che si traduca in un’attività personale, continuativa e coordinata, pur senza vincolo di subordinazione, è riconducibile nell’ambito della previsione dell’articolo 409 cod. proc. civ., con la conseguenza che la domanda rivolta a far valere diritti patrimoniali derivanti da detta collaborazione spetta alla competenza per materia del pretore, in funzione di giudice del lavoro.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1992, n. 4030 (Giust. Civ., 1985, I, 18)
L’impresa familiare è una organizzazione familiare che non può prescindere da una cosciente volontà dei vari partecipi di farvi parte e si forma, per l’effetto, o per contratto o per facta concludentia.

Immobile in comodato adibito a casa familiare? No alla restituzione

Con la Ordinanza Interlocutoria della III sezione civile del 17 giugno 2013 n. 15113 la Corte di Cassazione tornava ad esprimersi sulla incerta relazione tra l’istituto del comodato ed il provvedimento del giudice della separazione relativo alla assegnazione della casa familiare ponendo, previa puntuale ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali degli ultimi anni, un argine ai precedenti giurisprudenziali della medesima Corte con la rimessione della questione alle Sezioni Unite.
Chiamate quindi nuovamente in causa le sezioni unite, con sentenza del 29 settembre 2014 n. 20448, preliminarmente sottolineano che “Alla sezione rimettente sembra opportuno che sia stabilito quando e come insorga il vincolo di destinazione a casa familiare; quale sia il momento di cessazione di esso; quale sia il regime di opponibilità e come sia connotata la posizione giuridica del coniuge dei figli del comodatario iniziale”
Il caso. La fattispecie riguarda il conflitto insorto tra il proprietario di un immobile – concesso in comodato al figlio perché vi abitasse con la famiglia – e la nuora. A seguito della intervenuta separazione fra i coniugi, la sentenza disponeva l’assegnazione della casa coniugale alla moglie affidataria del figlio minorenne.
Il fulcro della questione risiede sulle sorti del contratto di comodato concesso da un terzo ed il successivo provvedimento del giudice di assegnazione della casa coniugale.
Alle sezioni unite viene richiesto di contemperare interessi, entrambi meritevoli di tutela, del coniuge collocatario di figli minori o maggiorenni non autonomi economicamente ed il legittimo diritto di proprietà del comodante (un terzo estraneo alla famiglia sarebbe ancor più penalizzato).
Quanto alla natura del provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito questo costituisce, a vantaggio del coniuge assegnatario, un diritto di godimento di natura personale e non reale.
La principale suggestione di questa tesi, risiede nella natura non provvisoria e non incerta della destinazione dell’abitazione per le esigenze della famiglia, provvisorietà richiesta, invero per il recesso “ad nutum” da parte del comodante nei casi di comodato precario.
Le Sezione Unite con precedente orientamento del 21 luglio 2004 n. 13603 hanno tracciato un solco all’interno del quale la pronunce successive sono andate via via inserendosi, stabilendo che “quando un terzo (nella specie: il genitore di uno dei coniugi) abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento – pronunciato nel giudizio di separazione o di divorzio – di assegnazione in favore del coniuge (nella specie: la nuora del comodante) affidatario di figli minorenni o convivente con figlio maggiorenne non autosufficiente senza sua colpa, non modifica né la natura né il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, atteso che l’ordinamento non stabilisce una “funzionalizzazione assoluta” del diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti che
hanno radice nella solidarietà coniugale o postconiugale, con il conseguente ampliamento della posizione giuridica del coniuge assegnatario. Infatti, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa, idoneo ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto e a “concentrare” il godimento del bene in favore della persona dell’assegnatario, resta regolato dalla disciplina del comodato negli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della comunità domestica nella fase fisiologica della vita matrimoniale”.
Nel caso di comodato a termine, quindi, il proprietario dell’immobile ha diritto alla restituzione ex art. 1809, I comma, c.c., di converso, qualora il comodato sia convenzionalmente stabilito a tempo indeterminato “il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809, comma II, c.c”.
La sentenza in commento, in ipotesi di indeterminatezza, distingue la durata determinata dall’uso convenuto, dal contratto senza determinazione di durata.
La Corte di Cassazione nel 2014 – dopo dieci anni – ha opportunamente seguito le orme tracciate nel precedente arresto del 2004, invitando i giudici di merito “a valutare la sussistenza della pattuizione di un termine finale di godimento del bene, che potrebbe emergere dalle motivazioni espresse nel momento in cui è stato concesso il bene e che impedirebbe di protrarre oltre l’occupazione. In secondo luogo la concessione per destinazione a casa familiare implica una scrupolosa verifica delle intenzioni delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti”.
Emergeva nel 2004, rispetto ai precedenti giurisprudenziali, un nuovo passaggio logico-giuridico ed un ulteriore onere probatorio, nel senso che non sarà più il solo comodante a dover provare e motivare il sopravvenire di un urgente ed impreveduto bisogno, ma dovrà il comodatario, cui è stata assegnata la casa familiare, di contro, dimostrare che la pattuizione sottesa attribuisce un diritto personale di godimento che ha termine con la durata dell’uso stesso della cosa. Il costante orientamento di legittimità e di merito in base al quale i diritti dei minori comportano l’affievolimento di altri diritti (quali quello della proprietà) ovviamente non va mai sottovalutato nell’indagine del giudice di merito.
Tuttavia nell’esaminare le sopravvenienze urgenti e impreviste ai sensi dell’art. 1809 cod.civ. gli Ermellini hanno ricompresso anche l’ipotesi di un imprevisto peggioramento delle condizioni economiche del comodante, non necessariamente grave.
Infine la sentenza 20448/2014 richiama la novella del 2013 ed in particolare l’art. 337 bis e ss. Cod.civ. al fine di sostenere che “nella giurisprudenza di legittimità trova attuazione il disposto normativo circa la sopravvivenza od il dissolversi delle necessità familiari legittimanti l’assegnazione della casa familiare, e quindi il perdurare della fattispecie contrattualmente disegnata”.
In buona sostanza dopo dieci anni le Sezioni Unite si pronunciano nuovamente sulla opponibilità al comodante della casa familiare assegnata al coniuge collocatario dei figli minori o maggiorenni non autonomi economicamente, ripercorrendo il solco già tracciato dalla precedente sentenza della medesima corte n. 13603/2004, con le stesse finalità solidaristiche ed a tutela della famiglia e dei soggetti deboli.
Svolgimento del processo
1) V.G. con citazione del 1 dicembre 1999 ha agito nei confronti del proprio figlio C. e della di lui moglie Ve.Ma.Lu. per ottenere il rilascio dell’immobile concesso in comodato al figlio nel 1992, in occasione del matrimonio. La sola Ve. ha resistito, opponendo che in sede di separazione coniugale il 23 dicembre 1999 ella, quale affidatala del figlio P., nato nel (…), aveva ottenuto l’assegnazione della casa familiare; che pertanto aveva titolo per il godimento dell’immobile. La domanda è stata respinta dal tribunale di Nardo con sentenza 27 marzo 2003. La Corte di appello di Bari con sentenza 20 novembre 2006 ha rigettato il gravame interposto dal V. . Si è espressamente adeguata al precedente costituito da SU 13603/04 in tema di comodato di casa familiare, affermando la sussistenza nella specie dei presupposti fissati dalla giurisprudenza. L’attore ha proposto tempestivo ricorso per cassazione, notificato il 20 dicembre 2007 al difensore domiciliatario dell’appellata. La intimata non ha svolto attività difensiva. Con ordinanza n. 15113/13, la Terza Sezione, auspicando un ripensamento dell’orientamento giurisprudenziale affermatosi nel 2004, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, che ha assegnato la causa alle Sezioni Unite della Corte.
Motivi della decisione
2.1) Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.1809, 1810 cod. civ., 155 c.c. e vizi di motivazione. In via principale invoca i principi desumibili da Cass. 3179/07 e afferma che il comodato di immobile destinato a casa familiare, ove pattuito senza determinazione di tempo, comporta l’obbligo del comodatario di restituire il bene non appena il comodante lo richieda.
Deduce che nel caso regolato dalle Sezioni Unite del 2004 era configurabile un vincolo di destinazione dell’immobile alle esigenze abitative familiari, insussistente nel caso di specie, in cui le parti hanno convenuto la concessione in godimento dell’alloggio “quale sistemazione temporanea provvisoria e precaria per i giovani coniugi”. A tal fine rileva che trattasi di una villetta sita in zona di villeggiatura; che la convenuta era già a quel tempo comproprietaria di una residenza estiva della propria famiglia di origine posta nel medesimo comune; che attualmente la propria figlia, coniugata con tre bambini, risiede in altro alloggio concesso al ricorrente dallo Iacp, ente che avrebbe richiesto a qual titolo sussista tale occupazione da parte di famiglia non assegnataria. Lamenta che la Corte di appello non abbia valutato tali circostanze, pur rilevanti a suo avviso quale bisogno ex art. 1809 c.c., per ritenere sussistente un comodato precario. Con più “quesiti di diritto” formulati ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c, chiede alla Corte di stabilire che, in caso di comodato c.d. precario di abitazione destinata a casa familiare, il comodatario è tenuto al rilascio a semplice richiesta del comodante. In subordine, domanda alla Corte di Cassazione di ribadire che l’effettiva destinazione a casa familiare voluta dal comodante è desumibile solo da una specifica verifica in punto di fatto; che la verifica della comune intenzione delle parti sarebbe stata omessa; che nella specie il bene era stato concesso in godimento solo al fine di una temporanea sistemazione.
2.2) Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.1803, 1809, 1810 cod. civ. con riferimento agli artt. 147 e 155 c.c. e 42 Cost. e vizi di motivazione.
Parte ricorrente si duole che la sentenza impugnata abbia ravvisato un contratto con determinazione implicita del termine ex art. 1809 c.c., ancorando la scadenza al raggiungimento della indipendenza dei figli conviventi con l’assegnatario.
