Trasmette, tramite WhatsApp, un filmato dal contenuto pedopornografico: condanna confermata

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.F., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 03/11/2020 della CORTE APPELLO di
CALTANISSETTA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. ALESSIO SCARCELLA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;
lette le conclusioni scritte del difensore, Avv. G. G., che ha insistito nell’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta, pronunciata il 3 novembre 2020, è stata
confermata la statuizione di condanna di primo grado ed è stata irrogata nei confronti dell’attuale
ricorrente C. la pena principale di un anno e due mesi di reclusione e 1.600,00 Euro di multa.
2. Giova precisare, per migliore intelligibilità dell’impugnazione, che il medesimo è stato riconosciuto
colpevole dei reati di cui all’art. 600 ter c.p., comma 3 (pornografia minorile) perchè, anche per via
telematica, divulgava materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto e art.
600 quater c.p. (detenzione di materiale pornografico) perchè, consapevolmente, deteneva, in ingente
quantità, materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto.
3. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, articolando tre motivi.
3.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b),
ed il correlato vizio di mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione ex art.
606 c.p.p., comma 1, lett. e), in riferimento alla condanna dell’imputato per il delitto di cui all’art. 600
ter c.p., per violazione e falsa applicazione dell’art. 192 c.p.p.
In sintesi, con il primo motivo di ricorso, la difesa censura le argomentazioni con cui la Corte di
Appello ha ritenuto l’odierno imputato responsabile del reato di cui all’art. 600 ter c.p.. In particolare,
i giudici di seconde cure avrebbero erroneamente fondato il proprio convincimento sulla
riconducibilità esclusiva al C. dello smartphone utilizzato per l’invio di un video contenente materiale
pedopornografico. Così opinando, la Corte territoriale non si sarebbe in alcun modo confrontata con
i rilievi difensivi sollevati in sede di gravame, secondo cui il telefono cellulare in questione non
presentava alcuna funzionalità tale da impedirne l’utilizzo anche da parte di soggetti diversi
dall’odierno imputato. In definitiva, la statuizione di condanna risulterebbe fondata su di una
motivazione meramente apparente, nonchè priva dell’indicazione dei criteri prescelti nella
valutazione del materiale probatorio.
3.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett.
b), ed il correlato vizio di mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione ex
art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in riferimento alla condanna dell’imputato per il delitto di cui all’art.
600 quater c.p., per violazione e falsa applicazione dell’art. 192 c.p.p.
In sintesi, con il secondo motivo di ricorso, la difesa censura le argomentazioni con cui la Corte
territoriale ha ritenuto l’odierno imputato responsabile del reato di cui all’art. 600 quater c.p. In
particolare, i giudici di seconde cure avrebbero errato nel ritenere decisiva in tal senso la circostanza
relativa al rinvenimento di tracce di immagini su un hard disk in possesso dell’attuale ricorrente. Ed
infatti, tali immagini non avrebbero nulla a che fare con l’oggetto del presente giudizio, in quanto
antecedenti a quest’ultimo. Il Collegio, inoltre, avrebbe omesso di motivare in ordine ad un ulteriore
profilo evidenziato in sede di gravame, rappresentato dalla circostanza che i pochissimi contenuti di
materiale pedopornografico rinvenuti sul telefono del C. erano stati accidentalmente scaricati da
quest’ultimo.
3.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b),
con riferimento al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p. e
applicazione del minimo della pena ex art. 133 c.p.
In sintesi, con il terzo ed ultimo motivo di ricorso, la difesa si duole del mancato riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche, nonchè della mancata applicazione della pena nel minimo. Quanto
alle circostanze di cui all’art. 62 bis c.p., la Corte di Appello avrebbe omesso di indicare le ragioni
ostative al riconoscimento del suddetto beneficio, limitandosi ad asserzioni di mero principio. Nè
tantomeno il Collegio avrebbe spiegato il motivo per cui gli elementi di segno positivo evidenziati in
sede di gravame non costituirebbero indici sufficienti ai fini del riconoscimento delle suddette
attenuanti. Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, i giudici di seconde cure avrebbero
omesso di motivare in ordine alla specifica richiesta difensiva volta ad ottenere il riconoscimento del
minimo della pena. Sul punto, la Corte territoriale avrebbe posto a fondamento della congruità della
pena inflitta esclusivamente la gravità dei fatti in contestazione, senza tenere in debito conto gli altri
criteri fissati dagli artt. 133 e 133 bis c.p..
