Cessazione della convivenza e obblighi restitutori fra i partners

Trib. di Reggio Emilia, sent. 14 luglio 2020

TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA
PRIMA SEZIONE CIVILE
Il Tribunale, in persona del Giudice dott. Stefano Rago, ha pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c. la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I grado iscritta al n. 1682/2019 R.G. promossa
da
X , C.F. ***, nato a *** (NA) l’08.01.1973;
rappresentato e difeso dall’avv. Fabrizio Picchiotti come da procura allegata all’atto di citazione ed elettivamente domiciliato presso il suo studio sito in Modena, Corso Canalgrande n. 86 int. A/3
ATTORE
contro
Y , C.F. ***, nata ad *** (LE) il 20.10.1977; rappresentata e difesa dall’avv. Roberto Grasso come da delega allegata alla comparsa di costituzione e risposta ed elettivamente domiciliata presso il suo studio sito in Sassuolo (MO), via Pia n. 3
CONVENUTA
OGGETTO: arricchimento senza giusta causa.
CONCLUSIONI
Per X :
Voglia L’eccellentissimo Tribunale adito, in accoglimento della presente domanda,
In via principale e nel merito:
– accertare i fatti come riportati in narrativa e dichiarare l’applicabilità dell’art. 2041 c.c., al caso in esame per i motivi in fatto e in diritto che precedono;
– condannare la Sig.ra Y al pagamento della somma di € 43.000,00, versata dall’attore quale pagamento di parte del prezzo dell’immobile acquistato in data 19.05.2011, con rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla data della prima richiesta sino al dì del soddisfo;
– con vittoria di spese oneri accessori e compensi legali.
Per Y :
IN VIA PRINCIPALE
– accertare e dichiarare che nulla è dovuto dalla Signora Y al Signor X per tutti i motivi di fatto e in diritto che precedono e conseguentemente rigettare la domanda di restituzione della somma complessiva di euro 43.000,00.
IN VIA SUBORDINATA
– Nella denegata e non creduta ipotesi in cui fosse accolta la domanda di parte attrice accertare e dichiarare che l’attore ha comunque convissuto nella casa familiare per 40 mesi e pertanto, considerata in via equitativa la somma dell’occupazione senza titolo per euro 350,00 mensili, compensare le rispettive posizioni debito/credito per l’importo di euro 14.000,00.
– Con vittoria di spese e compensi di avvocato, rimborso spese generali CPA ed IVA come per legge.
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
1. Con atto di citazione ritualmente notificato X evocava in giudizio l’ex convivente more uxorio Y per sentirla condannare alla restituzione, ai sensi dell’art. 2041 c.c., della complessiva somma di € 43.000,00 corrisposta a detta convenuta a titolo di parziale pagamento del prezzo dell’abitazione sita in Rubiera (RE), via Parri n. 5, dalla stessa acquistato in data 19.05.2011.
2. Y , costituitasi con comparsa in data 20.06.2019, contestava la fondatezza della pretesa creditoria avversaria, chiedendo il rigetto della domanda attorea, e, in via subordinata riconvenzionale, la condanna del X al pagamento della somma complessiva di € 14.000,00 per l’occupazione senza titolo della casa familiare ove l’attore aveva convissuto per 40 mesi.
3. Alla prima udienza dell’11.07.2019 venivano concessi i chiesti termini ex art. 183 comma 6 c.p.c.
All’esito del deposito delle memorie, la causa, ritenuta matura per la decisione, veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni e la discussione orale ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c.
4. La domanda attorea è fondata.
Sono pacifiche, in quanto non contestate e/o documentali le seguenti circostanze di fatto:
? X e Y hanno convissuto more uxorio dal 2006 al 2014;
? i primi anni della convivenza sono stati trascorsi presso l’immobile sito in *** (RE), via *** n. ***, di proprietà esclusiva dell’odierno attore, fino a quando, a seguito della nascita del figlio in data 04.11.2008, le parti hanno deciso di andare a vivere in un’abitazione più grande, sottoscrivendo entrambe, a tal fine, preliminare di compravendita in data 10.12.2009 avente ad oggetto l’abitazione sita in *** (RE), via *** n. ***;
? tale abitazione, con rogito in data 19.05.2011, è stata poi acquistata dalla sola Y, avendo il X, già intestatario di altro immobile, rinunciato per ragioni fiscali ad intestarsene una quota;
? per tale acquisto immobiliare il X ha corrisposto la somma di € 3.000,00 in contanti all’atto della sottoscrizione del contratto preliminare di compravendita e l’ulteriore somma di € 40.000,00 a mezzo bonifico bancario il giorno stesso della stipula del contratto definitivo (somma, quest’ultima, ricevuta dal di lui padre), mentre la Y ha contratto mutuo ipotecario garantito dal X in qualità di fideiussore.