2.2.1) Sostiene che, tutt’al più, nel caso di specie la volontà delle parti era di condizionare la concessione in comodato al raggiungimento della condizione di autosufficienza economica dei coniugi, condizione ormai raggiunta dalla convenuta, o alla sopravvenuta necessità per il comodante di rientrare in possesso dell’immobile.
2.2.2) Far coincidere la scadenza del comodato con il raggiungimento della indipendenza dei figli del comodatario potrebbe comportare, secondo il ricorso, il rischio che la beneficiaria ostacoli le inclinazioni del figlio, per “conservare quanto è più possibile” la casa concessa in comodato.2.2.3) Con altri tre quesiti mira a far accertare quanto dedotto nei due sottoparagrafi precedenti e a far dichiarare che il comodato con scadenza coincidente con il raggiungimento della indipendenza economica dei figli conviventi con l’assegnatario viola il precetto costituzionale di “tutela della proprietà privata”.
2.3) Il terzo motivo lamenta violazione dell’art. 345 c.p.c. in relazione alla ammissibilità – negata dalla Corte territoriale – della deduzione in appello di una situazione di bisogno di natura familiare, sopravvenuta dopo la introduzione della causa.
3) La Terza Sezione si fa interprete di alcune osservazioni e suggestioni critiche che in sede dottrinale sono state esposte all’indomani di Cass. SU 13603/04 e che contrastano i commenti favorevoli al provvedimento.
Auspica la rimeditazione dell’orientamento adottato dalle Sezioni Unite nel 2004 e pone una serie di quesiti che trascendono la soluzione della vicenda processuale e mirano a una “sistemazione” dell’istituto.
Alla sezione rimettente sembra opportuno che sia stabilito quando e come insorga il vincolo di destinazione a casa familiare; quale sia il momento di cessazione di esso; quale sia il regime di opponibilità e come sia connotata la posizione giuridica del coniuge e dei figli del comodatario iniziale.
3.1) In particolare l’ordinanza critica la sentenza 13603/04 per avere affermato che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare “attribuisce un diritto personale di godimento, variamente segnato da tratti di atipicità”: tale affermazione sarebbe incongrua qualora riferita a una posizione giuridica di natura reale, preesistente in capo ad uno o a entrambi i coniugi.
Più pertinente è il rilievo secondo cui sarebbe stato stabilito che in caso di comodato pattuito a tempo indeterminato, il comodante sarebbe tenuto a consentire la continuazione del godimento fino al sopraggiungere di un bisogno ex art. 1809 c.c.. Ciò appare incongruo ai giudici rimettenti qualora il comodato sia stato pattuito in attesa di altra soluzione abitativa, eventualmente già in corso di predisposizione. E incertezze vengono palesate con riguardo al comodato precario concesso al figlio che, unendosi in matrimonio, destini successivamente l’alloggio a residenza della neo costituita famiglia.
3.2) Il cuore della critica risiede tuttavia nell’osservazione secondo la quale le Sezioni Unite del 2004 hanno determinato ciò che avevano detto di voler evitare, cioè una sostanziale espropriazione delle facoltà del comodante. Ciò deriverebbe dall’aver escluso la recedibilità ad nutum ex art. 1810 c.c., senza neppure distinguere a seconda che il proprietario sia genitore del beneficiario o un terzo estraneo.
A differenza del coniuge proprietario, tenuto a rispettare la solidarietà post coniugale in ragione della tutela costituzionale dell’istituto familiare, i terzi non dovrebbero essere costretti a subire una situazione “destinata a durare indefinitamente nel tempo”. Inoltre la soluzione prescelta giungerebbe a negare la configurabilità del precario di casa familiare, con l’effetto di “scoraggiare” il diffuso istituto del comodato quale soluzione ai problemi abitativi delle giovani coppie. E costituirebbe un modo per attribuire al coniuge assegnatario diritti poziori rispetto a quelli vantati dall’originario comodatario.
Viene quindi sollecitato un diverso contemperamento tra le contrapposte esigenze del concedente e del comodatario assegnatario della casa coniugale.
4) Nel precedente pronunciamento (Cass. civ., sez. un., 21-07-2004, n. 13603) è stato stabilito, come si legge nell’enunciazione finale del principio di diritto, che nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica la natura ed il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, ma determina una concentrazione, nella persona dell’assegnatario, di detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809 c.c..
A questo principio si è attenuta successivamente la giurisprudenza della Corte Suprema, la quale, muovendo dalle premesse fissate dalle Sezioni Unite, ha ribadito che la specificità della destinazione, impressa per effetto della concorde volontà delle parti, è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorietà e dall’incertezza, che caratterizzano il comodato cosiddetto precario, e che legittimano la cessazione “ad nu¬tum” del rapporto su iniziativa del comodante, con la conseguenza che questi, in caso di godimento concesso a tempo indeterminato, è tenuto a consentirne la continuazione anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno (3072/06; 13260/06; 16559/08 in Riv. not, 2008; Cass. 19939/08, in Foro it., 2008, I, 3552; Cass. 18619/10 in Giur. it., 2011, 1279; Cass. 4917/11 in Riv. giur. Ed., 2011, I, 890; Cass. 13592/11 in Contratti, 2011, 1103; Cass. 16769/12; 14177/12; v. anche implicitamente Cass. 9253/05).
È stato altresì riaffermato che il vincolo di destinazione appare idoneo a conferire all’uso, cui la cosa deve essere destinata, il carattere di elemento idoneo ad individuare il termine implicito della durata del rapporto, rientrando tale ipotesi nella previsione dell’art. 1809, primo comma, cod. civ.. Se ne è tratta la conseguenza che, una volta cessata la convivenza ed in mancanza di un provvedimento giudiziale di assegnazione del bene, questo deve essere restituito al comodante, essendo venuto meno lo scopo cui il contratto era finalizzato (Cass. 2103/12).
4.1) In contrasto, a quanto sembra inconsapevole, con l’orientamento invalso dal 2004, si è posta una sola pronuncia recente, Cass. 15986/10, la quale, senza nulla aggiungere, si è esplicitamente rifatta a un precedente del 1997 per sancire la irrilevanza della destinazione a casa familiare di un immobile, con relativa configurabilità di un comodato precario, soggetto a recesso ad nutum.
Non è invece in contrasto con l’orientamento delle Sezioni Unite Cass. 3179/07, invocata da parte ricorrente, perché, pur prestandosi ad un’equivoca interpretazione a causa della sua stringata motivazione, ha in sostanza ribadito i principi esposti dalle Sezioni Unite.
Nel caso del 2007, relativo ad immobile concesso in comodato da un’azienda al suo amministratore unico, il giudice di merito aveva ravvisato la stipulazione di un comodato precario. Aveva pertanto ordinato al comodatario il rilascio, appena richiesto dal comodante, senza tener conto “delle regole sull’assegnazione della casa coniugale a coniuge affidatario di figli minori”.
La Corte di Cassazione, pur conscia che il ed precario non è in linea di principio compatibile con la destinazione a casa familiare, ha confermato questa decisione, che si differenzia dal caso regolato dalle Sezioni Unite, e da quello odierno, perché l’indagine di merito aveva configurato un contratto stipulato tra le parti come contratto di comodato immobiliare senza determinazione di durata ai sensi dell’art. 1810 c.c. e non come contratto soggetto alla disciplina dell’art. 1809 c.c..
Ed infatti la sentenza del 2007 ha fatto espresso riferimento a SU 13603/04 e ha ripetuto che il provvedi-mento di assegnazione di un immobile destinato a casa familiare non modifica né la natura né il titolo di godimento dell’immobile.
4.1.1) Perché l’assegnatario possa opporre al comodante, che chieda il rilascio dell’immobile, l’esistenza di un provvedimento di assegnazione della casa familiare, è necessario che tra le parti (cioè almeno con uno dei coniugi, salva la concentrazione del rapporto in capo all’assegnatario, ancorché diverso) sia stato in precedenza costituito un contratto di comodato che abbia contemplato la destinazione del bene quale casa familiare senza altri limiti o pattuizioni.
In relazione a questa destinazione, se non sia stata fissata espressamente una data di scadenza, il termine è desumibile dall’uso per il quale la cosa è stata consegnata e quindi dalla destinazione a casa familiare, applicandosi in questo caso le regole che disciplinano questo istituto.
5) Si giunge così al nucleo della questione posta, da dirimere confermando la soluzione adottata a suo tempo, con le precisazioni che seguiranno.
Un’esigenza di puntualizzazione si pone in relazione alla individuazione del regime contrattuale.
A questo proposito si impone un primo chiarimento.
Tralasciando opinioni minoritarie, si può dire che il codice civile disciplina due “forme” del comodato, quello propriamente detto, regolato dagli artt. 1803 e 1809 e il c.d. precario, al quale si riferisce l’art. 1810 c.c., sotto la rubrica “comodato senza determinazione di durata”.
È solo nel caso di cui all’art. 1810 c.c., connotato dalla mancata pattuizione di un termine e dalla impossibilità di desumerlo dall’uso cui doveva essere destinata la cosa, che è consentito di richiedere ad nutum il rilascio al comodatario.
L’art. 1809 c.c. concerne invece il comodato sorto con la consegna della cosa per un tempo determinato o per un uso che consente di stabilire la scadenza contrattuale.
Esso è caratterizzato dalla facoltà del comodante di esigere la restituzione immediata solo in caso di sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno (art. 1809 c. 2 c.c.).
È a questo tipo contrattuale che va ricondotto il comodato di immobile che sia stato pattuito per la desti-nazione di esso a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario, da intendersi in tal caso “anche nelle sue potenzialità di espansione”.
Trattasi infatti di contratto sorto per un uso determinato e dunque, come è stato osservato, per un tempo determinabile per relationem, che può essere cioè individuato in considerazione della destinazione a casa familiare contrattualmente prevista, indipendentemente dall’insorgere di una crisi coniugale.