4. Il Procuratore Generale presso questa Corte, con requisitoria scritta datata 1 ottobre 2021, ha
concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, con tutte le statuizioni consequenziali.
In particolare, il Procuratore Generale evidenzia come il provvedimento impugnato risulti immune
dalle dedotte censure motivazionali. Ebbene, la Corte di Appello ha espressamente valutato le
doglianze difensive sollevate in sede di gravame, fornendo una motivazione del tutto congrua in
ordine alla responsabilità dell’odierno ricorrente per entrambi i reati oggetto di contestazione e rispetto
alla quale la difesa non ha opposto alcun elemento decisivo tale da suffragare un possibile
travisamento. Quanto alla censura inerente al trattamento sanzionatorio irrogato, i giudici di seconde
cure hanno ancorato la commisurazione della pena ai criteri di cui all’art. 133 c.p., ritenendoli
prevalenti rispetto ad ogni altra considerazione difensiva.
5. Con atto scritto pervenuto a mezzo PEC presso la Cancelleria di questa Corte in data 10.11.2021,
la difesa del ricorrente, nel ribadire che la sentenza impugnata meriterebbe di essere annullata in
quanto espressione di un una non corretta interpretazione e applicazione del disposto di cui dell’art.
192 c.p.p., e fondata su argomentazioni apparenti, contraddittorie e illogiche in riferimento ai delitti
attribuiti all’odierno ricorrente, ha insistito nell’accoglimento dei motivi di ricorso proposti in favore
del proprio assistito.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile, essendone palese la manifesta infondatezza alla luce della lineare e
limpida ricostruzione dei fatti e delle questioni giuridiche sulle quali il ricorrente chiede a questa
Corte di pronunciarsi, senza alcun apprezzabile elemento di novità critica.
2. A tal proposito, ritiene il Collegio utile richiamare, seppure per sintesi, i principali passaggi
argomentativi della sentenza impugnata, operazione necessaria al fine di evidenziare come il ricorso
presti il fianco al giudizio di inammissibilità dianzi espresso.
Il presente giudizio trae origine da un servizio per la prevenzione e la repressione dei reati in materia
di stupefacenti, svoltosi presso la villa (OMISSIS). In tale contesto, il personale della Squadra Mobile
della Questura di Caltanissetta aveva eseguito una perquisizione personale nei confronti dell’odierno
ricorrente. Ebbene, dal sequestro del suo smartphone era emersa l’avvenuta trasmissione, tramite
l’applicazione WhatsApp, ad un’utenza straniera di un filmato dal contenuto pedopornografico. Il C.,
inoltre, risultava altresì inserito in tre distinte chat di gruppo, nell’ambito delle quali gli utenti si
scambiavano analogo materiale pedopornografico. A seguito dell’estensione della perquisizione
presso l’abitazione dell’attuale ricorrente, le forze dell’ordine avevano rinvenuto un hard disk Samsung
sul quale erano stati salvati alcuni file multimediali di tipo pedopornografico, nonchè un ulteriore
telefono cellulare all’interno del quale erano stati trovati diversi documenti di analogo contenuto. Nel
ritenere infondato l’appello proposto nell’interesse del C., la Corte territoriale ha rilevato come non vi
fosse alcun elemento ostativo alla declaratoria di responsabilità penale per le vicende in
contestazione. In particolare, i giudici di seconde cure hanno precisato come l’unico soggetto in
possesso dello smartphone fosse proprio l’odierno ricorrente, nè tantomeno erano emersi nel corso
del giudizio elementi idonei a prefigurare un uso promiscuo dell’apparecchio telefonico anche da
parte di altre persone. Peraltro, secondo l’id quod plerumque accidit, il telefono cellulare costituisce
uno strumento di comunicazione ad uso tendenzialmente esclusivo.
