Il testamento posteriore invalido non revoca il precedente

Cass. civ. Sez. VI – 2, 16 novembre 2017, n. 27161
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
ORDINANZA
sul ricorso 15526-2016 proposto da:
G.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PACUVIO, 34, presso lo studio dell’avvocato LORENZO ROMANELLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE MARVULLI in virtù di procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B.E., domiciliata in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato ENRICO DONATI in virtù di procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 54/2016 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 19/01/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/09/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Letta la memoria depositata dalla ricorrente.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
B.E. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Genova G.A., deducendo di essere erede ovvero legataria della defunta zia, M.G., giusta testamenti olografi del 9/3/1990 e del 6/2/1992, chiedendo pertanto accertarsi la comproprietà per la quota del 50% pro capite dell’appartamento appartenente alla defunta sito in (OMISSIS), sul presupposto che la restante quota apparteneva alla convenuta, in quanto figlia e erede legittimaria della testatrice.
La convenuta contestava la fondatezza della domanda chiedendone il rigetto.
Il Tribunale adito con la sentenza n. 3283/2009, non definitivamente pronunziando, annullava il testamento del 6/2/1992 per incapacità naturale della testatrice, ma dichiarava l’attrice erede in forza dei precedenti testamenti del 9/3/1990, riconoscendole la comproprietà dell’immobile per la quota del 50%, rimettendo la causa in istruttoria per lo svolgimento delle operazioni divisionali.
La Corte d’Appello di Genova, con la sentenza n. 54 del 19 gennaio 2016 rigettava il gravame della G., condannando l’appellante al rimborso delle spese del giudizio di secondo grado.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso G.A. sulla base di cinque motivi (erroneamente indicati come sette a pag. 9 del ricorso ed in contrasto con quanto emerge dalla stessa formulazione del ricorso e dalla indicazione preliminare di cui alla pag. 2).
B.E. ha resistito con controricorso.
Il primo motivo lamenta la violazione o falsa applicazionedell’art. 2909 c.c..
Si osserva che a fronte della domanda dell’attrice che aveva fatto valere la sua qualità di erede ovvero di legataria, sulla base dei testamenti olografi della de cuius del 6 marzo 1990, avendo la stessa B. riconosciuto che quello successivo del febbraio del 1992 andava annullato in quanto redatto allorché la testatrice era già incapace di intendere e di volere, la ricorrente già nel corso del giudizio di primo grado aveva invocato l’efficacia di giudicato della sentenza con la quale era stato pronunciato l’annullamento del contratto di compravendita dell’ottobre del 1994, con il quale la de cuius aveva alienato alla stessa controricorrente l’immobile oggetto di causa.
Si assume che, poiché quel giudizio si era svolto in epoca successiva all’apertura della successione, la convenuta avrebbe dovuto in quella sede addurre l’esistenza del testamento a suo favore, sicché l’omessa invocazione di tale diversa modalità di acquisto del bene in quel giudizio, non consentiva di poter poi agire per il riconoscimento dell’efficacia del testamento nel presente procedimento.
Il motivo è infondato.
Correttamente la sentenza impugnata ha evidenziato le palesi differenze esistenti tra il giudizio di annullamento della vendita effettuata dalla defunta in favore della attrice, in epoca successiva alla stesura dei testamenti oggetto di causa e quello invece volto a rivendicare i diritti successori, escludendo quindi la possibilità di poter invocare la previsione di cuiall’art. 2909 c.c., in ragione della chiare differenze di petitum e causa petendi tra i due giudizi, che non consente quindi di estendere il giudicato oltre i limiti oggettivi della lite nella quale si è venuto a formare.
Alle condivisibili considerazioni sviluppate dalla Corte distrettuale, deve altresì aggiungersi, e sempre a favore della tesi dell’insussistenza di alcun nesso di pregiudizialità tra le due causa tale da consentire l’estensione degli effetti del giudicato, e soprattutto, come vorrebbe la ricorrente, la preclusione alla successiva proposizione del giudizio in esame, che solo l’esito positivo della domanda di annullamento del contratto di compravendita del bene per cui è causa poteva legittimare la successiva proposizione della domanda di petizione ereditaria e di divisione promossa dalla B., in quanto laddove fosse stata accertata la validità della compravendita, il bene de quo non sarebbe mai caduto in successione, e sarebbe quindi risultato del tutto superfluo pretendere il riconoscimento della sua titolarità sulla base dell’efficacia del negozio mortis causa.
