Atteggiamento prevaricatore, possessivo e violento: confermata la condanna per stalking

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 31 agosto 2021, n. 32381; Pres. Marini, Rel. Cons. Di Nicola
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MARINI Luigi – Presidente – Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere – Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere – Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere – Dott. CORBETTA Stefano – Consigliere – ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da: P.G., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 22-06-2020 della Corte di appello di Catania; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso trattato ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23,
comma 8; udita la relazione del Consigliere Di Nicola Vito; Udita la requisitoria del Procuratore Generale, Dott. Mastroberardino Paola che ha concluso per
l’inammissibilità; Udita per la parte civile l’avvocato E.L. che conclude per l’inammissibilità del ricorso e condanna alle
spese sostenute dalla parte civile ammessa al gratuito patrocinio.
Svolgimento del processo
1. P.G. ricorre per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di
Catania ha confermato quella emessa dal Tribunale della stessa città in data 01 luglio 2019, che aveva
condannato il ricorrente alla pena di giustizia per il reato di atti persecutori nei confronti di C.N.
Al ricorrente è stato contestato il reato di atti persecutori per aver posto in essere reiterate azioni
minacciose e violente nei confronti della parte offesa, cagionandole un mutamento delle proprie
abitudini di vita; è stato inoltre contestato il reato di lesioni personali aggravate per avere cagionato,
nel commettere il reato di atti persecutori, alla medesima persona offesa lesioni personali giudicate
guaribili in giorni quattro; per il reato di violenza sessuale continuata e aggravata sempre in danno di
C.N., avendo costretto quest’ultima, con violenza e minaccia, a consumare con lui rapporti sessuali,
secondo le dettagliate modalità esecutive indicate nel capo d’accusa. Con l’aggravante di avere
commesso il fatto con persona cui era legato da una relazione affettiva. 2. Il ricorrente, tramite il difensore di fiducia, impugna con tre motivi, di seguito riassunti ai sensi
dell’art. 173 disp. att. c.p.p. 2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione
alla ritenuta attendibilità della persona offesa con riferimento al reato di atti persecutori (art. 606 c.p.p.
comma 1, lett. b)). Premette che, contrariamente all’assunto della Corte territoriale, egli aveva censurato le dichiarazioni
della persona offesa e criticato il giudizio di attendibilità espresso dai giudici del Tribunale. A questo proposito, precisa che i motivi di doglianza contenevano una analitica e puntuale disamina
delle ragioni che incrinavano la credibilità della parte offesa, tanto che erano stati evidenziati passi
delle dichiarazioni della stessa e la loro conseguente inconciliabilità con il reato di atti persecutori
contestato al ricorrente. Osserva come il comportamento della parte offesa fosse decisamente contraddittorio in quanto, dopo
aver presentato denuncia, la vittima si incontrava regolarmente con il ricorrente, con ciò dimostrando
di non provare alcuno stato d’ansia, tensione e paura. Nel caso di specie, quindi, le condotte moleste non avevano ingenerato nella vittima uno stato
d’oppressione, per come era emerso anche dal suo esame testimoniale, con la conseguenza che la
motivazione sarebbe, sotto questo aspetto, carente e contraddittoria rispetto a quanto censurato dalla
difesa. La Corte territoriale non avrebbe poi fornito una chiave di lettura univoca e coerente con quanto
emerso in dibattimento, atteso che era stata la parte offesa, la quale non aveva tenuto un
comportamento ostativo nei confronti della condotta del ricorrente, ad aver viceversa mostrato un
contegno accomodante. Riportando nel ricorso anche alcuni passi delle dichiarazioni della persona offesa, a dimostrazione
dell’inconfigurabilità del reato di atti persecutori, il ricorrente sottolinea come l’iter motivazionale e
