Il palpeggiamento repentino del gluteo è violenza sessuale

Corte di Cassazione
sez. III Penale, sentenza 29 settembre – 12 novembre 2020, n. 31737
Presidente Rosi
Relatore Reynaud
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza dell’11 luglio 2019, la Corte d’appello di Trento, sez. dist. di Bolzano, accogliendo
il gravame proposto dal pubblico ministero e riformando la sentenza d’assoluzione resa all’esito del
giudizio abbreviato, ha condannato l’odierno ricorrente alla pena sospesa di dieci mesi di reclusione
in ordine al reato di cui all’art. 609 bis, ultimo comma, cod. pen., per aver in modo repentino
palpeggiato il gluteo di una minore, contro la volontà della medesima.
2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore fiduciario, l’imputato ha proposto ricorso
per cassazione, deducendo, con il primo motivo, l’erronea applicazione dell’art. 609 bis cod. pen.
per essere stata la condotta qualificata come atto sessuale nonostante la mancanza di prova circa la
parte del corpo toccata e l’assenza del fine di libidine. A differenza di quanto fatto dal giudice di
primo grado, la Corte territoriale aveva omesso di valutare il contesto in cui il contatto era avvenuto
e la dinamica intersoggettiva della vicenda quali riferite dall’imputato in una memoria difensiva.
3. Con il secondo motivo si lamenta il vizio di motivazione per errata ricostruzione dei fatti e
travisamento della prova testimoniale, non avendo la Corte territoriale correttamente interpretato e
valutato le dichiarazioni rese dall’unico testimone oculare nel corso della rinnovazione istruttoria,
dichiarazioni peraltro confuse ed incoerenti senza che il giudice abbia sul punto speso alcuna
motivazione. Non essendo stata la persona offesa mai escussa, né identificata, non v’era prova circa
la parte del corpo attinta dall’imputato, né prova che si trattasse di minore di età.
4. Proprio con riguardo all’incertezza sull’età – ed al conseguente dubbio sulla procedibilità d’ufficio
del reato – con l’ultimo motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione e travisamento della prova
testimoniale, avendo il teste reso sul punto dichiarazioni contrastanti, affermando di non essere in
grado di riconoscere l’età degli adolescenti. Il totale disinteresse mostrato dalla ragazza per il
procedimento penale avrebbe inoltre dovuto indurre il giudice a interpretare in chiave di favor rei la
nozione di “volontaria sottrazione all’esame” che, per gli artt. Ili, quarto comma, Cost. e 526,
comma 1, cod. proc. pen. impedisce l’affermazione della penale responsabilità.
Considerato in diritto
1. Cominciando la disamina dal secondo motivo ricorso – pregiudiziale rispetto al primo – reputa il
Collegio che lo stesso sia manifestamente infondato e sottoponga a questa Corte una inammissibile
doglianza sulla ricostruzione del fatto.
Sulla base delle dichiarazioni rese dall’unico testimone oculare – il cui esame è stato oggetto di
rinnovazione istruttoria ex art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen. – la Corte territoriale ha senza
incertezze ricostruito il fatto nel senso che l’imputato, nell’imboccare a piedi un porticato cittadino
provenendo dall’adiacente carreggiata e passando vicino ad un gruppetto di ragazzini, palpeggiò il
sedere di una di loro, che indossava pantaloncini corti, dandole una stretta al gluteo.
Contrariamente a quanto sostiene il ricorrente – che ha anche allegato al ricorso il verbale
contenente la trascrizione della deposizione testimoniale fonoregistrata – la Corte territoriale non ha
in alcun modo travisato la prova dichiarativa, né l’ha interpretata in modo illogico o ha omesso di
valutarne l’attendibilità.
Il dedotto travisamento sarebbe consistito “nella impossibilità che l’imputato si trovasse a destra del
teste”, come quest’ultimo avrebbe dichiarato, ma è evidente che se si tratta di dichiarazione del teste
non può parlarsi di travisamento probatorio, che ricorre quando nella motivazione si fa uso di
un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una
prova decisiva (Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499) ed è ravvisabile ed efficace
solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo
illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio travisato
od omesso (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e a., Rv. 258774).