Le evidenti differenze della causa petendi e del petitum (da intendersi non già come accertamento della proprietà del bene, assimilabile quindi all’effetto della rivendica, ma come indiretto recupero del bene al patrimonio della venditrice, in conseguenza dell’accertamento della invalidità dell’atto di alienazione), non consentono quindi di affermare che la successiva devoluzione, sebbene pro quota, dello stesso bene in favore dell’acquirente, fosse circostanza che andava necessariamente dedotta nell’ambito del giudizio di impugnativa negoziale.
In definitiva, poiché la successiva chiamata testamentaria non costituisce un fatto impeditivo, modificativo o estintivo sul piano giuridico rispetto alla diversa domanda di annullamento del contratto di compravendita, deve escludersi che il giudicato formatosi sull’accoglimento di tale ultima domanda, sia incompatibile, e come tale preclusivo, con la successiva attribuzione di una quota del medesimo bene, ma a titolo successorio.
Il secondo motivo denunzia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, e precisamente del carattere ingravescente della patologia psichica della testatrice, che è stato oggetto di discussione tra le parti, con la conseguente violazione anche della regola di riparto dell’onere della prova exart. 2697 c.c..
Si evidenzia che la stessa attrice aveva ammesso che alla data del 6/2/1992, cui risale l’ultima scheda testamentaria, la de cuius era affetta da incapacità di intendere e di volere, e che già in data 19/12/1988 alla defunta era stata diagnosticata una encefalopatia aterosclerotica, per la quale le era stata riconosciuta una invalidità pari al 67%.
Poiché trattasi di una patologia a carattere permanente, necessariamente destinata ad aggravarsi con l’avanzare dell’età dell’ammalata, deve ritenersi che la testatrice fosse già incapace alla data del marzo del 1990, come testimoniato anche dall’episodio dell’acquisto di un gelato di cui ignorava il prezzo attuale, così come riferito dai testi, sicché era specifico onere dell’attrice dimostrare che in realtà il testamento che la beneficiava era stato redatto in un momento di lucido intervallo.
Il motivo, ad onta delle preliminari considerazioni della stessa ricorrente, mira nella sostanza ad ottenere un diverso apprezzamento delle risultanze di fatto, risolvendosi nella proposizione esclusivamente di censure di merito.
A tal fine va evidenziato che a seguito della novella di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ed al fine di chiarire la corretta esegesi della novella, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte che con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, hanno ribadito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83,art.54conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, ed è solo in tali ristretti limiti che può essere denunziata la violazione di legge, sotto il profilo della violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4.
Nella fattispecie, atteso il tenore della sentenza impugnata, deve escludersi che ricorra un’ipotesi di anomalia motivazionale riconducibile ad una delle fattispecie che, come sopra esposto, in base alla novella consentono alla Corte di sindacare la motivazione, riconoscendo lo stesso ricorrente che la sentenza che recepisca per relationem le conclusioni ed i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui dichiari di condividere il merito, non incorre nel vizio di carenza di motivazione (in tal senso si veda Cass. 13845/07; 7392/94; 16368/14; 19475/05). La deduzione circa la mancata disamina delle critiche mosse alla consulenza tecnica si risolve pertanto in una censura sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa, occorrendo a tal fine che il ricorrente evidenzi la loro rilevanza ai fini della decisione e l’omesso esame in sede di decisione, ma pur sempre nell’ambito della previsione di cuiall’art. 360 c.p.c., n. 5.
Le suesposte argomentazioni, escludono che quindi le censure nella loro concreta formulazione possano essere esaminate dalla Corte, atteso che tramite le medesime si mira surrettiziamente a veicolare sotto il vizio della violazione di legge quella che è in realtà una denunzia di insufficienza motivazionale, non senza doversi altresì evidenziare che la già citata Cass. n. 8054/2014 ha altresì sottolineato che “L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie”, essendo quindi evidente che il motivo, ove anche ritenuta ammissibile la proposizione del ricorso ai sensidell’art. 360 c.p.c., n. 5 non appare idoneo a denunziare l’omesso esame di un fatto decisivo.