l’apparato argomentativo dell’impugnata sentenza appaia debole e contraddittorio, avendo trascurato
ictu oculi le doglianze difensive che miravano ad evidenziare come non potesse sussumersi la vicenda
in oggetto nell’alveo del reato di cui all’art. 612-bis c.p. 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta il vizio di motivazione in relazione al reato di lesioni
(art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)). Assume che nè nella sentenza di primo grado, nè in quella d’appello, vi sarebbe motivazione in ordine
al reato di lesioni. Dalle dichiarazioni della parte offesa era emersa la accidentalità e casualità del
fatto e sul punto la difesa nei motivi di doglianza (pag. 6 dell’atto di impugnazione) aveva evidenziato
che non vi fosse alcuna volontà da parte del ricorrente di ferire la C., la quale affermava di aver
sbattuto l’occhio sul cambio, così procurandosi l’ecchimosi peri-orbitaria (pag. 19 v. ud. 08/04/2019). La difesa, dunque, sollecitava una riforma della sentenza impugnata, quantomeno per assenza
dell’elemento psicologico. Sul punto, però, non vi sarebbe, nella decisione impugnata, il minimo
accenno alle doglianze della difesa, essendo pertanto la pronuncia incorsa nel vizio di motivazione
denunciato. 2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge
penale nonchè la mancanza (apparenza) e l’illogicità della motivazione in ordine al reato di violenza
sessuale (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Osserva che, con i motivi di doglianza, la difesa aveva evidenziato lacune e contraddittorietà nelle
propalazioni della parte offesa, sottolineando il tenore di alcuni messaggi inviati dalla vittima,
disarmonici rispetto alla pesante accusa mossa nei confronti del ricorrente, nonchè l’assenza di
riscontri estrinseci e addirittura il rifiuto di sottoporsi a visita ginecologica, per come riferito dal teste,
dottoressa T., in servizio presso l’ufficio servizio sociale del Comune di S. A. Trattandosi di
dichiarazioni rese da persona portatrice di interessi personali, il vaglio della attendibilità doveva
necessariamente essere più penetrante e rigoroso, vieppiù in assenza di elementi probatori che ne
confermassero l’asserto accusatorio. Assume il ricorrente che l’indice di genuinità delle dichiarazioni della vittima appariva assai basso,
non avendo mai la donna raccontato di dette violenze ad alcuno dei familiari (il ricorrente ricorda che
la vittima viveva in casa con l’ex marito, sebbene separati) o di amici e, nel corso del suo esame, il
pubblico ministero più volte aveva fatto ricorso a contestazioni, ricordando passi della denuncia. A fronte di dette, specifiche censure, i giudici etnei hanno espresso il convincimento che le violenze
narrate apparissero plausibili e il narrato della parte offesa fosse dettagliato e completo, nonchè
attendibile, senza tuttavia rispondere adeguatamente ai rilievi difensivi che evidenziavano, ad
esempio, la difficoltà di coniugare la credibilità della persona offesa con la circostanza che mai, gli
stessi familiari di quest’ultima, avevano chiesto delucidazioni in ordine alle asserite violenze subite
dalla donna, mai peraltro refertate. Nè la Corte d’Appello si sarebbe soffermata sulla possibile natura vendicativa delle dichiarazioni della
presunta parte offesa la quale, nel corso del dibattimento, aveva più volte affermato che soffriva di
gelosia. Obietta il ricorrente come la Corte territoriale non abbia utilizzato gli strumenti ermeneutici più idonei
e riconosciuti per giungere alla conclusione censurata: avrebbe infatti dovuto, dal punto di vista
oggettivo, valutare l’assenza di certificati medici o il contesto ambientale nel quale i fatti sarebbero
maturati e, dal punto di vista soggettivo, i rapporti, spesso tesi, tra la vittima e il ricorrente, con la
conseguenza che, avendo omesso ciò, la Corte di merito sarebbe incorsa nei vizi di violazione di legge
di motivazione denunciati. 3. Il Procuratore generale, riportandosi alla requisitoria scritta che era stata già presentata, ha concluso
