L’assegno divorzile tra ‘tenore di vita’ e mancanza di ‘mezzi adeguati’: criteri per la individuazione in concreto

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI MATERA
riunito in camera di consiglio nelle persone dei seguenti magistrati:
Giorgio PICA Presidente, relatore
Tiziana CARADONIO Giudice
Mariadomenica MARCHESE Giudice
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile in primo grado iscritta al n. 776/2015 R.G.A.C.,
T R A
D.L., nato a Potenza il dd-mm-aaaa ed ivi residente a Xxxxxxxxxx, n. xx, rappresentato e difeso dagli avv.ti Leonardo Pinto e Cesare Pinto, in virtù di mandato a margine del ricorso introduttivo; RICORRENTE
E
B.E., nata a Potenza il gg-mm-yyyy ed ivi residente al Yyyyyyy, n. yy, rappresentata e difesa dall’avv. Cristiana Coviello, in virtù di mandato in calce alla comparsa di costituzione; RESISTENTE
NONCHE’
PUBBLICO MINISTERO, INTERVENUTO ex lege
OGGETTO: cessazione degli effetti civili di matrimonio concordatario.
CONCLUSIONI: all’udienza del 6-4-2017 i procuratori delle parti si riportano alle conclusioni rassegnate nei rispettivi atti, e precisate all’udienza.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 7-5-2015 D.L., premesso:
di avere contratto matrimonio civile a B. (Paese Estero) il dd-m-Aaaa con B.E., dal quale era nata la figlia _. il gg-mm-aaaa;
che con decreto del 7-1-2010, il Tribunale di Potenza aveva omologato la separazione dei coniugi, confermando le condizioni così concordate: «i coniugi vivranno separatamente con l’obbligo del reciproco rispetto e, salvo diversi accordi che assumeranno in specifiche occasioni in rapporto alla volontà della figlia, che essi si impegnano ad assecondare, stabiliscono che:
1) la figlia E., di anni 4, rimarrà in affidamento condiviso ai coniugi, con residenza prevalente presso la madre;
2) il padre dovrà incontrare e tenere con sé la figlia il lunedì e martedì di ogni settimana, a partire dalle ore 15.00 e sino alle ore 20.00, e potrà farlo con la medesima tempistica negli altri giorni (mercoledì, giovedì e venerdì) previa intesa da assumere con l’altro genitore entro il fine settimana precedente in rapporto alle esigenze lavorative di entrambi;
3) il padre, a fine settimana alterni, potrà tenere con sé là figlia, presso il proprio domicilio anche di notte, dal venerdì pomeriggio alla domenica pomeriggio, salvo che ciò sia impossibile per ragioni di salute o per altri gravi motivi;
4) durante le festività natalizie, salvi diversi accordi tra i genitori, ad anni alterni, ciascun genitore terrà con sé la figlia – in deroga a quanto previsto dai punti precedenti – o nei giorni 24, 25, 26 dicembre, ovvero nei giorni 31 dicembre, 1° e 6 gennaio;
5) per la festività di Pasqua, salvi diversi accordi tra i genitori, la figlia trascorrerà la domenica con un genitore e il lunedì con l’altro ad anni alterni, mentre per il compleanno, sempre salvi diversi accordi tra i genitori in rapporto alla volontà della figlia, rimarrà ad anni alterni con ciascuno dei genitori, in entrambi i casi in deroga alle previsioni di cui ai punti che precedono;
6) durante il periodo estivo, a partire dal giorno successivo alla chiusura della scuola e sino alla riapertura di questa, salvi diversi accordi tra i genitori, gli stessi terranno con sé la bambina per periodi venti giorni consecutivi ciascuno;
7) i genitori consentiranno alla figlia dì comunicare con l’altro genitore tutte le volte che ciò sia possibile, permettendo ogni diversa modalità organizzativa e di incontro che dia modo alla piccola E. di vivere con la maggiore serenità possibile la loro separazione;
8) il signor D.L. verserà alla signora B.E., entro il giorno 10 di ogni mese, la somma di € 800,00 (ottocento) di cui € 500,00 (cinquecento) a titolo di contributo per il suo mantenimento ed € 300,00 (trecento) per quello della figlia E., da aggiornare annualmente secondo gli indici Istat e, in occasione del pagamento della 13° e 14° mensilità (marzo e dicembre di ogni anno), verserà alla signora B.E. un ulteriore importo di euro 750,00 (settecentocinquanta) e, perciò, forfettariamente e complessivamente euro 1.500;
9) il signor D.L. si obbliga a garantire alla signora B.E. la copertura assicurativa per spese mediche sino ad un importo di euro 100,00 (cento) mensili;
10) le spese straordinarie necessarie per la minore, ivi comprese quelle necessarie per libri scolastici, occorrente scolastico e viaggi- studio, dovranno essere preventivamente decise congiuntamente dai genitori e la relativa spesa sarà posta a carico del signor D.L.;
11) il genitore gravato dell’assegno di mantenimento mensile potrà eseguire integralmente la detrazione Irpef per “figli a carico»;
e che i coniugi non si erano più riconciliati, chiedeva che il Tribunale adìto:
1) dichiarasse lo scioglimento del matrimonio civile contratto da D.L. e B.E. in data 13-9-2003, trascritto presso l’ufficio dello stato civile del Comune di Potenza al n. XX, P. Il S.C., e conseguentemente ordinasse all’ufficio dello stato civile del predetto Comune l’annotazione dell’emananda sentenza;
2) affidasse la minore E. ad entrambi i genitori con collocamento della medesima presso l’abitazione della madre, in Matera alla Via Xxxxxxxx n. XX.
3) ponesse a carico del ricorrente un assegno mensile di mantenimento di €. 350,00 in favore della minore E. da corrispondere alla madre, convivente, anticipatamente, il primo giorno di ogni mese.
4) ponesse a carico di ciascun genitore le spese straordinarie della figlia minore nella misura del 50%, secondo le indicazioni specificate in ricorso;
5) dichiarasse l’insussistenza del diritto della B.E. all’assegno divorzile;
6) regolasse il diritto di visita della figlia minore, da parte del padre come richiesto in ricorso, in ragione degli impegni lavorativi del genitore;
7) In caso di opposizione della resistente, condannasse la medesima alle spese e competenze di giudizio.
Si costituiva B.E., contestando la domanda, e insistendo per la sussistenza delle condizioni per l’assegno di mantenimento in suo favore e la conferma delle statuizioni decise in sede di separazione, con previsione di un assegno di mantenimento a proprio favore di euro 500, oltre rivalutazione annuale secondo indici ISTAT; nonché per la fissazione di un assegno di mantenimento per la figlia di euro 400 a carico del ricorrente, essendone aumentate le esigenze con l’aumentare dell’età; nonché con attribuzione integrale delle spese straordinarie per la figlia al D.L., almeno finquando la B.E. non avesse recuperato un reddito sufficiente al proprio mantenimento. Infine chiedeva che il Tribunale recepisse l’accordo intervenuto tra le parti in ordine al pagamento da parte del D.L. del pagamento del canone di locazione dell’alloggio della B.E. e della figlia, pari ad euro 650,00 ed ai consumi delle utenze.
Quanto al rapporto della piccola con i genitori, chiedeva che venisse statuito l’obbligo degli ex coniugi ritrovarsi almeno una volta al mese, in pizzeria o altro pubblico locale, per stare insieme al fine di creare un clima di serenità per la bambina, nonché la permanenza della figlia, nei weekend stabiliti, anche per la domenica notte, con onere del padre di accompagnarla a scuola il lunedì mattina. Con vittoria di spese, diritti ed onorari di causa.
All’esito dell’udienza di comparizione delle parti, risultato vano il tentativo di conciliazione, e dopo aver richiesto chiarimenti alle parti, il Presidente con ordinanza in data 2-2-2016 confermava le statuizioni contenute nell’accordo per la separazione coniugale omologato dal Tribunale di Potenza in data 8-1-2010 tra D.L. e B.E., designando sé stesso per l’ulteriore trattazione, e assegnando i termini per la regolarizzazione del contraddittorio in sede contenziosa.
Con sentenza non definitiva del 18-5-2016, depositata il 19-5-2016, era pronunciato lo scioglimento del matrimonio tra i suddetti coniugi e si disponeva per il prosieguo istruttorio con separata ordinanza.
Costituitosi in data 27/9/2016 il nuovo difensore della Sig.ra B.E., con istanza depositata il 4/10/2016, la resistente chiedeva la modifica dell’ordinanza presidenziale limitatamente alle statuizioni economiche. Con ordinanza del 15/11/16 il Presidente, , formulava alle parti una proposta conciliativa ex art.185 bis c.p.c. e fissava l’udienza dell’1/12/16 per la comparizione delle parti, riservan-dosi di provvedere in merito alla predetta istanza. Rifiutata da entrambe le parti la proposta conciliativa, con ordinanza depositata il 14/12/2016, il G.I. onerava le parti di depositare le rispettive dichiarazioni dei redditi per gli anni dal 2013 al 2015. Acquisita la documentazione reddituale, dopo aver riascoltato le parti, es-sendo mutata nel frattempo la persona del presidente – giudice istruttore, era fissa-ta udienza di precisazione delle conclusioni.
Precisate le conclusioni, all’esito della scadenza dei termini per le memorie conclusionali e per le repliche, la causa erra rimessa al Collegio per la decisione. Il Collegio riteneva l’opportunità di un riascolto dei coniugi, avendo prospettato la possibilità di un mutamento di collocamento della figlia, onde verificare se tale ipotesi rispondeva alla reale volontà delle parti e della minore e realizzasse l’interesse della figlia. All’esito era nuovamente riservata per la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Le questioni oggetto della presente decisione.
