Serve una valutazione complessiva, anche diacronica, della posizione economica degli ex coniugi.

Corte d’Appello di Napoli, 10 gennaio 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Napoli, sezione famiglia e persona, così composta:
DOTT. ALESSANDRO COCCHIARA PRESIDENTE
DOTT. ANTONIO DI MARCO CONSIGLIERE
DOTT. GEREMIA CASABURI CONSIGLIERE REL.
riunito in camera di consiglio, ha pronunziato la seguente
S E N T E N Z A
nella causa civile iscritta al n. 1357/2018 del ruolo generale degli affari
contenziosi, avente ad
OGGETTO: APPELLO avverso sentenza di divorzio
e vertente
TRA
(omissis) n. a Napoli il (omissis)
elettivamente domiciliato in Napoli alla via (omissis) presso gli avv.ti P.
L.A., N. Grassi, che lo rappresentano e difendono
APPELLANTE
E
(omissis) n. a Napoli il (omissis)
elettivamente domiciliata in Napoli alla via (omissis) presso gli avv.ti R.
Sgobbo e F. Krogh che la rappresentano e difendono
APPELLATA
NONCHE’
il P.G. presso la Corte d’Appello di Napoli
INTERVENTORE EX LEGE
CONCLUSIONI
Le parti hanno concluso come in atti
IN FATTO ED IN DIRITTO
§ 1. Il Tribunale di Napoli con sentenza del 6 febbraio 2018, n. 1305/18, ha provveduto sulle
domande accessorie al divorzio tra le parti indicate in epigrafe (già pronunciato con sentenza
n. 7269/14 del 29 aprile – 15 maggio 2014), riconoscendo all’ex moglie l’assegno divorzile di
euro 1300,00 mensili.
Il Tribunale, richiama sì i criteri enunciati da Cass. 10 maggio 2017, n. 11504, ma afferma che
il giudice deve comunque tener conto dei bisogni concreti del coniuge richiedente, «a partire
dalla dignità dell’alloggio, vagamente e indirettamente riconducibili alla passata condivisione
con il convenuto di abitudini di vita sontuosa».
Nella specie, continua il Tribunale, operano considerazioni di equità, che rendono non decisive
le circostanze, pur emerse, della titolarità, da parte dell’ex moglie, di una pensione di
insegnante, il cui importo è però inferiore agli euro 1100,00 mensili del canone di locazione
della casa da lei abitata, «della possibilità di risparmio che le ha assicurato la munificenza
dell’attore, che .. ha menato vanto di avere nel tempo assunto su di sé tutti gli oneri economici
relativi non solo alla convenuta, ma anche alle tre figlie di lei…, dell’appartenenza della
convenuta a famiglia di professionisti, della confessata capacità di lei di essere in credito di
riconoscenza verso le proprie figlie per passate disposizioni liberali nei loro confronti aventi
causa da vendita nell’anno 2003 di immobile in precedenza acquistato per successione
ereditaria».
A ciò si contrappone – tenuto anche conto della durata del matrimonio – l’elevata disponibilità
economica dell’ex marito, peraltro ormai anziano (la cui attività forense è ormai in fase
terminale), e che legittimamente aspira a tutelare i suoi tre figli, «a preferenza di chi, per
effetto del divorzio, è qualificabile persona oramai estranea»; resta però fermo che egli ha
esercitato la professione di avvocato ad altissimo livello, sicché «il capitale di cui egli ha in atto
la disponibilità è di consistenza tale da consentirgli di vivere una vecchiaia particolarmente
comoda».
Conclude la sentenza: «i segni di distinzione della convenuta nell’ambiente sociale impressi dal
diffuso benessere dell’epoca matrimoniale devono reggere all’urto con lo scioglimento del
vincolo matrimoniale, nella parte in cui possono impedire avvilente mortificazione alla
persona.. Se anche è vero che riduttivamente la convenuta ostenta di fronte ai giudici
condizione miserevole di insegnante in pensione, è però anche vero che la stessa, dalla perdita
del legame con il convenuto patisce pesante turbamento nella posizione socio-economica, e
questo turbamento, proprio perché è del tipo idoneo a procurare avvilimento della persona, va
contenuto con quanto è strettamente necessario per alleviarlo. Non basta che la convenuta
non sia del tutto priva del necessario per vivere, perché il rilevante divario degli elementi di cui
si compone il patrimonio suo e quello dell’attore è sufficiente a rendere il soccorso nei termini
minimi in cui è necessario a tutelare la dignità di colei che a suo tempo fu riconosciuta una
propria pari. Lo scioglimento del vincolo.. non impedisce di ravvisare nella specie
disuguaglianza di entità tale da introdurre il rimedio equitativo».
Da qui – nella prospettiva di un «intervento riequilibratore» – il riconoscimento dell’assegno
nella misura sopra riportata.
Da qui però anche l’appello dell’ex marito, condannato oltretutto alle spese del giudizio, il quale
chiedeva, in riforma della sentenza in oggetto, rigettarsi la domanda di assegno divorzile o, in
subordine, ridursi l’importo dell’assegno a non oltre euro 400,00 mensili.
L’appello è incentrato sulla pretesa violazione, da parte del Tribunale, dei criteri per la
determinazione dell’assegno divorzile individuati da cass. 11504/17 cit., definito “epocale
mutamento di interpretazione giurisprudenziale”; nella specie l’appellata sarebbe appunto
economicamente autosufficiente.
Si è costituita l’ex moglie, che ha chiesto il rigetto dell’appello, reiterando in subordine le
richieste istruttorie (prova per testi, indagini di PT) non ammesse in primo grado.
La Corte, all’udienza del 6 giugno 2018, su richiesta delle parti, ha differito la trattazione della
causa a quella del 3 ottobre 2018, tanto perché non era stata ancora depositata la pronuncia
delle Sezioni Unite della Cassazione relativa ai criteri di determinazione dell’assegno divorzile.
Il riferimento è, evidentemente, a Cass. 11 luglio 2018, n. 18287.
Le parti hanno depositato memorie integrative che tengono conto di tale fondamentale arresto.
La Corte, pertanto, all’esito della richiamata udienza del 3 ottobre 2018, si è riservata la
decisione.
§ 2. La corretta definizione della controversia richiede una premessa in diritto, pur sintetica
( ex art. 16- bis , comma 9- octies , d.l. n. 179/2012, conv. in l. 221/2012, nonché ex art. 3 Cod.
proc. amm.), sui criteri di determinazione dell’assegno divorzile, di cui all’art. 5, 6° comma, l.
div. n. 898/1970 (nel testo novellato dalla l. 74/87).
D’altronde è ormai fin troppo noto, in ambito forense come in quello accademico, che
l’interpretazione di tale disposizione data dalla giurisprudenza di legittimità, dopo circa un
trentennio, è stata “rivoluzionata” da Cass. 11504/17, seguita da altre pronunce della S.C. ma
anche dei giudici di merito.
A sua volta però tale nuovo orientamento – incentrato sul principio di autoresponsabilità degli
ex coniugi, e sul riconoscimento dell’assegno solo al richiedente non autosufficiente
economicamente (prescindendo del tutto dal tenore di vita tenuto nel corso della vita
matrimoniale) – è stato superato, può ragionevolmente affermarsi in via definitiva, da Cass.
SSUU 18287/18 (sicché l’ancora recente revirement del 2017 è stato molto meno epocale di
quanto confidato dall’appellante).