per l’inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile per le seguenti ragioni. I motivi di gravame, essendo tra loro strettamente connessi, possono essere congiuntamente
esaminati. 2. Il ricorrente non ha tenuto in alcuna considerazione la motivazione della sentenza impugnata, che
ha criticato formulando osservazioni disallineate rispetto al principio di autosufficienza del ricorso,
non allegando ai motivi di impugnazione alcun atto del procedimento e riportando nel ricorso solo
alcuni stralci di presunte dichiarazioni, richiamando nell’atto di gravame alcune pagine del verbale di
udienza in data 8 aprile 2019 (solo pagine, 19, 26, 27 e 28). Le doglianze muovono dal presupposto, già oggetto di devoluzione alla Corte di appello, che la
decisione del primo giudice fosse fondata esclusivamente sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla
parte offesa (costituitasi parte civile), sulle quali il Tribunale non avrebbe operato il necessario vaglio
di attendibilità. 3. La Corte d’appello – nell’affermare che il tribunale aveva ricostruito la vicenda processuale
attraverso un’ampia ricostruzione dei fatti nella loro evoluzione storica, partendo dai primissimi dati
investigativi raccolti dagli inquirenti e tenendo conto dei successivi sviluppi processuali – ha osservato
come le dichiarazioni della persona offesa fossero invece dettagliate, logiche, complete e ricche di
riferimenti spazio-temporali sull’accaduto, assolutamente convergenti tra loro, mentre doveva
ritenersi del tutto generica l’asserzione difensiva che le stesse fossero finalizzate ad ottenere il
risarcimento del danno. La Corte territoriale ha dato atto come le dichiarazioni, descrivendo in modo convergente fatti e
comportamenti, non contenessero elementi tali da fare trasparire sentimenti di “rancore”, certamente
non riscontrabili nelle parole della parte offesa che, anzi, aveva mostrato ripetutamente di nutrire
ancora affetto nei confronti dell’imputato. Contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, poi, le dichiarazioni della parte offesa avevano
trovato puntuale riscontro nella testimonianza resa da T.M.R., operatrice del servizio sociale del
Comune di Sant’Alfio, che aveva in carico già da tempo il nucleo familiare della persona offesa a
causa di una grave disabilità del figlio della vittima. In particolare la teste spiegava di avere saputo
dalla stessa persona offesa, nell’aprile 2018 e dunque prima ancora che quest’ultima presentasse la
denuncia (del luglio 2018), della relazione in corso e dell’atteggiamento prevaricatore, possessivo e
violento tenuto dall’uomo nei confronti della vittima, aggiungendo anche di avere notato visivamente
tracce della violenza (lividi sul collo ed in altre pareti del corpo), oltre ad avere chiaramente percepito
il sentimento di paura vissuto dalla persona offesa. Anche il contenuto dei messaggi inviati dal ricorrente alla persona offesa, contrariamente a quanto
dedotto nel corso del processo di merito, testimoniava il rapporto “malato” intercorso tra l’imputato e
la vittima. Come desumibile dal testo di alcuni messaggi acquisiti, emergeva come la violenza e la
minaccia fossero state assunte dal ricorrente come modo per esprimere i propri sentimenti e le proprie
pretese e come, di contro, la donna avesse assunto un ruolo sub-valente (vedi per tutti foto n. 28). La Corte d’appello ha logicamente osservato come fosse del tutto irrilevante il fatto che, nonostante
le violenze e le minacce, la donna avesse continuato a frequentare l’imputato anche dopo averlo
denunciato e fino all’applicazione della misura cautelare. Invero tale circostanza è stata giustificata
con l’affetto “morboso” nutrito dalla vittima nei confronti dell’imputato, tanto da accettare
passivamente, subendolo, ogni sopruso fisico, psicologico e sessuale. La Corte di merito ha evidenziato come le anomalie del rapporto in esame fossero inconfutabilmente
corroborate anche dalla relazione psicologica – acquisita con il consenso delle parti e redatta dalla
Dott.ssa G. – nella quale si dava atto di come la fragilità psicologica della persona offesa avesse
permesso al ricorrente di esercitare sulla stessa una violenza totale, espressa in varie forme,