È grazie a questo inquadramento che risulta senza difficoltà applicabile il disposto dell’art. 1809 comma secondo, norma che riequilibra la posizione del comodante ed esclude distorsioni della disciplina negoziale.
5.1) Si può osservare che nella sentenza 13603/04, l’ipotesi di comodato di casa familiare è stata inquadrata nello “schema del comodato a termine indeterminato”. Questa definizione non riconduce però il rapporto negoziale qui descritto al contratto senza determinazione di durata, cioè al precario cui all’art. 1810 c.c., avendo essa riguardo alla configurazione di un termine non prefissato, ma desumibile dall’uso convenuto; ipotesi ben distinta da quella in cui le parti abbiano stabilito un termine finale di godimento del bene, come può accadere sia quando venga fissata una data di scadenza, sia, si deve ora aggiungere esemplificativamente, qualora il comodante abbia ceduto l’alloggio ad un comodatario (p. es. un figlio) stabilendo che possa abitarvi fino al matrimonio di altro figlio/a, o fino alla conclusione dei lavori di costruzione e restauro di casa di proprietà, o fino all’acquisto di un immobile analogo. In ogni caso, si disse, in cui il contratto prevede espressamente ed univocamente un termine finale, si configura senz’altro un contratto a tempo determinato.
5.1.1) È stata la dottrina, proprio in relazione al comodato di immobile ad uso abitativo, ad avvertire l’opportunità di descrivere un comodato “a tempo indeterminato”, ma lo ha subito riconosciuto concettualmente come diverso dal comodato senza determinazione di durata.
Sebbene inizialmente sia stato proposto di desumere la disciplina applicabile da quella di cui all’art. 1810 c.c., l’evolversi degli studi ha fatto maggiormente riflettere sul “comodato di lunga durata”, caratterizzato da una scadenza non predeterminata e non di rado volta a superare la stessa vita del comodante, con il sopravvenire per via ereditaria del diritto di proprietà in capo al titolare del diritto di godimento attribuito gratuitamente al congiunto. A questo comodato, chiaramente connesso con le finalità solidaristiche che sono state tratteggiate dall’intervento del 2004 delle Sezioni Unite, mal si attaglia la natura instabile della situazione negoziale di cui all’art. 1810 c.c.. Ed è invece implicita nella previsione di destinazione dell’immobile ad abitazione familiare la determinazione della durata della concessione, che va rapportata a tale uso, come colto da Cass. 2627/06, postasi lucidamente nella sequela di Cass. 13603/04.
Dunque l’espressione contenuta nella sentenza del 2004, nata dall’obbiettiva difficoltà di descrivere un comodato a durata indefinita e comunque non determinata con scadenza fissa, ancorché determinabile per relationem, va intesa nel senso di ricondurre la fattispecie al contratto in cui il termine risulta dall’uso cui la cosa è stata destinata.
Restano così non accoglibili i suggerimenti dottrinali, pur indiscutibilmente utili alla riflessione, volti a mitigare con l’utilizzo dell’art. 1183 c.c. comma secondo la eventuale applicabilità al comodato di lunga durata della disciplina del precario.
Sono per opposto verso non condivisibili quelle voci che auspicano una ancora maggiore tutela dei soggetti deboli, attraverso la configurazione di un contratto atipico di scopo che imponga al comodante di rispettare la destinazione a casa familiare indipendentemente dalle circostanze sopravvenute.
6) L’inquadramento qui precisato offre il destro per ribadire che le preoccupazioni dell’ordinanza di rimessione possono essere superate con una attenta lettura e una prudente applicazione della sentenza del 2004.
Quest’ultima, prevenendo le obiezioni, ha esplicitato che non intendeva affermare che, ogniqualvolta un immobile venga concesso in comodato con destinazione abitativa, si debba immancabilmente riconoscergli durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario, ancorché disgregata.
Ha infatti in primo luogo (si veda pag. 11) invitato i giudici di merito a valutare la sussistenza della pattuizione di un termine finale di godimento del bene, che potrebbe emergere dalle motivazioni espresse nel momento in cui è stato concesso il bene e che impedirebbe di protrarre oltre l’occupazione. In secondo luogo ha precisato che la concessione per destinazione a casa familiare implica una scrupolosa verifica della intenzione delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti.
Ciò significa che il comodatario, o il coniuge separato con cui sia convivente la prole minorenne o non autosufficiente, che opponga alla richiesta di rilascio la esistenza di un comodato di casa familiare con scadenza non prefissata, ha l’onere di provare, anche mediante le inferenze probatorie desumibili da ogni utile fatto secondario allegato e dimostrato, che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento.
La prova potrebbe risultare più difficile qualora la concessione sia avvenuta in favore di comodatario non coniugato né prossimo alle nozze, dovendosi in tal caso dimostrare che dopo l’insorgere della nuova situazione familiare il comodato sia stato confermato e mantenuto per soddisfare gli accresciuti bisogni connessi all’uso familiare e non solo personale. Trattasi sempre di un mero problema di prova, risolvibile grazie al prudente apprezzamento del giudice di merito in relazione agli elementi (epoca dell’insorgenza della nuova situazione, comportamenti e dichiarazioni delle parti, rapporti intrattenuti, tempo trascorso etc.) che sono sottoponili al suo giudizio. Spetta invece a chi invoca la cessazione del comodato per il raggiungimento del termine prefissato, dimostrare il relativo presupposto.
6.1) Se così è, risulta vano prospettare l’iniquità di uno sviluppo contrattuale che è stato voluto dalle parti. Né si potrà dire, come sembra sotteso anche nel ricorso e nella memoria conclusiva, che il comodante intende sempre che la concessione in comodato è precaria e soggetta a risoluzione ad nutum.
Si è visto prima che un comodato immobiliare precario o a termine più breve può, in relazione ai rapporti tra le parti e alle finalità (rapporti di lavoro, solidarietà emergenziale) essere configurabile.
Non di questo si discute qui, ma della ipotesi in cui il comodante concede al figlio, o a persona che egli in-tende beneficiare, un’abitazione da destinare a casa familiare, senza porre in alcun modo limiti temporali.
Ed in questi casi, al di là delle nozioni giuridiche possedute dal comodante, di cui tuttavia vanno indagate le intenzioni obbietti va mente risultanti, rilevano la innegabile stabilità della destinazione abitativa, la finalità solidaristica che fa venire in risalto i bisogni della prole del comodatario, in definitiva la stessa causa del negozio, che è quella di attribuire il godimento di un bene, cioè di realizzare l’interesse del comodatario.
6.1.1) È stato scritto che questo interesse permea e orienta il rapporto contrattuale di comodato. Questa affermazione si concretizza nell’assecondare la attuazione dell’iniziale programma negoziale e non nell’interpretare l’istituto al fine di facilitare reazioni ritorsive alle vicende esistenziali del beneficiario.
È comprensibile che la novità recata dalla parziale dissoluzione del nucleo familiare (che nella sua composizione residua continua ad occupare l’abitazione familiare, mantenendone la destinazione) porti ad inter-rogarsi sulla ragionevolezza del permanere della destinazione, nonostante l’intendimento sopravvenuto di ritrattare la concessione.
La risposta, per tutte le ragioni manifestate qui e da SU 13603/04, non può che essere nel segno di rispettare il potere di disposizione del bene, quale esercitato al sorgere del contratto. Se il contratto ancorava la durata del comodato alla famiglia del comodatario, corrisponde a diritto che esso perduri fino al venir meno delle esigenze della famiglia.
È negli articoli 337 bis e segg. del codice civile (dopo la modifica di cui D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154; già art. 155 e segg. c.c.) e nella giurisprudenza di legittimità che trova attuazione il disposto normativo circa la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari legittimanti l’assegnazione della casa familiare e quindi il perdurare della fattispecie contrattualmente disegnata.
È appena il caso di rilevare che la questione relativa ai limiti di opponibilità del comodato al terzo acquirente, sulla quale l’ordinanza di rimessione sollecita un intervento delle Sezioni Unite, è del tutto estranea al tema del decidere (cfr sub 3.1. primo capoverso).
6.1.2) Giova a questo punto precisare che proprio la giurisprudenza conduce ad escludere, al contrario di quanto ventilato in ricorso, che trovino immeritata tutela di comportamenti ostruzionistici dei beneficiari dell’alloggio, finalizzati a protrarre indebitamente il godimento della casa familiare.
Proprio recentissimamente la Prima Sezione della Corte ha avuto modo di riepilogare efficacemente(Cass. 18076/14) i principi che si sono andati affermando circa i limiti dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne.
Questi, è stato osservato, in forza dei doveri di autoresponsabilità che su di lui incombono, non può pretendere la protrazione dell’obbligo oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, perché “l’obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione”.
6.2) Su altro versante la soluzione prescelta da Cass. 13603/04 è da confermare, richiamando all’attenzione la portata della facoltà di recedere ex art. 1809 capoverso c.c., forse sin qui non ben compresa.
Si è detto che l’opportunità di cui al 1809 c.c. è stata evocata dalle Sezioni Unite per conseguire un compromesso tra opposte tesi, ma non è così.
Si tratta invece di piana applicazione del tipo contrattuale al quale è stato ricondotto il comodato di casa familiare, riconosciuto estraneo al “precario” ex art. 1810 e invece disciplinato dall’art. 1809 cod. civ..
Questa disposizione rivela che il comodato a tempo determinato, soprattutto se con le connotazioni della lunga durata di cui ci si è occupati supra, nasce nella convinzione della piena stabilità del rapporto, anche tenendo conto della possibilità di risolverlo motivatamente in caso di bisogno. Questa eventualità è una componente intrinseca del tipo contrattuale e costituisce insieme espressione di un potere e di un limite del comodante, da questi accettato nel momento in cui concede il bene per un uso potenzialmente di lunghissima durata e di fondamentale importanza per il beneficiario. Con l’implicazione che il comodante, contrariamente a quanto ipotizzato da una risalente dottrina, ritiene di poter rispettare il contratto per tutto il tempo di durata prevedibile.