Ciò detto, X ha chiesto la restituzione all’ex convivente della somma complessiva di € 43.000,00 versata per l’acquisto dell’ex abitazione familiare, invocando l’applicazione dell’art. 2041 c.c.
Y ha contrastato la domanda attorea osservando come tale versamento si configurerebbe come obbligazione naturale, proporzionata ed adeguata alla sua capacità economica, e sarebbe stato effettuato nella piena consapevolezza di conferire denaro per acquistare un’abitazione comune nell’ambito di un consolidato rapporto di convivenza more uxorio e di un progetto familiare ampiamente condiviso.
Così delineato l’ambito del dibattito processuale, va innanzitutto premesso che l’attore non ha agito per ottenere la restituzione della somma versata alla sua ex convivente a titolo di mutuo, come erroneamente sostenuto dalla convenuta, né ha chiesto il riconoscimento del suo diritto di comproprietà, sicché, non vertendosi in ipotesi di intestazione fittizia, il preteso diritto del X deve essere valutato con esclusivo riguardo all’attuale e pacifica titolarità dell’immobile in capo alla Y, senza che assumano alcun rilievo le ragioni che hanno indotto il X a recedere dall’intenzione di acquistare una quota dell’immobile.
Va altresì escluso che possa avere, nel caso di specie, alcuna valenza la previsione contenuta negli accordi intercorsi tra le parti a seguito della cessazione della convivenza (e recepiti dall’intestato Tribunale con decreto in data 05.10.2015 pronunciato a definizione del procedimento ex art. 337 bis c.c.), relativamente alla regolamentazione dei profili afferenti la genitorialità, laddove era stato stabilito che «Atteso che con le convenzioni sopra stipulate è intervenuto accordo su tutte le questioni tra loro pendenti, le parti dichiarano di null’altro avere a pretendere l’una dall’altra in relazione alle richieste rispettivamente avanzate e a qualsiasi titolo o ragione». Tale previsione deve essere intesa come mera clausola di stile che, per la sua eccessiva ampiezza e indeterminatezza, rivela la funzione di semplice completamento formale degli accordi: non essendo stata indicata alcuna controversia tra le parti o pretesa dell’uno nei confronti dell’altra, anche solo potenziale, detta clausola non è sufficiente di per sé a comprovare l’effettiva sussistenza di una volontà abdicativa da parte del X e non può, in assenza di altre specifiche circostanze desumibili aliunde (ad esempio da un accordo a latere), assumere il valore di rinuncia all’odierna pretesa.
Orbene, superata la suddetta argomentazione difensiva della parte convenuta, la domanda del X, secondo la stessa prospettazione attorea, va qualificata come arricchimento senza giusta causa.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale. È, pertanto, possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza (cfr. Cass. 11330/2009 rv. 608287; così anche Cass. 1266/2016 e Cass. 18632/2015).
Dunque, nell’ambito di una famiglia di fatto, le reciproche dazioni in denaro o in lavoro che vanno a vantaggio del complessivo menage familiare trovano il loro fondamento in una obbligazione naturale, ovvero sono erogate nella convinzione, esistente in capo ai partners, di adempiere ad una obbligazione fondata su doveri morali o sociali (e quindi non sono di norma ripetibili), purché esse si mantengano nei limiti di proporzionalità e di adeguatezza, parametrati alle condizioni sociali e patrimoniali delle parti (cfr. Cass. 3713/2003).
All’interno dell’azione di indebito arricchimento, la volontarietà del conferimento è idonea ad escludere il diritto alla ripetizione di quanto spontaneamente pagato in quanto (o come anche si usa dire, nella misura in cui) essa è spontaneamente indirizzata ad avvantaggiare il soggetto in cui favore viene effettuato il conferimento, ovvero in quanto essa sia una volontaria attribuzione patrimoniale a fondo perduto in favore di una determinata persona, che il conferente intende sostenere o aiutare economicamente in una sua attività o iniziativa, o esigenza (cfr. Cass. 14732/2018, in motivazione).
Nel caso di specie, il conferimento di denaro da parte del X, compiuto quando già era convivente con la Y, è stato senz’altro volontario ma non si è risolto ad esclusivo vantaggio della partner in quanto effettuato per l’acquisto di un immobile di cui avrebbero (ed hanno per oltre tre anni) goduto insieme, nell’ambito di una stabile convivenza che si protraeva da cinque anni e con la finalità di coabitare in una casa di superficie più ampia, maggiormente confacente alle mutate esigenze familiari conseguenti alla nascita del figlio.