La giurisprudenza di merito ha infatti già prestato ampia decisione a tale autorevolissimo
arresto; possono richiamarsi, tra le pronunce più complete in argomento, Trib. Roma 11
ottobre 2018 e Trib. Civitavecchia 14 settembre 2018, Foro it., 2018, I, 3724, nonché App.
Palermo 26 novembre 2018 e Trib. Pavia 17 luglio 2018, id . fasc. 1/2019 (infra saranno
richiamati ulteriori provvedimenti, anche inediti).
Questa Corte presta a sua volta piena e convinta adesione alla statuizione delle SSUU, di cui –
del resto – aveva già ampiamente anticipato gli snodi argomentativi e i criteri adottati, in
evidente contrasto con Cass. 11504/17 cit., cfr. App. Napoli 22 febbraio 2018, id., 2018, I,
1386 (cui questa Corte si è adeguata con pronunce successive, così superando una iniziale e
solo parziale adesione ai canoni di cui alla pronuncia della S.C. del 2017).
Cass. 18287/18 è certo una pronuncia complessa, “di principio”, come si addice alle SSUU che
– abbandonando (felicemente) l’impostazione ideologicamente individualista (quanto
agiuridica), fatta propria dalla pronuncia del 2017 – ha vigorosamente riaffermato, anche nella
fase successiva allo scioglimento del vincolo, i principi di solidarietà fondati sui canoni
costituzionali offerti dagli artt. 2 e 29 Cost.; si è così realizzato – come osservato in dottrina –
un giusto equilibrio tra libertà e responsabilità, ovvero tra autodeterminazione e solidarietà
postconiugale; d’altra parte l’assegno divorzile costituisce il solo istituto cui affidato, nostro
ordinamento, dal punto di vista economico, il passaggio, per i coniugi, dalla vita comune a
quella definitivamente separata.
Il contenuto decisorio può essere sintetizzato nei termini che seguono:
«Posto che l’assegno divorzile svolge una funzione non solo assistenziale, ma in pari misura
anche perequativa e compensativa, continuando ad operare i principi di eguaglianza e di
solidarietà di cui agli art. 2 e 29 cost., e che il diritto al riguardo del richiedente va accertato
unitariamente, senza una rigida contrapposizione tra la fase attributiva (an debeatur) e quella
determinativa (quantum debeatur), il giudice: a) procede, anche a mezzo dell’esercizio dei
poteri ufficiosi, alla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti; b)
qualora ne risulti l’inadeguatezza dei mezzi del richiedente, o comunque l’impossibilità di
procurarseli per ragioni obiettive, deve accertarne rigorosamente le cause, alla stregua dei
parametri indicati dall’art. 5, 6° comma, prima parte, l. 898/70, e in particolare se quella
sperequazione sia o meno la conseguenza del contributo fornito dal richiedente medesimo alla
conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due,
con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all’età dello stesso
e alla durata del matrimonio; c) quantifica l’assegno senza rapportarlo né al pregresso tenore
di vita familiare, né al parametro della autosufficienza economica, ma in misura tale da
garantire all’avente diritto un livello reddituale adeguato al contributo sopra richiamato»
(massima non ufficiale)
Questa Corte reputa che, alla stregua di tale pronuncia, e sviluppandone coerentemente gli
snodi decisionali centrali, costituisca ormai diritto vivente:
a) – l’abbandono della concezione bifasica del procedimento di determinazione dell’assegno
divorzile, fondata sulla distinzione tra criteri attributivi e criteri determinativi
b) l’abbandono di ogni automatismo nella determinazione dell’assegno, e quindi il superamento
sia del criterio dell’autosufficienza economica (di cui alla pronuncia del 2017) sia di quello della
conservazione (pur se solo tendenziale) del pregresso tenore di vita (di cui alla giurisprudenza
fino al 2017);
– il recupero della funzione composita – assistenziale e perequativa – compensativa –
dell’assegno, con superamento quindi della concezione fondata sulla funzione solo assistenziale
dell’assegno medesimo (comune a tutta la giurisprudenza precedente); l’ottica perequativa –
compensativa, beninteso, è quella prevalente, in quanto in linea con il principio costituzionale
di pari dignità tra i coniugi:
– l’equiordinazione, ma solo tendenziale e in astratto, di tutti i criteri previsti dall’art. 5, 6°
comma l. div., senza distinzione tra an e quantum del diritto all’assegno; beninteso, però, in
concreto, con riferimento alla specifica fattispecie scrutinata, i criteri in oggetto non devono
avere sempre e comunque la stessa importanza; infatti il giudice ben potrebbe riconoscere
prevalenza ad uno o ad alcuni di essi rispetto agli altri, appunto tenendo conto delle peculiarità
della vicenda sottoposta alla sua cognizione; la richiamata prevalenza della funzione
perequativa – compensativa, del resto, si risolve nella prevalenza della c.d. causa concreta,
anche con riferimento al giudizio sul diritto all’assegno;
– la particolare rilevanza del fattore “tempo”, inteso come durata della vita matrimoniale ma
anche (evidentemente in relazione all’età) come “tempo” che gli ex coniugi hanno davanti a sé,
una volta finito il matrimonio: è evidente che se il richiedente è ancora giovane ha, appunto
sotto il profilo temporale, una maggiore possibilità di realizzazione professionale autonoma
(sicché l’esigenza di un assegno divorzile si affievolisce); se invece l’età è avanzata, e il tempo
che resta è, verosimilmente, ridotto, le conclusioni non possono essere che diverse;
– la concretizzazione del parametro normativo dell’ “adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi”, da
contestualizzare con riferimento alla concreta vicenda coniugale; si tratta di parametro di
grandissimo peso, in quanto, qualora i mezzi del richiedente non siano inadeguati, vale a dire
qualora non vi sia una significativa sperequazione tra la posizione economica degli ex coniugi,
l’assegno va tout court negato; in altri termini, fermo il carattere unitario del giudizio, l’esame
del giudice deve pur sempre prendere le mosse dall’esistenza della disparità attuale tra i redditi
e i patrimoni degli ex coniugi e proseguire nella direzione della compensazione e della
perequazione delle condizioni economiche;
– la necessità conseguente di un accertamento rigoroso del nesso di causalità tra scelte
endofamiliari e situazione dell’avente diritto al momento dello scioglimento del vincolo
coniugale, nonché di una prognosi futura che tenga conto delle condizioni del richiedente
l’assegno (come detto l’età, ma anche la salute, ecc.) e della durata del matrimonio (fattore,
quest’ultimo, di grandissimo rilievo). Si tratta evidentemente di fattore di rilevanza decisiva;
Beninteso, non pochi profili, specie “attuativi”, restano in ombra, sicché vi è ampio spazio (e
anzi necessità) per ulteriori interventi della giurisprudenza, in primo luogo di legittimità.
§ 3. Questa Corte, tenendo ovviamente presenti le peculiarità del caso concreto, e dei motivi
di appello oltre che delle difese della appellata, reputa allora necessario sviluppare e mettere a
fuoco taluni ulteriori profili che discendono della pronuncia delle SSUU.
Tanto, pertanto, senza alcuna pretesa di organicità e completezza.
§ 3. Il primo profilo da approfondire – quello forse più innovativo della pronuncia delle SSUU –
attiene alla necessità del rigoroso accertamento del nesso causale tra l’accertata sperequazione
tra i mezzi economici di cui ciascuna parte disponga e il «contributo fornito dal richiedente
medesimo alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di
ciascuno dei due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione
all’età dello stesso e alla durata del matrimonio» (cfr. sub b) la massima sopra riportata).
