Gli accordi economici raggiunti in sede di divorzio non sono successivamente opponibili tra le parti
. Tribunale di Vicenza,
Sentenza n. 1624 del 25 settembre 2024
Tribunale Civile di Vicenza – 25 set 2024 – N. 1624 Data Ud. : 23 set 2024
Svolgimento del processo e motivi della decisione
1. Gli Antefatti e Le vicende processuali.
A. A. e B. B. sono stati sposati (dal [omissis]), ed hanno avuto due figlie,
[omissis] […] (nel [omissis]) ed [omissis] (nel [omissis]); essi acquistarono, in
ragione di una metà ciascuno, la casa adibita a casa coniugale, in [omissis], via
[omissis], con atto per Notaio [omissis] del [omissis], “seguito”, due mesi
dopo, da un mutuo che, nel frattempo, è stato estinto. Nel [omissis] i coniugi
ottenevano sentenza di separazione, che, fra l’altro, su congiunte richieste
delle parti, assegnava la casa coniugale al B. B. quale collocatario delle figlie
minori. Nel [omissis] interveniva la sentenza di divorzio, nuovamente su
congiunte richieste delle parti; in tal caso la formula relativa alla casa
coniugale non menzionava più una assegnazione ma il più generico termine di
“disponibilità”, sempre in favore del B. B.. Proponendo la presente causa, nel
[omissis], contro l’ex marito, che è rimasto contumace, A. A. […] ha avanzato
le seguenti domande:
PRIMA DOMANDA
La A. A. deduce che, all’indomani della sentenza di divorzio, del [omissis],
l’occupazione della casa ex coniugale da parte del B. B. le darebbe titolo per
ottenere, dall’ex marito, una indennità di occupazione per ogni mese decorso
da allora, per il solo fatto di occuparla, evidentemente, con esclusione della
attrice medesima, la quale, appena un mese dopo la pubblicazione della
sentenza di divorzio, avanzò già all’ex coniuge la richiesta di ricevere una
siffatta indennità di occupazione, calcolata nella metà del canone di locazione
ricavabile dall’immobile.
SECONDA DOMANDA
La A. A. deduce di aver sostenuto tutta una serie di spese inerenti,
nuovamente, l’acquisto dell’immobile destinato ad abitazione coniugale, fra
cui: acconti prezzo al venditore, compensi per le imprese per lavori
extracapitolato, spese del Notaio, acquisto di mobilio e di cucina, lavori di
impianto elettrico ed idraulico. Aggiunge poi che il prezzo speso per acquistare
la casa (190 milioni in vecchie lire, nel [omissis]) non è stato versato dai due
coniugi in parti uguali, nemmeno attraverso il mutuo: non solo, infatti, essa
avrebbe pagato la parte di prezzo non coperta da mutuo (il mutuo è stato di
83.000 euro, nel [omissis]) ma, diversamente dalla prassi di pagare, ciascuno,
la metà di ogni singola rata di mutuo, vi sarebbero state 11 rate che essa
avrebbe versato in modo esclusivo.
Giurisprudenza di merito Ondif
Tutte tali voci si traducono, in tesi, in un suo diritto di credito, per la parte
eccedente la metà di sua spettanza, che forma appunto oggetto della seconda
domanda.
TERZA DOMANDA
La A. A. domanda poi la divisione dell’immobile, ma, consapevole della sua
indivisibilità in natura, come attestata dalla CTU svolta in questa causa, non ne
chiede l’assegnazione per l’intero, ed “accetta”, quindi, che l’immobile sia posto
in vendita all’asta, per la spartizione del ricavato. Segnala peraltro come dalla
CTU sia risultata anche l’esistenza di una ipoteca iscritta dal B. B. sulla metà di
proprietà di lui. Nella contumacia del convenuto, la causa è stata istruita
mediante alcune prove orali (che non hanno avuto però particolare rilievo), e
mediante la già menzionata CTU (della geom. [omissis]), la quale ha accertato
la non divisibilità in natura dell’immobile in due parti di uguale valore. La causa
è oggi in decisione.
2. La Decisione
Si è detto che con la prima domanda la A. A. ritiene derivare a suo vantaggio,
dal fatto che il B. B. occupa la casa ex coniugale da dopo la sentenza di
divorzio (quando la formula dell’assegnazione della casa fu sostituita dalla
formula di una “disponibilità” della casa) un suo diritto di ottenere, dall’ex
marito, una indennità di occupazione per ogni mese decorso da allora, per
risarcire pro quota il mancato godimento proprio di lei.
La domanda è infondata.
Proprio nella clausola dei patti di divorzio, posti a base della sentenza, c’è,
come detto, la decisione dei comproprietari che la casa sarebbe “restata nella
disponibilità del B. B..Benché questo concetto sia diverso da quello
dell’assegnazione (assegnazione che infatti non è più menzionata), esso
tuttavia non è, naturalmente, privo di effetto e significato: e sta ad evocare
(tale è certamente l’unico senso attribuibile alla frase) che al B. B. fosse
lasciato l’uso esclusivo dell’immobile, uso che per di più deve intendersi anche
come gratuito, poiché in caso contrario la clausola sarebbe stata scritta
diversamente.