A fronte di questa scelta, che fa ritenere che il comodante non prevedesse di volere o dovere alienare il bene, non può trovare tutela la sua intenzione, verosimilmente ritorsiva, di rimuovere l’occupante rimastone beneficiario. Trova invece tutela il sopravvenire di un urgente e impreveduto bisogno.
La giurisprudenza, significativamente, non ha dovuto occuparsi spesso di questa disposizione. Si conviene generalmente tuttavia, in dottrina e nei precedenti noti (Cass. 1132/87; 2502/63), che la portata di questo bisogno non deve essere grave, dovendo essere solo imprevisto, quindi sopravvenuto rispetto al momento della stipula, e urgente.
L’urgenza è qui da intendersi come imminenza, restando quindi esclusa la rilevanza di un bisogno non attuale, non concreto, ma soltanto astrattamente ipotizzabile. Ovviamente il bisogno deve essere serio, non voluttuario, né capriccioso o artificiosamente indotto.
Pertanto non solo la necessità di uso diretto, ma anche il sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione economica, che obbiettivamente giustifichi la restituzione del bene anche ai fini della vendita o di una redditizia locazione del bene immobile, consente di porre fine al comodato anche se la destinazione sia quella di casa familiare.
È da notare soltanto che, essendo in gioco valori della persona, ed in particolare le esigenze di tutela della prole, questa destinazione, con più intensità di ogni altra, giustifica massima attenzione in quel controllo di proporzionalità e adeguatezza, sempre dovuto in materia contrattuale, che il giudice deve compiere quando valuta il bisogno fatto valere con la domanda di restituzione e lo compara al contrapposto interesse del comodatario.
7) Alla luce dei principi che sono stati qui puntualizzati il ricorso non merita accoglimento.
I quesiti e te censure motivazionali esposti con il primo motivo sono infatti resistiti dal coerente e logico accertamento reso dalla Corte di appello.
Essa ha ravvisato la concessione del godimento del bene “nella specifica prospettiva della sua utilizzazione quale casa familiare”. Ha congruamente giustificato questa ricostruzione sulla base della stessa prospetta-zione contenuta in citazione, che ha riconnesso la concessione in comodato al matrimonio del figlio e dunque alle esigenze del nucleo familiare in formazione.
Le deduzioni contrapposte in ricorso per tratteggiare una concessione temporanea e provvisoria sono rimaste mere contrapposizioni di una diversa lettura della vicenda negoziale, non essendo state indicate in ricorso risultanze trascurate o malvalutate dai giudici di merito che giustifichino la censura.
È anzi da notare che in sentenza risulta la lunga durata del comodato già al momento della crisi coniugale, manifestatasi con ricorso per separazione del 1999, sette anni dopo la celebrazione del matrimonio (ottobre 1992).
7.1) Altrettanto deve dirsi con riguardo al secondo profilo del secondo motivo di ricorso (sesto quesito) che postula, senza offrire elementi decisivi idonei a ribaltare la decisione di appello, che la scadenza del comodato di casa familiare sia stata fissata dalle parti al raggiungimento della indipendenza ed autonomia dei comodatari.
7.2) Le argomentazioni esposte nella parte generale della motivazione valgono a smentire il secondo motivo nella parte in cui deduce che costituirebbe una espropriazione delle facoltà del proprietario far coincidere la fine del comodato di casa familiare con il termine implicito costituito dal raggiungimento dell’indipendenza economica dei figli del comodatario separato e con lui conviventi. E sono state già smentite anche le censure portate alla tesi sancita dalle Sezioni Unite prefigurando che possano essere per tal via favoriti comportamenti ostruzionistici, volti a impedire che il figlio della coppia si renda autonomo e autosufficiente.
7.3) Quanto al terzo motivo, appare ineccepibile la decisione della Corte di appello, che ha dichiarato inammissibile la domanda nuova formulata “con le memorie depositate in sede di giudizio di appello”. Alla richiesta di rilascio del bene in relazione alla cessazione del comodato, è stata infatti sostituita tardivamente la pretesa di rilascio ex art. 1809 comma secondo c.c., che si fonda su presupposti di fatto e di diritto completamente diversi.
8) Il ricorso è rigettato. Non v’è luogo per pronunciare sulle spese, atteso che l’intimata occupante l’immobile, unica oppostasi alla domanda, non ha svolto in questa sede attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere generalità ed atti identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03, in quanto imposto dalla legge.

Nel processo di separazione non è utilizzabile materiale probatorio raccolto illecitamente

Nel giudizio di separazione giudiziale dei coniugi è infondata la doglianza sollevata innanzi al S.C. relativamente all’asserita violazione dell’art. 2712 c.c. per non aver acquisito, il giudice di merito, come materiale probatorio, alcuni file audio di proprietà della controparte, provanti il condizionamento esercitato da quest’ultima sui figli. Al riguardo trova applicazione, infatti, il principio dell’inutilizzabilità del materiale probatorio raccolto illecitamente, mediante sottrazione fraudolenta all’altra parte processuale che ne era in possesso.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAGONESI Vittorio – Presidente –
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –
Dott. BISOGNI Giacinto – rel. Consigliere –
Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso proposto da:
V.A.B.A.L., elettivamente domiciliata in Roma, via Celimontana 38, presso lo studio dell’avv. Paolo Panariti, dal quale è rappresentata e difesa unitamente all’avv. Barbara Vittiman giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
nei confronti di:
G.R., elettivamente domiciliato in Roma, viale delle Milizie 114, presso lo studio dell’avv. Luigi Parenti, dal quale è rappresentato e difeso unitamente all’avv. Sibilla Santoni, giusta procura speciale a margine del controricorso che dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 06/3728993 e alla p.e.c. luigiparenti(at)ordineavvocatiroma.org;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 183/2014 della Corte di appello di Firenze, emessa il 17 gennaio 2014 e depositata il 30 gennaio 2014, n. R.G. 1321/2013;
Rilevato che in data 12 maggio 2016 è stata depositata relazione ex art. 380 bis c.p.c. che qui si riporta.
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Pistoia, con sentenza del 12/19 marzo 2013, decideva in via definitiva il giudizio tra G.R. e V.A.B.A.L. e respingeva le reciproche domande di addebito della separazione, disponeva l’affido condiviso della prole con domiciliazione prevalente presso il padre, disponeva incontri protetti tra la madre e i figli N. e C., regolava gli incontri tra la madre e il figlio U., poneva a carico del marito e in favore della moglie un assegno mensile di mantenimento di Euro 1.800,00.
2. Ricorreva in appello G.R. e chiedeva l’affidamento esclusivo dei figli, la disposizione di incontri protetti della madre con i tre figli, una volta ogni due settimane, e l’addebito della separazione alla signora V.A..
3. V.A.B.A.L. proponeva a sua volta appello incidentale e faceva istanza alla Corte territoriale affinchè addebitasse la separazione al marito, affidasse i tre figli al Servizio Sociale con collocamento in luogo diverso dalla dimora di entrambi i genitori e ponesse a carico del marito un assegno di Euro 3.000,00 in suo favore.
4. La Corte d’appello di Firenze respingeva entrambe le domande di addebito, disponeva l’affidamento esclusivo dei figli al padre, disponeva incontri protetti madre-figli e confermava nel resto l’impugnata sentenza.
5. Ricorre per Cassazione V.A.B. con tre motivi di impugnazione:
a) omessa motivazione circa un fatto decisivo del processo violazione dell’art. 2712 c.c. – insufficiente e contraddittoria motivazione – violazione dell’art. 345 c.p.c.. La ricorrente ritiene che la Corte abbia violato l’art. 2712 c.c. per non aver acquisito come materiale probatorio alcuni file audio, di proprietà del signor G. e pervenuti in forma anonima alla ricorrente, che contenevano la prova dei condizionamenti che il signor G. esercita sui figli. Lamenta inoltre la ricorrente che la Corte di appello ha valutato e basato la propria decisione sulla relazione della dottoressa P. acquisita irritualmente agli atti e quindi inutilizzabile nel processo.
b) violazione dell’art. 155 c.c. – contraddittorietà della motivazione. La ricorrente ritiene che li Giudice d’appello, nel derogare al regime ordinario di affidamento condiviso della prole, avrebbe dovuto fornire una motivazione più corposa e convincente.
c) violazione dell’art. 155 c.c., comma 6 insufficienza di motivazione. La ricorrente censura la Corte territo-riale per non aver valutato gli elementi di prova relativi al maggior reddito del signor G. e per aver respinto il suo appello incidentale, motivando solamente che non vi era prova che i redditi del G. fossero diversi e maggiori di quelli documentati.
6. G.R. si difende con controricorso e propone a sua volta ricorso incidentale basato su un unico motivo: omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Lamenta il ricorrente incidentale l’omessa valutazione dei comportamenti gravemente aggressivi della V.A. che avrebbero dovuto indurre la Corte di appello ad accogliere la domanda di addebito proposta nei suoi confronti.
Motivi della decisione
7. I motivi del ricorso principale appaiono inammissibili perchè incompatibili con il nuovo disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Anche relativamente alle dedotte violazioni di legge deve rilevarsi come in realtà le censure si sostanziano in una richiesta di nuova valutazione in ordine al merito della causa. Quanto alla lamentata non utilizzazione dei files audio con relativa traduzione giurata, già di “proprietà” del G. e a lui sottratti e inviati anonimamente al difensore della V.A., va rilevata la implicita motivazione della Corte di appello con riferimento a quanto già affermato dalla sentenza di primo grado in tema di inutilizzabilità del materiale probatorio raccolto illecitamente e con riferimento altresì alla irrilevanza delle conversazioni fra i coniugi nel contesto delle acquisizioni probatorie di cui la Corte distrettuale ha potuto disporre al fine di decidere sul regime di affidamento dei figli. Per altro verso non sembra fondato l’assunto della ricorrente circa la utilizzabilità in un giudizio civile, e a differenza del giudizio penale, del materiale probatorio acquisito mediante sottrazione fraudolenta alla parte processuale che ne era in possesso. Quanto alla utilizzabilità della consulenza P. la Corte di appello ha rilevato che la relazione P. è stata allegata a quella dei Servizi Sociali e come tale era comunque acquisibile alla valutazione del giudice ai fini di una decisione connotata dal rilievo pubblicistico perchè diretta alla realizzazione della miglior tutela nel superiore interesse dei minori coinvolto nella controversia.