Infatti «l’assegno divorzile non è diretto ad assicurare al coniuge economicamente più debole
l’agiatezza goduta nel corso della vita matrimoniale, ma a compensare l’investimento compiuto
nel progetto matrimoniale medesimo, così almeno tendenzialmente perequandosi i disagi
economici discendenti dal divorzio», così icasticamente Trib. Civitavecchia 14 settembre 2018
cit.
Tale accertamento, come detto rigoroso, costituisce una precisa ricaduta di quella funzione
perequativa – compensativa dell’assegno di cui si è già segnalata la centralità, nella
prospettiva dell’intervento delle SSUU: per dirla con la migliore dottrina, l’assegno – in tale
prospettiva – va riconosciuto alla parte che non dispone di mezzi adeguati in conseguenza alle
comuni determinazioni assunte nella condizione della vita familiare, e che pertanto va
parametrato in funzione delle caratteristiche e della distribuzione dei ruoli endofamiliari, in
proporzione alla durata, all’intensità e alla rilevanza del contributo fornito dal richiedente
medesimo.
Si tratta, non a caso, di uno dei profili più e meglio approfonditi dalla giurisprudenza di merito
successiva all’intervento delle SSUU.
L’esistenza e l’entità, qualitativa e quantitativa, di tali contribuzioni, se si preferisce di tali
sacrifici, può incidere in maniera significativa, se non decisiva, non solo sull’importo
dell’assegno, ma tout court sul suo stesso riconoscimento (o diniego).
Tanto a meno che non si voglia attribuire, con parte della giurisprudenza di merito (ma vi sono
anche riscontri dottrinali, che muovono proprio dalla pronuncia delle SSUU) autonoma
rilevanza alla sola funzione assistenziale, qualora non vi sia in concreto spazio per quella
perequativa – compensativa.
In tal caso però l’assegno potrà essere riconosciuto all’ex coniuge, che si trovi in condizioni di
marcato dislivello reddituale/patrimoniale rispetto all’altro, che non disponga, obiettivamente,
di risorse tale da consentirgli l’autosufficienza economica, da intendersi come esistenza libera e
dignitosa (la valutazione dell’autosufficienza, in tal caso, dovrebbe comunque non essere
ancorata a criteri rigidi e predefiniti, bensì, al di là di ogni automatismo, ad indici variabili e
relativi, collegati alle situazioni concrete, dovendosi in particolare valutare la posizione del
coniuge richiedente, quanto alle sue condizioni di vita, anche pregresse, alla sua età, ai suoi
progetti e alle sue condizioni di salute).
§ 4. Si pongono, evidentemente, rilevanti questioni probatorie, anche con riferimento al riparto
del relativo onere.
Già la dottrina ha chiarito che la pronuncia delle SSUU ha certo esaltato i poteri inquisitori del
giudice (ampiamente fondati sull’art. 9 l. div.); tuttavia proprio l’esigenza di un rigoroso
accertamento del nesso causale tra il divario economico tra le parti, accertato o allegato, e le
scelte operate dalla famiglia, e il sacrificio delle aspettative professionali o reddituali, tenuto
conto della durata del matrimonio, rende centrale il tema dell’onere della prova; quelli
richiamati sono dati e parametri certo non surrogabili da un impulso inquisitorio, che non
potranno che essere dimostrati dalla parte che ha interesse ad ottenere l’assegno.
In concreto vi è però anche spazio per le presunzioni e per la c.d. non contestazione.
Di particolare rilevanza, per le intersezioni tra i profili sostanziali e quelli processuali appena
richiamati (ma anche con riferimento al parametro delle ragioni della decisione), è Trib. Roma
7
11 ottobre 2018 cit.: «L’assegno divorzile, che va determinato alla stregua dei parametri
indicati da Cass. SSUU 18287/2018, va attribuito al coniuge economicamente più debole, nella
specie la moglie, dovendosi presumere, in ragione della riscontrata disparità reddituale e
patrimoniale – benché il marito si sia ampiamente sottratto all’obbligo di esibire la
documentazione relativa – , che ella, nel corso della vita matrimoniale durata circa quattordici
anni, abbia contribuito alla realizzazione professionale dell’uomo, cui era stata anche
addebitata la separazione».
Cfr anche Trib. Civitavecchia 14 settembre 2018 cit., che ha confermato, anche alla stregua dei
“nuovi” criteri l’assegno divorzile già disposto in favore della moglie, tenuto conto che questa
«in età ormai avanzata, si è dedicata alla cura della famiglia e delle figlie, ormai adulte, nel
corso della convivenza ultratrentennale, sacrificando le proprie prospettive professionali, sicché
attualmente ella dispone di un modesto reddito, come insegnante, e di un ridotto patrimonio
immobiliare, mentre il marito ha potuto affermarsi nel mondo del lavoro, ed è attualmente un
medico chirurgo dalla elevata redditività».
La giurisprudenza del tutto condivisibilmente, ha invece negato l’assegno divorzile (anche a
fronte di matrimoni di durata considerevole), allorché il coniuge richiedente non ha fornito
apporti significativi alla conduzione della vita familiare e in genere al benessere familiare.
Cfr. così App. Palermo 26 novembre 2018 che, ai sensi dell’art. 9 l. div., e applicando i criteri
di Cass. 18287/2018, ha revocato l’assegno già riconosciuto all’ex moglie, tra l’altro e
soprattutto tenendo conto «che ella (certo anche in ragione della brevissima durata del
matrimonio, sciolto per inconsumazione) non aveva apportato alcun contributo
all’implementazione del patrimonio familiare e del marito, né aveva sacrificato aspettative
professionali e reddituali»
Di rilievo anche Trib. Torino sentenza 9 novembre 2018, n. r.g. 7169/2016; Pres. CASTELLANI,
Est. DE MAGISTRIS, M.G. c. C.S., inedita che ha sì riconosciuto alla moglie un assegno
divorzile, ma di importo ridotto (tenendo conto della non breve durata del matrimonio, è della
rilevante sperequazione dei mezzi tra le parti), in funzione solo assistenziale (la moglie è ormai
anziana e priva di reddito); di contro il Tribunale ha ritenuto non operante la funzione
perequativa-compensativa, in quanto il contributo dato dalla moglie «nella formazione del
patrimonio familiare è stato trascurabile .. durante il matrimonio il mantenimento della
famiglia, che conduceva una vita assai agiata, gravava interamente sulle finanze del sig. M. La
sig.ra C.. ha ripetutamente sottolineato che il benessere familiare era da ricondurre alla
ricchezza della famiglia M.; ha altresì riconosciuto che il proprio patrimonio è conseguenza
delle intestazioni, o cointestazioni, di immobili dovute ad atti di liberalità del sig. M. il quale
aveva acconsentito alla intestazione alla moglie di immobili successivamente venduti dopo la
separazione».