Nel caso in esame, la Corte distrettuale ha analiticamente esaminato le varie risultanze istruttorie, a partire dalle perizie mediche, pervenendo al convincimento, non sindacabile in questa sede, per il quale alla data del 1990 le condizioni di salute psichica della defunta non erano tali da determinare la sua totale incapacità di testare.
La decisione ha altresì dato contezza delle ragioni per le quali l’episodio del gelato, del quale nemmeno era certa la collocazione cronologica, potesse deporre in senso contrario, dovendosi escludere che la non perfetta consapevolezza del prezzo di tale genere alimentare potesse denotare la presenza di una patologia invalidante e rilevante ai finidell’art. 591 c.c..Stante quindi l’accertamento dell’inesistenza di una patologia a carattere permanente già alla data cui risalgono le schede invocate dall’ attrice, deve altresì escludersi che sia stata posta in essere un’indebita inversione dell’onere della prova, avendo la Corte di merito compiuto corretta applicazione delle regole di riparto dell’onere, come costantemente applicate dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di incapacità del testatore (cfr. ex multis Cass. n. 27351/2014).
Il terzo motivo denunzia la violazione e falsa applicazionedell’art. 163 c.p.c., n. 3 eart. 164 c.p.c., comma 4, sostenendosi che la citazione introduttiva del giudizio era affetta da nullità, apparendo incerto se la B. intendesse ottenere il riconoscimento dell’intera proprietà del bene ovvero della quota del 50%.
Infatti, sebbene nella parte espositiva dell’atto si indicava che per effetto del testamento del 6/3/1990 alla stessa era stata attribuita una quota del 50% dell’immobile, tuttavia nelle conclusioni si era riservata la possibilità di agire in separato giudizio per ottenere il rimborso del 100 % delle spese anticipate per l’amministrazione straordinaria dell’immobile e per i tributi versati, affermando quindi che la convenuta era proprietaria esclusiva del bene.
Tale motivo che appare sostanzialmente riproduttivo dell’analogo motivo di appello, è del pari infondato.
La sentenza impugnata ha condivisibilmente evidenziato che la stessa B. riconoscendo l’invalidità della scheda testamentaria del 1992, aveva inteso far valere la sola efficacia dei testamenti anteriori nel tempo, evidenziando che, attesa la qualità di legittimaria della G., alla medesima andava in ogni caso riconosciuta una quota del 50% sul bene caduto in successione, sicché tute le domande risultano essere state articolate in coerenza con tale premessa, ivi inclusa la domanda di divisione, sul presupposto della natura comune del bene relitto.
Tale coerenza argomentativa non può ritenersi che sia stata inficiata dal fatto che la stessa attrice avesse formulato la riserva di agire in separata sede per il recupero delle spese integralmente pagate per l’immobile, trattandosi appunto di una richiesta avanzata in via del tutto gradata e condizionata al fatto che nel giudizio promosso fosse stata esclusa, per effetto delle difese della convenuta, la contitolarità dell’immobile, con la conseguenza che le spese medio tempore sostenute, sarebbero risultate del tutto prive di giustificazione e come tali suscettibili di essere ripetute nei confronti della G., quale evidentemente, unica proprietaria del bene.
Trattasi però di una domanda condizionata al non auspicato rigetto della domanda di divisione, e che, proprio in ragione di tale condizionamento, esclude che possa ravvisarsi alcuna confusione o contraddittorietà con la domanda proposta in via principale.
Il quarto motivo denunzia la violazione e falsa applicazionedell’art. 683 c.c..
Si rileva che la scheda testamentaria del 6 febbraio 1992 è stata annullata dai giudici di merito attesa l’incapacità naturale della testatrice.
Tale ultimo testamento, per il suo contenuto incompatibile con quello delle precedenti schede testamentarie, era idoneo a determinare la revoca per incompatibilità dei precedenti testamenti ai sensi della norma richiamata in rubrica.
Si sostiene che tale effetto si produca anche nel caso di specie, e nonostante l’intervenuto annullamento del testamento del 1992, attesa la non tassatività delle ipotesi previste dalla norma de qua, e la possibilità di escludere la sua efficacia nel solo caso di nullità del testamento successivo incompatibile.
Anche tale motivo è infondato.