Sebbene tale conferimento si sia risolto nell’acquisto della proprietà di un bene immobile in via esclusiva da parte della Y, ciò non fa venir meno il fatto che la volontarietà del conferimento fosse indirizzata non al vantaggio esclusivo del partner, ma alla formazione e poi alla fruizione comune di un bene e non costituisse né una donazione né una attribuzione spontanea in favore del solo soggetto che se ne è giovato. Tuttavia, nel momento in cui lo stesso progetto dell’esistenza di un patrimonio e di beni comuni è venuto meno, perché si è sciolto il rapporto sentimentale tra i due ed è stato accantonato il progetto stesso di vita in comune, il convivente che non si è preventivamente tutelato in alcun modo avrà diritto a recuperare il denaro che ha versato per quella determinata finalità, in applicazione e nei limiti del principio dell’indebito arricchimento.
Pertanto, i contributi, in lavoro o in natura, volontariamente prestati dal partner di una relazione personale per la realizzazione della casa comunque non sono prestati a vantaggio esclusivo dell’altro partner e pertanto non sono sottratti alla operatività del principio della ripetizione di indebito.
Neppure è idoneo, al fine di escludere l’applicabilità della disciplina dell’art. 2041 c.c., il richiamo al principio delle obbligazioni naturali.
Premesso quanto sopra in relazione alla applicabilità della disciplina sull’ingiustificato arricchimento qualora le prestazioni siano state spontaneamente erogate non in favore esclusivo del partner ma in vista della realizzazione di un progetto comune, occorre poi verificare se all’applicabilità delle norme sull’ingiustificato arricchimento osti la disciplina delle obbligazioni naturali, o se nel caso di specie le somme (o le prestazioni lavorative) erogate non siano ripetibili perché effettuate in adempimento di una obbligazione naturale.
Nel caso di specie, le dazioni di denaro da parte del X, ammontanti a complessivi € 43.000,00, effettuate in vista dell’acquisto immobiliare operato dall’ex convivente non sono riconducibili nell’alveo delle obbligazioni naturali perché, sebbene le parti fossero all’epoca stabilmente conviventi ed avessero formato una famiglia di fatto, si tratta di dazioni consistenti, che si collocano oltre la soglia di proporzionalità ed adeguatezza rispetto ai mezzi di ciascuno dei partners: si osservi, infatti, che, da un lato, il X, guardia giurata e percettore di un reddito mensile (calcolato su dodici mensilità) netto (ossia al netto di IRPEF netta ed addizionali locali) pari ad € 1.600,00 circa (cfr. doc. 6 dell’attore), era gravato per ancora quindici anni dalle rate mensili di € 476,00 circa relative al mutuo contratto per l’acquisto della propria abitazione (art. 115 c.p.c.) ove il nucleo familiare si era inizialmente stabilito ed ha ricevuto dal padre la provvista di € 40.000,00 versata alla convivente e, dall’altro lato, la Y, percettrice di un reddito mensile netto pari ad € 1.200,00 circa (cfr. docc. 10-13 della convenuta), ha avuto la necessità di contrarre mutuo bancario.
Si tratta, dunque, di prestazioni di ingente valore esulanti dall’adempimento di obbligazioni inerenti al rapporto di convivenza perché superiori alle normali disponibilità del X e finalizzati non ad una liberalità e non al normale contributo alle spese ordinarie della convivenza.
Che si sia trattato di dazioni eccedenti la normale contribuzione trova conferma nel fatto che l’operazione in esame, seppur funzionale agli interessi del nucleo familiare, non si presentava come obbligata in quanto le parti avrebbero potuto realizzare l’esigenza di reperire un’abitazione più spaziosa attraverso differenti soluzioni pratiche, ad esempio l’acquisto di un immobile in comproprietà tra i conviventi col ricavato della vendita da parte del X della propria abitazione ed eventualmente il contributo economico della Y (che ha poi effettivamente accesso un mutuo per l’acquisto dell’immobile) e/o del padre del X (che pacificamente ha aiutato il figlio fornendogli la provvista da quest’ultimo corrisposta alla convivente), oppure, più semplicemente, la locazione di un immobile confacente alle necessità della famiglia. Ne consegue la fondatezza della domanda restitutoria spiegata dal X e, conseguentemente, la condanna della Y al pagamento in favore di esso attore della somma di € 43.000,00.