Quanto alla fattispecie di cui all’art. 600 quater c.p., il Collegio ha rilevato come la ricostruzione
fattuale effettuata dal primo giudice non lasciava trasparire alcun dubbio circa la sussistenza della
responsabilità dell’odierno prevenuto. Ed infatti, nell’hard disk rinvenuto presso l’abitazione del C.
era stata trovata traccia di file pedopornografici cancellati dal computer in epoca antecedente
all’istallazione di una nota applicazione per la cancellazione sicura dei dati “CCleaner”. Da tale
circostanza, i giudici di appello hanno ragionevolmente desunto che l’imputato avesse deciso di
utilizzare tale sofisticata applicazione proprio al fine di evitare che rimanesse traccia di taluni file che
egli deteneva, utilizzava e poi cancellava. Alla luce degli elementi emersi in sede processuale, la
Corte territoriale ha evidenziato come la condotta dell’odierno ricorrente risulti particolarmente
insidiosa e pericolosa, anche in considerazione dei plurimi contatti intrattenuti con altri soggetti
parimenti dediti all’utilizzo di video pedopornografici.
3. Tanto premesso può procedersi all’esame dei motivi di ricorso.
4. Il primo motivo è inammissibile.
4.1. Il primo motivo di ricorso è invero articolato su censure in fatto ed è genericamente reiterativo
di doglianze difensive già prospettate con l’atto di appello, a cui la Corte territoriale ha fornito risposte
esaustive in fatto e corrette in diritto.
Ed invero, il ricorrente solo formalmente ha indicato una serie di doglianze riguardanti vizi della
motivazione della decisione gravata, ma non ha prospettato alcuna reale contraddizione logica, intesa
come implausibilità delle premesse dell’argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza,
ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni, nè tantomeno ha
indicato un’incompleta descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione. La censura
difensiva, infatti, denuncia congiuntamente, genericamente ed indistintamente i vizi di mancanza,
manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione. Al riguardo, giova ricordare che il vizio di
cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), deve essere dedotto in modo specifico in riferimento alla sua
natura (contraddittorietà o manifesta illogicità o carenza), non essendo possibile dedurre il vizio di
motivazione in forma alternativa o cumulativa. Ed infatti, non può rientrare fra i compiti dei giudici
di legittimità la selezione del possibile vizio genericamente denunciato, pena la violazione dell’art.
581 c.p.p., comma 1, lett. c), (Cass. pen., Sez. I, sent. n. 39122/2015; Cass. pen., Sez. II, sent. n.
5730/2019; Cass. pen., Sez. II, sent. n. 38676/2019). Nello stesso senso, la Suprema Corte ha, in più
occasioni, chiarito che il ricorrente che intende denunciare contestualmente, con riguardo al
medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di
legittimità ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ha l’onere – sanzionato a pena di aspecificità,
e quindi di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente
manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica (Cass. pen., Sez. II, sent.
n. 19712/2015).
4.2. Non è inutile ribadire che il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione del
provvedimento impugnato deve essere mirato a verificare che quest’ultima: sia “effettiva”, ovvero
realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata;
non sia “manifestamente illogica”, perchè sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non
viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; non sia internamente
“contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da
inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; non risulti logicamente “incompatibile”
con altri atti del processo (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a
sostegno del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo
logico (Cass. pen., Sez. I, sent. n. 41738/2011; Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 10951/2006; Cass. pen.,
Sez. II, sent. n. 36119/2017).
Non sono perciò deducibili, in sede di legittimità, censure relative alla motivazione diverse da quelle
che abbiano ad oggetto la sua mancanza, la sua manifesta illogicità, la sua contraddittorietà su aspetti
essenziali ad imporre una diversa conclusione del processo. Conseguentemente, sono inammissibili
tutte le doglianze volte a sollecitare una differente comparazione dei significati probatori da attribuire
alle diverse prove ovvero ad evidenziare ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti
dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Cass.
pen., Sez. VI, sent. n. 13809/2015).
Nè, per altro verso, è consentito il ricorso per Cassazione che, sub specie della violazione dell’art.
192 c.p.p., giunge per fondarsi su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale
probatorio, e non, invece, sulla denunzia di uno dei vizi logici, tassativamente previsti dall’art. 606
c.p.p., comma 1, lett. e), riguardanti la motivazione della sentenza di merito in ordine alla
ricostruzione del fatto (Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 43963/2013; Cass. pen., Sez. VI, sent. n.
13442/2016).
4.3. Nel caso di specie, le deduzioni difensive espongono, in realtà, questioni di merito la cui
valutazione è preclusa ai giudici di legittimità.