In termini cfr. Trib. Bergamo, sentenza 13 settembre 2018, n.r.g. 7147/2015; Pres. CARLI,
Est. MARRAPODI; A.R. c. G.A.R., inedita, che ha negato l’assegno divorzile all’ex moglie (di per
sé benestante), pur se il marito dispone di una posizione economica ben più favorevole, in
quanto la donna neppure aveva dedotto di «aver contribuito con il proprio lavoro, anche
casalingo, alla formazione del patrimonio mobiliare ed immobiliare dell’ex marito; la mera
doglianza di disporre di una “ridotta capacità di autonomia patrimoniale” in raffronto a quella
dell’ex coniuge, e la richiesta di un assegno finalizzata esclusivamente a garantire alla
convenuta un introito pari a quello dell’ex marito ora che è definitivamente cessato il vincolo
coniugale, esorbita la ratio dell’assegno divorzile.. Se è vero che l’assegno divorzile non riveste
soltanto una funzione strettamente assistenziale, è anche vero che l’assegno svolge una
funzione equilibratrice, perequativa e compensativa solo se, e quando, la disparità economicopatrimoniale
dei coniugi trova la propria causa nelle “comuni determinazioni assunte dalle parti
nella conduzione della vita familiare” ovvero nel ruolo e nel contributo fornito dal coniuge
economicamente più debole alla formazione del patrimonio comune e personale dell’altro
coniuge… L’assenza di specifiche allegazioni della parte sul punto induce il Collegio ad
escludere che il chiesto assegno divorzile possa assumere, nella fattispecie, una funzione
compensativa; … non sono emersi elementi tali da far ritenere che parte attrice o parte
convenuta abbiano subito un sacrificio personale nell’arco della vita matrimoniale, dipendente
da scelte comunemente assunte.. diversamente argomentando, l’attribuzione di un assegno
con funzione esclusivamente correttiva e riequilibratrice della situazione economica degli ex
coniugi condurrebbe verso l’attribuzione di un vantaggio “indebito” in favore del richiedente
l’assegno, ovvero di un vantaggio superiore rispetto alle sue concrete esigenze e rispetto al
sacrificio patito in dipendenza del ruolo assunto all’intero della famiglia. Il riconoscimento
dell’assegno divorzile in siffatte ipotesi condurrebbe verso la creazione di vere e proprie
“rendite di posizione” disancorate da una reale esigenze assistenziale ovvero dal
riconoscimento del contributo fornito dall’ex coniuge nella formazione del patrimonio comune o
personale dell’altro, così frustrando la ratio dell’istituto giuridico. In definitiva, ogni qual volta
la disparità reddituale e patrimoniale degli ex coniugi deriva da cause “esterne” alla famiglia,
ovvero da cause non dipendenti e correlate a scelte endofamiliari, non vi è spazio per il
riconoscimento di un assegno divorzile con funzione esclusivamente riequilibratrice»
§ 4 b. Il profilo qui in esame, quello delle contribuzioni e del nesso causale nella prospettiva
sopra richiamata, involge anche le questioni (forse lasciate in ombra dalle SSUU) della
rilevanza sia delle contribuzioni effettuate, nel corso della vita matrimoniale, dal coniuge cui è
poi chiesto l’assegno in favore dell’altro (futuro richiedente), sia delle contribuzioni date e
ricevute con la cessazione stessa della unione coniugale.
E’ evidente infatti che la funzione perequativa-compensativa potrà ritenersi già assolta, in tutto
o in parte (con ovvie conseguenze sulla determinazione del quantum ma anche dell’an
dell’assegno divorzile) qualora, nel corso della vita matrimoniale, il coniuge economicamente
più forte abbia già provveduto a “compensare” l’altro dei sacrifici subiti e delle attività svolte
nell’interesse della famiglia; tale “compensazione” che ha ovviamente anche una funzione
perequativa, può essere espletate nelle forme più varie, ma – di norma – assumono grande
rilevanza le elargizioni in danaro, le donazioni, lo stesso contributo economico dato in generale
al benessere della famiglia (nell’ambito, beninteso, del reciproco dovere di collaborazione
anche materiale, ex art. 143 c.c.).
Pari rilevanza, evidentemente, hanno le contribuzioni funzionali alla cessazione della
convivenza o funzionali a queste ultime, e in generale il riassetto della posizione economica
delle parti successiva già alla separazione; si pensi già alle conseguenze dello scioglimento
della eventuale comunione legale tra i coniugi.
Qualora non si tenesse conto – nella determinazione dell’assegno divorzile – di tutte tali
elargizioni, in effetti, vi è il concreto rischio di determinare ingiustificate locupletazioni.
Si pensi, ad esempio, alla vicenda di cui ad App. Milano 16 novembre 2017, id . 2017, I, 3732
(su cui consta si pronuncerà nei prossimi mesi la S.C.); tale pronuncia ha negato alla ex moglie
l’assegno divorzile, già riconosciuto in primo grado per l’importo di un milione e
quattrocentomila euro mensili, ciò in applicazione di Cass. 11504/17.
Infatti vi era sì una sicura sperequazione economica tra le parti – l’ex marito è definito uno
degli uomini più ricchi del mondo, ma la moglie godeva di sicura autosufficienza economica in
quanto la stessa dispone di un cospicuo patrimonio, immobiliare e mobiliare, valutato in
diverse decine di milioni di euro, con conseguente possibilità e capacità di investimento.
E’ agevole osservare – beninteso in astratto, e in base al mero esame della pronuncia – che, a
rigore, all’ex moglie l’assegno divorzile ben potrebbe essere negato anche alla stregua della
pronuncia delle SSUU; infatti è stato proprio il marito a costituire integralmente quel
rilevantissimo patrimonio di cui la donna tuttora dispone (ed è stato anche onerato di un
rilevantissimo assegno di mantenimento nel corso della separazione), sicché ben potrebbe
affermarsi che la funzione perequativa-compensativa (che certo non è senza limiti, anche
temporali) sia stata già (in tutto o in parte) realizzata: né ovviamente potrebbe esservi spazio
per un assegno meramente assistenziale (la donna è sicuramente autosufficiente, quale che sia
la portata che voglia attribuirsi a tale nozione peraltro extranormativa).
La giurisprudenza di merito, successivamente all’arresto delle SSUU, ha tenuto conto del
riequilibrio già intervenuto tra le parti, e più in generale della esigenza di una valutazione
10
complessiva, anche diacronica, della posizione economica degli ex coniugi, come del resto
segnalato anche dalla dottrina.
Così Trib. Pavia 17 luglio 2018 ha negato l’assegno divorzile all’ex moglie, tra l’altro (cfr anche
infra), in quanto le parti già «in sede di separazione, già avevano proceduto alla divisione del
patrimonio comune con attribuzioni che avevano tenuto conto dell’apporto dato alla moglie al
marito e alla famiglia»
Cfr anche App. Catania, sentenza 20 settembre 2018, Pres. FRANCOLA, Est. RUSSO, n. r.g.
1448/2017, S.S. c. C.C.O. che ha confermato (nella prospettiva solo assistenziale cui si è fatto
cenno) l’assegno divorzile alla moglie, negando rilevanza alla funzione perequativacompensativa
sul presupposto che la ricchezza familiare era già stata divisa tra i coniugi
all’epoca della separazione (la moglie aveva prelevato la metà dei risparmi familiari (circa
140.000.000 di lire) ed ha ricevuto uno dei due appartamenti di cui si componeva lo stabile di
proprietà comune); ne segue che la moglie «ha chiuso la sua esperienza di convivenza
matrimoniale con uno svantaggio, dato dal mancato tempestivo inserimento nel mondo del
lavoro, ma con dei beni patrimoniali congrui. Una volta che il coniuge è stato dotato, al
momento della separazione del conseguente scioglimento della comunione legale, di un
patrimonio che rappresenta la metà della ricchezza familiare, può applicarsi quel principio di
autoresponsabilità, più volte richiamato anche dalla Suprema Corte, in virtù del quale si può e
si deve pretendere che il coniuge faccia un impiego utile dei mezzi che ha a disposizione, al
fine di rendersi indipendente … non può valorizzarsi che la perequazione delle risorse
economiche è già in parte avvenuta con la divisione che le parti hanno fatto dei beni comuni,
ed in particolare degli immobili in comunione legale e del denaro sul conto corrente
cointestato»
L’assegno è stato riconosciuto sul rilievo che il matrimonio è durato circa trenta anni e che la
moglie, ormai quasi settantenne, percepisce solo un modestissimo assegno sociale, mentre il
marito percepisce una congrua pensione IMPS.