fortemente manipolativa e tale da creare un assoggettamento mentale, il cui scopo era quello di
esercitare un totale controllo sulla vittima, isolandola da qualsiasi contatto esterno, plagiandola e
disponendone a proprio piacimento. Da ciò, la Corte distrettuale ha tratto il logico convincimento che nessun dubbio poteva sussistere in
ordine alla configurabilità dei reati ritenuti in sentenza. Infatti, relativamente al reato di atti persecutori, le dichiarazioni della vittima testimoniavano le
aggressioni fisiche, morali e sessuali esercitate dall’imputato nei suoi confronti. L’uomo, invero,
estremamente possessivo e geloso, non perdeva occasione per accusarla di intrattenere altre relazioni
e non esitava a tirarle violentemente le orecchie ed i capelli, a darle pizzicotti su tutto il corpo, a
colpirla ripetutamente, ad apostrofarla, a minacciarla, tanto che, per farle confessare i suoi tradimenti,
le aveva detto che l’avrebbe legata e poi uccisa servendosi di una pistola. Tali atteggiamenti avevano
causato un grave turbamento psicologico nella persona offesa, alterando le sue abitudini di vita e
creando un perdurante stato di ansia e paura, impedendo alla donna di vivere liberamente la propria
quotidianità. Le relazioni psicologiche redatte dal servizio di assistenza sociale non lasciavano dubbi sul punto,
attestando la debolezza psicologica della donna a causa delle violenze subite, tanto da richiedere
l’intervento del Dipartimento di Salute Mentale al fine di aiutarla a superare la fase confusionale. Nessuna rilevanza poteva essere attribuita alla circostanza che, anche dopo la presentazione della
querela e nonostante l’invito delle forze dell’ordine ad allontanarsi dal ricorrente, la parte offesa avesse
continuato a frequentarlo, in quanto la sudditanza psicologica della donna, nel frangente artatamente
creata dall’imputato, le impediva, infatti, una scelta diversa. Quanto al reato di violenza sessuale, la Corte territoriale ha osservato come fosse priva di pregio la
doglianza relativa ad un presunto consenso putativo desunto dal fatto che la vittima mai ebbe a
manifestare avversità o diniego alla consumazione degli atti sessuali. Dal racconto reso in aula dalla
parte offesa è, invece, emerso che in più occasioni la donna era stata costretta a soddisfare le voglie
dell’imputato il quale non esitava ad esercitare la violenza pur di ottenere quanto desiderato.
La Corte d’appello ha perciò ritenuto che non vi fosse alcun elemento per dubitare dell’attendibilità
delle dichiarazioni della persona offesa che restava dimostrata dalla specificità e logicità interna di
tutto il narrato, scevro da contraddizioni e/o genericità. In altri termini, il giudizio di colpevolezza formulato dal Tribunale non si fondava su “illazioni”, ma
sull’attendibile racconto della vittima, racconto che non solo non presentava alcuna contraddizione,
sui fatti di violenza da lei subiti e narrati all’A.G., con dovizia di particolari e specificazioni, ma
appariva dettagliato e completo in ordine alla spiegazione degli accadimenti. In particolare, il
racconto sulle violenze sessuali patite dall’imputato faceva perno su violenze plausibili, logicamente
collegate al contesto relazionale esistente con l’imputato. Sussisteva inoltre l’accentuata attendibilità della persona offesa, desunta dalla notevole logica interna
che pervadeva l’intero racconto, in considerazione della localizzazione e tempistica degli eventi, della
dettagliata spiegazione circa il cronologico succedersi degli eventi. Su queste basi, la Corte di merito ha ritenuto che il quadro probatorio fosse esaustivo e convergente,
con la conseguenza che andava confermato il giudizio di colpevolezza espresso dal Tribunale. 4. Al cospetto di una motivazione congrua e priva di vizi di manifesta illogicità, il ricorrente propone
una ricostruzione alternativa del materiale probatorio, chiedendo inammissibilmente alla Corte una
rivalutazione delle prove sulla base, peraltro, di asserzioni disallineate rispetto al principio di
autosufficienza del ricorso, il quale esige, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 165-bis disp.