Sul punto, va rilevato come la Corte di Appello abbia fornito puntuale ed esaustiva risposta alle
censure sollevate con gli atti di gravame, sia saldandosi alla motivazione della sentenza di primo
grado, sia disattendendo puntualmente le argomentazioni – in fatto – spese con i motivi di appello e
sostanzialmente reiterate con il presente ricorso. In particolare, ad avviso dei giudici di seconde cure,
costituisce un dato certo, alla luce della ricostruzione effettuata in sede di merito, che l’unico soggetto
ad avere la disponibilità dello smartphone fosse proprio l’odierno ricorrente. Ed infatti, non sono mai
emersi nel corso del giudizio elementi oggettivi, spunti investigativi ovvero specifiche piste
alternative tali da poter ritenere configurabile la possibilità di un uso promiscuo, da parte di altre
persone, del telefono cellulare. Peraltro, l’apparecchio telefonico costituisce uno strumento di
comunicazione ad uso tendenzialmente esclusivo, che è stato rinvenuto in possesso proprio del C. nel
corso della perquisizione personale svolta dalla Squadra Mobile della Questura di Caltanissetta.
Anche in sede di legittimità, la difesa si limita ad effettuare mere congetture ed alternative letture dei
dati probatori emersi, prive di qualsivoglia riscontro di carattere oggettivo e decisivo.
5. Il secondo motivo è parimenti inammissibile.
5.1. Privo di pregio, in quanto generico ed essenzialmente articolato in fatto, risulta infatti il secondo
motivo di ricorso.
Giova premettere che tra i requisiti del ricorso per Cassazione vi è anche quello, sancito a pena di
inammissibilità, della specificità dei motivi. Ed invero, il ricorrente ha non soltanto l’onere di dedurre
le censure su uno o più punti determinati della decisione impugnata, ma anche quello di indicare gli
elementi che sono alla base delle sue lagnanze. In tal senso, rientra nell’ipotesi della genericità del
ricorso, non soltanto l’aspecificità dei motivi stessi, ma anche la mancanza di correlazione tra le
ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di
impugnazione (Cass. pen., Sez. I, sent. n. 4521/2005), che non può ignorare le affermazioni del
provvedimento censurato senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, all’inammissibilità del
ricorso ai sensi dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), (Cass. pen., Sez. I, sent. n. 39598/2004). In
particolare, il requisito della specificità implica, per la parte impugnante, l’onere non solo di indicare
con esattezza i punti oggetto di gravame, bensì di spiegare anche le ragioni per le quali si ritiene
ingiusta o contra legem la decisione, all’uopo evidenziando, in modo preciso e completo, gli elementi
che si pongono a fondamento delle censure.
5.2. Nel caso in esame, il ricorrente non si confronta con il provvedimento impugnato nella parte in
cui la Corte territoriale ha specificamente disatteso le censure difensive sollevate in sede di gravame
e, di seguito, meramente reiterate in sede di legittimità.
Sul punto, i giudici di seconde cure rilevano come nell’hard disk rinvenuto presso l’abitazione
dell’imputato sia stata trovata l’inequivoca traccia di file pedopornografici, cancellati dal computer in
epoca antecedente all’installazione dell’applicazione “CCleaner”. Valorizzando quest’ultima
circostanza, il Collegio giunge alla ragionevole conclusione che il ricorrente avesse deciso, da un
certo momento in poi, di utilizzare tale sofisticata applicazione per evitare di lasciare traccia dei dati
che egli deteneva, utilizzava e poi cancellava. Peraltro, tra i documenti cancellati – e recuperati a
seguito dell’attività espletata dal consulente della Procura – vi erano proprio i file dal contenuto
pedopornografico. L’attuale prevenuto, inoltre, risultava altresì inserito in tre distinte chat di gruppo,
nell’ambito delle quali gli utenti si scambiavano analogo materiale pedopornografico.
5.3. Dinnanzi a tali argomentazioni, il ricorrente sviluppa delle censure in fatto, chiedendo a questa
Corte di procedere ad un’inammissibile invasione delle prerogative del giudice di merito, senza,
tuttavia, evidenziare vizi logici nel tessuto argomentativo della pronunzia avversata.
Al riguardo, occorre precisare che in sede di legittimità non è consentito invocare una valutazione o
rivalutazione degli elementi probatori al fine di trarne proprie conclusioni in contrasto con quelle dei
giudici del merito, chiedendo alla Corte di Cassazione un giudizio di fatto che non le compete. Esula,
infatti, dai poteri della Suprema Corte quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza
che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più
adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. pen., Sez. Un., sent. n. 12/2000; Cass. pen.,
Sez. Un., sent. n. 22242/2011).