§ 5. Cass. 18287/18 dà rilevanza nell’ambito degli accertamenti demandati al giudice, anche al
giudizio prognostico ex ante, che ben può definirsi “contro fattuale” (ma il termine non è nella
sentenza delle SSUU) sulle aspettative lavorative sacrificate dal coniuge richiedente l’assegno
in ragione del matrimonio (il giudizio appunto va condotto “come se” il matrimonio non ci fosse
stato).
Questa Corte condivide, sul punto, Trib. Pavia 17 luglio 2018 cit., secondo cui
«L’assegno divorzile va determinato alla stregua dei parametri indicati da Cass. SSUU
18287/2018, anche alla stregua di un giudizio prognostico “controfattuale”, come se il
matrimonio non ci fosse stato, sulle aspettative sacrificate dal richiedente rispetto alla
situazione che si crea con il divorzio, tanto alla stregua di fatti rientranti nella comune
esperienza e delle presunzioni semplici, tenendo conto, in particolare: a) del tipo di modello
familiare in concreto voluto e posto in atto dalla coppia b) della circostanza che l’assegno
divorzile non può comunque ovviare alle sperequazioni che esistono nel mercato del lavoro,
atteso che, diversamente, si favorirebbero scelte matrimoniali basate sulla convenienza
economica» (massima non ufficiale).
Nella specie tale giudizio non è favorevole alla moglie richiedente l’assegno che, laureata in
scienze politiche, rinunciò a lavorare come giornalista, seguendo il marito nelle diverse città
dove questi si era trasferito per lavoro, conseguendo poi brillantissimi risultati, anche
economici.
Secondo il Tribunale, infatti, che ricorre a dati di comune esperienza, la donna, se anche
avesse lavorato come giornalista, al termine della carriera non si sarebbe trovata in una
situazione patrimoniale migliore di quella reale, attuale (tenuto conto che, al di fuori delle
“grandi firme” i redditi dei giornalisti non sono particolarmente elevati).
§ 6. Infine vi è la questione delle “ragioni della decisione”, uno dei parametri espressamente
previsti dall’art. 5, 6° comma l. div. cit.; nella specie le parti hanno fatto ampiamente
riferimento alle vicende matrimoniali, e alle rispettive “responsabilità”, che hanno poi portato
alla separazione giudiziale, con sentenza di cui si dirà.
Quello delle ragioni della decisione è certo criterio vago, raramente applicato dalla
giurisprudenza, che comunque ne ha dato letture ambigue quanto contrastanti, cfr. 12 febbraio
2013, n. 3398; 17 dicembre 2012, n. 23202; 27 dicembre 2011, n. 28892.
Questa Corte reputa con la migliore dottrina, successiva alla pronuncia delle SSUU, che tale
criterio, a non volerlo ritenere recessivo, con riferimento alla determinazione (quantum e ormai
anche an) dell’assegno divorzile, trovi spazio – incidendo sulla causa petendi – essenzialmente
con riferimento alla fattispecie, normativamente previste, pur se statisticamente poco
frequenti, di divorzio diretto, vale a dire non preceduta da un periodo di separazione legale (l.
div. art. 3, 1° comma, sub 1), nonché 2° comma, sub 2 a), c-g): l’ipotesi più nota è forse il
divorzio per inconsumazione. Non interessa, in questa sede, stabilire l’operatività di quel
parametro in tali fattispecie.
Di contro, per le fattispecie di gran lunga più comuni di divorzio preceduto da un periodo di
separazione legale (l. div., art. 3, 2° comma, sub 2, c.d. divorzio indiretto) le ragioni della
decisione giocano un ruolo sicuramente meno significativo.
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Fermo infatti che non può tenersi conto delle vicende successive alla separazione (rectius,
all’insorgere della intollerabilità della convivenza, che è alla base della separazione, art. 151
c.c.) cfr. App. Napoli 2.11.2012, id ., 2013, I, 2034, le condotte anteriori, tenute nel corso della
vita matrimoniale, possono essere valutate, quali “ragioni della decisione”: a) se, in quanto
integranti violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, siano alla base di una pronuncia di
addebito della separazione, abbiano cioè costituito motivi di addebito b) se tali motivi siano
anche le cause che ostano alla ricostituzione della comunione tra i coniugi, ex art. 1 l. div.,
giustificando, quindi, la pronuncia di divorzio.
L’operatività in concreto di tale criterio nel divorzio indiretto qui non interessa (resta fermo,
beninteso, quale che sia il coniuge cui la separazione sia stata addebitata, che l’assegno possa
essere riconosciuto solo a quello che disponga di redditi inadeguati), cfr infra per il caso di
Di contro questa Corte reputa che il criterio in oggetto non abbia spazio, nel divorzio indiretto,
qualora la domanda di addebito non sia stata formulata o, se proposta, sia stata abbandonata
ed il giudice non abbia pronunciato sulla stessa ovvero, e soprattutto (come nel caso di specie)
sia stata proposta e rigettata.
Infatti, in tali casi, la sentenza – destinata a passare in giudicato – pronuncia la separazione
previo accertamento che la stessa è conseguenza soltanto dell’impossibilità della prosecuzione
della convivenza, senza che tale evento sia stato provocato dalla violazione dei doveri coniugali
da parte di uno o di entrambi i coniugi.
Evidentemente tale assetto non muta nel caso di pregressa separazione consensuale, frutto di
un accordo dei coniugi, che sottende la sicura rinuncia alla volontà di far accertare che
l’impossibilità di proseguire la convivenza coniugale sia conseguenza della violazione di doveri
coniugali da parte di uno o di entrambi i coniugi.
Ne segue l’impossibilità giuridica di far valere quelle condotte come “ragioni della decisione”,
nel giudizio sulla determinazione dell’assegno divorzile.
Ciò è evidente proprio allorché la domanda di addebito (con riferimento alle condotte in
questione) sia stata rigettata, ma il ragionamento non muta – beninteso – in caso di mancata
proposizione della domanda stessa: il giudicato, è appena il caso di ricordarlo, copre il dedotto
e il deducibile (qui non interessa la diversa questione della autonoma proponibilità della
domanda risarcitoria per illecito endofamiliare).
§ 7. E’ appena il caso di segnalare, infine, che nella specie, nonostante il doppio revirement
giurisprudenziale, il diritto di difesa delle parti non è stato violato, né del resto ciò è stato
lamentato: l’appellante e l’appellato, come detto, hanno depositato delle memorie difensive
integrative, che tengono conto dei nuovi insegnamenti giurisprudenziali (ciò è di particolare
rilievo per l’appellante, atteso che l’atto introduttivo era strutturato in funzione di una richiesta
corretta applicazione di Cass. 11504/17, pronuncia a suo dire disattesa dal Tribunale); non vi
sono state – né d’altronde vi sarebbe stato spazio – per ulteriori richieste (ex. di remissione in
termini).
Resta però indubbio – ma è anomalia riferibile proprio al doppio revirement cui si faceva
cenno- che la Corte, giudice di appello, in una certa misura si trova a sostituirsi al giudice di
primo grado, la cui decisione è irreparabilmente superata (né sfugge d’altronde, nella specie,
che il Tribunale non correttamente aveva riconosciuto carattere sostanzialmente equitativo alla
propria statuizione).