Osserva il Tribunale che residuano da regolare le sole questioni economiche tra le parti, e incidentalmente la questione della collocazione della figlia, sollevata dal ricorrente in comparsa conclusionale, atteso che è già stata pronunciata sentenza non definitiva di scioglimento del matrimonio civile contratto dai coniugi, e pertanto unicamente su questi aspetti deve concentrarsi la decisione.
Il ricorrente ha chiesto, sul piano economico, l’esclusione di un assegno divorzile in favore dell’ex coniuge, e quanto alla figlia minore, oggi undicenne, la previsione di un assegno di mantenimento di euro 350 mensili. Ha inoltre chiesto una dettagliata regolamentazione delle spese straordinarie per la figlia, da porre a carico di entrambi i genitori, ciascuno per il cinquanta per cento, ma specificando le spese da concordare previamente tra i genitori e quelle che invece possono essere disposte senza previa consultazione del genitore non convivente con la prole.
In comparsa conclusionale il ricorrente ha modificato in parte le precedenti conclusioni, deducendo:
– di essere gravato da un ulteriore onere, (non dedotto nel ricorso introduttivo), costituito dal pagamento mensile della rata di € 359,57 per l’estinzione del prestito concessogli da BancaXxxxx (come da piano di ammortamento in atti, rilasciato dalla banca il 14.10.2015, e quindi non disponibile il 7.5.2015 quando è stato depositato il ricorso per lo scioglimento del matrimonio),
– di aver inoltre, il 17/9/2016, contratto nuovo matrimonio con C.E. (come da certificato di matrimonio allegato alla memoria di parte ricorrente del 9/11/16);
– che l’ex coniuge B.E. lavorerebbe, e quindi percepirebbe un reddito proprio, e che non avrebbe offerto alcuna prova circa la mancanza di mezzi adeguati o dell’oggettiva impossibilità di procurarseli tali da giustificare il riconoscimento del preteso assegno divorzile;
– che sarebbe inammissibile la richiesta di addebitare al D.L. anche il canone di locazione dell’immobile abitato dall’ex coniuge e dalla figlia, avendo peraltro la B.E. stipulato in proprio un nuovo contratto di locazione a Potenza, allorché tra-sferitasi in detta città;
– che comunque la B.E. da quando si è trasferita a Potenza vivrebbe a casa del suo nuovo compagno.
Ha inoltre il ricorrente introdotto un domanda nuova, chiedendo, oltre alla conferma dell’affidamento condiviso, la collocazione della minore presso l’abitazione del padre in Matera, con addebito, in tal caso, alla B.E. di un contri-buto di euro 450 a favore del D.L. per il mantenimento della figlia.
La resistente ha insistito per il riconoscimento di assegno divorzile di euro 500, oltre rivalutazione annuale, e ha chiesto un assegno di mantenimento per la figlia di euro 400 a carico del ricorrente, essendone aumentate le esigenze; nonché l’attribuzione integrale delle spese straordinarie al D.L.; e l’obbligo per questi di corrispondere il canone di locazione dell’alloggio della B.E. e della figlia, ed i consumi.
Il punto di partenza non può che essere il reddito disponibile dalle parti, ed in particolare dal D.L., dal momento che per gli artt. 316-bis c.1, 337-ter c.4, c.c., nonché per il sesto comma dell’art. 5 L. 898/1970, il reddito del genitore/ex-coniuge comunque costituisce in ogni caso il quadro economico ineliminabile entro cui collocare e parametrare tutti gli obblighi di natura economica.
Ma prima di affrontare gli aspetti strettamente economici, è necessario chiarire i profili di diritto relativi alla sussistenza o meno dei diritti ed obblighi dai quali poi discenderebbero gli oneri economici in questione.
2. L’affidamento e la collocazione della figlia minore.
Non vi cono contrasti tra le parti in ordine all’affidamento della figlia, che è stato concordato come condiviso in sede di separazione, e non sono state formulate richieste di modifica di tale regime.
Il ricorrente, dopo aver chiesto, sia in ricorso introduttivo, e sia nella memoria integrativa del 17-2-2016, la conferma del collocamento della figlia, presso la madre, già concordato in sede di separazione consensuale, ha improvvisamente mutato avviso nella comparsa conclusionale, chiedendo la collocazione della figlia presso il padre in Matera.
Ma la nuova domanda appare in stridente contrasto, oltreché con le precedenti richieste, anche con le ripetute asserzioni del ricorrente secondo cui il suo lavoro non gli consente di poter tenere con sé la figlia oltre gli orari e i giorni che vengono indicati in ricorso, giungendo a lamentarsi del fatto che la B.E. avrebbe lasciato la figlia presso l’abitazione della nonna paterna o del D.L. oltre i giorni e orari concordati.
Soprattutto al riguardo evidenziato che i figli non possono essere considerati oggetti, e come tali spostabili indifferentemente da un luogo all’altro, a discrezione degli adulti, ma hanno anch’essi una vita affettiva e sociale, nonché esigenze di continuità scolastica, e quindi non è possibile decidere della loro collocazione senza considerare le loro esigenze ed il loro interesse, che per legge ha rilevanza preminente, e peraltro le loro esigenze necessitano di ancor maggiore attenzione nelle situazioni di crisi familiare, che aggravano insicurezze, disagi e problemi psicologici dei minori.
Pertanto la richiesta di mutamento della collocazione di un figlio minore deve essere sorretta da gravi ragioni e da fatti nuovi che siano sopravvenuti e che esigano il mutamento nell’interesse del minore.
Nella specie nessun motivo specifico né alcun fatto nuovo è stato addotto a sostegno della richiesta del ricorrente. Piuttosto il mutamento della domanda appare chiaramente correlato alla determinazione degli oneri economici a carico del medesimo, che, ove la figlia fosse collocata presso di lui, non dovrebbe più versare la quota di concorso per il suo mantenimento alla B.E., ma anzi potrebbe a sua volta pretendere una partecipazione dell’ex coniuge al mantenimento della figlia.
È però evidente che non è possibile prendere in considerazione tale ultima domanda del ricorrente, al di là della sua tardività rispetto ai tempi di delineazione del thema decidendum, sia perché non supportata da adeguata motivazione in ordine alle esigenze della minore, e sia perché dalle stesse dichiarazioni rese dai coniugi al G.I., a seguito della rimessione in istruttoria per la loro audizione, è emersa con chiarezza la problematicità e l’incongruenza di uno spostamento della figlia minore presso il padre a Matera.
Infatti la B.E. si è trasferita con la figlia a Potenza, dopo la separazione, non per capriccio, ma perché le famiglie di origine (anche del D.L.) sono potentine e ivi risiedono i familiari di entrambi i coniugi, e quindi allo scopo sia di poter contare sull’aiuto non soltanto economico dei propri familiari, e sia di consentire alla figlia di mantenere i rapporti affettivi con entrambe le famiglie.
La figlia attualmente frequenta la scuola a Potenza, e non appare certo coerente con il suo interesse portarla via dalla scuola e dalla cerchia di compagni e amici in cui si è inserita, per giunta in corso di anno scolastico, oltreché allontanarla anche dalle rispettive famiglie di origine, al solo fine di consentire la revisione dei rapporti economici tra i coniugi divorziati a favore del D.L..
Va premesso che qualunque modifica del regime di collocamento e/o affidamento della prole minorenne presuppone per legge il previo suo ascolto obbligatorio, ex artt. 315-bis, 336-bis e 337-octies cod. civ., e prima ancora dall’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la legge n. 77 del 2003, nonché dall’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata con legge 27 maggio 1991, n. 176.
La madre, B.E., ascoltata dal presidente – G.I. all’udienza dell’8-2-2018, ha chiarito che la figlia è ben inserita a Potenza, che non vuole lasciare l’ambiente e la scuola, e che inoltre non ha buoni rapporti con la nuova moglie del padre, per cui non gradirebbe la convivenza con essa. D’altro lato, anche il D.L., ascoltato dal presidente – G.I., pur avendo egli accennato alla possibilità di vedere la figlia collocata presso di lui, ha però confermato i suoi impegni lavorativi imprevedibili quanto a orari e luoghi, e quindi le scarse possibilità di prendersi in concreto cura – anche – della prima figlia, confermando indirettamente che la nuova domanda era esclusivamente correlata all’esigenza di riduzione dei propri oneri economici.
Alla stregua delle dichiarazioni rese dalle parti, non è quindi risultato necessario ascoltare la minore, non essendo in discussione l’affidamento, ed essendo apparsa palese l’irragionevolezza di un modifica del collocamento della figlia, per il quale comunque il Tribunale aveva voluto riascoltare informalmente i coniugi, a chiarimenti di eventuali modificazioni delle rispettive posizioni nonché della possibilità di raggiungere un accordo sugli aspetti economici, anche alla luce della proposta conciliativa offerta alle parti, purtroppo invano, dal precedente G.I. titolare del processo.
Va in conclusione, all’esito dell’ascolto dei coniugi, confermato il collocamento della figlia presso la madre, che evidentemente, se è stato concordato tra i coniugi in sede di separazione, e ne è stata poi chiesta altresì la conferma negli atti introduttivi e nelle memorie istruttorie, resta, in assenza di fatti nuovi successivi, la collocazione ottimale.
3. La domanda di assegno divorzile.
Il ricorrente ha chiesto l’esclusione di un assegno divorzile per l’ex coniuge, deducendo, riassuntivamente:
a) di godere di un reddito netto di circa 2.900 euro mensili;
b) di essere gravato da un ulteriore onere, per il pagamento mensile dei ratei di un finanziamento acceso presso Bancapulia;
c) di avere, il 17/9/2016, contratto nuovo matrimonio;
d) che l’ex coniuge B.E. lavorerebbe, e quindi sarebbe percettore di reddito proprio, e non avrebbe offerto alcuna prova circa la mancanza di mezzi adeguati o dell’oggettiva impossibilità di procurarseli;
e) l’inammissibilità della pretesa di addebitare al D.L. anche il canone di loca-zione dell’immobile locato di sua iniziativa dalla B.E.;
f) che comunque la B.E. da quando si è trasferita a Potenza vivrebbe a casa del suo nuovo compagno.