Al di là di questo rilievo – che rende manifestamente infondata la doglianza -deve osservarsi come
la motivazione della sentenza impugnata ricostruisca con chiarezza il fatto nei termini sopra esposti
e attesti, senza che il ricorrente muova sul punto contestazioni di travisamento probatorio, che il
passante vide chiaramente l’imputato il quale, giratosi, toccò il sedere alla ragazzina, dandole “una
toccata”, “una schiacciata”. Il casuale testimone – che non conosceva né l’imputato, né la persona
offesa – ebbe una reazione del tutto coerente: immediatamente accortosi dell’intenzionalità del
palpamento, rimproverò l’imputato, contestandogli il fatto, seguendolo e telefonando alle forze di
polizia che poi intervennero identificandolo. La sentenza dà altresì atto – senza che il ricorrente
spenda sul punto parola – che l’imputato, dopo aver invano tentato di dileguarsi, accorgendosi che il
testimone continuava a seguirlo e che stava contattando telefonicamente la polizia, gli propose del
denaro per farlo desistere, disse “di lasciarlo stare”, che “c’era anche sua moglie” che “non l’avrebbe
fatto più”.
Ciò premesso, reputa il Collegio che la motivazione della sentenza non presti il fianco ad alcuna
censura, rammentandosi che alla Corte di cassazione sono precluse la rilettura degli elementi di
fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi
parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente
plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito
(Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv.
235507), così come non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e
logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza
e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e
interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico e a., Rv. 271623; Sez. 2, n.
20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362).
2. Alla luce di quanto appena osservato, è manifestamente infondato anche il primo motivo di
ricorso.
Per come ricostruito in sentenza, non v’è dubbio che si sia trattato di un intenzionale
palpeggiamento del sedere della ragazzina che indossava pantaloncini corti, fatto dall’imputato in
modo repentino, passando a fianco del gruppetto di coetanei in cui ella si trovava (probabilmente,
ha riferito il teste, turisti stranieri) per poi allontanarsi con rapidità (cosa che pure fecero, spaventati,
i giovani).
2.1. Contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, la Corte territoriale ha concluso, in modo
del tutto logico e giuridicamente corretto, che la condotta integrasse, sotto il profilo oggettivo e
soggettivo, il reato ascritto, assolvendo all’obbligo di rendere una motivazione rafforzata rispetto
alla sentenza d’assoluzione pronunciata in primo grado.
Quest’ultima, di fatti, pur avendo giudicato attendibile la versione resa dal testimone oculare, ha
tuttavia ritenuto che la lettera di giustificazioni scritta dall’imputato, in cui questi narrava la propria
versione dei fatti, pur essendo «possibile che si tratti di una dichiarazione di comodo costruita a
tavolino», inducesse a concludere che «non può escludersi del tutto l’ipotesi che i fatti siano andati
realmente come descritto dall’imputato».
Già il primo giudice, peraltro, aveva finito per ritenere che, sul piano oggettivo, l’imputato – che
pure ciò non aveva ammesso nella sua lettera, peraltro giudicata poco credibile anche nella parte in
cui l’imputato riferiva della sua interlocuzione con teste oculare – avesse effettivamente stretto con
la mano il gluteo di una ragazzina e la vera ratio decidendi della sentenza, compendiata nelle ultime
righe della motivazione, risiedeva nella «insufficienza di prove in ordine all’elemento soggettivo del
reato», essendosi espressamente prestata adesione (pag. 3 sentenza) «a quell’orientamento che
ritiene necessaria la prova del fine di libidine» per ritenere integrato il reato di violenza sessuale.
2.2. Ciò premesso, osserva il Collegio che la sentenza impugnata ha fatto buon governo del
principio secondo cui il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha
l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di
confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando
conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza e non può, invece, limitarsi ad imporre
la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel
provvedimento impugnato, (cfr. Sez. 6, n. 10130 del 20/01/2015, Marsili, Rv. 262907; Sez. 6, n.