6. Resta da esaminare l’ultimo motivo che parimenti non sfugge al giudizio di inammissibilità.
6.1. Le censure difensive articolate in ordine al trattamento sanzionatorio inflitto non meritano
accoglimento per le ragioni che seguono.
Giova preliminarmente rilevare che, in relazione al riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in
sede di legittimità, purchè sia priva di contraddittorietà e dia conto, anche richiamandoli, degli
elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della loro concessione
o esclusione (Cass. pen., Sez. V, sent. n. 43952/2017). Il mancato riconoscimento delle suddette
circostanze, inoltre, può essere legittimamente motivato dal giudice valorizzando l’assenza di
elementi o circostanze di segno positivo, ancor di più a seguito della riforma dell’art. 62 bis c.p. –
disposta con la L. n. 125 del 2008 per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente,
non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Cass. pen., Sez. I, sent. n.
39566/2017).
Posto che la ragion d’essere di tale previsione normativa è quella di consentire al giudice un
adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in
considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di
esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per
scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga di escluderla, di
giustificarne sotto ogni possibile profilo l’affermata insussistenza. Tuttavia, il giudice di merito, nel
motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non deve necessariamente prendere
in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti,
essendo sufficiente che egli faccia riferimento a quelli da lui ritenuti decisivi o comunque rilevanti
(Cass. pen., Sez. II, sent. n. 3609/2011; Cass. pen., Sez. III, sent. n. 28535/2014; Cass. pen., Sez. II,
sent. n. 3896/2016; Cass. pen., Sez. V, sent. n. 43952/2017).
In ogni caso, le circostanze attenuanti generiche non possono essere intese come oggetto di benevola
e discrezionale “concessione” del giudice, bensì come il riconoscimento di situazioni non contemplate
specificamente – ovvero non comprese tra le circostanze da valutare ai sensi dell’art. 133 c.p., – che
presentano tuttavia connotazioni tanto rilevanti da esigere una più incisiva e particolare
considerazione ai fini della quantificazione della pena (Cass. pen., Sez. II, sent. n. 30228/2014; Cass.
pen., Sez. II, sent. n. 14307/2017). Ne consegue che, qualora la relativa richiesta non specifichi gli
elementi e le circostanze che, se sottoposte alla valutazione del giudice, possano convincerlo della
fondatezza e legittimità dell’istanza, l’onere di motivazione del diniego delle suddette circostanze
risulta soddisfatto con il solo richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui
fondare il riconoscimento del beneficio (Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9836/2015).
6.2. Tanto considerato, nel presente giudizio, la Corte di Appello ha evidenziato l’assenza di elementi
favorevoli valutabili ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Ed invero, i
giudici di seconde cure hanno precisato come il comportamento dell’odierno imputato non possa
considerarsi affatto occasionale, bensì caratterizzato per la sua sistematicità ed insidiosità. Inoltre, i
precedenti penali che l’attuale ricorrente annovera – ovvero quattro distinte condanne per sette reati,
sia contro il patrimonio che contro la persona – precludono di riconoscergli qualsivoglia beneficio.
6.3. Quanto alle modalità di commisurazione del trattamento sanzionatorio, il giudizio della Corte
d’appello, che ritiene la pena irrogata dai giudici di merito del tutto proporzionata alla gravità delle
condotte oggetto di contestazione, non merita censura.
Ed infatti, le vicende ascritte al C. sono state commesse in esecuzione del medesimo disegno
criminoso, sicchè risultano avvinte dal vincolo della continuazione, con maggiore gravità delle
condotte di cui al capo 2) dell’imputazione. Valorizzando i criteri direttivi sanciti dall’art. 133 c.p., i
giudici di merito giungono – con ineccepibile ed equilibrato computo – a ritenere congrua la pena di
un anno e due mesi di reclusione e 1.600,00 Euro di multa, mediante argomentazioni esenti da
manifesta illogicità e, come tali, insindacabili in sede di legittimità.
7. A norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità, si condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e, conseguentemente,
al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura di Euro tremila in favore della Cassa delle
Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a
norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto disposto d’ufficio e/o imposto dalla Legge.
Così deciso in Roma, il 19 novembre 2021.