Con riferimento all’asserita convivenza della B.E. con altro compagno, si tratta di una circostanza non provata, e peraltro appare anche logicamente incoerente con la locazione da parte della B.E., da quest’ultima confermata, di un immobile, per abitarvi con la figlia. Che senso avrebbe infatti prendere in locazione un appartamento, sia pure di due soli vani, nonostante il minimo budget economico a disposizione della B.E., se lei era convivente con altra persona? E se la figlia, per giunta, non è in età da poter essere lasciata sola in un appartamento diverso da quello in cui vive la madre?
Appare quindi infondata la tesi del ricorrente, per mancanza di prova, oltreché per inconciliabilità logica con la realtà.
Per quanto concerne la tesi del ricorrente secondo cui la B.E. lavorerebbe, o comunque avrebbe capacità lavorativa, va rilevato che le argomentazioni difensive del D.L. appaiono in parte contraddittorie e in parte infondate.
Il D.L. ha ripetutamente asserito che la B.E. lavorerebbe. Di contro, la B.E. ha negato di avere un occupazione, dichiarando, anche in sede di audizione da parte del G.I., a seguito della rimessione sul ruolo istruttorio, che ha tentato ripetutamente varie strade per impegnarsi lavorativamente, ma senza successo, e chiarendo di aver perso il lavoro di promoter pubblicitaria, che aveva allorché si era sposata, proprio a seguito della gravidanza e della nascita della figlia, che non le aveva più consentito di andare continuamente in giro con l’auto tra i clienti della società di pubblicità per cui lavorava. Quindi, in definitiva, la perdita del lavoro della B.E. è dovuto alle esigenze di salvaguardia e assistenza della prole e dalla famiglia.
Le dichiarazioni della B.E., in ordine all’impossibilità di recuperare il lavoro che svolgeva, appaiono plausibili, alla luce degli stravolgimenti che ha subito il mercato della pubblicità con l’avvento di Internet, per cui è credibile che non abbia più potuto reinserirsi nel ruolo lavorativo precedente, che tra l’altro era molto ben retribuito, perché la comunicazione telematica ha da un lato favorito la progressiva concentrazione della gestione del mercato pubblicitario in pochi enti attrezzati tecnologicamente, ed ha dall’altro tagliato fuori le tradizionali agenzie di pubblicità, così come ha fatto scomparire le tecniche di approccio alla clientela, ed i relativi profili professionali, basati sul contatto diretto con la clientela.
Del resto, ove la B.E. avesse realmente oggi un reddito – e a maggior ragione ove svolgesse attività analoga a quella svolta in passato, per la quale i compensi sono in larga parte a provvigione in quanto legati alla produttività, e dunque necessariamente da documentare e non occultabili – se ne troverebbe traccia evidente nella documentazione contabile e fiscale obbligatoria oltreché nelle sue dichiarazioni dei redditi.
Resta valido il principio cardine in materia di prova secondo cui onus probandi incumbit ei qui dicit, e quindi è comunque onere del ricorrente dare la prova della asserzione secondo cui la B.E. lavorerebbe: prova che non è stata offerta.
Infatti parte ricorrente ha chiesto solo di provare che la B.E. avrebbe lasciato la figlia presso il padre oltre i limiti di orario e giorni concordati, “per poter svolgere la sua attività lavorativa”.
Siffatta richiesta di prova è stata ritenuta, e resta, inammissibile, sia perché richiedeva ai testi dichiarazioni di conoscenza de relato, e dunque irrilevanti, ovvero l’enunciazione di mere opinioni; e sia, soprattutto, perché pretendeva di far desumere, attraverso la prova della più frequente presenza della figlia con il padre, un fatto diverso e non collegato causalmente al primo. Infatti la presenza della figlia con il padre non è in correlazione logica necessaria con l’asserito impegno lavorativo della B.E., ben potendo derivare dalla volontà della figlia, ovvero dello stesso padre (non conoscibili da testimoni terzi), oppure da contingenze occasionali, ovvero anche da altrettanto occasionali necessità di tempo della B.E. proprio per la ricerca di una occupazione (come ha confermato la B.E.), attraverso la effettuazione di colloqui, incontri, test o esami, ed anche periodi di prova in attività nelle quali però i costi erano ampiamente superiori ai compensi.
D’altro lato, è evidente che il genitore collocatario della figlia minorenne ha dei limiti di tempo oggettivi – derivanti dalle necessità di cura e assistenza della figlia, che ricadono solo sulle sue spalle e non sono più divisi con l’altro genitore – nelle sue possibilità di allontanarsi dalla casa per lavoro, ed è dunque penalizzato rispetto all’altro coniuge nella ricerca e nelle possibilità di attività lavorativa.
Sono, queste, considerazioni che avrebbe potuto e dovuto fare anche il ricorrente, atteso che con la separazione si è automaticamente liberato dalla partecipazione agli oneri di assistenza e gestione quotidiana della figlia, che normalmente nel matrimonio sono condivisi e ripartiti con l’altro genitore, e che con il divorzio gravano sul solo genitore collocatario.
In ogni caso, la B.E. ha depositato documentazione formale, sottoposta alla A.G.E., attestante la inesistenza di reddito, ed a fronte di questa documentazione, soltanto la prova certa dello svolgimento di una attività lavorativa “a nero” potrebbe validamente smentire la condizione di disoccupazione affermata dalla B.E..
Va data dunque per provata l’attuale condizione di inoccupazione della B.E., ed occorre verificare quale rilevanza può assumere tale condizione in sede di divorzio, anche alla luce della recentissima pronuncia della Corte di legittimità, n. 11504 del 2017.
4. Il nuovo orientamento della Cassazione sull’assegno divorzile: l’eliminazione del riferimento al “tenore di vita”.
La motivazione della sentenza della Corte di Cassazione n. 11504/2017 si arti-cola sui seguenti punti:
1) che «una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso — sulla base dell’accertamento giudiziale, passato in giudicato, che «la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste dall’articolo 3» (cfr. artt. 1 e 2, mai modificati, nonché l’art. 4, commi 12 e 16, della legge n. 898 del 1970) —, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi “persone singole”, sia dei loro rapporti economico-patrimoniali (art. 191, comma 1, cod. civ.) e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale (art. 143, comma 2, cod. civ.), fermo ovviamente, in presenza di figli, l’esercizio della responsabilità genitoriale, con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex-oniugi (cfr. artt. 317, comma 2, e da 337-bis a 337-octies cod. civ.).»;
2) che «Perfezionatasi tale fattispecie estintiva del rapporto matrimoniale, il diritto all’assegno di divorzio – previsto dall’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, nel testo sostituito dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987 – è condizionato dal previo riconoscimento di esso in base all’accertamento giudiziale della mancanza di “mezzi adeguati” dell’ex-coniuge richiedente l’assegno o, comunque, dell’impossibilità dello stesso “di procurarseli per ragioni oggettive”.»;
3) che il giudizio relativo all’accertamento della spettanza dell’assegno divorzile si articola «in due fasi, il cui oggetto è costituito, rispettivamente, dall’eventuale riconoscimento del diritto (fase dell’an debeatur) e – solo all’esito positivo di tale prima fase – dalla determinazione quantitativa dell’assegno (fase del quantum debeatur)»; (osservazione, questa della separazione tra presupposti dell’assegno e criteri di determinazione, già comune alla giurisprudenza precedente: cfr., ad es., Cass. sez. 1, n. 6660 del 2001; Cass. sez. 1, n. 4809 del 1998; Cass. n. 10901/1991, etc.).
4) che «La complessiva ratio dell’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970 …. ha fondamento costituzionale nel dovere inderogabile di «solidarietà economica» (art. 2, in relazione all’art. 23, Cost.), il cui adempimento è richiesto ad entrambi gli ex coniugi, quali “persone singole”, a tutela della “persona” economicamente più debole (cosiddetta “solidarietà post-coniugale”): sta precisamente in questo duplice fondamento costituzionale sia la qualificazione della natura dell’assegno di divorzio come esclusivamente “assistenziale” in favore dell’ex-coniuge economicamente più debole (art. 2 Cost.) – natura che in questa sede va ribadita –, sia la giustificazione della doverosità della sua «prestazione» (art. 23 Cost.).»;
5) «Sicché – prosegue la sentenza – , se il diritto all’assegno di divorzio è riconosciuto alla “persona” dell’ex coniuge nella fase dell’an debeatur, l’assegno è “determinato” esclusivamente nella successiva fase del quantum debeatur, non già “in ragione” del rapporto matrimoniale ormai definitivamente estinto, bensì “in considerazione” di esso nel corso di tale seconda fase (cfr. l’incipit del comma 6 dell’art. 5 cit: «[….] il tribunale, tenuto conto [….]»), avendo lo stesso rapporto, ancorché estinto pure nella sua dimensione economico-patrimoniale, caratterizzato, anche sul piano giuridico, un periodo più o meno lungo della vita in comune («la comunione spirituale e materiale») degli ex-coniugi.»;
6) che «Deve, peraltro, sottolinearsi che il carattere condizionato del diritto all’assegno di divorzio – comportando ovviamente la sua negazione in presenza di “mezzi adeguati” dell’ex coniuge richiedente o delle effettive possibilità “di procurarseli”, vale a dire della “indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso – comporta altresì che, in carenza di ragioni di “solidarietà economica”, l’eventuale riconoscimento del diritto si risolverebbe in una locupletazione illegittima, in quanto fondata esclusivamente sul fatto della “mera preesistenza” di un rapporto matrimoniale ormai estinto, ed inoltre di durata tendenzialmente sine die: il discrimine tra “solidarietà economica” ed illegittima locupletazione sta, perciò, proprio nel giudizio sull’esistenza, o no, delle condizioni del diritto all’assegno, nella fase dell’an debeatur.».