8. Anche il ricorso incidentale è inammissibile perchè non conforme ai requisiti richiesti dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Il ricorrente incidentale lamenta un’omessa valutazione del tutto insussistente perchè la Corte di appello ha chiaramente affermato l’irrilevanza del fatti successivi all’(OMISSIS) quando ormai la crisi matrimoniale e la decisione di richiedere la separazione era definitivamente maturata e ha rilevato la mancata deduzione di fatti anteriori a tale periodo.
9. Sussistono pertanto i presupposti per la trattazione della controversia in camera di consiglio e se l’impostazione della presente relazione verrà condivisa dal Collegio per la dichiarazione di inammissibilità, o eventualmente il rigetto, di entrambi i ricorsi.
La Corte, lette le memorie difensive depositate dalle parti che non apportano ulteriori elementi di valutazione;
ritenuta condivisibile la relazione sopra riportata e pertanto ritiene che i ricorsi debbano essere respinti con compensazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Gli accordi preventivi aventi ad oggetto l’assegno di divorzio sono nulli

Svolgimento del processo
1 – Con sentenza depositata in data 13 dicembre 2013 il Tribunale di Milano dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dai signori S.G. e V.P.E.E. , ponendo a carico del primo un assegno divorzile di Euro 3.300,00, oltre al pagamento, nella misura del 75 per cento, del mutuo contratto per l’acquisto della casa coniugale di via Donizetti; dichiarava altresì lo S. tenuto al mantenimento diretto del figlio A. , nato il (omissis) e a versare alla ex moglie, a titolo di contributo per il mantenimento del figlio C.M. , un assegno di Euro 4.100 mensili, oltre al 50 per cento delle spese sanitarie, scolastiche, sportive e formative.
1.1. La corte di appello di Milano, con la sentenza indicata in epigrafe, ha revocato l’assegno disposto in favore della V. ed ha dato atto del conseguimento dell’autosufficienza sul piano economico del figlio A. , che vive e lavora a in California; ha ridotto il contributo per il mantenimento di C.M. ad Euro 1.500,00 mensili.
1.2. Quanto all’assegno in favore della V. , la Corte distrettuale ha preso le mosse dalla sentenza di separazione intervenuta fra le parti in data 18 aprile 2012, successivamente passata in giudicato, nella quale si dava atto del tenore di vita mantenuto in costanza di matrimonio, con conseguente rigetto delle istanze istruttorie avanzate dalla V. (la quale, in sede di gravame aveva chiesto l’elevazione dell’assegno ad Euro 7.000,00).
1.2.1. Richiamata la natura assistenziale dell’assegno di divorzio, nonché i principi affermati dalla Corte costituzionale nella decisione n. 11 del 2015, la corte di appello ha osservato che in considerazione dei criteri indicati dall’art. 5 della l. n. 898 del 1970, che fungono da elementi di moderazione dell’assegno spettante all’ex coniuge, tali aspetti, complessivamente considerati, conducevano ad accogliere il gravame proposto in via incidentale dallo S. e, quindi a revocare l’assegno.
1.2.2. E stato in particolare osservato che, tenuto conto della durata del matrimonio, della capacità patrimoniale dei coniugi, nonché del contributo personale della V. , alla stessa avrebbe dovuto attribuirsi un assegno pari ad Euro 2.000,00 mensili. Sennonché doveva rilevarsi che, come risultava dalla sentenza di separazione, lo S. aveva versato alla moglie nell’anno 2006 la somma di Euro 1.934.922, ragion per cui doveva ritenersi che in tal modo il predetto avesse inteso corrispondere alla stessa “quanto le sarebbe spettato per assegno di mantenimento ed assegno divorzile”, dovendosi considerare che il predetto importo, per la sua rilevanza, assorbiva, per almeno vent’anni, persino la richiesta di un assegno divorzile pari ad Euro 7.000,00 mensili.
1.3. Quanto al figlio C.M. , si è dato atto che lo stesso aveva abbandonato gli studi universitari e si era messo alla ricerca di un lavoro: a tale carenza di indipendenza sul piano economico doveva corrispondere un contributo pari ad Euro 1.500,00 mensili, determinato sulla base della retribuzione media di un laureato al primo impiego.
1.4. Per la cassazione di tale decisione la signora V. propone ricorso, affidato a sette motivi, cui lo S. resiste con controricorso, illustrato da memoria.
Motivi della decisione
2. Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per non aver la corte distrettuale, ritenendo erroneamente sussistente detto esame precluso dall’omessa impugnazione della sentenza relativa alla separazione personale dei coniugi, pronunciato in merito alla domanda di assegno divorzile.
3. Con il secondo mezzo si denuncia la violazione dell’art. 156 cod. civ. e dell’art. 5 della l. n. 865 del 1970, per aver ritenuto provato l’atto di disposizione compiuto durante il matrimonio, e, comunque, per avergli attribuito la valenza di corresponsione “una tantum” non solo dell’assegno di separazione, ma anche di quello divorzile.
4. La terza censura ripropone il tema della ritenuta abnormità del valore attribuito alla suddetta dazione – il cui accertamento, in presenza delle contestazioni della signora V. , non sarebbe state nemmeno effettuato – senza considerare che, al di là della diversità dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato rispetto a quello divorzile, la stessa sentenza di separazione passata in giudicato in data 30 agosto 2012 aveva posto a carico del sig. S. , per il mantenimento della moglie, un assegno di 3.000,00 Euro, oltre al pagamento, nella misura del 75 per cento del mutuo relativo all’immobile di via (omissis).
5. Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 345 cod. proc. civ., per aver la Corte escluso la produzione di documenti risalenti all’anno 2010, non estendendosi il divieto alle prove costituende e non essendosi formulato alcun motivato giudizio circa la loro irrilevanza.
6. Il quinto mezzo attiene al vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, concernente la disponibilità in capo all’intimato di somme rilevanti su conti bancari all’estero.
7. Con la sesta censura si denuncia la violazione dell’art. 155 cod. proc. civ., con particolare riferimento al criterio della proporzionalità, in relazione alla determinazione dell’assegno in favore del figlio C. .
8. L’ultimo motivo riguarda la revoca dell’assegno già disposto in favore del figlio A. , con statuizione in relazione alla quale si sarebbe formato il giudicato.
9. I primi tre motivi, per la loro intima correlazione, possono essere esaminati congiuntamente. Essi risultano fondati, in quanto le giustificazioni di natura giuridica poste alla base dell’esclusione dell’assegno in favore della ricorrente, interpolate da considerazioni di ordine fattuale non sussunte e non sussumibili in un valido quadro normativo di riferimento, si pongono in contrasto con i principi costantemente affermati da questa Corte in materia di assegno in favore del coniuge divorziato.
9.1. Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, l’accertamento del diritto all’assegno divorzile deve essere effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, mentre la liquidazione in concreto dell’assegno, ove sia riconosciuto tale diritto per non essere il coniuge richiedente in grado di mantenere con i propri mezzi detto tenore di vita, va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 1, 15 maggio 2013, n. 11686; 12 luglio 2007, n. 15611).
Nell’ambito di questo duplice apprezzamento, occorre avere riguardo non soltanto ai redditi ed alle sostanze del richiedente, ma anche a quelli dell’obbligato, i quali assumono rilievo determinante sia ai fini dell’accertamento del livello economico-sociale del nucleo familiare, sia ai fini del necessario riscontro in ordine all’effettivo deterioramento della situazione economica del richiedente in conseguenza dello scioglimento del vincolo.
Per poter determinare lo standard di vita mantenuto dalla famiglia in costanza di matrimonio, occorre infatti conoscerne con ragionevole approssimazione le condizioni economiche, dipendenti dal complesso delle risorse reddituali e patrimoniali di cui ciascuno dei coniugi poteva disporre e di quelle da entrambi effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e familiari, mentre per poter valutare la misura in cui il venir meno dell’unità familiare ha inciso sulla posizione del richiedente è necessario porre a confronto le rispettive potenzialità economiche, intese non solo come disponibilità attuali di beni ed introiti, ma anche come attitudini a procurarsene in grado ulteriore (cfr. Cass., Sez. 1, 12 luglio 2007, n. 15610; 28 febbraio 2007, n. 4764).
9.2 – In tale contesto, in cui assume rilievo centrale la nozione di “adeguatezza” (sulla quale crf. Cass., 4 ottobre 2010, n. 20582), la corte territoriale ha valorizzato, in maniera pressoché esclusiva, la circostanza relativa alla dazione della somma di Euro 1.934.922,00 nell’anno 2006, attribuendole la valenza di anticipazione non solo dell’assegno di separazione, ma addirittura di quello di divorzio.
Tale affermazione, oltre a rivelarsi del tutto arbitraria (la qualificazione scaturisce dalla constatazione di “assenza di spiegazioni alternative”, avendo per altro la V. contestato la circostanza e lo stesso S. affermato che il versamento sarebbe avvenuto “a fronte dell’impegno di restituire al marito la (OMISSIS) “), contrasta con l’orientamento di questa Corte secondo cui gli accordi preventivi aventi ad oggetto l’assegno di divorzio sono affetti da nullità. È stato infatti affermato che “gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico – patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale, espresso dall’art. 160 cod. civ.. Pertanto, di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludono il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto è necessario per soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente dette esigenze, per il rilievo che una preventiva pattuizione – specie se allettante e condizionata alla non opposizione al divorzio potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione degli effetti civili del matrimonio (Cass., 18 febbraio 2000, n. 1810). È stato altresì precisato che “gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa, avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo. Ne consegue che la disposizione dell’art. 5, ottavo comma, della legge n. 898 del 1970 nel testo di cui alla legge n. 74 del 1987 – a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire in un’unica soluzione, ove ritenuta equa dal tribunale, senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico -, non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli accordi di separazione, dovendo essere interpretati “secundum ius”, non possono implicare rinuncia all’assegno di divorzio” (Cass., 10 marzo 2006, n. 5302; v. anche Cass., 9 ottobre 2003, n. 15064; Cass., 11 giugno 1981, n. 3777).