La causa, pertanto, può essere decisa: e si tratta di decisione non disagevole, alla stregua di
quanto premesso in diritto.
§ 8. Il matrimonio tra le parti ha avuto, indubbiamente, una lunga durata, oltre 25 anni.
Risulta infatti contratto l’8 aprile 1984, mentre l’ordinanza presidenziale del giudizio di
separazione è del 15- 19 maggio 2009; la separazione è stata poi pronunciata con sentenza
non definitiva (sul solo status) n. 4813/2010 del 9 febbraio – 28 aprile 2010; la sentenza
definitiva sulle questioni accessorie (rigetto delle domande di addebito, e riconoscimento alla
moglie di un assegno di mantenimento, nell’importo di euro 1200,00 mensili) è la n.
1367/2017 del 14 ottobre 2016 – 7 febbraio 2017, passata in giudicato.
La sentenza non definitiva di divorzio (sul solo status) è, come accennato, la n. 7269/14 del 29
aprile – 15 maggio 2014 (si noti però che vi è stata una prima sentenza di inammissibilità, na
n. 6131/2013 del 13 maggio 2013, perché la domanda era stata proposta prima del decorso
del triennio, ratione temporis richiesto dalla legge).
Deve poi riconoscersi – alla stregua dell’amplissimo (anzi eccessivo) materiale probatorio
documentale in atti – che vi è sicuramente una rilevante sperequazione tra la posizione
economica degli ex coniugi: si tratta, come detto, del primo accertamento cui il giudice è
tenuto.
La Corte deve rimarcare che entrambi, certo comprensibilmente, ma (specie il marito) al di là
addirittura di canoni di comune prudenza processuale (tenuto conto delle acquisizioni
processuali) hanno tentato, ma inutilmente, di ridimensionare la propria posizione economica.
Qui di seguito si offrirà una ricostruzione sintetica di quanto risulta provato.
Particolare rilevanza, in particolare, deve riconoscersi all’accertamento della posizione
economica delle parti compiuto dalla ancora recente sentenza definitiva di separazione, n.
1367/17, incontrovertibile perché vi è giudicato; ferma infatti la differenza, ormai abissale, dei
presupposti per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento nella separazione (ex art. 156
c.c.) e di quelli per il riconoscimento dell’assegno divorzile, è costante e ancora attuale
insegnamento giurisprudenziale che «l’assetto economico relativo alla separazione può
rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili
elementi di valutazione relativi .. alle condizioni economiche dei coniugi», così ex plurimis
Cass. 15 maggio 2013, n. 11686.
§ 8. Può partirsi dall’appellante, l’ex marito, tenuto al versamento dell’assegno.
Questi – ed è dato che addirittura rientra nel “notorio” di questa Corte, sezione specializzata in
materia di famiglia – è stato sicuramente uno dei più noti e prestigiosi avvocati napoletani di
diritto di famiglia, dalla clientela ampia quanto illustre, tanto che il suo nome appare di
frequente nei repertori giurisprudenziali (cfr. ex plurimis, Cass. 24 dicembre 2013, n. 28655).
Certo, e come rilevato anche dal Tribunale, l’attività professionale dell’appellante è ormai nella
fase conclusiva (pur se l’appellata ha documentato che tuttora controparte patrocina un
numero consistente di cause, anche presso questa Corte; non può poi escludersi lo
svolgimento di attività di consulenza, cfr anche la sentenza di separazione cit.): egli, infatti, n.
nel 1934, è ormai estremamente anziano (egli non è più avvocato rotale)
Quel che però davvero interessa (come pure riconosciuto dal Tribunale) è che l’appellante,
evidentemente grazie ad una tanto intensa e lunga vita professionale, dispone tuttora di una
posizione economica esclusiva e di altissimo livello; la sentenza di separazione cit. rimarca che
egli «ha avuto elevatissima capacità di risparmio e accumulo».
Ne segue che le sue dichiarazioni reddituali (la documentazione esibita è del resto molto
parziale) sono del tutto inattendibili, senza che occorrano indagini di PT, o addirittura l’invocata
Ctu contabile (come correttamente osservato dall’appellata, ancora nei primi anni dello scorso
decennio, allorché era ancora nel pieno dell’attività professionale, l’appellante dichiarava redditi
per circa euro 27.000,00 lordi annui).
Il riferimento è in primo luogo all’eccezionale patrimonio immobiliare dell’appellante, pur se
alcuni di tali cespiti sono intestati ai figli dell’appellante; la sentenza di separazione, al
riguardo, ha però osservato che «i figli non avevano alcuna disponibilità di spesa» (si tratta di
valutazione mai contestata, anche in questa sede: l’appellante pertanto non nega affatto di
aver effettuato tutti gli acquisti immobiliari in oggetto con proprio danaro; neanche è dedotto
se e quale attività abbiano svolto e svolgano i tre figli in questione, al cui mantenimento
tuttora – apprezzabilmente, beninteso – tuttora provvede il padre).
E’ sufficiente il riferimento alla grande abitazione familiare alla via (omissis) con terrazza
panoramica, alla prestigiosissima villa La Fiorada in Capri (indicata, in una pubblicazione
specialistica, come una delle abitazioni più esclusive dell’isola), l’appartamento in Napoli alla
centralissima Riviera di Chiaia (dove l’appellante attualmente vive con il figlio, che ne è il
formale intestatario), la lussuosa villa a Seefeld, in Tirolo (intestata ad una figlia).
E’ inoltre documentato l’acquisto di ulteriori cespiti immobiliari a Napoli, nella pure
centralissima via (omissis) (dove ha anche sede lo studio professionale dell’appellante) ed
ancora a Milano e a Roma.
L’appellata richiama e documenta anche la vendita, per importi assolutamente significativi, di
ulteriori cespiti immobiliari, appartamenti a Napoli, terreni a Salerno.
Non vi è comunque necessità quanto alla posizione dell’appellante, di ulteriori approfondimenti
(ad es. con riferimento agli investimenti e alle disponibilità in danaro); come si dirà infatti,
l’esatta determinazione del suo patrimonio (sicuramente superiore a quello della ex moglie, va
ribadito non ha rilievo dirimente.
§ 8 c. Occorre quindi procedere alla ricostruzione della posizione economica della ex moglie,
l’appellata, che – lo si è accennato (ed è stato rimarcato anche dal Tribunale) – si presenta
come pressoché nullatenente, e ampiamente dipendente dagli aiuti spontanei dei congiunti.
La situazione effettiva – ferma la sperequazione rispetto alla posizione economica dell’ex
marito – è molto diversa.
L’appellante, ormai ultrasettantenne, è insegnante in pensione; dichiara di percepire euro
900,00 mensili, ma la sentenza di separazione fa riferimento ad una pensione di poco più di
1100,00 mensili.
A suo dire, comunque, la pensione che percepisce è inferiore al canone di locazione per
l’appartamento dove abita in Napoli, nella centrale via (omissis), pari ad euro 1000,00 mensili
oltre oneri condominiali.
Si tratta però di circostanza che, se pure fosse vera, nuocerebbe grandemente alla
prospettazione dell’appellata.