Il significato reale della decisione della Cassazione emerge con chiarezza nell’ultimo periodo della richiamata motivazione, laddove si afferma che il rico-noscimento di un assegno divorzile in assenza dei presupposti indicati dal sesto comma dell’art. 5 L. 898/1970 integra una indebita locupletazione per il coniuge che ne fruisce. Con tale affermazione la sentenza (seguita poi anche da altre: cfr. ad es. Cass. nn. 11504, 15481, 23602, 20525, 25327 del 2017), ha inteso superare l’orientamento giurisprudenziale che ancorava l’assegno divorzile al c.d. “tenore di vita” goduto in costanza di matrimonio: Nel contempo, ha voluto anche sottoli-neare la separazione tra le due fasi del giudizio sulla spettanza dell’assegno divor-zile, la fase dell’an debeatur e quella del quantum debeatur, che nella prassi a vol-te sono state confuse dando luogo ad una commistione di concetti e alla sovrappo-sizione di criteri e presupposti.
5. La inattualità del riferimento al “tenore di vita” goduto ante divor-zio.
Va evidenziato che il collegamento con il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio era operato, nella giurisprudenza precedente, non attraverso una estensione dei criteri di quantificazione dell’assegno (nessuno dei quali fa espres-so riferimento al “tenore di vita”) – e dei quali la giurisprudenza ha sempre rico-nosciuto la sudditanza rispetto all’accertamento dei presupposti – ma proprio at-traverso l’interpretazione dei presupposti dell’assegno – a cui la sentenza 11504/2017 ribadisce che si deve guardare esclusivamente per decidere l’an – e cioè del concetto di “adeguatezza” dei mezzi, considerando appunto non adeguati i mezzi che non consentivano di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di
matrimonio (cfr. Cass. sez. 1, n. 3019/1992; Cass. sez. 1, n. 3049/1994; Cass. sez. 1 n. 4809 del 1998).
Quindi non appare sufficiente il richiamo della recente Cassazione a guar-dare in termini tassativi i presupposti dell’assegno fissati dalla legge (adeguatezza dei mezzi e impossibilità oggettiva di procurarseli) per superare il precedente orientamento giurisprudenziale, che ribadisce anch’esso la rilevanza esclusiva dei due presupposti, ma che introduce il parametro del precedente “tenore di vita” proprio attraverso l’interpretazione del concetto di “adeguatezza” dei mezzi.
Per rafforzare il rifiuto del riferimento al “tenore di vita”, la sentenza 11504/2017 si poggia essenzialmente sulla considerazione che ratio dell’assegno divorzile è il principio costituzionale di solidarietà.
Ma, al di là della ratio dell’istituto, è pur sempre nell’interpretazione del-la “adeguatezza” dei mezzi che deve risolversi la questione della riferibilità o me-no al “tenore di vita” precedente.
Per quanto concerne la ratio dell’assegno divorzile, nella giurisprudenza successiva alla novella legislativa del 1987 è pressoché univoco il rilievo che la disciplina introdotta dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, modificativo dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 989, «ha attribuito all’assegno di divor-zio natura esclusivamente assistenziale» (Cass. sez 1, n. 7199/1997; Cass. sez. 1, n. 3049/1994): affermazione che è coerente con l’affermazione, di Cass. 11504/2017, del fondamento dell’assegno insito nel dovere di solidarietà, ben coordinandosi la natura assistenziale con il fondamento dell’obbligo di solidarietà.
Ma l’affermazione della giurisprudenza precedente in ordine alla ratio “meramente assistenziale” dell’istituto risulta in netto contrasto con il contempo-raneo riferimento al tenore di vita prima goduto, perché il concetto di assistenza implica un trattamento economico finalizzato alla sopravvivenza, e non certo in termini di equivalenza alle precedenti condizioni di agiatezza. Analogamente – come ha giustamente rilevato, indirettamente, la sentenza 11504/2017 – la scelta di far riferimento al tenore di vita quo ante risulta in contrasto anche con la fun-zione di solidarietà, che può intendersi in senso solo di poco più ampio della fun-zione assistenziale.
In realtà, la teorica del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ap-pare una traslazione, per via interpretativa, nel nuovo testo dell’art. 5, sesto com-ma, L. 898/1970, di concetti che erano enunciati nel testo previdente del quarto comma dell’art. 5 cit., nel quale si prevedeva l’obbligo del coniuge più abbiente di versare un assegno divorzile “in proporzione alle proprie sostanze e ai propri red-diti” al coniuge meno abbiente. Traslazione che, non consentendolo più la lettera della norma introdotta dalla legge 74/1987, è stata attuata attraverso l’interpretazione del concetto di “mezzi adeguati”.
Non vi è dubbio che tale orientamento giurisprudenziale sia stato motivato dall’esigenza di salvaguardia del coniuge più debole.
Come per la verità non può negarsi che anche la nuova norma preveda una proporzionalità rispetto alle «condizioni» ed ai «redditi», ma di entrambi i coniugi, e non più in funzione di equiparazione delle rispettive condizioni economiche.
Per cui l’interpretazione perpetuante l’esigenza di adeguamento al benesse-re dell’ex coniuge risulta effettivamente non coerente, oltreché con la nuova pre-visione normativa introdotta con la riforma del 1987, con la disciplina generale del divorzio, oltreché contraddittoria con l’incontroversa funzione assistenziale dell’assegno divorzile.
Per superare questa discrasia interpretativa la sentenza 11504/2017 prende le mosse dalla considerazione che «una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso ….. il rap-porto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi “persone singole”, sia dei loro rapporti economico-patrimoniali (art. 191, comma 1, cod. civ.) e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale (art. 143, comma 2, cod. civ.), fermo ovviamente, in presenza di figli, l’esercizio della responsabili-tà genitoriale, con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex-coniugi (cfr. artt. 317, comma 2, e da 337-bis a 337-octies cod. civ.)».
Se sono venuti meno gli obblighi derivanti dal matrimonio, perché si deve riconoscere – attraverso una forzatura interpretativa quale l’intendere l’adeguatezza riferita al tenore quo ante – al coniuge meno abbiente un assegno divorzile che ripristini una situazione economica di cui egli non ha più diritto di fruire?
La mancata previsione tra i presupposti dell’assegno (ma anche tra i criteri di quantificazione) del precedente «tenore di vita» – espressione con la quale si intende il livello di agiatezza di vita goduto dalla famiglia in costanza di matrimo-nio – è agevolmente spiegabile, ove si consideri che il «tenore di vita» della fami-glia non è espressione della semplice somma aritmetica delle capacità produttive dei singoli coniugi (come in qualche sentenza si è affermato: ad es. Cass. 4764/2007, che lo individua nell’«ammontare complessivo dei loro redditi … e di-sponibilità patrimoniali»), ma è la scaturigine dell’apporto dato alla famiglia da tutti i suoi componenti, in primis dai coniugi (ovvero anche dagli ascendenti od al-tri familiari conviventi, e a volte, successivamente, anche dai figli) i quali, dando concreta e spontanea attuazione ai principi di assistenza morale e materiale, di col-laborazione nell’interesse della famiglia e di coabitazione, nonché di contribuzione ai bisogni della famiglia, in base alla propria capacità lavorativa ed alle proprie sostanze, costruiscono appunto il «tenore di vita» comune della famiglia.
Il venir meno dell’unione e della comunione familiare necessariamente fa venir meno quel tenore di vita, perché viene meno il concorso degli apporti dei coniugi, riportando inevitabilmente ciascuno dei coniugi alla dimensione econo-mica e sociale che aveva prima del matrimonio, salvo appunto il correttivo del soccorso solidaristico dell’ex coniuge, finquando l’ex-coniuge non recuperi una propria autonomia reddituale ovvero si costruisca un nuovo tenore di vita com-plesso, costituendo una nuova unione.
Dunque non sarebbe possibile, in linea di principio, per valutare il diritto al mantenimento di un coniuge, fare riferimento ad un livello di vita che è stato pur sempre frutto dell’apporto complesso di entrambi, e dal quale non appare age-volmente scorporabile l’apporto di ciascuno, considerato che apporto vi è anche qualora il coniuge non abbia prodotto e aggiunto reddito in termini economici, ma si sia dedicato alle attività domestiche e di gestione della casa, e/o di cura dei figli: apporto che comunque ha un valore economico, quantomeno (ma non solo) in termini di risparmio del pagamento di persone incaricate di tali incombenze, e di cui si giova l’economia familiare ed anche l’altro coniuge che produce reddito: e di cui è anche giusto tener conto nel caso sussistano i presupposti per l’assegno, ma che non può assurgere al livello di mantenimento del tenore di vita matrimo-niale.
D’altro lato, è la stessa disposizione normativa, allorché menziona tra i criteri di calcolo dell’assegno «il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune», ad evidenziare da un lato la fusione degli apporti individuali che da luogo al tenore di vita matrimoniale, e dall’altro ad escluderne la rilevanza tra i presupposti dell’assegno divorzile, confinandolo tra i criteri di computo.
In definitiva, dall’enunciazione normativa dei criteri di quantificazione si evince che il tenore di vita è il frutto della cooperazione materiale e spirituale dei coniugi, e quindi, in quanto connaturato al matrimonio, non solo è naturale che venga meno con la separazione prima, e poi definitivamente con il divorzio, ma il suo venir meno è altresì consapevole e voluto dai coniugi, nel momento in cui de-cidono di separare le loro vite e di non cooperare più fra loro, per prendere ciascu-no la sua strada.
Sulla base di tali considerazioni, l’adeguatezza dei mezzi non può essere rapportata al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, che non è ricostrui-bile cessato il matrimonio, e non avrebbe senso che si protraesse finita la coopera-zione tra i coniugi, rischiando ogni statuizione legata a tale concetto di tradursi, come osserva la citata sentenza 11504/2017, in una indebita locupletazione a dan-no del coniuge più abbiente.