Non può omettersi di sottolineare come la pronuncia in esame abbia anche trascurato l’esigenza che l’accordo sulla corresponsione “una tantum”, anche ove validamente conseguito (esulano dal presente esame le recenti aperture sugli accordi in vista del divorzio, anche in relazione alle nuove forme processuali, come quella c.d. “congiunta”, attraverso le quali la relativa domanda può essere proposta), richiede pur sempre una verifica di natura giudiziale (Cass., 8 marzo 2012, n. 3635; Cass., 7 novembre 1995, n. 9416; Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128).
9.3. Pertanto la suddetta attribuzione, ove ritenuta adeguatamente dimostrata, da un lato, dovrebbe costituire un indice delle elevate disponibilità e delle correlate condizioni di vita delle parti in costanza di matrimonio, dall’altro, ove si accerti che tale somma sia ancora rimasta nella disponibilità della ricorrente, potrebbe concorrere all’accertamento delle disponibilità patrimoniali della stessa, da valutarsi nel contesto delle altre consistenze e delle eventuali fonti reddituali (la circostanza che si tratti di casalinga priva di redditi da lavoro dipendente per aver rinunciato a laurearsi e per essersi principalmente dedita alla famiglia appare sostanzialmente negletta da parte della Corte di appello, che, per altro, sotto tale profilo sembra essersi limitata a una valutazione ex post, come se si trattasse di un’obbligazione di risultato: “non sembra che l’azione di coordinamento del personale domestico.. sia stata particolarmente efficiente, a giudicare dai risultati scolastici dei figli”), rapportate, come sopra evidenziato, alla complessiva capacità economica dell’onerato.
9.4. Mette conto di precisare, anche con riferimento agli aspetti di natura probatoria e alla denunzia della violazione dell’art. 2909 cod. civ., posta in rilievo nella terza censura, che al di là delle abnormi valutazioni sulle sue conseguenze, la dazione in esame è stata desunta dalla decisione con la quale era stata pronunciata la separazione personale dei coniugi ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., in relazione al quale deve ritenersi operante il principio secondo cui le prove raccolte in altro giudizio fra le stesse o altre parti costituiscono fonti potenzialmente esclusive del convincimento giudiziale (Cass., 14 maggio 2013, n. 11555; Cass., 6 febbraio 2009, n. 2904; Cass., 11 giugno 2007, n. 13619).
10. il quarto motivo è fondato. Deve in proposito richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, nel giudizio di divorzio in appello – che si svolge secondo il rito camerale, l’acquisizione dei mezzi di prova, e segnatamente dei documenti, è ammissibile sino all’udienza di discussione in Camera di consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contraddittorio, che costituisce esigenza irrinunciabile anche nei procedimenti camerali (Cass., 8 giugno 2016, n. 11784; Cass., 20 marzo 2014, n. 6562; Cass., 13 aprile 2012, n. 5876; Cass. 27 maggio 2005, n. 11319). Il giudizio di irrilevanza, poi, risulta espresso in termini talmente assertivi (“non se ne vede la rilevanza”) da non poter costituire una ragione autonoma della statuizione.
11. Fondata risulta anche la successiva censura. La corte distrettuale, focalizzando la propria attenzione esclusivamente sulla disponibilità patrimoniale che la V. avrebbe conseguito nell’anno 2006, ha completamente omesso di valutare le condizioni economiche dell’onerato (per altro rilevantissime, per come indicate nel ricorso: si tratterebbe di un importante imprenditore nel campo della produzione cinematografica, che nell’anno 2010 avrebbe conseguito un reddito di Euro 347.730,00) e quindi, senza per altro esprimere un giudizio sulla completezza delle risultanze già acquisite, non solo ha negletto le circostanze già documentate, ma ha immotivatamente disatteso le istanze di natura istruttoria inerenti alle cospicue disponibilità dello S. , emergenti per altro nella citata sentenza di separazione, che la ricorrente, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, ha riportato in parte qua, e che, pur costituendo detta pronuncia il dato fondante della decisione impugnata, sotto tale profilo sembra sfuggita alla considerazione della corte di appello.
12. Fondato è anche il sesto motivo. La rideterminazione dell’assegno per il concorso del contributo per il mantenimento del figlio C.M. è stata effettuata, da un lato, dando atto che il predetto non ha acquisito l’indipendenza economica, dall’altro giudicando adeguata la somma di Euro 1.500,00 mensili, in quanto “corrispondente, e forse anche superiore, alla retribuzione di un laureato al primo impiego”.
12.1. Va premesso che il rilievo del controricorrente fondato sul riferimento, nel ricorso, all’art. 155, comma 4, cod. civ., in quanto sostituito dal successivo art. 337-ter, non appare condivisibile, in quanto l’erronea indicazione della norma processuale violata nella rubrica del motivo non ne determina “ex se” l’inammissibilità, se la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura, in quanto la configurazione formale della rubrica del motivo non ha contenuto vincolante, ma è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass., 3 agosto 2012, n. 14026; Cass., 29 agosto 2013, n. 19882).
12.2. Il riferimento al reddito medio di un giovane laureato comporta la totale disapplicazione del principio di proporzionalità e dei criteri normativi stabiliti per la determinazione dell’assegno, con particolare riferimento alle esigenze attuali del figlio, al tenore di vita dallo stesso goduto in costanza di convivenza con i genitori, ai tempi di permanenza e alle risorse dei genitori stessi.
13. Sussiste, infine, il vizio di extra-petizione denunciato con l’ultimo motivo: a fronte della rinuncia della madre tendente al pagamento “indiretto” dell’assegno per il mantenimento del figlio A. , la revoca dell’assegno tout court, che il padre avrebbe dovuto versare direttamente allo stesso, non richiesta da alcuna delle parti, è priva di qualsiasi giustificazione.
14. L’impugnata decisione, pertanto, deve essere cassata, con rinvio alla Corte di appello di Milano che, in diversa composizione, applicherà i principi sopra richiamati, provvedendo altresì, al regolamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi

Il diritto alla ricerca delle proprie origini può essere esercitato anche dopo la morte della madre biologica

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –
Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –
Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – rel. Consigliere –
Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 20576/2015 proposto da:
B.M.T., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIO-NE, rappresentata e difesa dall’avvocato DAVIDE SOLIVO, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI TORINO;
– intimato –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositato il 27/05/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/07/2016 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato SOLIVO DAVIDE che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per l’improcedibilità, in subordine l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con decreto 2/3/2015 il Tribunale per i minorenni di Torino ha rigettato la domanda di B.M.T., volta ad ottenere l’accesso alle informazioni relative alle generalità della propria madre naturale la quale aveva eser¬citato il diritto a rimanere nell’anonimato, alla nascita della ricorrente e, nel corso dell’istruttoria, era morta. Il Tribunale ha evidenziato come, in difetto di una disciplina legislativa, una revoca implicita della volontà di mantenere l’anonimato non possa essere desunta dal decesso.
Secondo il giudice di primo grado, la sentenza della Corte Costituzionale n. 278 del 2013 ha indicato che occorre procedere al contemperamento di due diritti, entrambi reputati di primario rilievo costituzionale, ovvero il diritto del figlio a conoscere le proprie origini e quello della madre a mantenere l’anonimato. Tale
ultimo diritto non viene meno con la morte della madre stessa, considerato l’interesse a mantenere nei con¬fronti dei familiari superstiti un’immagine di sè non caratterizzata dall’abbandono di un figlio alla nascita. Il Tribunale ha affermato che occorre garantire uno spazio per l’esercizio della potestà di revoca della scelta dell’anonimato che, se intesa come irrevocabile una volta espressa, presenta caratteri d’irragionevolezza an¬che sul versante dei rapporti relativi alla genitorialità naturale. Tuttavia con il decesso della madre biologica tali rapporti non possono essere riattivati.
Il ricorso sopra indicato era stato preceduto da un altro che si era concluso con l’accoglimento del reclamo da parte della Corte d’Appello di Torino. Era stato riconosciuto alla B. il diritto a poter conoscere le proprie origini, ma non era stata rinvenuta la busta chiusa con i dati anagrafici della madre. La Corte territoriale ave¬va comunque ritenuto che era venuta meno la permanenza della volontà ostativa alla scoperta della propria identità da parte della madre biologica.
2. La Corte d’Appello di Torino,sezione speciale per i minorenni, investita del reclamo avverso il decreto 2/3/2015, ha affermato, a sostegno del rigetto della domanda:
a) il decesso non può essere equiparato al mancato rinvenimento della busta chiusa. Si tratta di circostanze diverse;
b) il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 93, (Codice in materia di trattazione dei dati personali) prescrive che il diritto all’anonimato si conservi per cento anni dalla formazione del documento; la Corte costituziona¬le, con la citata sentenza n. 278 del 2013, ha inteso rimuovere i caratteri dell’irreversibilità dell’anonimato prevedendo un interpello della madre biologica all’interno di un procedimento caratterizzato dalla massima riservatezza. Al legislatore spetta il compito di consentire la verifica della perdurante attualità della scelta effettuata con la nascita e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso ai dati di tipo identificativo. Ne’ dalla sentenza della Corte costituzionale ne’ dalla sentenza della Corte Europea dei diritti umani (caso Godelli contro Italia) può trarsi la conclusione dell’equiparazione tra decesso e revoca dell’anonimato in quanto questa soluzione può essere solo frutto di una scelta legislativa.
Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso B.M.T. affidato ad un unico motivo.
Motivi della decisione
3. Viene dedotta la violazione della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013 sul rilievo che il rigetto della domanda non si è fondato sul criterio del bilanciamento tra il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini e quello della madre a rimanere igno¬ta, essendo stata esclusa in via radicale la revocabilità del diniego espresso al momento del parto in caso di morte della madre biologica. L’impostazione seguita viola l’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali fatta a Roma il 4/11/1950 e l’art. 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20/10/1989 oltre che l’art. 30 della Convenzione sulla protezione dei minori fatta all’Aja il 29/5/1993 nonché la raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 1443 del 26/1/2000 che invita gli Stati ad assicurare il diritto del bambino adottato di conoscere le proprie origini e riformare le leggi nazionali confliggenti con tale principio, oltre infine, la legge di riforma delle adozioni nella quale all’art. 28 è stato espressamente previsto il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini.
Osserva inoltre la ricorrente che, secondo la giurisprudenza amministrativa, la morte affievolisce il diritto alla riservatezza rispetto ai diritti concorrenti dei vivi. In particolare il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3459 del 2012, ha espressamente sostenuto che il diritto alla riservatezza si estingue con la morte del titolare e, in merito al bilanciamento richiesto dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 9, ha ritenuto di garantire il diritto di accesso riguardo a dati sensibili a soggetti defunti laddove tale istanza sia sorretta dall’esigenza di tutelare interessi giuridici dei vivi. L’orientamento in questione è condiviso anche dal Garante della privacy.
Infine la ricorrente sostiene che la differenza tra il diritto degli adottati in generale di conoscere le proprie origini, previsto in via automatica dopo il venticinquesimo anno di età e l’esclusione del medesimo diritto nel caso di specie determina una disparità del tutto ingiustificata di trattamento.
4.La specifica questione che viene nuovamente sottoposta all’esame di questa Corte consiste nello stabilire se il diritto dell’adottato ad accedere ad informazioni concernenti la propria origine e l’identità della madre biologica – la quale abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai sensi del D.P.R. 3 novem¬bre 2000, n. 396, art. 30, comma 1 – sussista, ai sensi della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 28, comma 7, (nel testo sostituito dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 177, comma 2), a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, e sia concretamente esercitabile anche prima del decorso di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, commi 2 e 3) nel caso, quale quello di specie, in cui la madre sia deceduta.
Tale questione richiede una preventiva illustrazione del quadro costituzionale, convenzionale e legislativo interno inerente la fattispecie. Alla luce di esso si potrà verificare se l’incisivo intervento della Corte Co-stituzionale (sentenza n. 278 del 2013 cit.) in ordine alla configurabilità del diritto a conoscere le proprie origini e i coerenti principi espressi dalla Corte Edu nella sentenza Godelli contro Italia del 25 settembre 2012 possano condurre, anche nell’ipotesi d’impossibilità assoluta d’interpello della madre che aveva scelto l’anonimato, a ritenere esercitabile in concreto il diritto in questione.
4.1. La cornice costituzionale e convenzionale del diritto a conoscere le proprie origini, quale declinazione di primario rilievo del diritto all’identità personale, è costituita dagli artt. 2 e 3 Cost., e 8 della Corte Edu. Lo sviluppo della personalità individuale e l’armonica conduzione della propria vita privata e familiare richie-dono la costruzione di una propria identità individuale fondata, oltre che su un contesto parentale affettivo – educativo riconoscibile, anche su informazioni relative alla propria nascita idonee a svelarne il segreto unitamente alle ragioni dell’abbandono.
Il rilievo di questo profilo dell’identità personale trova un puntuale, positivo riscontro nella L. n. 184 del 1983, art. 28, (nel testo sostituito dalla L. n. 149 del 2001, art. 24). In tale norma si prevede, in primo luogo, che le attestazioni di stato civile riferite all’adottato siano rilasciate con la sola indicazione del nuo¬vo cognome e senza nessun riferimento alla paternità e maternità biologica. Si stabilisce inoltre che non possano essere fornite nè informazioni nè certificazioni ed estratti relativi al rapporto di adozione, salvo autorizzazione dell’autorità giudiziaria (commi 2 e 3). In questa prima parte della norma viene predisposto un regime di protezione tendenzialmente assoluto del profilo dell’identità “sociale” acquistato con la geni-torialità adottiva. In particolare, il legislatore ha voluto escludere un uso discriminatorio delle informazioni provenienti dalla pregressa situazione di abbandono del figlio adottivo. Questo peculiare profilo dell’identità personale non ne esaurisce, però, il contenuto e la tutela.
La seconda parte della norma determina entro quali limiti e con quale procedimento i genitori adottivi pos¬sano acquisire informazioni relative ai genitori biologici (comma 4) ed attribuisce al figlio adottivo in età superiore ai 25 anni il diritto a conoscere le proprie origini, ferma l’identità acquistata con la relazione di genitorialità (esclusiva) con il padre e la madre adottivi. Prima dei 25 anni, tale diritto è soggetto al sin-dacato del tribunale per i minorenni, salvo comprovati motivi attinenti alla salute psico fisica dell’adottato maggiorenne. (commi 5 e 6). Il comma 8 prevede, infine, che l’adottato maggiore d’età (ma infra venticin-quenne) non debba chiedere l’autorizzazione al Tribunale per i minorenni se i genitori adottivi sono morti od irreperibili.
Il diritto a conoscere le proprie origini, a partire dai 25 anni ha carattere sostanzialmente potestativo, dal momento che non è prevista dalla norma alcuna limitazione o differimento del suo esercizio derivante dalla volontà dei genitori biologici nè alcun contemperamento d’interessi attuato dall’autorità giudiziaria.
All’ampiezza del diritto di accesso a tali informazioni, secondo le coordinate temporali stabilite dalle menzio¬nate disposizioni dell’art. 28, corrisponde, tuttavia, la definizione di un perimetro definito del suo contenuto. Con i genitori biologici ed i loro familiari non si determina per l’adottato alcun vincolo di parentela nè si radica alcun obbligo assistenziale o alimentare (art. 27, commi 1 e 3).
L’informazione relativa all’identità dei genitori biologici attiene all’attuazione dello sviluppo della personalità individuale (art. 2 Cost.), sotto il profilo del completamento dell’identità personale. Tale informazione, tut¬tavia, rientra nella nozione giuridica di “dato personale” così come definita dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 2, comma 1, lett. b), (“qualunque informazione relativa a persona fisica identificata od identificabile anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione”) e, conseguentemente, deve essere trattata in modo lecito e corretto ai sensi dell’art. 11, comma 1, lett. a), godendo del regime di tutela pre¬ventiva e risarcitoria prevista dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15.
È necessario osservare che titolare del dato personale relativo all’esatta individuazione della propria discen¬denza biologica sono non soltanto colui al quale è stato riconosciuto il diritto alla conoscenza delle proprie origini ma anche i cosiddetti genitori biologici. Il sistema di protezione dell’accesso e del trattamento di tale tipologia di dati previsto dal D.Lgs. n. 196 del 2003, si estende anche a questi ultimi così come la tutela preventiva e risarcitoria derivante da condotte illecite.
La dichiarazione di adozione determina nei genitori biologici la recisione di ogni legame personale con l’a-dottato e la cancellazione di ogni relazione giuridica di parentela, oltre che l’obbligo di tenere una condotta conseguente agli effetti della pronuncia. Si configura, tuttavia, anche il loro diritto a mantenere del tutto riservate le informazioni relative a tale condizione personale, con il solo limite costituito dal diritto del figlio adottivo di conoscere le proprie origini così come conformato dalla L. n. 184 del 1983, art. 28, al fine esclu¬sivo (di primario rilievo) di completare il proprio profilo dell’identità personale.
5. Il diritto a conservare l’anonimato da parte della madre che ha operato tale scelta alla nascita del figlio ai sensi del D.P.R. n. 296 del 2000, art. 30, comma 1, costituisce, per un verso, una deroga al regime di ac-cesso a tali informazioni contenuto, sia pure con la gradualità indicata dal citato art. 28, commi da 1 a 6, e, per l’altro, una forma più intensa della tutela della riservatezza, comunque spettante in generale ai genitori biologici, in ordine alle informazioni relative alla nascita ed all’abbandono del figlio, successivamente adot¬tato, trattandosi di vicende umane tendenzialmente, percepite in modo negativo sul piano etico e sociale. La tutela dell’anonimato della madre che ha esercitato il diritto a non essere nominata, si completa con il citato D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, commi 2 e 3, ed in particolare nel secondo comma di tale disposizione laddove viene stabilito che “il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendano identificabile la madre (…) possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento”.
Il legislatore ha, pertanto, predisposto un sistema di tutela del segreto sull’identità della madre biologica che “commisura temporalmente lo spazio del vincolo all’anonimato a una durata idealmente eccedente quella della vita umana” (Corte costituzionale, sentenza n. 278 del 2013 par. 5 del “Considerato in diritto”).
5.1 L’assolutezza di tale deroga rispetto alla configurazione ampia del diritto a conoscere le proprie origini, predisposta nell’art. 28, primi sei commi, è stata censurata dalla Corte Europea dei diritti umani con la sen-tenza Godelli contro Italia del 25 settembre 2012, cui è seguito il rilevante intervento correttivo del regime giuridico preesistente operato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 278 del 2013.
Preliminarmente, il Collegio ritiene di dover sottolineare che il diritto azionato nel presente giudizio riguarda l’identificazione della propria madre a fini di completamento del quadro dell’identità personale della ricor¬rente. Non costituisce profilo da indagare il diritto all’accesso alle informazioni non identificative a fini, lato sensu, sanitari, già garantito sia dal quadro costituzionale, integrato dal D.Lgs. n. 196 del 2003, sia speci¬ficamente dal citato art. 93, comma 3, nella parte in cui stabilisce che “durante il periodo di cui al comma 2 (cento anni dalla formazione del documento n.d.r.) la richiesta di accesso al certificato o alla cartella può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile”.