E’ infatti del tutto irragionevole, secondo canoni di comune esperienza, che la stessa utilizza
totalmente la pensione (neanche sufficiente) per il solo pagamento del canone di locazione
(per un appartamento, si noti, di sicuro prestigio almeno per la collocazione); è di contro del
tutto verosimile che ella – in realtà – disponga di altri e più cospicui introiti, per tutte le
esigenze della vita quotidiana (trattandosi poi di persona ormai abituata, dopo una lunga vita
matrimoniale, ad un elevato tenore di vita); né poi vi è reale prova dei (fantomatici) prestiti
che le elargirebbero stabilmente i facoltosi quanto generosi congiunti (tenuto poi conto che se
davvero ella potesse far conto su tali stabili emolumenti, per quanto non dovuti, si tratterebbe
circostanza comunque oggetto di valutazione ai fini dell’accertamento della inadeguatezza dei
mezzi, fermo che le decisioni in materia sono allo stato degli atti).
L’appellata ha inoltre venduto, nel 2003, un residence in Roma, alla via (omissis), per euro
172.000,00 (l’appellante assume che il corrispettivo ricevuto fu in realtà di molto superiore, ma
non ne offre alcuna prova), somma utilizzata (a suo dire) per ristrutturare le abitazioni delle
figlie.
Si tratta di circostanza non vicina nel tempo, ma di grande interesse, perché attesta la sicura
disponibilità economica della appellata (che, pur al commendevole fine di aiutare le figlie, non
ha però esitato a privarsi di un importo comunque notevole, il che certo stride con l’immagine
di quasi nullatenente che ella vuole accreditarsi in questa sede).
L’appellata lamenta inoltre che l’ex marito nel 2008, sostanzialmente abusando, a sua
insaputa, di una procura che ella gli aveva rilasciato, ha posto in essere una rinuncia abdicativa
del suo diritto di abitazione su un appartamento in Napoli alla via (omissis); si tratta di vicenda
oggetto, a quanto consta, di contenzioso tra le parti, e su cui certo questa Corte non può
pronunciarsi.
Ella inoltre – si tratta di circostanza ampiamente dibattuta tra le parti nel giudizio di
separazione (ma non riproposta in questa sede) non chiese l’assegno divorzile al primo marito
ma ciò, a suo dire, del previsto e prossimo matrimonio con l’odierno appellante.
E’ di particolare interesse, ad ulteriore conferma delle sicure disponibilità economica
dell’appellante, ben oltre la modesta pensione (anche a voler prescindere dalla capacità
professionale cui fa riferimento l’appellante, secondo cui l’ex moglie, allorché era già in
pensione, ha svolto altre attività retribuiti), quanto accertato dalla sentenza di separazione più
volte richiamata: «i periodici accrediti di somme rilevanti su c.c. della resistente sono
ragionevolmente da ricondurre alle rendite degli investimenti finanziari (e non alla pretesa
restituzione di prestiti)».
Anche su tale accertamento, come accennato, si è formato il giudicato, e d’altronde l’appellata,
anche in questa sede, si guarda bene di mettere in discussione specificamente quanto sopra,
pur se continua a dolersi di vivere grazie ai richiamati aiuti familiari (ben poco compatibili, del
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resto, con gli importi frequentemente “restituiti” da terzi, in genere congiunti, alla appellata, di
importo rilevante, cui appunto allude la sentenza).
Possono condividersi, allora, le deduzioni al riguardo dell’appellante, fondate del resto sulla
documentazione in atti specificamente richiamata; pertanto non solo l’appellata, del tutto
verosimilmente, dispone di c/c ulteriori rispetto a quello dichiarato ma comunque, solo nel
2014, ha incassato (evidentemente a titolo di interessi su investimenti finanziari) oltre euro
20.000,00 e nel 2015 oltre euro 19.000,00.
Può allora concludersi che l’appellata, a sua volta, dispone di una buona posizione economica,
pur se di opaca determinazione nella sua effettiva portata, comunque corrispondente allo
status sociale medio borghese consolidato negli anni, che le garantisce l’autosufficienza
economica, in misura tutt’altro che limitata al mero sostentamento.
§ 9. Quanto sopra accertato avrebbe certo garantito alla appellata il riconoscimento di un
assegno divorzile, alla stregua degli orientamenti giurisprudenziali prevalenti fino al 2017 (e
incentrati, come detto, sulla tendenziale conservazione del tenore di vita); di contro
quell’assegno avrebbe dovuto esserle negato, alla stregua almeno dei criteri introdotti da Cass.
11504/17, e pur interpretando elasticamente la nozione di autosufficienza: la sentenza di
primo grado, in effetti, ha sicuramente mal applicato quei parametri, solo in apparenza
richiamati, come dedotto in appello, avendo riconosciuto l’assegno divorzile, dichiaratamente
(quanto illegittimamente) solo equitativamente.
Si è però detto che il diritto all’assegno divorzile va ormai accertato, anche in questo grado di
giudizio, alla stregua dei ben diversi e innovativi parametri di cui all’arresto delle SSUU del
2018.
L’appellata reputa – ma alla stregua di una lettura affrettata quanto superficiale di tale
pronuncia – che ora avrebbe diritto all’assegno in oggetto, tenuto conto di fattori
oggettivamente esistenti, quali la fortissima sperequazione economica tra i coniugi, la lunga
durata del matrimonio, la stessa età avanzata della ex moglie.
§ 10 a. La Corte reputa però che debba giungersi a conclusioni opposte.
L’accento va posto, in primo luogo, sulla funzione perequativa – compensativa dell’assegno,
come detto centrale nell’architettura dell’arresto più volte richiamato.
Ebbene nella specie, in concreto, l’assegno non potrebbe svolgere tale funzione sicché, se
riconosciuto, determinerebbe solo una ingiustificata locupletazione per l’ex moglie.
L’appellata, certo, pone l’accento sulla sperequazione patrimoniale tra la posizione sua e quella
di controparte, sperequazione che questa Corte ha già riconosciuto.
Può inoltre ritenersi che i mezzi di cui l’appellata dispone siano inadeguati (e certo tali sono, in
relazione alla posizione del marito; né poi ella – ormai pensionata – può ragionevolmente
colmare quella sperequazione con il frutto del proprio lavoro o con altre fonti di guadagno).
Il punto è però che – ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile – le SSUU richiedono che
il giudice deve accertare rigorosamente le cause di quella inadeguatezza, «alla stregua dei
parametri indicati dall’art. 5, 6° comma, prima parte, l. 898/70, e in particolare se quella
sperequazione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei
due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all’età dello
stesso e alla durata del matrimonio», come sopra già riportato.
L’onere probatorio incombe, come pure detto, sul richiedente l’assegno.
Cfr quanto ante dedotto al riguardo in diritto.
Nella specie non solo tale prova non è stata data, ma – di contro – sussistono incontrovertibili
elementi che consentono di escludere in radice la sussistenza dei presupposti – quali individuati
dalle SSUU – per il riconoscimento dell’assegno divorzile.
Il matrimonio tra le parti, certo, ha avuto lunga durata, lo si è già rimarcato; ma è stato
contratto quanto entrambi erano già avanti negli anni: il marito cinquantenne, la moglie quasi
quarantenne. Entrambi venivano da precedenti relazioni matrimoniali, da cui erano nati –
all’uno e all’altro, dei figli (è appena il caso di ricordare che le parti non hanno figli comuni).
Quel che interessa è che entrambi – nell’intraprendere la nuova vita matrimoniale – già
avevano maturato le proprie scelte professionali, e la loro posizione patrimoniale si era già
formata e consolidata; il marito già era un affermato avvocato, la moglie era, e rimase fino al
pensionamento, un insegnante.