Il venir meno dell’unione matrimoniale, in conclusione, giustifica il ritorno alle rispettive differenti posizioni economiche godute da ciascun coniuge prima del matrimonio, fatti salvi i rispettivi diritti derivanti dalla divisione del patrimo-nio comune (che non trovando ingresso in sede di procedimento di famiglia, per la diversa natura dell’azione e la diversità del rito, spesso non vengono considerati), con l’eccezione dei casi previsti dall’art. 5, sesto comma, L. 898/1970.
Pur risultando condivisibile la valenza attribuita alla cesura del vincolo matrimoniale nella definizione dei rapporti tra i coniugi, forse andrebbero conside-rati, in particolare per i casi di condizioni economiche meno abbienti, gli effetti, spesso negativi, della progressiva riduzione dei tempi tra separazione e divorzio, che spiega un’incidenza rilevante sui rapporti economici.
E’ noto che la giurisprudenza costantemente ha affermato l’indipendenza delle statuizioni economiche della separazione da quelle del divorzio, sulla base da un lato della ribadita diversità di funzione e di disciplina dei due assegni (ad es. Cass. 1758/2008; Cass. 25010/2007; Cass. 11575/2001), e dall’altro per la necessità per il giudice di procedere ad una verifica delle attuali condizioni economiche delle parti (Cass. 1758/2008), pur se non mancano decisioni che affermano che «anche l’assetto economico relativo alla separazione può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi al tenore di vita goduto durante il matrimonio e alle condizioni economiche dei coniugi» (pur riferendo la funzione del raffronto alla superata concezione dell’adeguamento al tenore di vita) (Cass. 11686/2013).
Le recenti riforme, riducendo e pressoché azzerando il lasso di tempo che in origine intercorreva per legge tra separazione e divorzio, hanno finito per ridurre – e quasi azzerare – di fatto anche la differenza tra i due regimi economici, sia perché che i due istituti sono ormai temporalmente ravvicinatissimi, ed a volte si sovrappongono, sopraggiungendo la pronuncia di divorzio persino mentre è ancora in corso il giudizio di separazione; e sia perché con l’abbreviazione dei tempi è venuta meno la funzione di “cuscinetto” del periodo di separazione, che consentiva di graduare nel tempo l’assestamento, anche economico, dei rapporti tra i coniugi e concedeva i tempi per il recupero, quando possibile, di una rispettiva autonomia economica.
Probabilmente si potrebbe cercare di operare una correzione, nei casi più critici, attraverso i criteri di quantificazione indicati dal sesto comma. Ma forse sarebbe opportuno un intervento legislativo che ridefinisca meglio i confini tra i due istituti.
6. I presupposti dell’assegno divorzile. I “mezzi adeguati”.
Chiarita la funzione dell’art. 5, sesto comma, L. 898/1970, che è deroga-toria degli effetti rescissori naturali del divorzio, e la tassatività dei casi in ci tale deroga può operare, occorre definire i presupposti dell’assegno divorzile, che il legislatore ha indubbiamente espresso in termini piuttosto vaghi, e quindi chiarire i criteri di determinazione, onde poterne verificare la sussistenza del diritto invo-cato dalla resistente nella vicenda in esame.
Recita testualmente il sesto comma dell’art. 5 cit. che «con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del ma-trimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a fa-vore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.».
Dal tenore letterale e sintattico della disposizione del sesto comma, è evi-dente che il presupposto che giustifica la spettanza dell’assegno divorzile è costi-tuito dalle sole due condizioni racchiuse nel periodo finale della norma in esame («quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive»), dal momento che la congiunzione temporale “quando” in-dica appunto il momento, e implicitamente anche il caso, in cui spetta il diritto.
Per quanto esposto in precedenza l’adeguatezza dei mezzi non può essere individuata con riferimento al precedente tenore di vita matrimoniale, che indica un concetto non più attuale, essendosi sciolta già con la separazione l’unione co-niugale, e che non può rappresentare un parametro per le esistenze individuali, es-sendo il frutto unico e irripetibile della cooperazione materiale e spirituale dei co-niugi in costanza di matrimonio, si possono prospettare diverse ipotesi.
La giurisprudenza a volte ha preso in considerazione – quale paragone per l’adeguatezza – il reddito e/o la condizione patrimoniale del coniuge più ab-biente, pur se mascherata attraverso circonlocuzioni o enunciazioni surrettizie, come ad esempio allorché si è chiede al ricorrente «la prova della propria impos-sidenza o della mancanza di mezzi economici e altresì la prova dell’ammontare dei redditi e delle sostanze dell’obbligato» (Cass. sez. 1, n. 7199/1997). Paradig-matica dell’indirizzo giurisprudenziale che considera quale riferimento il reddito del coniuge più abbiente risulta la sentenza n. 13169/2004, nella quale si osserva, quanto al secondo presupposto (della impossibilità di procurarsi mezzi adeguati) che si deve «trattare di impossibilità di ottenere mezzi tali da consentire il rag-giungimento non già della mera autosufficienza economica, ma di un tenore di vi-ta sostanzialmente non diverso rispetto a quello goduto in costanza di matrimo-nio».
A parte il fatto che nel momento in cui si considera il reddito del coniuge più abbiente, e si gravasse quest’ultimo di un assegno a favore del meno abbiente allo scopo di bilanciare ed equiparare i due redditi, automaticamente il reddito del primo non sarebbe più quello considerato, ma dovrebbe essere nuovamente apprezzato detratto l’importo dell’assegno che gli viene tolto per essere attribuito all’altro, e dunque dovrebbe essere riveduto al ribasso anche l’assegno, siffatto modo di ragionare produce effettivamente una ingiusta locupletazione a favore del coniuge beneficiario, come ha rilevato Cass. 11504/2017, poiché, andando ben ol-tre la soglia – che è già oltre la funzione assistenziale – della autosufficienza eco-nomica, attua un riequilibrio economico coattivo che è privo di causa, stante il ve-nir meno dell’unione coniugale e dell’obbligo dei coniugi di reciproca assistenza e cooperazione nell’interesse comune, e di conseguente condivisione del benessere economico.
Si tratta, quindi, di un ragionamento non condivisibile, perché:
– la differenza di redditi viene già in considerazione tra i criteri di valutazione enunciati dalla prima parte del sesto comma, e non può integrare anche il presup-posto di fatto dell’assegno;
– il paragone con il reddito del coniuge abbiente confliggerebbe con la natura assi-stenziale dell’assegno, trasformandolo in uno strumento di compensazione di un divario economico, ma in mancanza di un obbligo di legge che imponga tale com-pensazione;
– configgerebbe altresì con il principio del venir meno – con il divorzio – dell’obbligo di cooperazione materiale e morale dei coniugi, e del conseguente di-ritto alla condivisione del benessere economico.
Se la funzione dell’assegno, come appare corretto ritenere anche secondo la costante giurisprudenza, è assistenziale (cfr. ad es. Cass. 3049/1994: «ha carat-tere esclusivamente assistenziale»; idem: Cass. 7199/1997; Cass. 8183/1999; Cass. 3101/2000; Cass. 8109/2000; Cass. 6660/2001; Cass. 1809/1991; Cass. 10901/1991; Cass. 12682/1992; Cass. 3049/1994; Cass. 11117/1994; Cass. 13017/1995), ed è posto a carico dell’ex-coniuge in attuazione del dovere di soli-darietà (solidarietà che si spiega per essersi il coniuge più abbiente giovato, per la durata del matrimonio, dell’apporto del coniuge meno abbiente), allora il parame-tro di riferimento per stabilire l’adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge più debole non può più essere quello della ricchezza dell’altro coniuge, bensì la condizione oggettiva del coniuge più debole, che deve essere tale da non poter vi-vere un’esistenza dignitosa.
Il principio della «mancanza di mezzi adeguati», letto in chiave assisten-ziale, deve allora essere interpretato con riferimento alla disposizione costituzio-nale che esplicitamente considera l’ipotesi della mancanza di mezzi adeguati, e cioè l’art. 38, secondo comma, Cost., per il quale «i lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita, in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».
Gli eventi in tale articolo contemplati quali generatori della mancanza di mezzi adeguati coincidono con la larghissima parte dei casi in cui uno dei coniugi divorziati si trova in condizioni di indigenza. Nel concetto di «disoccupazione in-volontaria» ben rientrano le ipotesi in cui la condizione di disoccupazione è dovu-ta al fatto di essersi il coniuge dedicato in maniera totalitaria alle esigenze della famiglia, ovvero all’impossibilità di cercare un lavoro, per dovere il coniuge me-no abbiente ancora dedicarsi – oltre la fine del matrimonio – alla cura di figli non autonomi o gravati da inabilità. Altrettanto rilevanti sono i casi di vecchiaia o ina-bilità, che impediscono il lavoro (e dunque rilevano anche ai sensi dell’ulteriore presupposto, esplicativo del precedente), nonché di malattia o infortuni, finquando perdurino le conseguenze ostative di una attività lavorativa.
L’espressione normativa, parlando di mancanza di “mezzi adeguati”, in-globa in sé non solo le ipotesi di assoluta mancanza di qualunque provento eco-nomico, ma anche i casi in cui il coniuge indigente goda di proventi minimi, ma non sufficienti a costituire “mezzi adeguati” di sussistenza. Ben vi rientrano quin-di, ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno (da parametrare, però secondo i criteri e i limiti che si esaminano oltre), anche i casi di svolgimento di prestazio-ni lavorative occasionali e casuali, la cui retribuzione è in termini talmente mini-mi, che non può garantire la possibilità di procurarsi il minimo quotidianamente necessario per vivere.
Il problema concreto è a quale soglia di valore ancorare il livello minimo di “mezzi adeguati”, al di sotto del quale, pur in presenza di redditi, si possa pre-vedere un assegno divorzile “integrativo”.