att. c.p.p., introdotto dal D.Lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, art. 7, comma 1, un onere di puntuale
indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria
l’allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento
impugnato (Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, Talamanca, Rv. 276432 – 01), con la conseguenza che
è inammissibile il ricorso, contenente un limitato stralcio di dichiarazioni neppure decisive perchè
inidonee a disarticolare il puntuale ragionamento probatorio svolto nel provvedimento impugnato. In particolare, sulla questione relativa al formulato giudizio di attendibilità delle dichiarazioni della
persona offesa dal reato, va poi ribadito come la Corte di appello sia pervenuta a ritenere pienamente
attendibili, sia estrinsecamente che intrinsecamente, le dichiarazioni della persona offesa, sul già
ricordato presupposto che le stesse avessero anche ricevuto chiari ed inequivocabili riscontri esterni. Quanto al reato di atti persecutori e al reato di lesioni, la Corte d’appello ha fatto leva sulle relazioni
psicologiche redatte dai servizi di assistenza sociale, sulla testimonianza dell’operatrice dei servizi
sociali che aveva anche raccolto le confidenze della vittima nonchè sulle prove documentali
dell’immagine salvate sullo schermo del dispositivo informatico in relazioni ai messaggi comprovanti
le violenze subite. Nel pervenire alla conclusione circa l’attendibilità delle dichiarazioni della vittima del reato, la Corte
distrettuale si è attenuta al principio secondo il quale le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3,
non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste
da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica,
corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità
intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a
quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del
19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214). E’ pur vero che, nel caso in cui la persona offesa, come nella specie, si sia costituita parte civile, il
Giudice deve valutare l’opportunità di procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi
ma la Corte del merito non si è sottratta a tale incombenza, posto che i riscontri esterni sono stati
enunciati nella sentenza impugnata e le obiezioni difensive tutte dettagliatamente disattese. Sul punto, la Corte di legittimità ha, in diverse occasioni, sottolineato che i riscontri esterni, i quali
non sono predeterminati nella specie e nella qualità, possono essere di qualsiasi tipo e natura e
possono essere tratti sia da dati obiettivi, quali fatti e documenti, sia da dichiarazioni di altri soggetti,
purchè siano idonei a convalidare “aliunde” l’attendibilità dell’accusa, tenuto anche presente che essi
devono essere ricercati e valutati, con specifico riferimento alle dichiarazioni della persona offesa,
costituita parte civile, nella prospettiva della verifica del grado di affidabilità della dichiarazione e
non ai fini specifici previsti dall’art. 192 c.p.p., comma 3, disposizione che non si applica alle
dichiarazioni della vittima del reato (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, cit.), con la
conseguenza che, per fondare il ragionevole convincimento che il dichiarante non abbia mentito, è
sufficiente che i riscontri siano idonei a confermare la credibilità della dichiarazione nel suo
complesso e non rispetto a ciascuno dei particolari riferiti dal dichiarante, e neppure è necessario che
i riscontri attengano alla posizione soggettiva della persona attinta dalle dichiarazioni perchè le
narrazioni della persona offesa, anche se costituita parte civile, non possono mai essere equiparate
alla chiamata in reità o in correità (Sez. 3, n. 33589 del 24/04/2015, T., non mass.). Va allora ricordato che, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, le doglianze che
il ricorrente muove nei confronti della sentenza impugnata non possono ridursi a sostenere un diverso
quadro probatorio fondato su una differente e alternativa lettura, peraltro parziale e lacunosa, come
nel caso di specie, del corredo processuale, per come reso palese al giudice di legittimità sulla base
del testo della sentenza impugnata, dei motivi di ricorso e degli atti ad esso allegati e specificamente
indicati. Così strutturate, le censure si connotano, oltre che per la loro manifesta infondatezza, anche per la
portata tipicamente fattuale, in quanto il ricorrente, nel denunciare i vizi della motivazione, introduce
frequentemente nel ricorso rilievi di merito che non possono rientrare nell’orizzonte cognitivo del
giudice di legittimità, non potendosi devolvere alla Corte di cassazione doglianze con le quali,
deducendosi apparentemente una violazione della legge penale o una carenza logica od argomentativa
della decisione impugnata, si pretende, invece, una rivisitazione del giudizio valutativo sul materiale
probatorio, operazione non consentita nel giudizio di cassazione all’interno del quale non è possibile
innestare censure che implichino la soluzione di questioni fattuali, adeguatamente e logicamente
risolte, come nel caso in esame, dai giudici di merito con doppia conforme decisione. Ne discende che l’apparato logico della decisione impugnata, come in precedenza riassunto, deve
ritenersi corredato da una motivazione priva di vizi di legittimità e priva altresì di manifesti vizi di
illogicità sui temi di prova, oggetto dei motivi di ricorso che hanno investito i tre reati (atti persecutori,
lesioni e violenza sessuale) per i quali è stata affermata la responsabilità del ricorrente. 5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il ricorso debba essere dichiarato
inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., di sostenere le
spese del procedimento e alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile ammessa al
gratuito patrocinio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e
considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa
nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che la ricorrente versi la somma,
determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla
rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile
ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di
Catania con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83,
disponendo il pagamento in favore dello Stato. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a
norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 8 giugno 2021. Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2021.