39911 del 04/06/2014, Scuto e a., Rv. 261589; Sez. 5, n. 8361 del 17/01/2013, Rastegar, Rv.
254638).
In particolare, la sentenza impugnata – richiamando il consolidato orientamento di questa Corte – ha
esattamente rilevato l’errore in cui era caduto il primo giudice nel ritenere che il reato di cui all’art.
609 bis cod. pen. richieda che la condotta sia sorretta dalla finalità di concupiscenza sessuale, nel
contempo escludendo la plausibilità dell’alternativa spiegazione del gesto offerta dall’imputato.
2.3. Ed invero, questa Corte ha ripetutamente affermato che, ai fini della configurabilità del delitto
di violenza sessuale, per attribuire rilevanza a quegli atti che, in quanto non direttamente indirizzati
a zone chiaramente definibili come erogene, possono essere rivolti al soggetto passivo, anche con
finalità del tutto diverse, il giudice deve effettuare una valutazione che tenga conto della condotta
nel suo complesso, del contesto sociale e culturale in cui l’azione è stata realizzata, della sua
incidenza sulla libertà sessuale della persona offesa, del contesto relazionale intercorrente tra i
soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante (Sez. 3, n. 964/2015 del 26/11/2014, Rv.
261634). Per la consumazione del reato è sufficiente che il colpevole raggiunga le parti intime della
persona offesa (zone genitali o comunque erogene), essendo indifferente che il contatto corporeo sia
di breve durata, che la vittima sia riuscita a sottrarsi all’azione dell’aggressore o che quest’ultimo
consegua la soddisfazione erotica (Sez. 3, n. 4674 del 22/10/2014, dep. 2015, S., Rv. 262472). E’
del pari consolidato il principio secondo cui l’elemento della violenza può estrinsecarsi, nel reato di
violenza sessuale, oltre che in una sopraffazione fisica, anche nel compimento insidiosamente
rapido dell’azione criminosa tale da sorprendere la vittima e da superare la sua contraria volontà,
così ponendola nell’impossibilità di difendersi (Sez. 3, n. 27273 del 15/06/2010, M., Rv. 247932;
Sez. 3, n. 46170 del 18/07/2014, J., Rv. 260985).
Quanto all’elemento soggettivo, secondo il consolidato orientamento interpretativo – condiviso dal
Collegio – non è necessario che la condotta sia specificamente finalizzata al soddisfacimento del
piacere sessuale dell’agente, essendo sufficiente che questi sia consapevole della natura
oggettivamente sessuale dell’atto posto in essere volontariamente, ossia della sua idoneità a
soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dallo scopo perseguito (Sez. 3,
n. 3648 del 03/10/2017, dep. 2018, T., Rv. 272449, resa in una fattispecie di palpeggiamento dei
glutei e del seno delle persone offese; Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014, dep. 2015, C, Rv. 263738,
relativa a fattispecie di palpeggiamenti e schiaffi sui glutei della vittima, nella quale la Corte ha
ritenuto che l’eventuale finalità ingiuriosa dell’agente non escludesse la natura sessuale della
condotta). Più in particolare, l’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale è integrato dal dolo
generico, consistente nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà
sessuale della persona offesa non consenziente (Sez. 3, n. 4913 del 22/10/2014, dep. 2015, P., Rv.
262470; Sez. 3, n. 20754 del 17/04/2013, S., Rv. 255907; Sez. 3, n. 20754 del 17/04/2013, S., Rv.
255907).
Il più recente orientamento richiamato in ricorso, non si discosta dai principi appena richiamati.
Il ricorrente cita la decisione in cui si è affermato che, in tema di atti sessuali, la condotta vietata
dall’art. 609-bis cod. pen. è solo quella finalizzata a soddisfare la concupiscenza dell’aggressore od a
volontariamente invadere e compromettere la libertà sessuale della vittima, con la conseguenza che
il giudice, al fine di valutare la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, non deve fare
riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite ma deve tenere conto dell’intero contesto in
cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva (Sez. 3, n. 51582 del 02/03/2017, T.,
Rv. 272362; in motivazione, la Corte ha escluso che il compimento da parte dell’imputato – che
svolgeva attività di animatore volontario presso una struttura in cui erano ospitati bambini e
adolescenti – di giochi che implicavano un ripetuto coinvolgimento fisico fosse qualificabile solo
per questo ” atto sessuale”, essendo necessaria una verifica sulla direzione finalistica di tale
condotta, volta ad accertare se il contatto corpore corpori fosse stato posto in essere per esclusive
finalità ludiche o per soddisfare gli istinti sessuali).
La citata decisione non si pone in contrasto con il tradizionale orientamento interpretativo, posto
che, oltre a riconoscere la sussistenza dell’elemento soggettivo nei casi in cui la condotta – che sul
piano oggettivo deve pur sempre riguardare il compimento un “atto sessuale” – sia finalizzata a
soddisfare la concupiscenza dell’aggressore, la afferma anche laddove essa sia diretta a
volontariamente invadere e compromettere la libertà sessuale della vittima. Lungi dall’essere
focalizzata sull’elemento soggettivo, la ratio decidendi della richiamata sentenza appare piuttosto
incentrata – come la stessa massima più sopra riportata suggerisce e come la lettura della
motivazione conferma – sull’elemento oggettivo del reato di violenza sessuale, sul rilievo che non
tutti i contatti corporei con zone erogene possono essere considerati “atti sessuali” ai fini
dell’integrazione del reato di cui all’art. 609 bis cod. pen. Speculare a tale precisazione è
l’affermazione -contenuta in una sentenza di poco successiva, parimenti evocata in ricorso -secondo
cui, in tema di atti sessuali, l’elemento oggettivo del reato previsto dall’art. 609-bis cod. pen. sussiste
anche nel caso in cui il distretto corporeo della vittima attinto dall’agente sia sessualmente
indifferente, ma a condizione che la porzione del corpo che l’agente pone a contatto con quello della
vittima sia connotata da valenza sessuale (Sez. 3, n. 38926 del 12/04/2018, C, Rv. 273916).
2.4. Nel caso di specie, per un verso, la parte del corpo attinta dal palpamento è certamente erogena,
e, comunque, non sessualmente indifferente; per altro verso, la dinamica descritta nella sentenza
impugnata restituisce l’evidenza di una chiara intrusione nella sfera sessuale di una ragazzina
sconosciuta, avendo la Corte territoriale del tutto logicamente rilevato l’assoluta inconsistenza, ed
incompatibilità con le risultanze istruttorie, della alternativa spiegazione data dall’imputato nella
memoria difensiva prodotta al primo giudice e da quest’ultimo invece, illogicamente, sia pur in
modo dubitativo, condivisa (vale a dire che egli avrebbe soltanto appoggiato le mani su uno o due
dei componenti il gruppo, che ostruiva il passaggio, per farsi largo e poter transitare).
3. Manifestamente infondato è anche il terzo motivo di ricorso.
Contrariamente a quanto allega il ricorrente, il testimone non ha avuto alcuna esitazione nel definire
certamente minorenne la ragazzina a cui l’imputato palpeggiò il sedere, concernendo il suo dubbio
sull’età soltanto il fatto se di anni ella potesse averne 10-12, ovvero 14-15.
Non miglior sorte merita l’ulteriore rilievo – peraltro neppure fatto oggetto di espressa doglianza di
violazione di legge – circa la riconducibilità della situazione concernente l’impossibilità di
esaminare la persona offesa alle previsioni che impediscono l’affermazione di responsabilità penale
dell’imputato in base a «dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente
sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore» (artt. 111, quarto comma, Cost. e 526,
comma 1 bis, cod. proc. pen.). E’ appena il caso di rilevare come le menzionate disposizioni
impediscano l’utilizzabilità di dichiarazioni accusatorie rese da chi si sottrae al controesame della
difesa e non siano in alcun modo riferibili a soggetti che non sono mai stati escussi nel
procedimento, del quale – come nella specie deve ritenersi per la persona offesa rimasta ignota –
finanche ignorano l’esistenza.
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno
2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la
parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità, consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., oltre all’onere del pagamento delle
spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della
somma equitativamente fissata in Euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.