Stante la natura assistenziale dell’assegno divorzile, alla stregua della normativa di settore, il parametro reddituale standard minimo deve ritenersi l’importo dell’assegno sociale, (che in prospettiva dovrebbe essere sostituito dal ReI, reddito di inclusione, di cui alla D.Lgs n. 147 del 15 settembre 2017), che ammonta, oggi, ad euro 453 mensili, (ma su tredici mensilità, ed ovviamente la previsione di una tredicesima mensilità nell’assegno divorzile potrebbe essere congrua solo se anche nel reddito del coniuge più abbiente fosse prevista tale voce retributiva).
Ovviamente ciò non vuol dire che deve essere sempre riconosciuto un importo di tale valore, poiché tale valore funge da parametro minimo, ma va poi corretto sulla base dei criteri di determinazione indicati nella prima parte del sesto comma, e ben può essere variato: in aumento, se sulla base delle condizioni rispet-tive dei coniugi e dei redditi rispettivi, nonché attesi gli altri criteri, l’importo ap-pare troppo basso (ma pur sempre nei limiti di un’ottica assistenziale), oppure an-che in diminuzione, se il reddito dell’altro coniuge si limita anch’esso ad un asse-gno o ad una pensione sociale, o di invalidità, etc. (ipotesi tutt’altro che infrequen-te), e dunque sarebbe impossibile imporgli il versamento anche della soglia mini-ma predetta.
Nel caso di redditività di gran lunga superiore dell’altro coniuge, e sem-pre che lo giustifichino i criteri di determinazione fissati nella prima parte del se-sto comma, ben potrebbe
Per quanto riguarda il secondo inciso «o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive», in giurisprudenza lo si è inteso non come un’alternativa al primo presupposto (ed in effetti non lo è, perché in realtà i due concetti non si escludono tra loro, ma spesso coesistono, sE.i considerando due diversi aspetti della condizione di inferiorità, uno “statico” e l’altro “dinamico”), ma come un’ipotesi «esplicativa» della prima (Cass. n. 294/1991; Cass. n. 13169/2004).
L’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati di sussistenza deve essere oggettiva e dunque derivare non dalla volontà di non impegnarsi lavorativamente (che configgerebbe tra l’altro con i principi costituzionali di rilevanza del lavoro quale parametro di dignità e qualità oltreché diritto-dovere dell’individuo: artt. 1 c.1, 2, 35-38, Cost.) ma dall’impossibilità di lavorare: ad es. perché si deve «dedi-care con continuità all’assistenza di due figli minori handicappati a lei affidati» (Cass. sez. 1, n. 294 del 14/1/1991); oppure perché per l’età della persona non è più possibile il suo reinserimento nel mondo del lavoro, o perché soffre di un han-dicap fisico, ovvero nella zona in cui vive non è possibile trovare l’occupazione corrispondente alla qualifica o al settore professionale, o alle sue capacità, o infine perché è una zona (e non sono affatto rare, specie nel meridione), priva di offerta lavorativa e comunque la persona non può allontanarsene per avere lì la casa e/o familiari da assistere.
L’interpretazione dell’adeguatezza nel senso di considerarla in rapporto alle risorse sufficienti ai bisogni minimi dell’esistenza esprime un concetto più coerente con la finalità assistenziale enunciata concordemente dalla giurispruden-za, con le correzioni apportabili sulla base dei criteri della prima parte del sesto comma dell’art. 5 in esame.
7. I criteri di determinazione dell’assegno.
In assenza di “mezzi adeguati” il sesto comma dell’art. 5, nella prima par-te, afferma – recependo alcuni dei criteri già enunciati nel testo dell’art. 5 prece-dente la novella – che il Tribunale deve determinare l’assegno «tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del pa-trimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio».
I criteri sono enunciati in successione, con la sola crasi di una virgola, e dunque devono intendersi elencati non secondo un ordine di prevalenza, ma ap-paiono tutti egualmente rilevanti, salvo i collegamenti logici che li legano.
Va osservato che probabilmente alcuni dei criteri indicati rivestivano ben maggiore utilità nel regime normativo precedente, che perseguiva l’esigenza di pe-requazione delle rispettive condizioni degli ex-coniugi, non prevedendo il presup-posto – oggi vigente – della mancanza di mezzi (che ha ravvicinato l’assegno di-vorzile all’assegno di mantenimento nella separazione). Ma, atteso che la finalità di perequazione è stata espunta già dal legislatore, ed evidenziata dalla giurispru-denza più recente, e che rileva quale presupposto dell’assegno solo la condizione di indigenza, alcuni dei criteri, trasfusi nella nuova disposizione dal testo prece-dente, appaiono ultronei.
Il riferimento alle «condizioni dei coniugi» ripete in parte un criterio già contemplato nel testo precedente, nel quale però le condizioni erano integrate dal-la specificazione «economiche». L’eliminazione dell’aggettivo lascia intendere che non vanno considerate solo le condizioni economiche, ma anche quelle perso-nali, e cioè di salute o di età, mentre il plurale «coniugi» evidenzia che il criterio non riguarda solo il coniuge bisognoso, ma entrambi, e dunque impone all’interprete di operare un raffronto tra le rispettive condizioni. Ma se – come ap-pare corretto – non è più l’equiparazione delle rispettive condizioni patrimoniali il fine dell’assegno divorzile, qual è la funzione della verifica delle condizioni di en-trambi i coniugi nel momento della quantificazione dell’assegno?
La funzione del criterio appare da un lato rivolta ad inquadrare la fascia socio-economica delle parti, e di invitare il giudice alla massima elasticità nella valutazione concreta delle situazioni, trattandosi di una materia in cui la comples-sità è sovrana e la diversità di situazioni soggettive è enorme.
Proprio il riferimento della norma alle condizioni dei coniugi non solo economiche, ma nel senso più ampio del termine, includendo aspetti strettamente personali, affettivi, di rapporti con il coniuge e con i figli, di collocazione spaziale e abitativa, di natura e modalità della attività lavorative svolte e/o cercate, di capa-cità lavorativa, di distanze dei luoghi di lavoro, di compatibilità con le esigenze dei figli, etc., non può non esigere una specifica ed attenta – quanto difficile, an-che per il frequente tentativo delle parti in lite di occultare le reali condizioni – personalizzazione della decisione del giudice.
Il criterio del «reddito di entrambi» i coniugi costituisce la “cornice” entro la quale può e deve muoversi il giudice, nel senso che qualunque pretesa del co-niuge meno abbiente deve comunque rapportarsi al reddito dell’altro coniuge e, con particolare riguardo ai casi – molto più frequenti – di redditi bassi di entrambi i coniugi, non potrebbe mai trovare riconoscimento in termini economici tali da che comportare l’eccessivo depauperamento dell’ex coniuge che ha mantenuto una capacità reddituale.
Il criterio delle «ragioni della decisione» (che non può essere riferito ai motivi della decisione, e cioè alle argomentazioni che supportano la decisione del giudice, perché in tal caso si verificherebbe una inversione logica, non potendo l’argomento motivazionale, che è successivo alla decisione costituire contempora-neamente il criterio di decisione) è stato interpretato sin dall’inizio dalla giuri-sprudenza come riferibile alla responsabilità per il fallimento del matrimonio (Cass. sez. un. 26-4-1974 n. 1194; Cass. 270/1982; Cass. 405/1975; Cass. 2934/1977), ed ovviamente – così inteso – il criterio rileva nei casi in cui la sepa-razione e quindi il divorzio siano scaturiti da gravi inadempienze del coniuge, ov-vero da una delle cause indicate nell’art. 3 della legge 898/1970. Si è però obbiet-tato che non esistendo un divorzio per colpa, né una addebitabilità formale del di-vorzio, come invece per la separazione, una simile indagine sarebbe ultronea, atte-so anche il limite generale costituito dal presupposto dell’assegno, e cioè la man-canza di mezzi adeguati. Per cui le ragioni della decisione, e cioè della pronuncia di divorzio, andrebbero riferite alla casistica di ipotesi che giustificano il divorzio, contenuta nell’art. 3 della legge 898/1970, casistica che però esprime in larga parte una valenza comunque simile alle cause di addebito nella separazione.
Pur volendo ritenere che, attraverso tale criterio, «ai fini dell’attribuzione dell’assegno di divorzio, il giudice non può omettere di considerare, quanto alla responsabilità per il fallimento del matrimonio, le risultanze della causa di separa-zione personale per colpa, nè la circostanza che uno dei coniugi sia stato condan-nato per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare» (Cass. 1, n. 2934/1977), e dunque che nella quantificazione dell’assegno devono entrare valu-tazioni indennitarie/risarcitorie (Cass. 11490/1990, Cass. 11491/1990 e Cass. 11492/1990, richiamate in motivazione da Cass. 7199/1997, per la quale «i criteri indennitario e risarcitorio, a seguito della riforma del 1987 non costituiscono più elementi per il riconoscimento dell’assegno, ma solo criteri utilizzabili, al massimo, per la sua parametrazione») il problema per l’interprete resta comun-que la verifica di quanto possa incidere questo criterio, come pure gli altri, nella determinazione dell’assegno, se non è più parametro il riferimento il precedente “tenore di vita” in costanza di matrimonio, se il presupposto del riconoscimento è pur sempre e solo la “mancanza di mezzi adeguati”, e se l’assegno non ha funzio-ne ristoratoria e/o risarcitoria ma assistenziale (Cass. 7199/1997).
Il «contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune» ri-flette pressoché pedissequamente il criterio enunciato nel testo normativo ante ri-forma, con l’aggiunta del riferimento al patrimonio di ciascun coniuge oltre che a quello comune, ed era pienamente funzionale alla finalità della perequazione della ricchezza considerata nel regime precedente, ma anche alla rilevanza al lavoro en-dofamiliare del coniuge, prima del 1975 neppure considerato dall’ordinamento.