Pare dunque al Tribunale che con un negozio atipico, ma certamente valido, la
comproprietaria A. A. ha costituito con il comproprietario B. B. un’obbligazione,
avente efficacia solo fra le parti, in forza della quale ha lasciato a lui l’intero
godimento della abitazione, e ciò secondo sue proprie valutazioni rientranti
nell’economia del globale accordo intercorso. Né muta la situazione la lettera
scritta appena un mese dopo la sentenza di divorzio. Quella richiesta, infatti,
diversamente da un caso standard, non interveniva ad esprimere una
rimostranza rispetto ad una avvenuta occupazione “arbitraria” oppure inattesa
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dell’altro proprietario, ma sorgeva all’indomani di una espressione di volontà
della stessa A. A. nel senso di attribuire al suo ex marito il diritto di godimento
della casa. Dunque, su un piano logico, stride che la A. A. esprimesse una
volontà contraria rispetto a quella espressa appena un mese prima, e, su un
piano giuridico, essa non poteva certo, con una manifestazione unilaterale,
porre nel nulla gli effetti di un negozio bilaterale validamente concluso.
Anche la seconda domanda è infondata, e ciò sulla base di un orientamento
giurisprudenziale ormai consolidato, che anche in tempi recenti ha trovato
nuove conferme. Si tratta del noto principio secondo cui, in virtù dell’art. 143
c.c., entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze
e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai
bisogni della famiglia; pertanto a seguito di separazione coniugale non può
essere richiesto il rimborso delle spese sostenute per il soddisfacimento dei
bisogni collettivi durante il (o in vista del) matrimonio (così, di recente, ma fra
le tante, Trib. Rovigo 856/23). E la sentenza rodigina, trattando di un caso di
lavori di ristrutturazione di un immobile adibito a casa coniugale, pagati dalla
moglie a fronte della proprietà della casa in capo al marito, ha ricordato come i
bisogni della famiglia, al cui soddisfacimento i coniugi sono tenuti a norma
dell’art. 143 c.c., non si esauriscono in quelli, minimi, al di sotto dei quali
verrebbero in gioco la stessa comunione di vita e la stessa sopravvivenza del
gruppo, ma possono avere, nei singoli contesti familiari, un contenuto più
ampio, soprattutto in quelle situazioni caratterizzate da ampie e diffuse
disponibilità patrimoniali dei coniugi, situazioni le quali sono anch’esse
riconducibili alla logica della solidarietà coniugale. Essa ha poi richiamato, a
conferma dell’orientamento, la pronuncia di Cass., 9144/2023, e quella di
Cass., 10927/2018, secondo cui “poiché durante il matrimonio ciascun coniuge
è tenuto a contribuire alle esigenze della famiglia in misura proporzionale alle
proprie sostanze, secondo quanto previsto dagli artt. 143 e 316 bis, primo
comma, c.c., a seguito della separazione non sussiste il diritto al rimborso di
un coniuge nei confronti dell’altro per le spese sostenute in modo
indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio”. Nello stesso
senso: Cass., 10942/2015: non possono essere rimborsate le spese fatte da un
coniuge sull’abitazione di proprietà esclusiva dell’altro, anche quando
incrementano il valore del bene, se avvenute in adempimento dell’obbligo di
contribuzione di cui all’art. 143 c.c.
Insomma, l’importo di cui l’attrice richiede il rimborso è in realtà la somma di
esborsi inquadrabili nell’alveo dei doveri di contribuzione previsti dall’art. 143,
terzo comma, c.c., anche perché non è stato provato il superamento dei limiti
di proporzionalità e adeguatezza. Va aggiunto poi che l’attrice ha citato in più
passaggi la disciplina del rimborso delle spese nell’ambito di una comunione
ordinaria; il riferimento è però improprio, in quanto la comunione di cui si
discute in questa sede è nata e si è sviluppata nel contesto di un rapporto di
coniugio, il quale, appunto, vive di regole proprie e specifiche che sono
estranee alla disciplina della comunione ordinaria.
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Quanto alla domanda di scioglimento della comunione, benché essa sia
l‘espressione di un diritto di ogni comproprietario (art. 1111 cc), anch’essa
potrebbe suscitare qualche perplessità, per lo meno nella misura in cui
anch’essa viene a contraddire quel diritto di godimento del B. B. che la A. A.
stessa gli concesse con gli accordi del [omissis]. E’ chiaro infatti che l’attrice
non vuole l’assegnazione in natura dei beni, per cui l’unica soluzione sarà la
messa in vendita di essi, con successiva ripartizione del denaro ricavato, ma è
altrettanto chiaro che al terzo acquirente non sarà opponibile l’accordo del
[omissis], in quanto rapporto meramente obbligatorio. Di fatto, dunque, la A.
A. ha diritto ad ottenere la divisione dell’immobile, ma così facendo si porrà
nella situazione di soggetto inadempiente rispetto ai patti del [omissis] (in
forza dei quali si era impegnata a concedere all’ex coniuge il diritto di
godimento della casa); la situazione, come da regole generali, si potrà se del
caso risolvere con una separata ed eventuale domanda risarcitoria da parte del
B. B.
P. Q. M.
1. respinge le domande di parte attrice, ad eccezione di quella di scioglimento
della comunione,
2. dichiara che il compendio per cui è causa non è comodamente divisibile in
natura, e pertanto, dispone, con separata ordinanza, la sua messa in vendita,
con successiva ripartizione del denaro ricavato;
3. spese alla sentenza definitiva.