Pertanto, è in primo luogo, non è favorevole all’appellata il giudizio prognostico ex ante,
ampiamente ricostruito nella premessa in diritto: il matrimonio non ha peggiorato, in alcun
modo, le prospettive lavorative e reddituali dell’appellata.
Quest’ultima (cfr comparsa di costituzione, p. 20) lamenta solo che il marito, nel lontano 1986,
la indusse ad abbandonare una non meglio precisata collaborazione con la società “Sport e
cultura” (allorché, si noti, ella era ancora dipendente pubblico), per collaborare presso il suo
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studio (cfr infra); si tratta però solo di vaga e fumosa illazione, senza alcun riscontro concreto
(cfr infra sulla richiesta istruttoria al riguardo).
Né ella, e si tratta di profilo dirimente, ha provato di aver contributo significativamente, in
qualche modo, alla vita della famiglia, nei termini indicati in precedenza in diritto.
Questo in primo luogo con riferimento alla vita familiare; l’appellata deduce, ma non prova, di
aver collaborato per dieci anni (quali?) con il marito, presso il suo studio professionale,
correggendo la forma lessicale degli atti per la Sacra Rota, addirittura anche redigendone le
minute.
Si tratta di circostanza che, se pure provata, non concernerebbe tanto i rapporti familiari
quanto – eventualmente – quelli lavorativi; in ogni caso, comunque, al di là delle contestazioni
dell’appellante, quanto è dedotto è ben poco credibile; il prestigioso studio dell’appellante non
richiedeva certo l’apporto (pur limitato) della moglie del titolare; né va poi trascurato che
l’appellante ha documentato di esercita più come avvocato rotale almeno dal 1992 (cfr il
decreto di sospensione del Vicariato di Roma del 31 marzo 1992 in atti), costituisce poi mera
illazione che egli avrebbe continuato, quasi “al nero” ad interessarsi di cause rotali.
§ 10 b. Vi è di più.
L’appellata non solo non ha contribuito, nei termini che qui interessano, alla vita matrimoniale,
ma ne ha tratto anche sicuro vantaggio; ancora in comparsa di costituzione, p. 18 riconosce
che il marito aveva generosamente contribuito a tutte le sue esigenze e bisogni; l’appellante
anzi – senza che sul punto vi sia contestazione – ricorda di aver provveduto anche alle
esigenze delle figlie della ex moglie, in costanza di vita coniugale.
Ne risulta allora smentita una ulteriore (e ovviamente non provata) affermazione dell’appellata,
cfr pg 19 della comparsa secondo cui ella ha dato un significativo contributo personale ed
economico alla conduzione della vita familiare, «essendosi dedicata .. con assoluta dedizione al
marito e ai figli di quest’ultimo, destinando interamente al ménage familiare tutti i suoi
guadagni lavorativi (tanto che essa oggi è priva di risparmi..)»; in realtà è ben più verosimile
che ella abbia utilizzato tali guadagni per gli investimenti cui si è fatto cenno.
La verità, quale emerge dagli atti di causa, è che – nel corso della lunga vita matrimoniale –
l’appellata ha goduto di un altissimo (e non certo negato, cfr pag. 6 comparsa di costituzione)
tenore di vita grazie alle costanti contribuzioni del marito di cui deve tenersi conto (anche in tal
caso non a suo favore), secondo quanto sopra ricostruito in diritto.
L’appellata inoltre lamenta, in comparsa di costituzione, l’assurda gelosia del marito, le scenate
subite, le «accuse ignobili quanto assolutamente ingiustificate, accompagnate da
atteggiamenti aggressivi ed iracondi, e sottopendola così ad una esasperante tortura
psicologica»; l’appellata ricorda anche che le accuse rivoltele (in particolare quella di adulterio,
addirittura con un domestico) sono state disattese dalla sentenza definitiva di separazione, che
ha rigettato la domanda di addebito nei suoi confronti.
Il riferimento (invero non esplicitato) è del tutto verosimilmente al parametro (come detto
ormai rilevante anche con riferimento all’an dell’assegno) delle ragioni della decisione.
La condotta non corretta del marito, se davvero posta in essere (e certo ve ne è traccia nella
sentenza di separazione cit.) non è comunque rilevante ai fini dell’assegno divorzile, secondo
quanto indicato nei paragrafi iniziali.
Infatti la sentenza di separazione n. 1367/17 non ha rigettato solo la domanda di addebito alla
moglie, ma anche quella riconvenzionale di addebito al marito proposta dall’odierna appellata,
in particolare il Tribunale rileva che i coniugi, allorché il marito andava propalando notizie non
corrette sulla moglie, si erano ormai allontanati, e non condividevano più nulla.
In ogni caso l’assegno non potrebbe essere comunque riconosciuto solo in ragione delle offese
rivolte dal marito alla moglie in quanto, in tal caso, assumerebbe una funzione – che non trova
riscontro nella pronuncia delle SSUU, e soprattutto nel tenore della legge – solo sanzionatoria risarcitoria.
L’assegno no potrebbe essere riconosciuto neppure in funzione solo assistenziale, prescindendo
quindi dalla funzione perequativo – compensativa, nella specie inoperante.
Tale riconoscimento, seppure configurabile in diritto (secondo un discutibile orientamento
giurisprudenziale e dottrinale sopra richiamato) non potrebbe infatti aver luogo nel caso di
specie.
L’appellata, infatti, e come ampiamente detto, dispone di sicura autosufficienza economica, per
quanto deteriore sia la sua posizione rispetto a quella del marito; l’assegno, allora,
assumerebbe allora quel carattere locupletatorio stigmatizzato proprio dalle SSUU.
§ 11. Non vi è poi spazio per l’ammissione dei mezzi istruttori già articolati in primo grado,
disattesi dal primo giudice e richiesti in comparsa dall’appellata.
Al riguardo, infatti, quest’ultima avrebbe dovuto proporre appello incidentale, si tratta
comunque, lo si osserva per completezza, di richiesta del tutto generica: l’appellata neppure ha dedotto di averla reiterata specificamente in sede di precisazione delle conclusioni (in ogni
caso, sempre per completezza, deve ribadirsi la superfluità, e talora l’inammissibilità, di tale
richieste; in particolare, quanto alla memoria ex art. 183, 6° comma c.p.c., 2° termine, del 4
marzo 2015, i capi di prova per testi articolati concernono ampiamente il tenore di vita
condotto dai coniugi in costanza di matrimonio e la posizione economica del marito, di cui si è
ampiamente detto: il tenore di vita è poi ormai irrilevante; del tutto generici poi i capi relativi
alla pretesa e remota collaborazione della donna con una società di Milano, della cui redditività
per l’odierna appellata nulla è detto; i capi articolati nella 3° comparsa sono assorbiti dalla
mancata ammissione della prova richiesta dall’odierno appellante).
§ 12. Pertanto l’appello va accolto, con conseguente revoca, non sussistendone i presupposti
di legge, dell’assegno divorzile in favore della appellata, con decorrenza dalla pubblicazione
della sentenza appellata.
Ricorrono però gravi motivi, tenuto conto della sostanziale novità delle questioni dibattute (in
ordine alle quali, in ristretto arco di tempo, la giurisprudenza ha reiteratamente mutato
orientamento) per l’integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
La corte, definitivamente pronunciando, accoglie l’appello di (omissis) e, per
l’effetto, revoca l’assegno divorzile in favore di (omissis) con decorrenza dalla
pubblicazione della sentenza di primo grado; compensa le spese del doppio grado di
giudizio.
Così deciso in Napoli, in camera di consiglio, il 3 ottobre 2018