Il criterio ha una effettiva utilità al fine della quantificazione dell’assegno divorzile, ancora una volta in funzione equitativa, per elevare l’importo dell’assegno – pur sempre però da rapportarsi alla finalità assistenziale – a compensazione del fatto che il coniuge meno abbiente non abbia potuto provvedere a crearsi una propria capacità reddituale perché si è dedicato prevalentemente o to-talmente alle esigenze familiari, a volte – caso tutt’altro che infrequente – per la insuperabile pretesa in tal senso dell’altro coniuge, che si è voluto assicurare la sua dedizione assoluta alla famiglia e a sé stesso. In tale ultimo caso, in cui alla genesi della situazione di indigenza post-matrimoniale ha dato causa il comporta-mento del coniuge più abbiente, appare non solo equo, ma doveroso, attribuirgli un obbligo maggiore, anche se pur sempre in rapporto alla sua capacità reddituale (Cass. 1, n. 2934/1977: il giudice «deve, inoltre, considerare l’apporto dato dalla moglie alla formazione del patrimonio comune, anche con la sola attività di casa-linga»). L’elevazione dell’assegno in base a tale criterio non può però non tener conto del limite generale imposto dall’altro criterio del reddito del coniuge più ab-biente.
Infine, il «rapporto alla durata del matrimonio» sembra poter fungere anch’esso da criterio correttivo – in senso ampliativo o riduttivo, a seconda della durata, ma pur sempre limitato dalla “cornice” della disponibilità reddituale del coniuge più abbiente – quando la situazione di indigenza post-divorzio è scaturita, come si è detto, dalla dedizione prevalente o totale del coniuge alle esigenze della famiglia.
In definitiva, pur se i predetti criteri di determinazione dell’assegno sono considerati dalla giurisprudenza come esplicativi, e non graduati gerarchicamente, e si è ritenuto che ciascuno di essi possa essere da solo sufficiente a fondare la quantificazione (cfr. in tal senso Cass. 10201/2005, per la quale deve escludersi che il giudice debba dare adeguata giustificazione della decisione, con la puntuale considerazione di tutti parametri di riferimento enunciati dal sesto comma dell’art. 5), tuttavia un rapporto di precedenza o di sudditanza, e in definitiva di gerarchia, emerge tra loro sul piano logico. Tutti sono in grado di svolgere un ruolo preciso nel guidare la quantificazione, ma appare evidente che i criteri delle «condizioni dei coniugi» e dei «redditi» di entrambi costituiscono la «cornice» entro cui inevi-tabilmente si deve muovere il giudice nella quantificazione, sulla base degli altri criteri indicati, non potendo onerare alcuno dei coniugi di obblighi insostenibili in base alla sua obbiettiva condizione economica e reddituale. assolvendo anche in-direttamente – qualora non considerati direttamente nella valutazione – una fun-zione di delimitazione del rischio di sproporzione della quantificazione, non do-vendo comunque la liquidazione operata confliggere con uno di essi.
8. Considerazioni conclusive sui principi normativi.
Sulla base delle considerazioni svolte, sulla scorta delle chiarificazioni rese dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. 11504/2017, nonché Cass. n. 15481, 23602, 20525, 25327 del 2017), è possibile sintetizzare i seguenti principi in materia di assegno divorzile:
1) il divorzio, recidendo in nuce il vincolo matrimoniale, recide tutti gli obblighi che da esso derivano, sia di natura personale che patrimoniale, fatti salvi quegli obblighi di cui la legge medesima afferma la persistenza oltre il divorzio.
2) Vengono conseguentemente meno gli obblighi di reciproca coopera-zione materiale e morale per la famiglia, e quindi anche il conseguente reciproco diritto alla condivisione del benessere economico prodotto con il comune apporto.
3) Il sesto comma dell’art. 5 L. 898/1970 introduce una eccezione al prin-cipio generale del venir meno di ogni legame personale e patrimoniale tra i coniu-gi divorziati, solo ed unicamente in quei casi in cui il coniuge più debole, nel ritornare alla dimensione economico-patrimoniale individuale, venga a trovarsi in una condizione di «mancanza di mezzi adeguati o di impossibilità oggettiva di procurarseli»: previsione che, stante la sua natura eccezionale, non può essere ap-plicata oltre i casi in esso considerati, né può essere estesa interpretativamente.
4) Il “tenore di vita” matrimoniale non è contemplato tra i presupposti tassativi che giustificano la concessione di un assegno divorzile, né può rientrarvi per via interpretativa, per la tassatività dei casi oltreché per incompatibilità logica; e non può rientrare tra i criteri di quantificazione, perché in conflitto con il limite posto dai predetti presupposti e perché in contrasto con la finalità assistenziale.
5) I criteri di quantificazione dell’assegno hanno pari rilevanza, anche se con diversa funzione logica, e possono essere utilizzati anche singolarmente;
6) Il reddito del coniuge più abbiente costituisce il criterio cornice entro il quale, ed in proporzione al quale deve essere quantificato l’assegno, non potendo il soddisfacimento della finalità assistenziale del coniuge indigente provocare l’impoverimento l’altro coniuge, e neppure dovendo realizzare una equiparazione patrimoniale, che stante la fine dell’unione familiare ha più ragion d’essere.
7) Le esigenze della prole non vanno ovviamente considerate nella de-terminazione dell’assegno divorzile, poiché ne è ben diverso il fondamento, ed il mantenimento dei figli segue altri criteri di determinazione: se l’assegno divorzile non va proporzionato al reddito del coniuge più abbiente, il mantenimento dei figli è invece per legge legato proporzionalmente al reddito di ciascun coniuge (art. 337-ter c.4 c.c.), ed in caso di forti disparità di reddito tra i due genitori i figli hanno pieno diritto di continuare a godere di un tenore di vita proporzionato a quello del genitore più abbiente.
9. La determinazione dell’assegno divorzile e del mantenimento della figlia nella vicenda in esame.
Chiariti nei predetti termini i principi applicabili in materia di assegno di-vorzile, è possibile affrontare l’esame in concreto delle domande delle parti.
Nella vicenda in esame sussiste il presupposto di legge per il riconoscimento dell’assegno divorzile, della mancanza di mezzi adeguati da parte dell’ex coniuge B.E., che, come si è visto, costituisce il presupposto primario, di cui il secondo presupposto («non può procurarseli per ragioni oggettive») per costante affermazione giurisprudenziale rappresenta un’esplicazione e non una nuova ipotesi alternativa alla prima.
E’ evidente che il diritto all’assegno ritornerà in discussione nel momento in cui la B.E. dovesse reperire un’occupazione stabile che le fornisca “mezzi adeguati” per vivere. Ed a tal fine nulla impedisce che il D.L. si attivi per aiutare la B.E. nel reperimento di un’attività lavorativa stabile, e sufficiente ad assicurarle i mezzi minimi adeguati alle esigenze di sussistenza (ma anche confacente alla sua professionalità, che va rispettata e considerata tra le «condizioni dei coniugi», pur se non necessariamente equivalente al precedente), atteso che quest’ultima ha comunque ribadito di voler trovare, anche per propria dignità oltreché per recuperare l’indipendenza economica. Ma fino a quel momento va riconosciuto il diritto a percepire un assegno divorzile.
E’ emerso dagli atti che la B.E. ha perso il lavoro non per suo capriccio o scelta volontaria, ma per essersi messa a disposizione della famiglia, con la maternità, il cui impegno ha certamente ha una valenza essenziale e superiore a qualunque altro impegno sociale od economico, ed ovviamente contando sul sostegno economico del coniuge, e co-genitore, finquando non fosse stata in grado di riprendere l’attività lavorativa. La sopravvenuta frattura dell’unione coniugale ha fatto saltare ogni previsione, relegando la B.E. in una situazione, certamente non voluta, di dipendenza economica dall’ex coniuge, le cui cause sono rimaste occultate dalla definizione dell’accordo per una separazione consensuale.
La B.E. tra l’altro svolgeva un lavoro di promoter pubblicitario che le assicurava un reddito anche superiore a quello del D.L.. Purtroppo l’oggettiva impossibilità della B.E. di recuperare la capacità lavorativa e reddituale quo ante è scaturita dalle innovazioni, radicali e improvvise, introdotte anche nel suo settore dalla comunicazione in rete, che ha reso obsoleta ma anche eccessivamente costosa – al paragone con le modalità di comunicazione on line con la clientela – l’attività che in precedenza era svolta “porta a porta”, ed ha provocato la cancellazione dal mercato del lavoro del profilo professionale rivestito dalla B.E..
Ritiene quindi il Tribunale di dover considerare, ai fini della determinazione dell’assegno: la funzione assistenziale dell’assegno; le condizioni complessive dei due coniugi (la B.E., disoccupata, e con una figlia minore e studentessa convivente, il cui mantenimento è regolato autonomamente; e il D.L., occupato, ma con un nuovo nucleo familiare ed un’altra figlia piccola); il reddito complessivo del D.L. (euro 2.900 mensili circa); l’apporto dato dalla B.E. alla famiglia, con la gravidanza e l’abbandono del lavoro per essa e per curare poi la figlia piccola; le condizioni concordate in sede di separazione consensuale che costituiscono un indice di ragionevole sostenibilità delle obbligazioni ivi assunte, in quanto appunto accettate da entrambi i coniugi; la durata del matrimonio, di anni 7, nei quali la B.E. si è allontanata dal mondo del lavoro per circa cinque anni.