Come noto, l’indennizzo dovuto per arricchimento senza causa, in quanto diretto a reintegrare una diminuzione patrimoniale, costituisce un debito di valore e, come tale, va liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al momento della relativa pronuncia, tenendo conto, anche di ufficio, della svalutazione monetaria sopravvenuta dalla data dell’arricchimento fino alla decisione, che costituisce il momento in cui il credito dedotto in giudizio diviene liquido ed esigibile ed il correlativo debito si converte in debito di valuta, a prescindere dalla prova della sussistenza di uno specifico pregiudizio dell’interessato dipendente dal mancato tempestivo conseguimento dell’indennizzo medesimo. La somma così rivalutata produce interessi compensativi, i quali sono diretti a coprire l’ulteriore pregiudizio subito dal creditore per il mancato e diverso godimento dei beni e dei servizi impiegati nell’opera, o per le erogazioni o gli esborsi dovuti effettuare, e decorrono dalla data della perdita del godimento del bene o degli effettuati esborsi, coincidente con quella dell’arricchimento (Cass. 10884/2007 e Cass. 1889/2013; così anche Cass. S.U. 1025/1996 e Cass. 1690/1991). Gli interessi, però, devono essere calcolati non sulla somma liquidata per il capitale, rivalutata definitivamente, ma con riferimento ai singoli momenti, con riguardo ai quali la somma equivalente al rapporto bene perduto-arricchimento si incrementa nominalmente in base agli indici prescelti di rivalutazione monetaria ovvero a un indice medio (cfr. Cass. 1884/2002 rv. 552157).
Nel caso di specie, l’attore ha chiesto l’applicazione di rivalutazione monetaria (per quanto occorrer possa, trattandosi di domanda ultronea) e interessi legali, e, tenuto conto dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, non vi è motivo per disattenderne la richiesta.
Poiché è lo stesso attore ad aver espressamente limitato la decorrenza dalla prima intimazione o richiesta e dunque dal 18.10.2016 allorquando si è verificata la mora restitutoria, non può il calcolo essere anticipato alla data dell’arricchimento.
Dunque, l’importo di € 43.000,00, quale credito di valore, deve essere rivalutato, riconoscendo gli interessi legali per il ritardo nella liquidazione, calcolati con decorrenza dal 18.10.2016 sulla somma originaria, rivalutata anno per anno (cfr. Cass. S.U. 1712/1995 rv. 490480).
Seguendo la progressione periodica annuale, tale somma valutata all’attualità è complessivamente pari ad € 44.543,55, sulla quale, invece, decorreranno – in quanto debito di valuta – gli interessi legali dalla data della presente decisione fino al saldo (il calcolo della rivalutazione si deve infatti arrestare fino alla pronuncia della sentenza, che costituisce il momento in cui il credito dedotto in giudizio diviene liquido ed esigibile ed il correlativo debito si converte in debito di valuta).
2. È infondata la domanda subordinata (riconvenzionale) della convenuta che ha chiesto la condanna dell’attore al pagamento di una somma per l’asserita occupazione sine titulo della propria abitazione per il periodo (40 mesi) in cui si è protratta la loro convivenza.
È evidente l’insussistenza del presupposto di tale domanda, ossia l’illegittimità della permanenza del X nell’immobile, atteso che non è concettualmente configurabile come abusiva la permanenza di un soggetto all’interno di un’abitazione in presenza del consenso del proprietario, tanto più nell’ambito di una stabile convivenza more uxorio, come nel caso di specie.
3. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in conformità ai parametri di cui al D.M. 55/2014, come modificato dal D.M. 37/2018. In particolare: (a) tenuto conto del valore della controversia, si applica lo scaglione da € 26.001,00 ad € 52.000,00; (b) le fasi da prendere in considerazione sono quelle di studio, introduttiva, trattazione e decisoria; (c) quanto alle prime due fasi, non sussistono ragioni per discostarsi dai valori medi (pari, rispettivamente, ad € 1.620,00 e ad € 1.147,00), mentre i compensi per la terza e la quarta fase vanno ridotti nel minimo (pari, rispettivamente, ad € 860,00 e ad € 1.384,00), stante il deposito di due brevi memorie ex art. 183 comma 6 c.p.c., l’assenza di attività istruttoria, la mancata redazione di scritti conclusivi ed il modulo decisorio semplificato.
La parte convenuta va dunque condannata alla rifusione della complessiva somma di € 5.011,00 per compenso professionale, oltre ad € 555,93 per esborsi (di cui € 10,93 per notifica citazione, € 518,00 per C.U. ed € 27,00 per marca).
P.Q.M.
il Tribunale di Reggio Emilia, definitivamente pronunciando, ogni diversa e ulteriore istanza, eccezione e deduzione disattesa, così giudica:
1. condanna Y al pagamento in favore di X della somma di € 44.543,55, già all’attualità, oltre interessi legali dalla data della presente decisione fino al saldo;
2. rigetta la domanda riconvenzionale spiegata da Y ;
3. condanna Y alla rifusione in favore di X delle spese del presente giudizio, che liquida in € 555,93 per esborsi ed € 5.011,00 per compenso professionale, oltre rimborso forfettario nella misura del 15%, CPA ed IVA (se dovuta) come per legge.
Così deciso in Reggio Emilia il 14 luglio 2020.
Il giudice
Stefano Rago
Pubblicazione il 14/07/2020