La previsione normativa ancorché, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non abbia carattere tassativo quanto all’individuazione delle ipotesi di inefficacia (cfr. Cass. S.U. n. 7186/1993), nel prevedere la permanenza dell’effetto di revoca del successivo testamento sebbene inefficace, fa riferimento ad una serie di ipotesi (premorienza del legatario o dell’erede, incapacità ovvero indegnità dell’istituito, ed ancora rinunzia all’eredità ed al legato) che consentono di affermare, come osservato dalla più attenta dottrina, che sia affermato il principio dell’indipendenza della revocazione testamentaria dalla sorte della delazione.
La nozione di inefficacia ivi contemplata, sebbene estesa anche ad ipotesi non previste dalla norma, non può però estendersi alla diversa situazione in cui la perdita di efficacia del testamento sia riconducibile alla patologia della quale risulti affetto lo stesso testamento, come appunto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte per l’ipotesi di nullità dell’atto mortis causa (cfr. Cass. n. 1112/1980, che prevede la salvezza dell’effetto di revoca solo nel caso in cui la nullità del testamento sia dichiarata per vizi di forma e la revoca costituisca un negozio autonomo e distinto rispetto al nuovo testamento).
Nell’ambito delle patologie che escludono la sopravvivenza dell’effetto di revoca scaturente dall’incompatibilità della nuova scheda testamentaria con il contenuto di quelle precedenti, deve farsi rientrare anche l’ipotesi di annullamento per incapacità naturale del testatore.
Ed, infatti, in tal caso, sebbene con una pronuncia di carattere costitutivo, il testamento perde la sua efficacia ex tunc, venendo meno, non già la delazione, ma la stessa vocazione, mancando una valida espressione della volontà testamentaria che possa consentire il riscontro dell’incompatibilità tra vecchie e nuove volontà del de cuius.
A ciò deve poi aggiungersi che la stessa causa che determina l’annullamento del testamento, e rappresentata dalla incapacità di autodeterminarsi del testatore, impedisce che alla volontà invalidamente manifestata, in quanto espressione di un soggetto privo delle piene facoltà psichiche, possa ricondursi l’effetto della revoca, in quanto l’incompatibilità si porrebbe tra disposizioni anteriori validamente espresse e disposizioni successive frutto di un procedimento cognitivo e volitivo inficiato a monte dalla patologia psichica, che esclude che la diversa sorte dei beni sia frutto di un valido intento di revocare quanto in precedenza disposto.
Infine il quinto motivo lamenta la violazione e falsa applicazione degliartt. 475, 476 e 713 c.c., con il conseguente difetto di legittimazione della controricorrente a promuovere il giudizio di divisione ereditaria.
Si evidenzia che per l’acquisto della qualità di erede occorre un atto di accettazione dell’eredità da parte del vocato, accettazione che non può ritenersi compiuto da parte della B., atteso che la stessa, lungi dall’accettare l’eredità della M., si è limitata solo a promuovere il giudizio di divisione per cui è causa.
Il richiamo alla quota del 50%, quale quota della quale è titolare, implica che sia stata posta in essere un’accettazione parziale, e come tale nulla, sicché deve escludersi che la parte sia divenuta erede e che possa quindi promuovere la domanda di scioglimento della comunione.
Anche tale motivo è destituito di fondamento.
La previsione della nullità dell’accettazione parziale, come confermato dalla sua collocazione topografica, è limitata alla sola ipotesi di accettazione espressa, laddove nel caso in esame si verte in materia di accettazione tacita, quale conseguenza della proposizione dell’azione di divisione (in termini Cass. n. 1628/1985), cosicché è la stessa concludenza dell’atto, dalla quale è dato inferire la volontà di acquisto della qualità di erede, ad estendere gli effetti dell’adizione dell’eredità all’intero coacervo ereditario, sebbene l’atto abbia riguardato solo uno o alcuni dei beni ereditari, essendo quindi escluso che possa ritenersi essere di fronte ad un’accettazione parziale, per il solo fatto di instare per la tutela solo di un singolo bene (e ciò anche a prescindere dall’osservazione pur pertinente, di parte resistente, secondo cui, per effetto del testamento, alla B. competevano solo i diritti sull’immobile per il quale era stata promossa la domanda di divisione – cfr. anche pag. 5 della sentenza gravata – di guisa che la domanda aveva interessato tutto quanto era stato dalla medesima acquisito iure hereditario).
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art.1, comma 17, dellalegge 24 dicembre 2012, n. 228(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 6.000,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, stesso art. 13.