Per cui sulla base di tali elementi, e delle considerazioni svolte in precedenza, ritiene di dover quantificare l’assegno divorzile per la B.E., da corrisponderle fino a che non troverà una occupazione stabile, nel medesimo importo concordato in sede di separazione, e cioè di euro 500 (di poco superiore al valore dell’assegno sociale, pari ad euro 453), considerato anche che, avendolo concordato le parti, evidentemente è stato ritenuto da entrambe, rispettivamente, congruo e sostenibile. Va confermata altresì la clausola con cui, in sede di accordo di separazione, il «D.L. si obbliga a garantire alla signora B.E. la copertura assicurativa per spese mediche sino ad un importo di euro 100,00 (cento) mensili», che deve considerarsi integrazione del predetto assegno.
Per quanto concerne la richiesta della B.E. di ottenere dal D.L. anche il pagamento del canone di locazione dell’appartamento per sé e per la figlia, richiesta di cui il ricorrente sostiene l’inammissibilità, essa poggia sulla tesi secondo cui vi sarebbe stato un accordo informale tra le parti in tal senso, poi non trasfuso in sede di separazione.
È vero, per averlo dichiarato lo stesso D.L. al presidente-G.I., che egli ha pagato per un certo periodo il canone di locazione dell’appartamento dove era rimasta ad abitare la B.E.. Ma è anche vero che nell’accordo di separazione non vi è traccia di tale clausola, e non può desumersi l’esistenza di un tale obbligo dal fatto dell’avvenuto pagamento per un certo periodo da parte del D.L., che ben si potrebbe spiegare con l’intestazione a lui sia del contratto di affitto che delle utenze domestiche, o comunque come un contributo ulteriore volontario.
Per cui non appare accoglibile la pretesa della B.E. di addebitare al D.L. il pagamento dell’intero canone di locazione sulla base di un accordo preesistente tra le parti.
Va tuttavia considerato che la fruizione di una casa di abitazione, oltreché per la B.E., è indispensabile per la figlia minore, non essendovi stata nella specie l’assegnazione della casa familiare, che non era di proprietà di alcuno dei coniugi, e che è stata lasciata dalla B.E. per le menzionate esigenze di avvicinamento ai luoghi ed alle famiglie di origine.
Poiché è evidente che la figlia minore ha bisogno di una casa ove abitare, del cui peso economico non può farsi carico esclusivamente la B.E., non lavorando, ed il relativo onere deve essere posto a carico di entrambi i genitori, afferendo alle irrinunciabili esigenze di mantenimento della figlia, in proporzione del rispettivo reddito (che per la B.E. attualmente non c’è, se non di riflesso sulla base dell’assegno erogato dal D.L.), appare necessario includere nell’assegno di mantenimento per la figlia una quota di partecipazione del padre alle spese di locazione della casa, nella misura del 50 per cento del canone di locazione dell’appartamento, pari ad euro 275.
Per quanto concerne l’assegno dovuto a titolo di concorso nel mantenimento della figlia, premesso che a norma dell’art. 337-ter c.4 c.c., «salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito».
Il principio dell’eguale attribuzione ad entrambi i genitori degli obblighi e degli oneri relativi ai figli, che discende dall’ontologico ed intuitivo ruolo paritario nella famiglia, è l’espressione di una parità giuridica, ma è ancorato alla disponibilità economica di ciascuno (in questo nulla mutando rispetto al regime in corso di matrimonio, in cui evidentemente è il coniuge che ha il maggior reddito a doversi fare maggior carico delle esigenze dei figli), e dunque va corretto sulla base della concreta disponibilità economica dei coniugi.
Al momento, tra i due coniugi, è evidente che è il solo D.L. ad avere un reddito. Ma è anche vero che, avendo avuto un’altra figlia dalla nuova unione, deve operarsi un bilanciamento tra le esigenze delle due figlie, che devono avere paritaria priorità nella considerazione dell’impegno economico del padre.
Pertanto ritiene il Tribunale, considerato il reddito complessivo del D.L., di quantificare l’importo per le esigenze ordinarie di mantenimento della figlia E. in euro 325, che sommate alla partecipazione alle spese della locazione, comportano un assegno mensile di euro 600 complessivi per la figlia, a carico del D.L..
A tale somma va aggiunto l’importo degli assegni familiari, spettante per la minore E., che l’ente datore di lavoro dovrà versare direttamente alla B.E..
Complessivamente quindi, va posto a carico del D.L. l’obbligo di versare euro 1.100 mensili alla B.E., di cui euro 600 per la figlia, ed euro 500 per l’ex coniuge.
In ordine alla regolazione delle spese straordinarie per la figlia, tenuto conto che il D.L. ha anche un’altra figlia cui provvedere, vanno poste a suo totale carico le spese per i libri scolastici e per le necessità scolastiche della figlia E., che sono essenziali per la formazione della figlia e per consentirle di raggiungere in futuro un’autonomia economica, e le spese sanitarie non coperte dal servizio sanitario, finquando la madre non recupererà una autonomia economica: momento dal quale saranno dovute da ciascun genitore per la metà. Mentre le altre spese straordinarie vanno poste a carico del D.L. per la metà, previo accordo tra i coniugi sulla loro necessità (ed in mancanza di accordo, deciderà il Tribunale).
10. Il diritto-dovere di visita della figlia.
Il ricorrente in ordine alla regolazione del diritto di visita ha chiesto che il Tribunale, in considerazione dei suoi impegni di lavoro disponesse che il medesimo possa vedere e tenere con sé la figlia nei seguenti giorni e periodi:
a) il lunedì e martedì di ogni settimana, dalle ore 16,00 alle ore 20,00; potrà, altresì, vederla il mercoledì, giovedì e venerdì, con la medesima tempistica, previe intese da concordare con l’altro genitore entro il fine settimana precedente tenuto conto delle esigenze lavorative di entrambi;
b) a fine settimana alterni, dal venerdì pomeriggio alla domenica pomeriggio, salvo che ciò sia impossibile per motivi di salute, di lavoro o altri gravi motivi;
c) ad anni alterni durante le festività natalizie, salvo diversi accordi tra i genitori, nei giorni 24, 25 e 26 dicembre o nei giorni 31 dicembre, 1 e 6 gennaio;
d) durante le festività di Pasqua, la minore trascorrerà la domenica con un genitore e il lunedì dell’Angelo con l’altro ad anni alterni;
e) il giorno del suo compleanno, la piccola E., sempre salvo diversi accordi tra i genitori e secondo la sua volontà, lo trascorrerà ad anni alterni presso uno o l’altro genitore;
f) durante il periodo estivo, infine, a partire dal giorno successivo alla chiusura della scuola e sino alla riapertura della stessa, ciascun genitore terrà con sé la bambina per un periodo di venti giorni consecutivi, salvo diversi accordi tra i medesimi.
La resistente ha sostanzialmente aderito alle richieste del D.L., che però appaiono eccessive laddove si prevede che egli possa vedere la figlia tutti i giorni della settimana, poiché nel regolare il diritto di visita del genitore non coabitante occorre tener presenti prioritariamente le esigenze della prole, di studio e sociali, oltreché eventuali impedimenti per motivi di salute etc.
D’altro lato la regolazione del diritto di visita ha la funzione di disciplinare i tempi ed orari minimi di permanenza con l’altro genitore, ma non è certo di ostacolo a ulteriori visite in altri momenti, purché siano concordate con il genitore collocatario e con la figlia, ove sia in età da partecipare a tali accordi, nel rispetto degli impegni e delle esigenze di quest’ultima.
Per cui si ritiene di confermare tempi ed orari concordati nella separazione, che potranno essere modificati liberamente, d’accordo tra le parti e con la figlia, ornai dodicenne.
11. Regolazione delle spese processuali.
Il ricorrente ha chiesto in ricorso introduttivo che il Tribunale condanni, in caso di opposizione della resistente, la medesima al pagamento delle spese e competenze di giudizio.
La domanda è mal posta, poiché non è la semplice opposizione alla domanda dell’altra parte, che costituisce espressione del diritto di difesa, non comprimibile né sanzionabile (se non trasmodi nella temerarietà), a poter giustificare la condanna alle spese, bensì la soccombenza, a norma dell’art. 91 c.p.c.
Nella specie, le parti, nel mentre hanno aderito e condiviso entrambe la domanda di declaratoria di scioglimento del matrimonio, sono invece rimaste entrambe soccombenti parzialmente quanto alle rispettive richieste economiche, ed entrambe hanno altresì rifiutato la proposta conciliativa formulata dal G.I. in corso di causa, che peraltro, pur con diversa articolazione delle voci, risulta essere coincidente con la, liquidazione operata in questa sede decisionale.
Conseguentemente appare corretto compensare integralmente tra le parti le spese di questo giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da D.L. con ricorso depositato il 7-5-2015 nei confronti di B.E., preso atto della intervenuta declaratoria di scioglimento del matrimonio con sentenza in data 18-5-2016, così provvede:
1) Dichiara il diritto di B.E. all’assegno divorzile, che quantifica, per quanto esposto in motivazione, in euro 500 mensili, oltre rivalutazione annuale secondo indici Istat;
2) Pone a carico del D.L. l’obbligo di corrispondere alla B.E., a titolo di concorso nel mantenimento della figlia E., l’assegno mensile di euro 600, oltre rivalutazione annuale Istat, ed oltre assegni familiari spettanti al medesimo per la figlia E.;
3) Pone a carico del D.L. le spese le spese per i libri scolastici e per le necessità scolastiche della figlia E., e le spese sanitarie non coperte dal servizio sanitario, finquando la madre recupererà una autonomia economica, momento dal quale saranno divise per la metà tra i coniugi;
4) Pone a carico di entrambi i coniugi per la metà le altre spese straordinarie per la figlia E., purché preventivamente concordate tra i coniugi;
5) Dispone il versamento diretto alla madre B.E., da parte dell’ente datore di lavoro ovvero dell’INPS, degli assegni familiari spettanti al D.L. per la figlia minore E..
6) Compensa integralmente le spese tra le parti.
Così deciso in Matera nella Camera di Consiglio della sezione civile, il 7 Marzo 2018.
Il Presidente, est.