5.2 Così definito il perimetro della questione da affrontare, deve osservarsi che la citata sentenza Godelli della Corte Edu ha censurato la preferenza incondizionata, accordata dal nostro sistema normativo al diritto della madre a mantenere l’anonimato, ritenendo inadeguato il bilanciamento d’interessi operato dal legisla¬tore interno e superato il margine di discrezionalità in ordine alla scelta delle misure idonee a salvaguardare il diritto alla vita privata stabilito nell’art. 8. La Corte Edu indica la criticità ma non suggerisce interventi di adeguamento, in conformità con la funzione del suo giudizio. Con la sentenza n. 278 del 2013, invece, la Corte Costituzionale, partendo dal medesimo rilievo, consistente nel vulnus ingiustificato al diritto a cono¬scere le proprie origini derivante dall’irreversibilità del segreto, ha tracciato le linee d’intervento necessarie, al fine di dare attuazione anche in questo ambito ai principi stabiliti dagli artt. 2 e 3 Cost.. Ha in particolare evidenziato come si debba procedere alla “verifica della perdurante attualità della scelta della madre natu¬rale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’ano¬nimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto”.
In mancanza di un tempestivo adeguamento legislativo, il riconoscimento del diritto a conoscere le proprie origini, così nitidamente tracciato dalle due Corti, ha indotto a richiedere l’intervento della giudice ordinario, tendenzialmente identificato sulla falsariga della L. n. 184 del 1983, art. 28, nel tribunale per i minorenni. L’attuazione delle sentenze della Corte Edu e della Corte costituzionale è stata realizzata, da parte dei giudici di merito, mediante una procedimentalizzazione dell’interpello della madre “naturale” (così definita nella sentenza n. 278 del 2013 al fine di sottolinearne l’alterità rispetto alla genitorialità giuridica) che garantisse il segreto e la riservatezza della richiesta, in modo da “cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato”.
Tale procedimentalizzazione è inutilizzabile, tuttavia, nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, dal momento che è impossibile procedere all’interpello della madre “naturale”, perchè non più in vita. In tale ipotesi, non appare, prima facie, possibile procedere ad alcun bilanciamento d’interessi. L’alternativa sembra porsi in modo radicale. Se si riconosce all’adottato anche in questa peculiare ipotesi il diritto di conoscere le proprie origini, si cancella lo speculare diritto all’anonimato della madre biologica, ancorché il legislatore abbia voluto preservarlo fino a cento anni dalla nascita del figlio ex art. 93 sopra citato. Se invece si conserva il diritto all’anonimato, in mancanza della possibilità dell’interpello della madre, si vanifica del tutto il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, nonostante il riconoscimento di esso imposto dalle pronunce sopra illustrate.
5.3 Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini deve essere garantito anche nel caso in cui non sia più possibile procedere all’interpello della madre naturale. A tale inevitabile conclusione, imposta dal de-lineato quadro costituzionale e convenzionale, è già pervenuta questa Corte con la recentissima sentenza n. 15024 del 2016. L’irreversibilità del segreto sull’identità della madre naturale non è più compatibile con l’attuale configurazione del diritto all’identità personale così come desumibile dall’interpretazione integrata dell’art. 2 Cost. e dell’art. 8 Cedu, nella parte in cui tutela il diritto alla vita privata. Lo sbarramento tem¬porale imposto dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, alla rivelabilità dell’identità della donna che ha scelto l’anonimato al momento della nascita del figlio, non è temperato, nella specie, dalla possibilità di verifica della eventuale sopravvenuta volontà di revoca della scelta compiuta alla nascita.
L’interpretazione della norma che identifichi nell’intervenuta morte della donna, un ostacolo assoluto al rico¬noscimento del diritto a conoscere le proprie origini da parte dell’adottato, determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra i figli nati da donne che hanno scelto l’anonimato ma non sono più in vita e i figli di donne che possono essere interpellate sulla reversibilità della scelta operata alla nascita. Tale opzione ermeneutica sarebbe, inoltre, viziata di irragionevolezza perchè sottoporrebbe il riconoscimento e l’esercizio di un diritto della persona di primario rilievo ad un fattore meramente eventuale quale quello del momento in cui si chiede il riconoscimento del proprio diritto.
Deve, pertanto, perseguirsi un’interpretazione della norma compatibile con il diritto a conoscere le proprie origini che, pur conservando il vincolo temporale, ne attenui la rigidità quando non sia possibile per irre¬peribilità o morte della madre naturale procedere all’interpello e alla verifica della volontà di revoca dell’a¬nonimato. L’assolutezza e l’irreversibilità del segreto sulle origini sono irrimediabilmente contrastanti con il diritto all’identità personale dell’adottato, nella declinazione costituita dal diritto a conoscere le proprie origini. Come esattamente indicato nella citata sentenza n. 278 del 2013 l’ampiezza del vincolo temporale contenuto nel citato art. 93, “riposa sulla ritenuta esigenza di prevenire turbative nei confronti della madre in relazione all’esercizio di un suo diritto all’oblio e, nello stesso tempo, sull’esigenza di salvaguardare erga omnes la riservatezza circa l’identità della madre, evidentemente considerata come esposta a rischio ogni volta in cui se ne possa cercare il contatto per verificare se intenda o meno mantenere il proprio anonima¬to”. Ma, precisa la Corte: “nè l’una nè l’altra esigenza può ritenersi dirimente: non la prima, in quanto al pericolo di turbativa della madre corrisponde un contrapposto pericolo per il figlio, depauperato del diritto di conoscere le proprie origini; non la seconda, dal momento che la maggiore o minore ampiezza della tutela della riservatezza resta, in conclusione, affidata alle diverse modalità previste dalle relative discipline, oltre che all’esperienza della loro applicazione”.
Il termine contenuto nell’art. 93, sopracitato, alla luce dell’intervento della Corte costituzionale è divenuto flessibile sia con riferimento alla donna che ha scelto l’anonimato al momento della nascita, sia nei confronti del figlio “naturale”. Il diritto di entrambi ha natura personalissima. Deve, pertanto, ritenersi che si estingua con la morte dei titolari di esso e non sia trasmissibile. Anche alla luce di questa precisa delimitazione, il di¬ritto a conoscere le proprie origini non può esercitarsi in violazione dei diritti, di analoga natura e contenuto dei terzi interessati, dovendosi rilevare come la Corte Costituzionale abbia comunque riconosciuto il rilievo (ancorchè recessivo rispetto al diritto personalissimo a conoscere le proprie origini) del “diritto all’oblio” e delle implicazioni sociali che la conoscenza dell’esercizio dell’anonimato alla nascita può produrre.
Ne consegue che anche in questa peculiare fattispecie deve procedersi ad un adeguato bilanciamento degli interessi potenzialmente confliggenti, partendo dalla esatta identificazione dei titolari degli stessi e dalla definizione del loro contenuto.
La Corte Costituzionale ha ritenuto necessario operare tale bilanciamento nel riconoscimento del diritto alle proprie origini ed ha individuato nella valutazione dell’attualità dell’anonimato lo strumento adeguato.
Nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, in mancanza della possibilità d’interpello, il bilanciamento degli interessi deve essere desunto dal sistema di protezione dei dati personali relativi all’identità della don¬na che ha esercitato il diritto all’anonimato, già delineato nel paragrafo 4.1., tenendo conto della rilevanza di tali dati anche per i discendenti familiari. Al riguardo deve rilevarsi che la stessa Corte Costituzionale al punto 4 della sentenza n. 278 del 2013 ha ribadito (rispetto alla precedente sentenza n. 425 del 2005) “la corrispondenza biunivoca tra il diritto all’anonimato in se e per sè considerato e la perdurante tutela dei profili di riservatezza (…) che l’esercizio di quel diritto inevitabilmente coinvolge. Un nucleo fondante che, vale la pena di puntualizzare, non può che essere riaffermato proprio alla luce dei valori di primario risalto che esso intende preservare”.
Nel successivo punto 5 della sentenza la Corte chiarisce, ulteriormente, che il diritto alla riservatezza della madre non può escludere il riconoscimento del diritto del figlio ma deve essere affidato “alle diverse mo-dalità previste dalle relative discipline”. Nel nostro sistema normativo si deve, pertanto, ricorrere al regime giuridico di protezione dei dati personali nella fattispecie in esame. Pertanto, così come l’interpello della madre naturale in vita deve avvenire in modo da “cautelare in termini rigorosi il diritto all’anonimato”, deve ritenersi che l’accesso alla medesima informazione dopo la sua morte, debba essere circondata da analoghe cautele e l’utilizzo dell’informazione non possa eccedere la finalità, ancorchè di primario rilievo costituzio¬nale e convenzionale, per la quale il diritto è stato riconosciuto. Non si ritiene, pertanto, che ogni profilo di tutela dell’anonimato, si esaurisca alla morte della madre naturale, in quanto da collegarsi soltanto alla tutela del diritto alla salute psicofisica della madre e del figlio al momento della nascita. Il diritto all’identità personale del figlio, da garantirsi con la conoscenza delle proprie origini, anche dopo la morte della madre biologica, non esclude la protezione dell’identità “sociale” costruita in vita da quest’ultima,in relazione al nucleo familiare e/o relazionale eventualmente costituito dopo aver esercitato il diritto all’anonimato. Il trattamento delle informazioni relativo alle proprie origini deve, in conclusione, essere eseguito in modo corretto e lecito (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11, lett. a)) senza cagionare danno anche non patrimoniale all’immagine, alla reputazione, ed ad altri beni di primario rilievo costituzionale di eventuali terzi interessati (discendenti e/o familiari).
Il ricorso, in conclusione, merita di essere accolto e deve pronunciarsi il seguente principio di diritto: