Della pensione di reversibilità a favore dei congiunti della vittima non si deve tener conto nella liquidazione del danno patrimoniale da morte del familiare

Cass. civ. Sezioni Unite Sent., 22 maggio 2018, n. 12564
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 27227/2011 proposto da:
D.S.F., D.S.C. e D.S.A., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’ 20, presso lo studio dell’Avvocato STEFANO VITI, che li rappresenta e difende unitamente all’Avvocato MICHELE MIRENGHI;
– ricorrenti –
contro
UNIPOL ASSICURAZIONI SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTESANTO 68, presso lo studio dell’Avvocato CLAUDIO FERRAZZA, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
F.S.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 3851/2010 della Corte d’appello di ROMA, depositata il 29 settembre 2010;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13 febbraio 2018 dal Consigliere Alberto Giusti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per l’accoglimento del primo e del secondo motivo di ricorso;
udito l’Avvocato Michele Mirenghi.

Svolgimento del processo
1. – Il (OMISSIS) D.S.V. perse la vita in conseguenza di un sinistro stradale.
Secondo la ricostruzione compiuta dal giudice penale, il sinistro fu provocato dalla imprudente condotta di guida di F.S., la quale, omettendo di concedere la precedenza al veicolo condotto da Mauro Sbaraglia, costrinse quest’ultimo ad una disperata manovra di emergenza, all’esito della quale investì D.S.V. ed il suo nipote minorenne.
2. – Nel 2003 la vedova della vittima, Fa.Ma., ed altri congiunti di D.S.V. convennero dinanzi al Tribunale di Roma F.S. e il suo assicuratore della responsabilità civile, Meieaurora s.p.a. (che in seguito, per effetto di ripetute fusioni, muterà ragione sociale in Unipol Assicurazioni s.p.a.).
L’attrice domandò il risarcimento dei danni patiti in conseguenza della morte del marito; tra questi, chiese il ristoro del danno patrimoniale da perdita dell’aiuto economico ricevuto dal coniuge.
Il Tribunale di Roma, con sentenza in data 25 febbraio 2005, accolse solo in parte la domanda di Fa.Ma.. Il giudice di primo grado ritenne che, godendo la Fa. di redditi da pensione superiori a quelli del defunto coniuge, non era verosimile che quest’ultimo destinasse alla prima una parte del proprio reddito. Il Tribunale rilevò inoltre che, avendo la Fa. beneficiato, dopo la morte del marito, di una pensione di reversibilità, pari al 60% della pensione percepita dallo scomparso, tale erogazione elideva l’esistenza stessa di un danno patrimoniale.
3. – La sentenza venne appellata dalla Fa., la quale – per quanto in questa sede rileva – si dolse del rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale.
A sostegno del gravame l’appellante dedusse, tra l’altro, che era erronea in diritto l’affermazione secondo cui nella liquidazione del danno patrimoniale dovesse tenersi conto della pensione di reversibilità erogata alla vedova della vittima dall’ente previdenziale.
4. – La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica mediante il deposito in cancelleria il 29 settembre 2010, ha rigettato il gravame.
La Corte territoriale ha posto, a fondamento della statuizione di rigetto, le due rationes decidendi adottate dal Tribunale, e cioè: (a) la Fa. godeva di un reddito superiore a quello del defunto marito; (b) in ogni caso, l’erogazione alla vedova della pensione di reversibilità escludeva l’esistenza di un danno patrimoniale.
5. – La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da D.S.C., D.S.A. e D.S.F. (eredi di Fa.Ma., deceduta nelle more del giudizio), con ricorso articolato su due motivi ed illustrato da memorie.
Ha resistito la sola Unipol Assicurazioni s.p.a.
6. – La Terza Sezione di questa Corte, con ordinanza interlocutoria 22 giugno 2017, n. 15536, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite al fine di risolvere il contrasto di giurisprudenza sulla questione, sollevata con il secondo motivo del ricorso, se, in tema di danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui, dall’ammontare del risarcimento debba essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto.
Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Motivi della decisione
1. – La questione rimessa all’esame di queste Sezioni Unite è se il danno patrimoniale patito dal coniuge di persona deceduta, consistente nella perdita dell’aiuto economico offerto dal defunto, debba essere liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della pensione di reversibilità accordata al superstite dall’Istituto nazionale della previdenza sociale.
Tale questione rileva per l’esame del secondo motivo di ricorso, con cui si deduce che erroneamente la Corte d’appello avrebbe escluso l’esistenza di un danno risarcibile, sol perché alla vedova della vittima era stata erogata dall’Inps la pensione di reversibilità.
2. – Sulla questione devoluta all’esame delle Sezioni Unite si registrano orientamenti contrastanti nella giurisprudenza di questa Corte.
2.1. – L’orientamento prevalente è nel senso che della pensione di reversibilità a favore dei congiunti della vittima non si deve tener conto nella liquidazione del danno patrimoniale da morte del familiare.
Il principio secondo cui dall’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno patrimoniale da morte del familiare non deve essere detratto quanto già percepito dal congiunto a titolo di pensione di reversibilità, si basa sia sulla natura non risarcitoria di tale erogazione previdenziale, sia sull’inapplicabilità, in ragione della diversità di titolo dell’attribuzione patrimoniale pensionistica rispetto al fatto illecito, della compensatio lucri cum damno. Il danneggiante – si afferma può pretendere la compensatio solo se anche il vantaggio sia stato da lui stesso determinato con il suo fatto illecito: quando, in altri termini, il lucro sia conseguenza immediata e diretta del fatto illecito, avente in sè stesso la normale idoneità a determinare l’effetto vantaggioso. Non si può quindi far luogo alla detrazione se il beneficio ripete la sua fonte e la sua ragione giuridica da un titolo diverso e indipendente dal fatto illecito e la morte rappresenta solo la condizione perché quel titolo spieghi la propria efficacia. Porre la condizione per il verificarsi di una conseguenza giuridica non significa averla determinata, mancando, per ciò solo, il rapporto di causalità efficiente.
Si tratta di un orientamento che ha costituito per decenni incontrastato diritto vivente (Cass., Sez. 3^, 29 luglio 1955, n. 2442; Cass., Sez. 3^, 14 marzo 1996, n. 2117; Cass., Sez. 3^, 18 novembre 1997, n. 11440; Cass., Sez. 3^, 10 febbraio 1998, n. 1347; Cass., Sez. 3^, 25 marzo 2002, n. 4205; Cass., Sez. 3^, 31 maggio 2003, n. 8828; Cass., Sez. 3^, 11 febbraio 2009, n. 3357), tanto che l’adesione ad esso è stata talora ribadita con motivazione semplificata, affidata al semplice richiamo dell’autorità del precedente (così Cass., Sez. 3^, 10 marzo 2014, n. 5504).
2.2. – Questo indirizzo è stato messo in discussione da Cass., Sez. 3^, 13 giugno 2014, n. 13537, la quale ha affermato l’opposto principio del non-cumulo: dall’ammontare del risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui deve essere sottratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto, attesa la funzione indennitaria assolta da tale trattamento, che è rivolto a sollevare i familiari dallo stato di bisogno derivante dalla scomparsa del congiunto, con conseguente esclusione, nei limiti del relativo valore, di un danno risarcibile.
Il rovesciamento dell’orientamento tradizionale è affidato, anzitutto, al rilievo chel’art. 1223 cod. civ.esige una lettura unitaria, e non asimmetrica, sia quando si tratta di accertare il danno sia quando si tratta di accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito. Se ne fanno discendere i seguenti corollari: (a) ai fini dell’operatività della compensatio, lucro e danno non vanno concepiti come un credito ed un debito autonomi per genesi e contenuto, rispetto ai quali si debba indagare soltanto se sussista la medesimezza della fonte; (b) piuttosto, del lucro derivante dal fatto illecito occorre stabilire unicamente se costituisca o meno una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito ai sensidell’art. 1223 cod. civ.; (c) vantaggi e svantaggi derivati da una medesima condotta possono compensarsi anche se alla produzione di essi hanno concorso, insieme alla condotta umana, altri atti o fatti, ovvero direttamente una previsione di legge; (d) nell’ottica del rapporto di diritto civile che lega vittima e responsabile, per quantificare le conseguenze pregiudizievoli dell’illecito dal punto di vista economico, non può spezzarsi la serie causale e ritenere che il danno derivi dall’illecito e l’incremento patrimoniale rappresentato dalla pensione di reversibilità no, e ciò perché senza il primo non vi sarebbe stato il secondo.
A sostegno della soluzione nel senso della detraibilità si richiama inoltre il principio di indifferenza: il risarcimento non deve impoverire il danneggiato, ma neppure arricchirlo, sicché non può creare in favore di quest’ultimo una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dall’illecito.
Il defalco dall’ammontare del risarcimento del valore capitale della pensione di reversibilità viene giustificato anche sull’osservazione che l’erogazione della reversibilità ha una funzione indennitaria, a prescindere dal fine solidaristico cui sono improntate le disposizioni che la prevedono: poiché essa ha lo scopo di sollevare i familiari dallo stato di bisogno causato dalla scomparsa della persona che all’interno del nucleo familiare produceva un reddito destinato alla famiglia, il percettore della suddetta pensione – si afferma – non patisce alcun danno patrimoniale per effetto della morte del congiunto, fino all’ammontare del valore capitale della pensione stessa.
2.3. – Il revirement non è stato condiviso dalla giurisprudenza successiva. Cass., Sez. III, 30 settembre 2014, n. 20548, ha fatto applicazione del principio tradizionale della non detraibilità dall’ammontare del risarcimento del danno di quanto già percepito a titolo di pensione di reversibilità. Anche Cass., Sez. 3^, 20 febbraio 2015, n. 3391, ha mantenuto fermo l’orientamento a favore del non-diffalco, ritenuto ancorato a basi di “indubbia e condivisa coerenza”, giacché tale pensione, fondandosi su di un titolo diverso dall’atto illecito, impedisce la compensazione, senza che assuma rilievo il fatto che, in conseguenza del cumulo della pensione di reversibilità e del risarcimento, la vittima si venga a trovare in una situazione patrimoniale più favorevole di quella in cui si sarebbe trovata in assenza dell’illecito.
2.4. – In presenza del suindicato contrasto, già in precedenza la Terza Sezione, con ordinanza interlocutoria 5 marzo 2015, n. 4447, aveva rimesso alle Sezioni Unite la soluzione della questione se il fatto che il danno da illecito e l’attribuzione patrimoniale in forma di pensione di reversibilità derivino da titoli diversi, escluda o meno l’operatività del principio della compensatio, impedendo che dal risarcimento dovuto sia detratto il valore capitale della prestazione previdenziale.
In quella occasione, le Sezioni Unite (sentenza 30 giugno 2016, n. 13372) non esaminarono il fondo della questione, rilevando che, nella causa rimessa, la problematica “della compensatio lucri cum damno, pur di estremo interesse sul piano giuridico, si presenta(va) in concreto quanto meno prematura” per ragioni intrinseche alla vicenda processuale ivi rilevante.
Le Sezioni Unite non mancarono, nondimeno, di osservare incidentalmente quanto segue: “L’individuazione dei presupposti di applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, che è strettamente connesso con il tema della cumulabilità di varie voci di danno ai fini dell’applicabilità del principio del risarcimento del danno effettivo, presuppone pur sempre l’esistenza (e l’entità) di un danno risarcibile; e solo su questo eventualmente sarebbe esercitabile la surroga. Non senza osservare che la riscossione dell’indennizzo da parte del danneggiato eliderebbe in misura corrispondente il suo credito ri-sarcitorio nei confronti del danneggiante, che pertanto si estinguerebbe e non potrebbe essere più preteso, né azionato”.
2.5. – Nel rimettere nuovamente alle Sezioni Unite la risoluzione del contrasto di giurisprudenza, il Collegio della Terza Sezione – ponendosi in continuità con l’indirizzo inaugurato dalla sentenza n. 13537 del 2014 – dichiara di auspicare che il problema interpretativo che sta alla base della questione sia risolto secondo i seguenti principi: (a) alla vittima di un fatto illecito spetta il risarcimento del danno esistente nel suo patrimonio al momento della liquidazione; (b) nella stima di questo danno occorre tenere conto dei vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, a condizione che il vantaggio possa dirsi causato dal fatto illecito ed abbia per risultato diretto o mediato quello di attenuare il pregiudizio causato dall’illecito; (c) per stabilire se il vantaggio sia stato causato dal fatto illecito deve applicarsi la stessa regola di causalità utilizzata per accertare se il danno sia conseguenza dell’illecito.
Ad avviso del Collegio rimettente, a pretendere la medesimezza del titolo per il danno e per il lucro ai fini dell’operatività della compensatio anche nelle fattispecie che si caratterizzano per la presenza di rapporti giuridici trilaterali, si finirebbe per negare di fatto qualsiasi spazio all’istituto, essendo assai raro (se non impossibile) che un fatto illecito possa provocare da sé solo, ossia senza il concorso di nessun altro fattore umano o giuridico, sia una perdita, sia un guadagno. Si tratterebbe invece unicamente di stabilire se il lucro costituisca o meno una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito ai sensidell’art. 1223 c.c..Qualificare d’altra parte molti vantaggi come occasionati e non causati dal fatto illecito sarebbe incoerente con la moderna nozione di causalità giuridica: pertanto, allorquando il fatto di danno sia anche coelemento di una fattispecie, di fonte normativa o negoziale, costitutiva di una provvidenza indennitaria a favore del danneggiato, pure siffatta provvidenza – si sostiene – rappresenta un effetto giuridico immediato e diretto della condotta che quel danno ha provocato, giacché da essa deriva secondo un processo di lineare regolarità causale.
Secondo la lettura proposta nell’ordinanza di rimessione, il cumulo dei benefici, rispettivamente di carattere indennitario e risarcitorio, determinerebbe nei fatti una locupletazione del danneggiato, strutturalmente incompatibile con la natura meramente reintegratoria della responsabilità civile, tenuto conto che il risarcimento non può creare in favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dall’illecito.
Con particolare riferimento allo specifico quesito concernente la cumulabilità o meno della pensione di reversibilità, l’ordinanza interlocutoria osserva che, mentre nel rapporto tra l’assistito e l’ente obbligato al pagamento del beneficio previdenziale il diritto del primo scaturisce dalla legge e l’illecito è mera condicio iuris per l’erogazione, ben diversa sarebbe la prospettiva se ci si pone nell’ottica del rapporto di diritto civile che lega vittima e responsabile. In questo diverso rapporto giuridico si tratterebbe di stabilire, non già se il beneficio dovuto per legge spetti o meno, ma di quantificare con esattezza le conseguenze pregiudizievoli dell’illecito. E per quantificare tali conseguenze dal punto di vista economico non potrebbe spezzarsi la serie causale, e ritenere che il danno derivi dall’illecito e l’incremento patrimoniale no. In altri termini, l’affermazione secondo cui l’illecito non sarebbe causa in senso giuridico delle attribuzioni erogate alla vittima non terrebbe conto dell’intrecciarsi dei due ordini di rapporti: quello tra danneggiato e terzo sovventore, e quello tra danneggiato e danneggiante.
3. – Come correttamente rileva l’ordinanza interlocutoria della Terza Sezione, la soluzione della specifica questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite coinvolge un tema di carattere più generale, che attiene alla individuazione della attuale portata del principio della compensatio lucri cum damno e sollecita una risposta all’interrogativo se e a quali condizioni, nella determinazione del risarcimento del danno da fatto illecito, accanto alla poste negative si debbano considerare, operando una somma algebrica, le poste positive che, successivamente al fatto illecito, si presentano nel patrimonio del danneggiato.
L’ordinanza di rimessione pone questo tema a oggetto di un quesito di portata più ampia di quello riguardante la detraibilità o meno della pensione di reversibilità: se, in tema di risarcimento del danno, ai fini della liquidazione dei danni civili il giudice debba limitarsi a sottrarre dalla consistenza del patrimonio della vittima anteriore al sinistro quella del suo patrimonio residuato al sinistro stesso, senza far ricorso prima alla liquidazione e poi alla compensatio; e se, di conseguenza, quando l’evento causato dall’illecito costituisce il presupposto per l’attribuzione alla vittima, da parte di soggetti pubblici o privati, di benefici economici il cui risultato diretto o mediato sia attenuare il pregiudizio causato dall’illecito, di questi il giudice debba tener conto nella stima del danno, escludendone l’esistenza per la parte ristorata dall’intervento del terzo.
Tale interrogativo, al quale è sottesa una richiesta indistinta e omologante di tutte le possibili evenienze legate al sopravvenire, al fatto illecito produttivo di conseguenze dannose, di benefici collaterali al danneggiato, viene esaminato dalle Sezioni Unite nei limiti della sua rilevanza: fino al punto, cioè, in cui esso rappresenta un presupposto o una premessa sistematica indispensabile per l’enunciazione, a risoluzione del contrasto di giurisprudenza, di un principio di diritto legato all’orizzonte di attesa della fattispecie concreta.
Questa delimitazione di ambito e di prospettiva non è frutto di una scelta discrezionale del Collegio decidente, ma conseguenza che si ricollega alle funzioni ordinamentali e alle attribuzioni processuali delle Sezioni Unite, alle quali è affidata, non l’enunciazione di principi generali e astratti o di verità dogmatiche sul diritto, ma la soluzione di questioni di principio di valenza nomofilattica pur sempre riferibili alle specificità del singolo caso della vita. Se ne ha una conferma nella stessa previsionedell’art. 363 c.p.c., perché anche là dove la Corte di cassazione è chiamata ad enunciare un principio di diritto nell’interesse della legge, si tratta tuttavia del principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi nella risoluzione della specifica controversia.
3.1. – L’esistenza dell’istituto della compensatio, inteso come regola di evidenza operativa per la stima e la liquidazione del danno, non è controversa nella giurisprudenza di questa Corte, trovando il proprio fondamento nella idea del danno risarcibile quale risultato di una valutazione globale degli effetti prodotti dall’atto dannoso.
Se l’atto dannoso porta, accanto al danno, un vantaggio, quest’ultimo deve essere calcolato in diminuzione dell’entità del risarcimento: infatti, il danno non deve essere fonte di lucro e la misura del risarcimento non deve superare quella dell’interesse leso o condurre a sua volta ad un arricchimento ingiustificato del danneggiato. Questo principio è desumibiledall’art. 1223 cod. civ., il quale stabilisce che il risarcimento del danno deve comprendere così la perdita subita dal danneggiato come il mancato guadagno, in quanto siano conseguenza immediata e diretta del fatto illecito. Tale norma implica, in linea logica, che l’accertamento conclusivo degli effetti pregiudizievoli tenga anche conto degli eventuali vantaggi collegati all’illecito in applicazione della regola della causalità giuridica. Se così non fosse – se, cioè, nella fase di valutazione delle conseguenze economiche negative, dirette ed immediate, dell’illecito non si considerassero anche le poste positive derivate dal fatto dannoso – il danneggiato ne trarrebbe un ingiusto profitto, oltre i limiti del risarcimento riconosciuto dall’ordinamento giuridico (Cass., Sez. 3^, 11 luglio 1978, n. 3507).
In altri termini, il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato, ma non può oltrepassarlo, non potendo costituire fonte di arricchimento del danneggiato, il quale deve invece essere collocato nella stessa curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l’illecito: come l’ammontare del risarcimento non può superare quello del danno effettivamente prodotto, così occorre tener conto degli eventuali effetti vantaggiosi che il fatto dannoso ha provocato a favore del danneggiato, calcolando le poste positive in diminuzione del risarcimento.
3.2. – Controversi sono piuttosto la portata e l’ambito di operatività della figura, ossia i limiti entro i quali la compensatio() può trovare applicazione, soprattutto là dove il vantaggio acquisito al patrimonio del danneggiato in connessione con il fatto illecito derivi da un titolo diverso e vi siano due soggetti obbligati, appunto sulla base di fonti differenti.
E’ la situazione che si verifica quando, accanto al rapporto tra il danneggiato e chi è chiamato a rispondere civilmente dell’evento dannoso, si profila un rapporto tra lo stesso danneggiato ed un soggetto diverso, a sua volta obbligato, per legge o per contratto, ad erogare al primo un beneficio collaterale: si pensi all’assicurazione privata contro i danni, nella quale l’assicuratore, verso il pagamento di un premio, si obbliga a rivalere l’assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro; si considerino i benefici della sicurezza e dell’assistenza sociale, da quelli legati al rapporto di lavoro (e scaturenti dalla tutela contro gli infortuni e le malattie professionali) a quelli rivolti ad assicurare ad ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere una tutela assistenziale; si pensi, ancora, alle numerose previsioni di legge che contemplano indennizzi o speciali elargizioni che lo Stato corrisponde, per ragioni di solidarietà, a coloro che subiscono un danno in occasione di disastri o tragedie e alle vittime del terrorismo o della criminalità organizzata.
La vicenda concreta all’esame delle Sezioni Unite si colloca in quest’ambito. In essa il duplice rapporto bilaterale è rappresentato, da un lato, dalla relazione creata dal fatto illecito, permeata dalla disciplina della responsabilità civile, che garantisce, dopo il decesso della vittima primaria in conseguenza del sinistro stradale, il risarcimento del danno patrimoniale sofferto dai familiari in conseguenza della perdita del sostentamento economico loro assicurato in vita dal congiunto; dall’altro, dalla relazione discendente dalla legislazione previdenziale, la quale, attraverso la pensione di reversibilità, assicura a quei medesimi familiari un trattamento economico alla morte del titolare della posizione previdenziale, anche quando il decesso dipenda dal fatto illecito di un terzo.
In questa ed in altre fattispecie similari si tratta di stabilire se l’incremento patrimoniale realizzatosi in connessione con l’evento dannoso per effetto del beneficio collaterale avente un proprio titolo e una relazione causale con un diverso soggetto tenuto per legge o per contratto ad erogare quella provvidenza, debba restare nel patrimonio del danneggiato cumulandosi con il risarcimento del danno o debba essere considerato ai fini della corrispondente diminuzione dell’ammontare del risarcimento.
3.3. – Restano fuori dal quesito rivolto alle Sezioni Unite le ipotesi in cui, pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una provvidenza indennitaria.
In queste ipotesi vale la regola del diffalco, dall’ammontare del risarcimento del danno, della posta indennitaria avente una cospirante finalità compensativa.
La compensatio opera cioè in tutti i casi in cui sussista una coincidenza tra il soggetto autore dell’illecito tenuto al risarcimento e quello chiamato per legge ad erogare il beneficio, con l’effetto di assicurare al danneggiato una reintegra del suo patrimonio completa e senza duplicazioni.
Questa Corte, anche a Sezioni Unite, ha infatti affermato che l’indennizzo corrisposto al danneggiato, ai sensi dellaL. 25 febbraio 1992, n. 210, a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto deve essere integralmente scomputato dalle somme spettanti a titolo di risarcimento del danno, venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero della salute) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo (Cass., Sez. U., 11 gennaio 2008, n. 584; Cass., Sez. 3^, 14 marzo 2013, n. 6573).
Alla medesima conclusione è pervenuta la giurisprudenza amministrativa.
Chiamato a stabilire, nell’espressione nomofilattica dell’Adunanza Plenaria, se la somma dovuta dal datore di lavoro pubblico ad un proprio dipendente per lesione della salute conseguente alla esalazione di amianto nei luoghi di lavoro sia cumulabile con l’indennizzo percepito a seguito del riconoscimento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio ovvero se tale indennizzo debba essere decurtato dal risarcimento del danno, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1 del 2018, ha enunciato il principio di diritto secondo cui “la presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario”.
Preme qui sottolineare i fondamentali passaggi attraverso i quali si snoda l’argomentazione che sostiene la decisione del giudice amministrativo: (a) “l’applicazione delle regole della causalità giuridica impone che venga liquidato soltanto il danno effettivamente subito dal danneggiato”; (b) “il riconoscimento del cumulo implicherebbe l’attribuzione alla responsabilità contrattuale di una funzione punitiva”, giacché l’esistenza “di un solo soggetto responsabile e obbligato comporterebbe per esso l’obbligo di corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare la sfera del danneggiato con ingiustificata locupletazione da parte di quest’ultimo”: risultato, questo, non ammissibile, difettando “una espressa previsione legislativa che contempli un illecito punitivo e dunque autorizzi un rimedio sovracompensativo”, non essendo nemmeno configurabile “una duplice causa dell’attribuzione patrimoniale”; (c) “nella fattispecie in esame l’accertata finalità compensativa di entrambi i titoli delle obbligazioni concorrenti e del conseguente meccanismo risarcitorio, nonché la semplicità del rapporto che evita le possibili complicazioni ricostruttive connesse al funzionamento della surrogazione, impedisce che possa operare il cumulo tra danno e indennità”.
3.4. – Tornando all’ambito operativo della compensatio in presenza di una duplicità di posizioni pretensive di un soggetto verso due soggetti diversi tenuti, ciascuno, in base ad un differente titolo, occorre rilevare che la prevalente giurisprudenza di questa Corte ritiene che per le fattispecie rientranti in questa categoria valga la soluzione del cumulo del vantaggio conseguente all’illecito, non quella del diffalco.
Si afferma, in particolare, che la compensatio è operante solo quando il pregiudizio e l’incremento discendano entrambi, con rapporto immediato e diretto, dallo stesso fatto, sicché se ad alleviare le conseguenze dannose subentra un beneficio che trae origine da un titolo diverso ed indipendente dal fatto illecito generatore di danno, di tale beneficio non può tenersi conto nella liquidazione del danno, profilandosi in tal caso un rapporto di mera occasionalità che non può giustificare alcun diffalco. In altri termini, la detrazione può trovare applicazione solo nel caso in cui il vantaggio ed il danno siano entrambi conseguenza immediata e diretta del fatto illecito, quali suoi effetti contrapposti; essa invece non opera quando il vantaggio derivi da un titolo diverso ed indipendente dall’illecito stesso, il quale costituisce soltanto la condizione perchè il diverso titolo spieghi la sua efficacia (Cass., Sez. 3^, 15 aprile 1993, n. 4475; Cass., Sez. 3^, 28 luglio 2005, n. 15822).
Secondo questa prospettiva, la diversità dei titoli delle obbligazioni – il fatto illecito, da un lato; la norma di legge (ad esempio, nel caso di percezione di benefici da parte di enti previdenziali, assicuratori sociali, pubbliche amministrazioni) o il contratto (ad esempio, nel caso di percezione di indennizzi assicurativi), dall’altro – costituisce una idonea causa di giustificazione delle differenti attribuzioni patrimoniali: conseguentemente, la condotta illecita rappresenta, non la causa del beneficio collaterale, ma la mera occasione di esso.
3.5. – L’ordinanza di rimessione esattamente constata che è assai raro che le poste attive e passive abbiano entrambe titolo nel fatto illecito. Richiamando la nozione di causalità che si è venuta sviluppando nella giurisprudenza di questa Corte, la quale ha da tempo abbandonato la distinzione scolastica tra causa remota, causa prossima ed occasione, sostituendola con la nozione di regolarità causale (Cass., Sez. 3^, 13 settembre 2000, n. 12103), l’ordinanza propone di superare l’inconveniente di una interpretazione “asimmetrica”dell’art. 1223 c.c.: una interpretazione che, quando si tratta di accertare il danno, ritiene che il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato (Cass., Sez. 3^, 21 dicembre 2001, n. 16163; Cass., Sez. 3^, 4 luglio 2006, n. 15274), mentre esige al contrario che lo sia, quando passa ad accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito.
3.6. – Le Sezioni Unite ritengono che la sollecitazione a compiere la verifica in tema di assorbimento del beneficio nel danno in base a un test eziologico unitario, secondo il medesimo criterio causale prescelto per dire risarcibili le poste dannose, non possa spingersi fino al punto di attribuire rilevanza a ogni vantaggio indiretto o mediato, perché ciò condurrebbe ad un’eccessiva dilatazione delle poste imputabili al risarcimento, finendo con il considerare il verificarsi stesso del vantaggio un merito da riconoscere al danneggiante.
Così, non possono rientrare nel raggio di operatività della compensatio i casi in cui il vantaggio si presenta come il frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato, come avviene nell’ipotesi della nuova prestazione lavorativa da parte del superstite, prima non occupato, in conseguenza della morte del congiunto.
Allo stesso modo, nel determinare il risarcimento del danno, non sono computabili gli effetti favorevoli derivanti dall’acquisto dell’eredità da parte degli eredi della vittima: la successione ereditaria, infatti, è legata non già al fatto di quella morte, bensì al fatto della morte in generale, che si sarebbe verificata (anche se in un momento successivo) in ogni caso, a prescindere dall’illecito.
Si tratta di un esito interpretativo che discende pianamente dall’insegnamento della dottrina, la quale ha evidenziato che le conseguenze vantaggiose, come quelle dannose, possono computarsi solo finché rientrino nella serie causale dell’illecito, da determinarsi secondo un criterio adeguato di causalità, sicché il beneficio non è computabile in detrazione con l’applicazione della compensatio allorché trovi altrove la sua fonte e nell’illecito solo un coefficiente causale.
3.7. – Nei casi appena indicati il criterio del nesso causale funge realmente da argine all’operare dello scomputo da compensatio.
Più in generale, il Collegio ritiene che affidare il criterio di selezione tra i casi in cui ammettere o negare il cumulo all’asettico utilizzo delle medesime regole anche per il vantaggio, finisca per ridurre la quantificazione del danno, e l’accertamento della sua stessa esistenza, ad una mera operazione contabile, trascurando così la doverosa indagine sulla ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato.
Invece, ai fini della delineazione di quel criterio di selezione, proprio da tale indagine occorre muovere, guardando alla funzione di cui il beneficio collaterale si rivela essere espressione, per accertare se esso sia compatibile o meno con una imputazione al risarcimento.
E’ un approccio ermeneutico, questo, che da tempo la scienza giuridica offre alla comunità interpretante, rilevando che la determinazione del vantaggio computabile richiede che il vantaggio sia causalmente giustificato in funzione di rimozione dell’effetto dannoso dell’illecito: sicché in tanto le prestazioni del terzo incidono sul danno in quanto siano erogate in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato. La prospettiva non è quindi quella della coincidenza formale dei titoli, ma quella del collegamento funzionale tra la causa dell’attribuzione patrimoniale e l’obbligazione risarcitoria.
Ed è una linea d’indagine tanto più ineludibile oggi, in vista di un’apertura al confronto con l’elaborazione della dottrina civilistica Europea.
Infatti, i Principles of European Tort Law, all’art. 10:103, prevedono che, nel determinare l’ammontare dei danni, i vantaggi ottenuti dal danneggiato a causa dell’evento dannoso devono essere presi in considerazione, salvo che ciò non sia conciliabile con lo scopo dei vantaggi (unless this cannot be reconciled with the purpose of the benefit).
Analoga è la direttiva seguita dal Draft Common Frame of Reference. Secondo l’art. 6:103 del libro VI, dedicato alla equalisation of benefits, i vantaggi derivanti al soggetto che abbia sofferto un danno giuridicamente rilevante in conseguenza dell’evento dannoso non debbono essere presi in considerazione nel quantificare il danno, a meno che sia giusto e ragionevole farlo, avuto riguardo al tipo di danno sofferto, alla natura della responsabilità addebitata alla persona che ha causato il danno e, quando il beneficio sia erogato da un terzo, allo scopo perseguito conferendo il beneficio.
Nell’una e nell’altra prospettiva, pertanto, si è ben lontani dal suggerire una regola categoriale destinata ad operare in modo “bilancistico”: c’è, piuttosto, l’invito ad instaurare un confronto tra il danno e il vantaggio che di volta in volta viene in rilievo, alla ricerca della ragione giustificatrice del beneficio collaterale e, quindi, di una ragionevole applicazione del diffalco.
La selezione tra i casi in cui ammettere o negare il diffalco deve essere fatta, dunque, per classi di casi, passando attraverso il filtro di quella che è stata definita la “giustizia” del beneficio e, in questo ambito, considerando la funzione specifica svolta dal vantaggio.
Così, nel caso di assicurazione sulla vita, l’indennità si cumula con il risarcimento, perché si è di fronte ad una forma di risparmio posta in essere dall’assicurato sopportando l’onere dei premi, e l’indennità, vera e propria contropartita di quei premi, svolge una funzione diversa da quella risarcitoria ed è corrisposta per un interesse che non è quello di beneficiare il danneggiante.
3.8. – Una verifica per classi di casi si impone anche per accertare se l’ordinamento abbia coordinato le diverse risposte istituzionali, del danno da una parte e del beneficio dall’altra, prevedendo un meccanismo di surroga o di rivalsa, capace di valorizzare l’indifferenza del risarcimento, ma nello stesso tempo di evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l’autore dell’illecito.
Solo attraverso la predisposizione di quel meccanismo, teso ad assicurare che il danneggiante rimanga esposto all’azione di “recupero” ad opera del terzo da cui il danneggiato ha ricevuto il beneficio collaterale, potrà aversi detrazione della posta positiva dal risarcimento.
Se così non fosse, se cioè il responsabile dell’illecito, attraverso il non-cumulo, potesse vedere alleggerita la propria posizione debitoria per il solo fatto che il danneggiato ha ricevuto, in connessione con l’evento dannoso, una provvidenza indennitaria grazie all’intervento del terzo, e ciò anche quando difetti la previsione di uno strumento di riequilibrio e di riallineamento delle poste, si avrebbe una sofferenza del sistema, finendosi con il premiare, senza merito specifico, chi si è comportato in modo negligente.
Non corrisponde infatti al principio di razionalità – equità, e non è coerente con la poliedricità delle funzioni della responsabilità civile (cfr. Cass., Sez. U., 5 luglio 2017, n. 16601), che la sottrazione del vantaggio sia consentita in tutte quelle vicende in cui l’elisione del danno con il beneficio pubblico o privato corrisposto al danneggiato a seguito del fatto illecito finisca per avvantaggiare esclusivamente il danneggiante, apparendo preferibile in tali evenienze favorire chi senza colpa ha subito l’illecito rispetto a chi colpevolmente lo ha causato.
E stabilire quando accompagnare la previsione del beneficio con l’introduzione di tale meccanismo di surrogazione o di rivalsa, il quale consente al terzo di recuperare le risorse impiegate per erogare una provvidenza che non rinviene il proprio titolo nella responsabilità risarcitoria, è una scelta che spetta al legislatore. Ad esso soltanto compete, in definitiva, trasformare quel duplice, ma separato, rapporto bilaterale in una relazione trilaterale, così apprestando le condizioni per il dispiegamento dell’operazione di scomputo.
E’, questa, l’indicazione di sistema che giunge anche dal rappresentante dell’Ufficio del pubblico ministero, il quale, nel rifiutare la prospettiva “totalizzante” del computo nella stima del danno di vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, ha delineato “i due presupposti essenziali per poter svolgere la decurtazione del vantaggio”: accanto al contenuto, “per classi omogenee o per ragioni giustificatrici”, del vantaggio, la previsione, appunto, di un meccanismo di surroga, di rivalsa o di recupero, che “instaura la correlazione tra classi attributive altrimenti disomogenee”. Così, in tutti i casi in cui sia una norma legislativa ad attribuire, “senza regolare l’eventuale rapporto con il tema risarcitorio”, un vantaggio collaterale (si pensi agli interventi, in nome della solidarietà nazionale, con provvidenze ed elargizioni, in favore di individui e comunità a fronte di eventi catastrofici o disastri suscettibili di essere ascritti a condotte non iure e contra ius di soggetti terzi), il giudice della responsabilità civile non potrebbe procedere, tout court, ad effettuare l’operazione compensativa o di defalco. Se così facesse, egli vanificherebbe il senso più profondo della previsione normativa costituente il titolo dell’attribuzione, che risiede nell’assunzione da parte della generalità del carico di determinati svantaggi subiti dal o dai soggetti danneggiati, non nella volontà di premiare chi si è comportato in modo negligente o di alleggerire la sua posizione debitoria.
4. – Date queste premesse e venendo, dunque, alla specifica questione oggetto del contrasto, preme innanzitutto sottolineare che la pensione di reversibilità, appartenente al più ampio genus delle pensioni ai superstiti, è una forma di tutela previdenziale nella quale l’evento protetto è la morte, vale a dire un fatto naturale che, secondo una presunzione legislativa, crea una situazione di bisogno per i familiari del defunto, i quali sono i soggetti protetti.
L’ordinamento configura la pensione di reversibilità come “una forma di tutela previdenziale ed uno strumento necessario per il perseguimento dell’interesse della collettività alla liberazione di ogni cittadino dal bisogno ed alla garanzia di quelle minime condizioni economiche e sociali che consentono l’effettivo godimento dei diritti civili e politici (art. 3 Cost., comma 2) con una riserva, costituzionalmente riconosciuta, a favore del lavoratore di un trattamento preferenziale (art. 38 Cost., comma 2) rispetto alla generalità dei cittadini (art. 38 Cost., comma 1)” (Corte cost., sentenza n. 286 del 1987).
Nella pensione di reversibilità, la finalità previdenziale “si raccorda a un peculiare fondamento solidaristico” (Corte cost., sentenza n. 174 del 2016). Si tratta di una solidarietà che “si realizza quando il bisogno colpisce i lavoratori ed i loro familiari per i quali, però, non può prescindersi dalla necessaria ricorrenza dei due requisiti della vivenza a carico e dello stato di bisogno, i quali si pongono come presupposti del trattamento”. Per effetto della morte del lavoratore, dunque, “la situazione pregressa della vivenza a carico subisce interruzione”, ma il trattamento di reversibilità “realizza la garanzia della continuità del sostentamento ai superstiti” (Corte cost., sentenza n. 286 del 1987, cit.).
4.1. – L’erogazione della pensione di reversibilità non è geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo. Quell’erogazione non soggiace ad una logica e ad una finalità di tipo indennitario, ma costituisce piuttosto – come è stato rilevato in dottrina – l’adempimento di una promessa rivolta dall’ordinamento al lavoratore-assicurato che, attraverso il sacrificio di una parte del proprio reddito lavorativo, ha contribuito ad alimentare la propria posizione previdenziale: la promessa che, a far tempo dal momento in cui il lavoratore, prima o dopo il pensionamento, avrà cessato di vivere, quale che sia la causa o l’origine dell’evento protetto, vi è la garanzia, per i suoi congiunti, di un trattamento diretto a tutelare la continuità del sostentamento e a prevenire o ad alleviare lo stato di bisogno.
Sussiste dunque una ragione giustificatrice che non consente il computo della pensione di reversibilità in differenza alle conseguenze negative che derivano dall’illecito, perché quel trattamento previdenziale non è erogato in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato, ma risponde ad un diverso disegno attributivo causale. La causa più autentica di tale beneficio – è stato osservato – deve essere individuata nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente e assorbente rispetto alla circostanza (occasionale e giuridicamente irrilevante) che determina la morte.
Esattamente il pubblico ministero nell’udienza di discussione ha messo in luce che la pensione di reversibilità spetta per il fatto-decesso come tale, senza alcuna rilevanza della causa, naturale o umana, di esso; ed è attribuita, alle condizioni stabilite dalla normativa, come effetto delle contribuzioni che il lavoratore ha pagato nel corso dello svolgimento del rapporto. In questa prospettiva, “l’occasione materiale del decesso, ossia il fatto illecito altrui, resta del tutto confinata all’esterno di questa erogazione previdenziale; e scomputarne l’importo quando per evenienza il decesso abbia origine da un illecito civile produrrebbe conseguenze di dubbia costituzionalità”.
Una conferma di questo esito interpretativo viene dagli insegnamenti della dottrina, la quale, nel condividere la soluzione alla quale la giurisprudenza di questa Corte è pervenuta sin dagli anni cinquanta del secolo scorso, valorizza la circostanza che l’incremento patrimoniale corrispondente all’acquisto del diritto alla reversibilità si ricollega ad un sacrificio economico del lavoratore, e quindi non costituisce un vero e proprio lucro; laddove, affinché nell’ambito del giudizio di responsabilità civile si abbia una riduzione del danno risarcibile, è necessario che con il danno prodotto concorra un autentico lucro prodotto, vale a dire un “gratuito vantaggio economico”. Quando la condotta del danneggiante costituisce semplicemente l’occasione per il sorgere di un’attribuzione patrimoniale che trova la propria giustificazione in un corrispondente e precedente sacrificio, allora – si afferma – non si riscontra quel lucro che, unico, può compensare il danno e ridurre la responsabilità.
In questa stessa direzione convergono le più recenti riflessioni sul tema. Proprio prendendo le mosse dalla necessità di guardare alla funzione concreta e alla giustificazione più profonda del beneficio collaterale rappresentato dalla pensione di reversibilità, la dottrina esclude, secondo un giudizio normativo-valoriale, che il welfare previdenziale istituito e alimentato dai contributi del lavoratore, come tale espressione di una scelta di sistema pienamente conforme al respiro costituzionale della sicurezza sociale, sia suscettibile di essere considerato un beneficio da assoggettare all’impiego contabilmente causale della compensatio lucri cum damno. D’altra parte – si sottolinea – la stessa valutazione della pensione di reversibilità nel contesto attuale, caratterizzato dal passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, ne conferma e ne rafforza la funzione previdenziale, trattandosi di un’attribuzione che rinviene la sua causa necessaria, oltre che nella previsione di legge, nel sacrificio del lavoratore attraverso il versamento dei contributi.
4.2. – Non appare dirimente, in senso contrario, il parallelismo che l’ordinanza di rimessione prospetta con la questione del cumulo di stipendio e risarcimento del danno da incapacità lavorativa temporanea, nel caso di danno alla salute di un impiegato: questione – ricorda il Collegio della Terza Sezione – che venne in un primo tempo affrontata affermandosi che, nel caso in cui un impiegato resti assente dal lavoro a causa di un infortunio, continuando a percepire la retribuzione, egli ha diritto di chiedere al danneggiante anche il danno da incapacità temporanea, ma che poi ha trovato, con la citata sentenza n. 3507 del 1978, una soluzione diversa, definitivamente accolta anche dalla giurisprudenza successiva, nel senso che in tale evenienza non sussiste danno patrimoniale, e pertanto non compete alcun risarcimento a questo titolo, a meno che il lavoratore non deduca di avere dovuto rinunciare a straordinari o trasferte, o di avere subito pregiudizi nella carriera per la forzata assenza dal lavoro.
In realtà, la non comparabilità delle situazioni emerge dalla stessa motivazione che sostiene il richiamato precedente: la quale – nel constatare che, “ove lo stipendio continui ad essere percepito dall’infortunato nella sua interezza”, “il danno, sotto questo profilo, non si è neppure prodotto” – non ha mancato tuttavia di sottolineare che “altra e più delicata questione sorge, invece, quando il fatto illecito ponga in essere le condizioni ovvero i presupposti perché profittino al danneggiato particolari vantaggi prima non goduti: solo allora sorge l’esigenza di verificare, nella prospettiva dei principi che regolano la compensatio lucri cum damno, se detti vantaggi siano in rapporto di causa ad effetto con l’illecito, se cioè i primi siano conseguenza immediata e diretta del secondo”.
4.3. – D’altra parte, neppure appare condivisibile la tesi, sostenuta nella sentenza n. 13537 del 2014 che ha dato avvio al contrasto di giurisprudenza, secondo cui negare la compensatio tra risarcimento del danno patrimoniale da uccisione del congiunto e pensione di reversibilità finirebbe per “abrogare in via di fatto” l’azione di surrogazione spettante all’ente previdenziale, privando l’assicuratore sociale o l’ente previdenziale di un diritto loro “espressamente attribuito dalla legge”.
In realtà, nessuna delle norme richiamate nella citata sentenza lascia chiaramente intendere la sussistenza di un subentro dell’Inps nei diritti del familiare superstite, percettore del trattamento pensionistico di reversibilità, verso i terzi responsabili del fatto illecito che ha determinato la morte del congiunto.
Invero, la surrogazionedell’art. 1916 c.c., comma 4, si applica alle assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro; la L. 12 luglio 1984, n. 222, art. 14, prevede la surroga delle prestazioni in tema di invalidità pensionabile, che non sono assimilabili alla pensione di reversibilità ai superstiti; analogamente, laL. 4 novembre 2010, n. 183,art.41, stabilisce sì, a vantaggio dell’ente erogatore, il recupero, nei confronti del responsabile civile e della compagnia di assicurazioni, delle prestazioni erogate in conseguenza del fatto illecito di terzi, ma con riguardo alle pensioni, agli assegni e alle indennità, spettanti agli invalidi civili ai sensi della legislazione vigente; infine, l’art. 42 della medesima legge, nel disciplinare le comunicazioni delle imprese di assicurazione all’Inps, si occupa delle azioni surrogatorie e di rivalsa spettanti all’ente assicuratore “nei casi di infermità comportante incapacità lavorativa, derivante da responsabilità di terzi”.
5. – A composizione del contrasto di giurisprudenza deve pertanto essere enunciato il seguente principio di diritto:
“Dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto”.
6. – Il secondo motivo va dunque dichiarato fondato, perché la Corte d’appello si è discostata da questo principio.
Ritenendo che l’erogazione alla vedova della pensione di reversibilità escludesse l’esistenza di un danno patrimoniale, la Corte d’appello ha infatti erroneamente assorbito, nel risarcimento da sinistro stradale, il valore capitale della pensione di reversibilità costituita dall’Inps a favore della vedova, pari al 60% della pensione già percepita dal de cuius.
7. – Resta da esaminare il primo motivo di ricorso, con il quale si denuncia motivazione insufficiente e comunque contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, concernente la valutazione del danno patrimoniale patito da Fa.Ma..
7.1. – La Corte d’appello – premesso che il D.S., marito della Fa., godeva di un reddito appena al di sopra del limite di sussistenza e la moglie godeva di un reddito quasi doppio – è giunta alla conclusione che la vittima destinasse la pensione esclusivamente alla soddisfazione dei propri bisogni personali.
Sennonché, così decidendo, la Corte di merito non ha tenuto conto della documentazione in atti (in particolare del prospetto dell’Inps in data 1 marzo 2004, puntualmente richiamato in ricorso), da cui risulta che la Fa. godeva, negli anni immediatamente precedenti il sinistro, di un reddito nettamente inferiore rispetto a quello percepito dal marito.
Anche il primo motivo va dunque dichiarato fondato.
8. – La sentenza impugnata è cassata.
La causa deve essere rinviata alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.
Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.